LA QUESTIONE DELLA LINGUA
ITALIANA
"Non si può trovare una lingua
che parli ogni cosa per sé
senza aver accattato da altri".
Niccolò Machiavelli
I
PREMESSA
Durante i secoli della dominazione romana il
latino si era imposto sulle lingue indigene in Italia, Francia, Spagna,
Portogallo e Romania, mentre nella parte orientale dell'impero si era
conservata la lingua greca. Quando l'impero crollò, le lingue occidentali
parlate prima d'essere influenzate dall'egemonia latina, presero il sopravvento
e mescolandosi col latino parlato (assai diverso da quello scritto di Virgilio,
Orazio o Cicerone) determinarono le nuove lingue romanze o neolatine. Le
invasioni germaniche dispersero la debole influenza romana nell'Europa
centrale, settentrionale e orientale.
E così si formarono: in Francia, a
nord, il gallo-romanzo, antenato del francese, a sud il provenzale; in Spagna,
al centro, lo spagnolo o castigliano, sulle coste atlantiche il gallego,
antenato del portoghese, a est il catalano (simile al provenzale); in Romania i
contadini conservano la loro lingua di origine latina, che diventa ufficiale
nel XVI sec..
In Italia riemergono i vari substrati
pre-latini, che però restano per molto tempo senza scrittura, in quanto
alle necessità dello scrivere - testi scientifici, filosofici,
teologici, giuridici- continuano a provvedere col latino gli ecclesiastici.
Tali substrati si mescolano con popolazioni straniere che, stanziatesi in
territori diversi della penisola, parlano linguaggi completamente diversi:
Longobardi, Greco-Bizantini, Franchi, Arabi, per citare solo i più
importanti.
In una situazione del genere, il latino
parlato evolve inevitabilmente per suo conto, mentre per la conservazione di
quello scritto si preoccupa la chiesa. E così il bilinguismo tra parlato
e scritto riproduce, in un certo senso, il distacco fra le élites
dotte e le masse degli analfabeti: non a caso nella funzione della messa
l'aspetto liturgico vero e proprio viene recitato in latino, mentre l'omelia
è sempre pronunciata in volgare (o comunque esiste l'obbligo, a partire
dagli inizi del IX sec., di tradurla in volgare).
Ciò significa che è impossibile
ricostruire la nascita dei vari dialetti italiani. Delle trasformazioni del
latino parlato si hanno pochissimi documenti ed essi non riproducono la lingua
parlata del popolo nella sua genuina spontaneità, ma una lingua che il
popolo potesse capire, elaborata quindi da intellettuali.
A tutt'oggi, le lingue diverse dall'italiano
(parlate alloglotte di circa 600.000 persone) presenti nella nostra penisola
sono le seguenti: franco-provenzale nelle Alpi piemontesi, in Val d'Aosta e in
due Comuni della Puglia; provenzale nelle Alpi piemontesi e in un Comune della
Calabria; tedesco nell'Alto Adige e in altre zone alpine e prealpine; sloveno
in alcune zone del Friuli e nelle Alpi Giulie; serbo-croato in alcuni Comuni
del Molise; greco in alcune zone del Salento e della Calabria; albanese in
alcuni Comuni del Molise, della Campania, del Gargano, della Lucania, della
Calabria e della Sicilia; catalano nel Comune di Alghero e in Saredegna. Quelle
riconosciute come lingue ufficiali sono il francese in Val d'Aosta, il tedesco
in Alto Adige e lo sloveno in alcune zone del Friuli.
Se poi prendiamo la situazione dei dialetti
italiani la situazione si complica incredibilmente. Infatti all'interno di tre
grandi gruppi di dialetti: settentrionali, toscani e centro-meridionali (cui
bisogna aggiungere i dialetti sardi e ladini), vi sono un'infinità di
sottogruppi. Per quanto oggi relegati a un uso quasi esclusivamente locale e
familiare, continuano a sussistere, costituendo un bacino di risorse espressive
per la stessa lingua italiana. Non a caso è notevolmente aumentato il
loro studio da parte degli specialisti.
* * *
In Italia le prime parole in volgare si
trovano in una serie di iscrizioni latine (392, 404…). Di regola i documenti
che ci sono pervenuti sono stati compilati da persone che conoscevano
perfettamente il latino e si sforzavano di comunicare in volgare, per fissare
regole comuni, rapporti giuridici, contratti ecc.
Il famoso indovinello veronese, vergato da un
amanuense che descrive con ironia la propria arte, risalente all'inizio del IX
sec.: Se pareba boves…, manifesta una lingua certamente non più
latina. Il Glossario di Monza del X sec. ha 63 parole dell'Italia padana
tradotte in greco. Con la Carta capuana del 960 siamo addirittura in
presenza, per la prima volta, di una frase in volgare indicante un giuramento formulato
da un giudice ai testimoni. Nel 1084 vengono trovate nella basilica di S.
Clemente di Roma delle frasi ingiuriose in un affresco di pittore ignoto.
Il modello umbro, già presente nell'XI
sec., raggiunge le sue più alte espressioni nelle Laude di Jacopone
da Todi e nella poesia religiosa.
Particolare importanza hanno taluni documenti
scritti in dialetto piemontese, come i 22 Sermoni subalpini del sec. XII, che
presentano caratteristiche tipiche di tutta la famiglia dei dialetti
settentrionali.
Il primo tentativo sistematico di elaborare
una vera e propria lingua letteraria volgare, nella quale possano essere
espressi contenuti di carattere profano e amoroso, è rappresentato dal
cosiddetto linguaggio franco-veneto, che si afferma nella Padania, regione
aperta agli influssi francesi e provenzali. Esempi tipici di questa lingua sono
le opere di Bonvesin da La Riva (1240-1313) e di Giacomino da Verona (seconda
metà del XIII sec.).
C'è poi il modello bolognese, di cui
sono esempi le glosse di Irnerio (1055-1125) al Corpus Juris Civilis di
Giustiniano; la cosiddetta "Glossa ordinaria" di Francesco d'Accursio
(1182-1258); le opere del maestro di retorica Guido Fava (c.1190-c.1243).
E così fino a quando la prevalenza del
volgare assumerà un suo punto di forza nel toscano e, particolarmente,
nel fiorentino che, per la sua omogeneità espressiva e affinità
strutturale è il volgare più vicino al latino: cosa resa
possibile dal fatto che la Toscana fu relativamente la regione meno influenzata
dalle invasioni barbariche.
* * *
La letteratura italiana nasce e si sviluppa
nel corso del XIII sec. Essa nasce dotta e in un periodo in cui nuovi strati di
intellettuali emergono dalla rivoluzione socioeconomica legata all'affermarsi
dei Comuni (specie nell'Italia centrosettentrionale), che si verifica nel corso
dell'XI sec. e soprattutto del XII sec. I Comuni cioè tendono a
trasformarsi in città-stato, in grado d'imporsi ai feudatari della
campagna circostante e capaci di difendere la loro autonomia dalle interferenze
dell'imperatore (il quale infatti con la pace di Costanza del 1183 sarà
costretto a riconoscerla). I Comuni possono eleggere i propri dirigenti
politici, amministrare la giustizia, battere la moneta, armarsi. Gli strati
sociali più importanti sono quelli mercantili (commercianti,
artigiani...), oltre a quelli professionali (giuristi, medici, maestri...),
tutti legati a Corporazioni o Arti per tutelare i loro interessi.
Questi nuovi strati cittadini ebbero subito
bisogno di intellettuali non più collegati alla Chiesa né di
provenienza nobiliare. Gli intellettuali però si muovono ancora in un
clima culturale dominato dalla teologia medievale, anche se alcune correnti
teologiche si vanno progressivamente laicizzando (ad es. lo Stato non è
più visto come "braccio secolare" della Chiesa ma come una
naturale forma associativa degli uomini). Ciò significa che i primi
intellettuali dei ceti mercantili e borghesi non potevano essere originali sul
piano dei contenuti, però lo erano sicuramente sul piano della forma espressiva.
Infatti, la più importante caratteristica del nuovo ceto intellettuale
è l'uso del volgare (cioè della lingua del popolo, in
contrapposizione alla lingua dei dotti, della cultura: il latino).
Naturalmente l'affermazione iniziale del
volgare avviene con molte difficoltà. I problemi maggiori però
non erano tanto quelli posti dai cultori laici ed ecclesiastici del latino,
quanto quelli posti dall'esigenza di farsi capire sia dalle persone colte che
dal popolo. Da un lato infatti s'imponeva l'uso della lingua di tutti i giorni,
dall'altro -essendo questa lingua divisa in tanti dialetti e scarsamente
definita- c'era il rischio di creare una letteratura sempre subalterna al
latino, il quale, nonostante non fosse più parlato dalle masse, restava la
lingua scritta universale. Di qui l'esigenza di trovare un compromesso. E fu
così che nacque una sorta di volgare "nobilitato" e illustre,
adatto sia ai colti che al popolo, un volgare elevato alla dignità
espressiva del latino.
II
LA LETTERATURA VOLGARE IN POESIA
(SEC. XIII)
"Le lingue non possono esser semplici,
ma conviene che sieno miste con l'altre lingue".
Niccolò Machiavelli
Il sec. XIII segna in Italia, con ben due
secoli di ritardo rispetto alla Francia, l'inizio dell'affermazione del volgare
scritto. Il ritardo era dovuto al fatto che in Italia persisteva una tradizione
letteraria classico-latina, sostenuta dal ceto ecclesiastico e anche dagli
intellettuali laici che frequentavano le corti signorili, tenendosi ben lontani
dalle esigenze popolari.
Sulla nostra letteratura in volgare
cominciano ad esercitare una certa influenza due letterature neolatine sorte in
Francia già nell'XI sec.: quella d'OC[1]
o provenzale od occitanica (Francia meridionale), attraverso i poeti provenzali
stanziati in Italia, e, in misura minore, quella d'OIL[2]
od oitanica (Francia settentrionale). La lingua d'OC era ritenuta
particolarmente adatta alle rime; quella d'OIL alla prosa.
In particolare, la poesia provenzale
influenzò tutta la nostra lirica amorosa, per la tematica e per il
rigore stilistico-espressivo. Dalle corti feudali francesi si diffusero valori
come lealtà, liberalità, discrezione, eroismo, l'amore inteso
come passione irresistibile e dedizione assoluta. Il poeta, come un vassallo,
rende omaggio all'amata (una castellana), aspetta da lei un beneficio per la
sua dedizione (che può anche essere un sorriso), soffre per la
lontananza.
La letteratura in lingua d'OIL, costituita
dalle canzoni di gesta eroiche, epiche e dai romanzi dei cicli carolingio e
bretone (ad es. la Chanson de Roland, che narra le imprese di Carlo
Magno e dei suoi paladini contro i saraceni dilagati in Spagna; oppure Le
gesta di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda, Lancillotto,
Leggende di Tristano e Isotta ecc.), si mescola con la lingua veneta,
producendo una letteratura non molto diffusa.
La scuola siciliana
La prima espressione poetica italiana,
attuata da una omogenea cerchia di intellettuali e rimatori, che seppero
fondere influssi arabi, elementi indigeni, tradizioni franco-normanne coi
motivi della poesia lirico-provenzale, si svolge alla corte palermitana di
Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero.
L'Italia meridionale, con questo felice esordio, entra a pieno titolo, seppure
per breve tempo, nell'ecumene della lirica cortese, accanto a Catalogna, Francia
del Nord, Germania renano-danubiana, Portogallo, Galizia e ovviamente Provenza.
Ciò che ha sempre stupito i critici
è stata l'improvvisa apparizione di tale scuola proprio nella Magna
Curia palermitana, visto e considerato che Federico II, una volta divenuto
imperatore, non mostrò alcun particolare interesse nei confronti dei
poeti-musici tedeschi, autori e cantanti del Minnesang (canzoni d'amor
cortese). È probabile che l'impulso dato da Federico alla
"traduzione" e all'adattamento in un volgare italiano del modello
trobadorico, fosse dettato sia da ragioni politiche: suo obiettivo era quello
di realizzare uno Stato italiano forte e accentrato e la diffusione del volgare
(il cui nemico principale era il latino ecclesiastico) serviva certamente allo
scopo; che da ragioni culturali: gli ambienti della corte sveva dovevano essere
già permeati di cultura cortese; intellettuali e funzionari non
siciliani come Pier della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Jacopo da Lentini (cui
è attribuita l'invenzione del sonetto) e altri ancora non potevano
ignorare la presenza di diversi trovatori nelle corti dell'Italia
settentrionale, o non essere a conoscenza di precedenti traduzioni della lirica
d'OC in altre lingue (almeno in francese e in tedesco).
I poeti siciliani (Guido delle Colonne,
Stefano Protonotaro, Cielo d'Alcamo, Giacomino Pugliese…), quasi tutti
funzionari di stato (a differenza dei trovatori del Mezzogiorno francese,
provenienti dalle classi più disparate), pur richiamandosi alla tradizione
lirica provenzale, di questa rifiutano i temi dell'esaltazione delle imprese
militari, gli insegnamenti morali, la polemica politica, la satira dei costumi,
e accettano solo l'amore cortese, intendendo la poesia solo come evasione
intellettuale. La tendenza amorosa comprende la passionalità che rende
"schiavi d'amore", il dolore per il distacco dall'amata, l'esitazione
a manifestare il proprio amore, le lodi della donna, il biasimo per i
maldicenti-indiscreti-invidiosi. La donna spesso è immaginata bionda e
raffinata.
La prima canzone scritta in siciliano
è Madonna, dir vo voglio, del Lentini, che è un fedele
rifacimento di una canzone di Folchetto di Marsiglia.
Ben più importante di questi contenuti
è lo stile delle poesie. I poeti siciliani usarono come strumento
linguistico di partenza il volgare dell'isola e non una varietà
letteraria sovraregionale, come nella lingua dei trovatori. Il volgare
siciliano viene perfezionato nel lessico e nella sintassi, modellandolo
sull'esempio del latino usato dagli intellettuali e arricchendolo di molte
parole provenzali tradotte.
Con la morte di Federico II (1250), cui
seguì il rapido declino del dominio imperiale nel Mezzogiorno, conteso
da Angioini e Aragonesi, la scuola ebbe termine. Quasi nessun manoscritto meridionale
ci è giunto dei Siciliani, e i modesti poeti insulari del XIV sec.
sembrano ignorare completamente i loro illustri predecessori.
La scuola toscana
L'eredità dei poeti federiciani fu
raccolta nell'Italia centrale dai cosiddetti poeti siculo-toscani (solo grazie
ai canzonieri toscani oggi possiamo leggere, seppure in forma non originale, la
poesia dei Siciliani), e in un ambiente culturale più avanzato: Firenze,
dopo la battaglia di Campaldino (1289) era diventata una capitale economica
europea, in fase di espansione per tutta la Toscana. Il maggior poeta fu
Guittone d'Arezzo (1235-94).
La tradizione siciliana viene dunque
proseguita in Toscana perché molti intellettuali di questa regione erano
vissuti per vario tempo alla corte di Federico II. Qui i componimenti ispirati
al tema dell'amore non si discostano dai motivi cari ai siciliani e ai
provenzali, però la preoccupazione -essendo le condizioni
politico-sociali delle città toscane molto sviluppate- è quella
di fare una lirica dotta, erudita, in uno stile complesso-difficile-ricercato.
Inoltre non mancano i temi politici, soprattutto quelli dedicati a Firenze.
Il dolce Stil novo
A Firenze si sviluppa la scuola più
significativa di questo periodo. Rappresentanti principali sono Guido Guinizelli
e Guido Cavalcanti (quest'ultimo influenzerà notevolmente Dante). Qui il
tema dell'amore viene purificato da ogni sensualità e diventa strumento
di perfezione morale (che porta anche a Dio), per cui esso è patrimonio
di pochi virtuosi. La donna è angelicata, oggetto di contemplazione. Lo
stile diventa molto raffinato-limpido-musicale. C'è molta più
attenzione per l'interiorità psicologica, per i sentimenti profondi. Lo
stesso concetto di "nobiltà" ora si riferisce solo allo stato
d'animo, agli intenti o all'ingegno.
La poesia comico-realistica
Si sviluppa sempre in Toscana e si
contrappone allo stilnovismo. È l'espressione della piccola-borghesia
comunale e degli strati popolari più attivi. Essa esalta ciò che
la vita offre come piacere: vita gioiosa, spensierata, amore sensuale, piaceri
materiali e immediati. La donna a volte è criticata perché
considerata incapace di sentimenti disinteressati. Altri motivi sono la
polemica e la satira politica contro i nemici personali, la caricatura scherzosa
degli amici, l'anticlericalismo. Lo stile è mediocre perché molto
vicino al parlato, adatto per una comunicazione immediata. Esponente più
significativo: Cecco Angiolieri.
Letteratura religiosa in
volgare
È quella di Francesco d'Assisi, che
rifiuta i valori medievali fondati sulle rigide gerarchie e sulla guerra, i
valori materialistici della nascente civiltà borghese-mercantile, i
valori della religiosità ufficiale, che a livello teologico risultano
incomprensibili alle masse e che a livello pratico risultano poco credibili.
Poema principale: Cantico di Frate Sole (detto anche delle creature)
del 1224. Si tratta di una lode degli elementi naturali (aria, acqua, fuoco,
terra, sole) che rispecchiano -secondo l'autore- la bontà di Dio e che
guidano l'uomo all'amore, al perdono dei nemici, alla serena accettazione della
morte. È scritto in volgare umbro, semplice e comprensibile al popolo,
benché sia ripulito dai termini dialettali e modellato sul latino.
Poi vi sono le laudi di Jacopone da Todi
(francescano). Le migliori sono quelle a sfondo politico, ove egli attacca gli
abusi del papato e i teologi che credono di poter trovare una giustificazione
razionale della fede.
Anche i Fioretti di s. Francesco
vennero scritti in un volgare di carattere popolare. Viceversa, la Leggenda
di S. Francesco, di Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274), che pure tratta
della vita di un santo caro alle masse popolari, per ragioni di decoro venne
redatta secondo i soliti canoni linguistici.
Letteratura volgare in prosa
Rispetto alla produzione in versi poetici, la
prosa volgare si afferma più lentamente, a motivo del fatto che in
questo campo il latino deteneva un'assoluta egemonia, mentre il genere poetico
(visto sopra) non aveva riscontri nella tradizione culturale latina del Medioevo.
La prosa in volgare si afferma perché le nuove classi dirigenti borghesi
hanno bisogno di esprimere culturalmente i loro interessi e la loro
sensibilità in una lingua alla loro portata. La prosa d'arte in volgare
risponde generalmente ad esigenze pratiche ed è costituita da cronache,
resoconti di viaggio (si pensi al Milione di Marco Polo), raccolte di
novelle, riduzioni enciclopediche, traduzioni in volgare di opere francesi e
latine.
III
LE TESI DI DANTE ALIGHIERI
"Non ci stupisce pertanto se i giudizi degli uomini,
che son presso che bestie,
stimano che una stessa città
abbia sempre parlato un medesimo linguaggio".
Dante Alighieri
I) Il primo scrittore che pone il problema di
una lingua nazionale e che elabora un tentativo per risolverlo, è Dante
Alighieri. Il testo in cui ne parla è De Vulgari Eloquentia
(Sulla retorica in volgare), scritto in esilio verso il 1304, in latino,
perché rivolto ai chierici, cioè ai letterati di professione:
è quindi un'opera specialistica. (Si interrompe al cap. XIV del II°
libro)[3].
Scrivendolo, Dante si rifà a quell'esigenza di unità linguistica,
culturale e nazionale che molti intellettuali, anche prima di lui, sentivano in
varie parti d'Italia. Lo scopo del trattato è quello di definire un
idioma volgare che possa conseguire un'alta dignità letteraria,
elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi
all'egemonia del latino. Dante era convinto che i tempi fossero maturi per
trattare temi di alta cultura e di alta poesia anche in lingua volgare (dal
latino "vulgus"=popolo).
II) Dante sostiene che in Europa si sono
stabilite delle stirpi dotate di un triplice idioma: germanico, greco, romanzo
(quest'ultimo viene suddiviso in lingua d'OIL o francese, lingua d'OC o
provenzale e lingua del Sì[4]
o italiana)[5].
Il latino non è per Dante una lingua-madre o capostipite, ma la
grammatica inalterabile per mezzo della quale i popoli riescono a intendersi al
di sopra degli idiomi particolari, cioè è il prodotto di un'alta
elaborazione logica, in quanto possiede una struttura grammaticale rigidamente
definita e serve alla comunicazione dei concetti più complessi e
difficili del sapere. In tal senso il periodo migliore per gli italiani
è stato, secondo Dante, quello romano-imperiale[6].
III) Dante individua, nell'ambito della
lingua del Sì, 14 dialetti, distinguendoli in due gruppi secondo i due
versanti tirrenico e adriatico dell'Appennino. Egli ritiene che nessuno di essi
possa aspirare a diventare il linguaggio eletto, comune a tutti i letterati
italiani; lo stesso toscano non era che turpiloquium, e
"infroniti" (dissennati) coloro che, solo perché parlanti, lo
ritenevano il dialetto migliore[7].
La lingua nazionale si sarebbe potuta facilmente avere in Italia -secondo
Dante- se ci fosse stata l'unificazione nazionale: in questo caso, alla corte
del sovrano si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e
dal loro contatto quotidiano sarebbe nata una lingua che, senza identificarsi
con un dialetto particolare, avrebbe ritenuto il meglio di tutti[8].
Non essendo politicamente possibile l'unità, il volgare illustre non
poteva essere il prodotto di fattori storici e naturali, ma solo una
costruzione artificiale di scrittori, poeti, ecc.: una lingua scritta, non
parlata o parlata solo in ambienti molto ristretti, da persone di rango
elevate.
IV) Si badi, Dante avrebbe voluto un volgare
illustre non come sintesi suprema delle espressioni e delle parole più
raffinate dei vari dialetti, ma come risultato di una progressiva liberazione
dai limiti municipali delle varie parlate, dalle necessità pratiche e
contingenti che rendono i vari volgari di scarsa dignità letteraria. Il
volgare illustre doveva diventare il prodotto di un processo di depurazione
delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei
confronti del proprio dialetto, al punto da determinare, nelle varie regioni,
risultati abbastanza simili. Dante vedeva "in Italia -dice nel De
Vulgari- un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, quello che
è di ogni città italiana e non appare essere di nessuna, col
quale i volgari tutti degli italiani sono misurati, pesati, ragguagliati".
Egli diceva d'inseguire una "pantera" che s'aggira "per monti
boschivi e pascoli d'Italia" (come fosse esiliata?), mandando ovunque il
suo profumo, senza apparire in alcun luogo. Quanto, in tutto ciò, Dante
avesse consapevolezza della superiorità del proprio volgare, è
facile intuirlo. È lui stesso a dirlo. L'unico volgare illustre ch'egli
intende veramente salvare, per la poesia, è quello degli stilnovisti
(in particolare Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e lui stesso) che
ne hanno uno "egregio, limpido, perfetto, urbano"[9].
V) Questa nuova lingua sprovincializzata
doveva avere per Dante quattro caratteristiche: illustre (che dia onore
e gloria a chi lo usa), cardinale (come un "cardine" attorno
al quale devono ruotare le minori parlate locali), aulico (da
"aula", cioè degno d'essere ascoltato in una corte regale), curiale
(adatto all'uso di un'assemblea legislativa o senato). (Un'unica corte regale e
un unico senato ancora l'Italia non li aveva, però le forze
intellettuali, secondo Dante, costituivano potenzialmente la curia
imperialculturale d'Italia).
VI) Dante poi distingue, nell'uso del
volgare, lo stile elevato tragico (proprio della canzone) che può
trattare gli argomenti più significativi: prodezza delle armi, amore e
rettitudine, dallo stile medio o comico (che si addice alla ballata e al
sonetto) e da quello umile o allegorico.
VII) Nella Divina Commedia Dante diede
il primo esempio di come fosse possibile usare il volgare (in questo caso il
fiorentino) ottenendo effetti poetici di grande valore e affrontando astratti
problemi filosofici, politici, culturali. Il Petrarca e il Boccaccio proseguono
sulla strada da lui indicata[10].
Qui tuttavia va precisato che la lingua della Commedia è il
fiorentino parlato medio e non tanto il volgare illustre di Firenze: si
può anzi dire che l'opera sia plurilinguistica, a causa dei suoi molti
gallicismi, latinismi, lombardismi, idiotismi vari e neologismi[11].
VIII) Dopo la morte del Petrarca (1374) e del
Boccaccio (1375), per un secolo circa, i letterati italiani più colti
interrompono l'iniziativa intrapresa nei primi decenni del Duecento di scrivere
in volgare e ritornano al latino, non a quello medievale ma addirittura a
quello classico della Roma antica. Di qui il disprezzo per quelle opere di
Dante, Petrarca, Boccaccio, ecc. scritte in volgare (benché Petrarca e
Boccaccio, ad es., per il loro tormentato distacco dalla scala di valori umani
e spirituali del Medioevo anticipassero in un certo senso i temi
dell'Umanesimo).
IX) L'uso del volgare, tuttavia, non scompare
nel Quattrocento. Coloro però che continuano a scrivere in questa lingua
compongono opere che hanno un carattere più pratico che letterario e che
si rivolgono a un pubblico poco o per nulla colto. Gli stessi autori spesso
erano di cultura inferiore. I generi preferiti erano le prediche pubbliche
rivolte agli umili, le laudi che continuavano quelle trecentesche, i
cantàri, cioè poemetti epico-avventurosi, recitati sulle piazze;
lettere, ricordi familiari, vite dei santi, trattati ascetici e soprattutto
sacre rappresentazioni, che erano drammi sacri recitati in piazza da attori
dilettanti.
X) L'attività letteraria in volgare
ora non solo è subalterna a quella in latino, ma appare anche estranea
ai valori, agli ideali e ai temi culturali proposti dall'Umanesimo e si
presenta piuttosto come una prosecuzione di generi letterari e contenuti tipici
della civiltà trecentesca, per quanto tale letteratura non affronti
più i sottili e astrusi argomenti teologici della Scolastica, ma i
problemi più concreti e quotidiani della spiritualità
cristiano-borghese.
XI) Paradossalmente, i contenuti più
avanzati dell'Umanesimo (di carattere laico, razionalistico, naturalistico,
ecc.) venivano espressi in una lingua sconosciuta al vasto pubblico, mentre la
grande diffusione del volgare non implicava affatto una trasmissione di nuovi
contenuti di vita. Perché questo dualismo? Perché gli
intellettuali italiani, strettamente legati alle loro Signorie, non avevano
più una preoccupazione di carattere nazionale e, nell'ambito delle loro
corti, disprezzavano il popolo incolto e soprattutto erano convinti che la
grande occasione del XIV sec., di creare un'Italia unita sotto un monarca la
cui sovranità derivasse direttamente dal popolo, fosse definitivamente
fallita. Ecco perché, invece di proseguire sulla strada del volgare,
diffondendo le loro idee laiche e progressiste, gli umanisti preferiscono
rivalutare le lingue classiche, latino e greco. Invece di concentrare gli
sforzi verso un obiettivo comune: la democratizzazione della vita sociale, che
portasse anche all'unificazione nazionale e la formazione di un unico mercato
interno, i maggiori Comuni avevano preferito utilizzare le loro risorse
culturali, politiche, economiche e militari per trasformarsi in Principati
sempre più potenti e rivali tra loro.
UNA CRITICA AL DE
VULGARI ELOQUENTIA
1.
La cosa
più curiosa di questo trattato è che Dante, per fare l'apologia
del volgare illustre, sceglie l'antivolgare per eccellenza: il latino. La
motivazione è ch'egli intende rivolgersi ai "letterati".
·
Dunque,
il volgare parlato da operai, artigiani, contadini, commercianti… può
trovare per Dante una legittimazione all'esistenza letteraria solo se viene
sanzionato da quel ceto di intellettuali che quando scrive usa il latino
proprio per tenersi lontano dal popolo! E non si può neppure dire che
Dante sia stato il primo a comprendere l'importanza di mettere per iscritto gli
idiomi popolari… Prima di lui altri intellettuali si erano cimentati
nell'impresa: si pensi a Francesco d'Assisi, Jacopone da Todi, la scuola
siciliana, Guittone d'Arezzo, gli stessi stilnovisti cui lui apparteneva.
·
Alcuni
critici hanno giustificato la scelta del latino dicendo che Dante, in
realtà, era incerto su quale tipo di volgare chiedere agli intellettuali
di usare per poter scrivere di alta poesia; egli cioè non si pose il
problema dell'unificazione linguistica degli italiani.
·
Ma
questa interpretazione è alquanto riduttiva. Dante infatti non era solo
un letterato, ma anche un politico e se, come politico, aspirava
all'unificazione territoriale sotto l'egida imperiale (l'unica che secondo lui
permettesse di superare gli antagonismi fra le Signorie), era davvero
impossibile che non avvertisse, come letterato, il problema dell'unificazione
linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire,
se non appunto a livello di ceti intellettuali molto ristretti).
2.
Un'altra
cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far l'apologia del
volgare illustre (con cui sostituire il latino), dall'altro sottopone a critica
serrata tutti i volgare della penisola, senza salvarne alcuno in particolare.
Cioè invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i pregi di questo e
quel volgare, li squalifica en bloc, mettendo una seria ipoteca
sull'utilità del trattato stesso. Persino il toscano (cioè la sua
stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene
definita col termine di turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti
così contraddittori?
·
Qui si
ha l'impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari italiani col
metro del proprio volgare. Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium,
ma da esso ovviamente escludeva la produzione letteraria degli stilnovisti e,
in particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di
non citarsi mai per nome).
·
Probabilmente
il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli intellettuali, ma, in
concreto, a qualche corte principesca che, politicamente forte, sapesse poi far
valere su un territorio abbastanza grande, il più grande possibile, la
superiorità del volgare letterario di Dante. "La bilancia capace di
soppesare [le azioni da compiere] -egli afferma- si trova d'abitudine [???]
solo nelle curie più eccelse".
·
A suo
giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un altro
rispettando le condizioni "politiche" della
"curialità" e "aulicità".
·
Dante
mescolava di continuo i piani "letterario" e "politico",
oppure li distingueva tenendoli però sempre ben presenti nell'economia
delle sue trattazioni. Qui abbiamo a che fare con un genio letterario di
altissimo livello (cosciente di esserlo[12]),
politicamente su posizioni tardo-feudali, cioè lontano dalla
sensibilità borghese emergente. L'animo di Dante è terribilmente
aristocratico.
·
A causa
delle esigenze democratiche del suo tempo egli non poteva sostenere che il suo
volgare letterario era il migliore di tutti (a causa dei risentimenti personali
dovuti all'esilio egli non volle neppure sostenere che il fiorentino era il
migliore di tutti: qui il Machiavelli ha perfettamente ragione); tuttavia,
egli, in nome del suo idealismo aristocratico, pretende che l'unificazione
linguistica avvenga con mezzi politici (cosa che poi in effetti avverrà
più di mezzo millennio dopo).
·
In
sostanza, Dante, in quest'opera, non sembra voler discutere con gli
intellettuali su quale volgare meriti l'onore di sedersi sul trono delle
letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il
volgare illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa
sedere su questo trono, visto e considerato che sul piano politico non esiste
alcuna condizione per poterlo permettere. Mancando tali condizioni, un'opera
come il De Vulgari non poteva che essere interrotta.
·
Il
trattato quindi si presta a varie interpretazioni, avendo come background
l'ambiguità fondamentale[13]
di un autore che è politicamente anacronistico rispetto al suo tempo, ma
letterariamente di molto più avanti. In Dante, in un certo senso,
vengono riflesse le contraddizioni anche di quegli intellettuali che pur
essendo politicamente più moderni di lui, non seppero mai cercare con le
masse un rapporto organico.
3.
Molti
critici ritengono che Dante cercasse un volgare italiano come principio
ideale, senza riscontri storici. Cioè la sua intenzione non era
propriamente quella di vedere nel fiorentino la lingua che la futura nazione
avrebbe dovuto usare. Il volgare illustre da lui cercato viene trovato solo in
parte in molti dialetti e integralmente in nessuno, proprio perché la
sua lingua ideale, "quintessenza del volgare in sé", non
esisteva che nella sua mente.
·
Qui ci
si può chiedere: può il pensiero di una persona essere
interpretato sulla base di quello che la stessa persona vuol far credere? E se
si sostenesse la tesi opposta, cioè che Dante sottopose a critica tutti
i volgari perché in realtà voleva perorare sola la causa del
proprio, chi potrebbe negarla con prove indiscutibili? Se il tentativo di
Arrigo VII avesse avuto successo, Dante, che si accinse addirittura a scrivere
il De Monarchia, non l'avrebbe forse interpellato, come politico e
letterato, chiedendogli di diffondere per tutta la nazione il volgare
fiorentino? Non fece forse la stessa cosa il Manzoni coi Savoia, lui che non
era neppure toscano?
·
Ma
supponendo anche che Dante cercasse una "lingua pura", che andasse al
di là delle parlate locali stricto sensu, per lui tutte difettose
in questa o quella parte, non lo si dovrebbe forse criticare sempre di astratto
idealismo? Può forse trovare una qualche legittimazione l'estrapolare
arbitrariamente il volgare illustre dalle tante parlate locali, quando proprio
i "difetti" di una qualunque lingua sono le condizioni fondamentali
che ne sanciscono la storicità?
·
Quando
Dante esordisce nel trattato dicendo che "cercheremo [tra il vulgare
italico] quale sia la più colta e illustre loquela in Italia", non
è forse già partito col piede sbagliato? Un volgare avrebbe
potuto diventare "nazionale" solo perché considerato
"illustre" dagli intellettuali, non perché ritenuto
unanimemente più "popolare"? Avrebbe dovuto dunque essere il
popolo a prendere atto di una decisione presa a tavolino da una ristretta
cerchia di persone?
IV
LA SOLUZIONE RINASCIMENTALE
"Conviene che le lingue abbino una comune intelligenza"
Niccolò Machiavelli
I) Il problema della ricerca di una lingua
letteraria era naturale in un paese come l'Italia che, divisa politicamente e
stratificata in classi sociali assai differenziate, adoperava, parlando,
dialetti molto diversi tra loro.
II) Il latino veniva ancora usato nella
trattatistica filosofica e scientifica, nei congressi dei dotti, nei tribunali
(giudici ed avvocati parlavano in latino, gli imputati in volgare), nella
medicina, nell'insegnamento universitario di tutta Europa. Tuttavia, nelle
più comuni attività pratiche, nella corrispondenza epistolare dei
dotti, nei rapporti diplomatici, nella storiografia l'uso del volgare tendeva a
prevalere.
III) Nel '500 fu sentita vivamente l'esigenza
di una lingua che fosse, nel contempo, nazionale (una per tutti gli scrittori)
e letteraria (da potersi usare in opere di temi elevati e di forme eleganti).
IV) Vi erano due fondamentali correnti che si
fronteggiavano per risolvere il problema di quale lingua darsi a livello
nazionale: una tendenzialmente democratica, l'altra chiaramente autoritaria.
A)
Corrente
tendenzialmente democratica:
a)
La
lingua italiana. Il
più importante fu il vicentino Giangiorgio Trissino (1478-1550), allora
il più popolare di tutti. Nelle sue due opere Dubbi grammaticali
e Il Castellano (1529) egli, in polemica col Bembo e col Machiavelli,
sostiene che la lingua italiana dovrebbe essere detta "italiana" per genere,
mentre come specie si dovrebbe chiamare lingua toscana, siciliana ecc.
(al pari delle lingue straniere: francese/provenzale; spagnolo/castigliano). Il
Trissino aveva posto per primo il principio della italianità della
lingua. Egli riconosceva il primato stilistico alla lingua toscana, ma negava
che i vocaboli usati da Dante e da Petrarca fossero tutti fiorentini o toscani,
essendo invece specifici di altre regioni o comuni a tutte le regioni. Per cui
rifiutava l'idea di dover imporre il fiorentino a livello nazionale. Traducendo
e divulgando il De vulgari eloquentia, egli cercò di convincere
gli intellettuali del tempo che anche Dante, non avendo privilegiato alcun
volgare particolare, fosse favorevole a un'idioma "italiano". La
lingua italiana doveva in sostanza essere il frutto delle parti migliori di
tutti i volgari.
b)
La
lingua cortigiana,
cioè delle varie corti d'Italia. Il più importante fu il conte
mantovano Baldassar Castiglione (1478-1529), che nell'opera Cortegiano
(1528) e nella Lettera dedicatoria a Don Michel de Silva (1527) si
mostra contrario all'esclusivismo del toscanesimo linguistico, parlato e
scritto, e rivendica i diritti della lingua italiana comune, senza
pregiudiziale esclusione di latinismi o arcaismi latineggianti (quando
sanzionati dall'uso colto), lombardismi (ch'egli tendeva a preferire),
forestierismi, neologismi… Ognuno ha il diritto di scrivere nella propria
lingua materna, diceva. Regola d'oro per la scelta delle parole è il
loro uso effettivo, a condizione che il parlato non sia sciatto. Di qui l'uso
spregiudicato, eclettico, meramente funzionale della sua lingua… Secondo lui
gli intellettuali che frequentavano le corti principesche erano garanzia sicura
di un buon volgare.
c)
La
lingua materna. Benedetto
Varchi (1503-65), nella sua importante opera, Ercolano (1570), sostenne
che la lingua parlata (che per lui era il fiorentino) andava considerata
più importante di quella scritta, nel senso che un idioma può
essere definito "lingua" anche se non produce opere letterarie, che
sono sempre patrimonio di ceti intellettuali (viceversa il Bembo negava
sostanza a una lingua che non avesse scrittori). Norma fondamentale dell'idioma
doveva essere l'uso popolare (parlato, vivo, attuale), a condizione che non
fosse né triviale né sciatto. Il fiorentino parlato -diceva
Varchi- può anche essere di aiuto al volgare scritto, ma non è
indispensabile all'uso scritto del parlare corretto. Il miglior scrittore
sarà sempre quello che mette per iscritto la propria lingua materna. Il
fiorentino, volendo, può anche diventare la lingua nazionale, ma senza
imposizioni.
B)
Corrente
chiaramente autoritaria:
d)
Il
volgare illustre del Trecento.
Il più importante era il veneziano Pietro Bembo (1470-1547) che nelle
sue Prose della volgar lingua (edite nel 1525) mostra chiaramente d'aver
capito, in quanto intellettuale borghese, il maggior valore pratico del volgare
rispetto a quello del latino e, in particolare, quello del fiorentino su ogni
altro volgare, ma, essendo di mentalità aristocratica, disprezzava la
parlata del popolo minuto, per cui tendeva a rifiutare il volgare che usa
locuzioni improprie, spurie, come p.es. in molti passi della Commedia
dantesca. Da notare inoltre che nelle tesi del Bembo sostanziale era la
letterarietà della lingua italiana, non la sua fiorentinità,
ch'egli invece considerava accidentale: Dante e soprattutto Petrarca e
Boccaccio diventarono grandi non perché parlavano fiorentino, ma il
fiorentino divenne grande grazie al loro genio. Tesi, questa, antitetica a
quella del Machiavelli. In sostanza l'unico criterio per accettare una lingua
piuttosto che un'altra doveva essere estetico-stilistico, formale. In tal senso
il volgare scritto del suo tempo, appariva al Bembo come di molto inferiore a
quello trecentesco. Le sue idee comunque verranno poste a fondamento della
compilazione del Vocabolario della Crusca (1612), destinato a diventare,
grazie a soprattutto a Leonardo Salviati (1540-89), che fondò
l'Accademia della Crusca (1583), un codice primario e perfino dispotico della
lingua italiana per almeno un secolo e mezzo.
e)
Il
volgare fiorentino vivo. Il
più importante fu Niccolò Machiavelli (1469-1527), che nell'opera
Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1524 ca.), edita solo nel
1730, mostra chiaramente l'esigenza di valorizzare la lingua pre-letteraria e
autonoma, "tutta natura", del popolo fiorentino, su cui si fonda il
linguaggio letterario-artistico dei dotti. A suo parere la lingua parlata e
scritta del popolo italiano dovrebbe essere il fiorentino, a motivo della sua superiorità
strutturale e stilistica, già riconosciutagli dalle corti di Milano e
Napoli e da tante altre regioni italiane. Grazie al volgare fiorentino -dice
Machiavelli- sono potuti nascere dei geni letterari come Dante, Petrarca e
Boccaccio, i quali, a loro volta, hanno per così dire sanzionato la
superiorità della loro lingua rispetto a qualunque altra. Lo scritto
dunque deve basarsi sulla parlata viva dei fiorentini. Naturalmente Machiavelli
era consapevole del fatto che, essendo in perenne movimento, anche il fiorentino,
come ogni lingua, era soggetto a influenze esterne. Di questo tuttavia egli non
si preoccupava, poiché riteneva che la lingua avesse valore solo come
mezzo (di unificazione), e non come fine. Proprio per questa ragione nel suo Discorso
egli critica duramente Dante che aveva definito il toscano come turpiloquium
non perché fosse veramente convinto della necessità di una lingua
sovraregionale (come voleva intendere il Trissino), ma semplicemente per motivi
di risentimento politico nei confronti di Firenze (la mancanza di patriottismo
per un politico come Machiavelli era il peggiore dei mali). In sostanza quindi
Machiavelli considerava il primato del fiorentino come uno strumento
politico-culturale per realizzare l'unità linguistica nazionale e,
insieme, quella geo-politica sotto il dominio del principato fiorentino.
f)
La
lingua toscana. Il senese
Claudio Tolomei (1492-1556) sosteneva che prima del fiorentino, il primato
toscano era dei dialetti pisani e lucchese, per cui se una lingua andava imposta
all'Italia questa doveva essere la toscanità attuale e parlata. Sue
opere: Polito, Cesano e Lettere.
g)
La
lingua della corte romana.
Vincenzo Colli, detto il Calmeta, sosteneva che il fiorentino di Petrarca e
Boccaccio andasse mediato dalla lingua cortigiana dei papi (Leone X e Clemente
VII), che per sua natura poteva fare da tramite comune a uomini di diverse
nazionalità.
V) Le tesi del Bembo ebbero la meglio: sulla
base di esse l'emiliano Ludovico Ariosto, che scrisse l'Orlando Furioso
nel 1516, infarcendolo di padovano letterario e di latinismi, si sentirà
indotto a rivederlo profondamente in senso toscano nel 1532. La conseguenza
maggiore fu che nei primi decenni del '500 si costituì una lingua
letteraria, sostanzialmente fiorentina, ma arcaica e aristocratica, in quanto
non attingeva dal fiorentino vivo del '500, bensì da quello trecentesco
di Petrarca e Boccaccio. Questa lingua fu adottata da tutti gli italiani che
trattavano certi generi come la tragedia, il poema, la lirica, il trattato, la
novella. Essa costituì la base della lingua letteraria nei secoli
seguenti e la base della lingua nazionale, a detrimento delle realtà
linguistiche regionali.
VI) Naturalmente l'adozione di una lingua del
genere, che non poteva essere appresa se non attraverso lo studio,
accentuò le differenze di cultura e di gusto fra i diversi strati
sociali italiani. La letteratura rifiutò sempre più di accogliere
parole moderne o straniere (ivi incluse le idee che quelle parole esprimevano).
Per i ceti subalterni gli impedimenti a un'ascesa culturale si faranno
insormontabili. La loro lingua parlata retrocederà definitivamente a
dialetto. Le tesi della Crusca[14],
d'altra parte, erano tassative: gli "esterni" devono imparare dal
popolo fiorentino la lingua viva; il popolo fiorentino dagli scrittori la
lingua corretta, e gli scrittori dai maestri del Trecento. Per di più
col Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa fisserà norme precise che
vieteranno tassativamente l'uso del volgare nella liturgia e nella traduzione
della Bibbia; nel 1557 il Santo Uffizio emanerà il primo Indice
dei libri proibiti.
VII) Nella seconda metà del '500
nascono varie Accademie di studi che permettono ai fiorentini di prendere il
sopravvento sui settentrionali e sugli stessi toscani. Il granduca Cosimo de'
Medici chiede all'Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua
toscana (1572); nel 1589 viene istituita la prima cattedra di lingua toscana a
Siena. I primi vocabolari nascono nella seconda metà del '500. Non sono
semplici elenchi alfabetici, come sarà quello della Crusca, ma impianti
strutturati e suddivisi per temi. La Fabbrica del Mondo, di Alunno di
Ferrara (1548) prevede, come sezioni: Dio, Cielo, Mondo, Elementi, Anima,
Corpo, Uomo, Qualità, Quantità e Inferno. Lo scopo è
quello di poter costruire il mondo e dominare la natura attraverso il
linguaggio.
V
MANZONIANI E ANTIMANZONIANI
·
Quando
Manzoni inizia a scrivere, nel 1812, Fermo e Lucia, la situazione della
lingua italiana era penosa: da un lato si difendevano ancora, per l'uso
scritto, le esigenze bembiane del classico purismo, in totale dispregio dei
dialetti e in ossequio alla supremazia del fiorentino; dall'altro il letterato
e la sua produzione letteraria erano lontanissimi dalle esigenze più
popolari. Gli intellettuali scrivevano in una lingua che il popolo non poteva
capire, anche a causa del proprio analfabetismo. Basilio Puoti, Antonio Cesari
e soprattutto Vincenzo Monti erano i fautori di un italiano dotto che
escludesse rigorosamente il parlato.
·
Il
Manzoni è uno dei primi, nell'800, a porsi il problema di come
conciliare le due lingue ed è sicuramente il primo a porsi il problema
di come risolvere la questione della lingua su un terreno sociale e politico.
Inizialmente, col Fermo e Lucia, egli tenta di risolvere il problema a
livello regionale (Lombardia); poi con l'edizione definitiva del 1840-42,
l'ambizione è quella di porsi su un piano nazionale.
·
Egli in
sostanza scelse dei personaggi popolari della Lombardia, ambientò la
storia in quei luoghi e dopo aver "sciacquato i panni in Arno",
decise di farli parlare come dei fiorentini.
·
A suo
giudizio le radici della lingua italiana andavano cercate solo in Firenze,
cioè in quella città la cui lingua fa tutt'uno col dialetto, non
è molto diversa dallo scritto ed è sostanzialmente parlata da
tutti i cittadini.
·
Non
avrebbe avuto senso fare un collage delle parlate migliori, poiché la
lingua è un unicum inscindibile: o la si prende così com'è
o niente. Le parole sono specchio della realtà e devono veicolare
contenuti uguali per tutti. Parlato e scritto possono essere sovrapponibili. Il
linguaggio deve essere il più possibile standardizzato, altrimenti
l'unificazione linguistica è impossibile.
·
In
secondo luogo dissero, a ragione, i manzoniani, occorreva assolutamente
rinunciare alle tesi dei puristi secondo cui il fiorentino da imitare doveva
restare quello trecentesco.
·
Dello
stesso avviso erano, a conti fatti, sia E. De Amicis (L'idioma gentile,
1906) che C. Collodi (benché quest'ultimo fosse assai meno fiducioso che
l'unità politica della nazione avrebbe portato sicuro progresso a tutti).
·
Va detto
tuttavia che già ai tempi del Manzoni, sia il Foscolo che il Leopardi la
pensavano in maniera diversa. Il primo (Origin and vicissitudes of the
italian language) stimava sì il fiorentino del '300 come il volgare
illustre per eccellenza, ma era altresì convinto che il trionfo delle
tesi bembiane avesse nel complesso impoverito l'uso di tale volgare e
arbitrariamente impedito l'uso letterario di tutti gli altri volgari.
Costringere la lingua entro gli angusti spazi di un vocabolario, che sanziona
il lecito e l'illecito, è come ucciderla, diceva il Foscolo. Infatti
l'italiano per lui, come per C. Gozzi, era "una lingua morta".
·
Per il
Leopardi (che pur circoscriveva la questione della lingua a un mero problema di
"stile") non avrebbe avuto senso adottare il fiorentino rinunciando a
quei termini divenuti già nazionali o perché importati dalle
lingue straniere o perché già impostisi a livello nazionale per
unanime consenso degli intellettuali. Inoltre egli riteneva che nel suo
presente si dovessero valorizzare gli apporti che poteva offrire il linguaggio
popolare che, in taluni casi, poteva sicuramente rinnovare la lingua
letteraria. In ogni caso anche per lui il primato andava concesso agli
scrittori contemporanei più illustri, i quali, anche se inferiori a
quelli del '300, erano comunque gli unici che potevano dare un carattere di
"modernità" alla lingua e alla letteratura italiana.
·
Come si
può notare, non era quindi così scontata la strada della
codificazione definitiva dell'egemonia del fiorentino sul territorio nazionale.
·
Il primo
a polemizzare contro tale dittatura culturale, che si voleva sancire con
l'unificazione appena avvenuta, è stato il glottologo lombardo G. I.
Ascoli (Lettere glottologiche, 1887), che riprese alcune tesi di G.
Baretti, sviluppandole in maniera originale. Egli infatti da un lato è
disposto a riconoscere l'importanza del fiorentino per gli esordi della lingua
italiana, ma dall'altro è convinto che i tempi siano sufficientemente
maturi perché gli intellettuali comincino a valorizzare anche le altre
parlate, altrimenti essi finiranno col compiere un mero lavoro imitativo di un
linguaggio estraneo (come poi è avvenuto nei Promessi sposi).
Tanto più che Firenze non è più, come un tempo, l'unico
centro culturale della nazione, né è possibile sostenere che il
dialetto fiorentino dell'800 sia ancora quello dei grandi scrittori del '300.
Paragonare Firenze a Parigi -come fa il Manzoni- non ha senso, dice l'Ascoli.
·
Dunque
ogni lingua, specie se essa viene messa per iscritto, doveva esser degna di
studio. La soluzione al problema dell'unità linguistica doveva esser
cercata -dice l'Ascoli- nella maggior diffusione degli scambi e dei contatti
tra i parlanti della nazione (unità nella molteplicità).
·
In
Germania -dice l'Ascoli- la Riforma protestante, diffondendo largamente
l'istruzione elementare e la lettura (in tedesco) dei testi sacri, aveva creato
una vasta circolazione di idee ed esperienze che avevano saputo sopperire, ai
fini d'un alto grado di omogeneità linguistica, all'assenza di
unità politica. In Italia questo non era avvenuto. Anzi da noi la
frammentazione etnico-linguistica aveva raggiunto livelli tali da paragonarci
alla sola India, che però ha una superficie 14 volte maggiore. Imporre
un dialetto su tutti gli altri sarebbe stato impossibile senza un forte governo
centrale.
·
Il
filologo abruzzese F. D'Ovidio non era lontano da queste posizioni.
·
Tra la
corrente antimanzoniana, vanno segnalati:
1. C. Cattaneo (Principio istorico delle
lingue europee, 1841), che evidenzia l'influsso delle parlate pre-latine
sui dialetti italiani;
2. il milanese C. Porta, per il quale la poesia
non può avere codici prefissati; il vernacolo da lui usato s'avvale di
presupposti colti modulati dalla satira e dall'ironia popolaresca;
3. il romano G.G. Belli, il cui sonetto
dialettale spiega bene l'affinità fonologica del dialetto romanesco col
fiorentino; affinità dovuta al fatto che a partire dall'epoca dei
Medici, vicini alla corte pontificia, questa, per ragioni
politico-amministrative, si convinse ad adottare il fiorentino parlato (prima
di allora il romanesco era più simile ai dialetti meridionali).
·
Forse la
corrente più antimanzoniana di tutte fu la Scapigliatura:
1. Il piemontese G. Faldella usava parodiare la
lingua colta mixandola con dialettismi piemontesi integrali, latinismi,
grecismi, onomatopee, neo-coniazioni ecc.
2. Il milanese V. Imbriani era un ironico
avversario del purismo, del monolinguismo e di chi disprezzava i dialetti e i
neologismi; amava le avventure sperimentali sulla lingua (in questo anticipa
Gadda e D'Arrigo). Voleva fondere lingua letteraria e popolare, letteratura e
vita, lingua nazionale e dialetti. Il dialetto lo considerava come la radice
fondamentale di tutti gli idiomi parlati dal popolo italiano, come la fonte
irrinunciabile dell'espressività parlata e scritta di ogni persona;
3. C. Dossi mescolava milanese e toscano
popolare.
·
Un altro
acceso antimanzoniano è il verista siciliano G. Verga, che rifiuta nei
suoi romanzi di usare un lingua e una sintassi già fatte e collaudate
(come appunto nei Promessi sposi), preferendo invece escogitare (oltre a
un'epica sconosciuta alla prosa italiana) una sintassi che s'adatti al parlato
dei protagonisti (popolari), i quali anche se non usano il dialetto siciliano,
parlano come se fossero loro stessi a raccontare le cose ("scrivere
parlato"), cioè come se fossero autonomi dalla soggettività
dello scrittore. La lingua quindi, non essendo dell'autore, deve necessariamente
adattarsi alla sintassi dei protagonisti.
·
Su
questa particolare attenzione da rivolgere al parlato era d'accordo anche G.
Giusti.
·
Tuttavia,
nonostante la corrente antimanzoniana fosse di gran lunga più cospicua
di quella manzoniana, fu quest'ultima che il governo sabaudo decise di far
prevalere.
·
Il
Manzoni fu posto a capo di una commissione del Ministero della Pubblica
Istruzione. Il primo risultato dei lavori fu la stesura di un Dizionario della
lingua italiana, basato sulla parlata fiorentina colta. Nelle scuole si
adottarono manuali antidialettali e per un certo tempo fu seguita la pratica
del trasferire i maestri dalla propria regione d'origine in altra di dialetto
diverso, al fine d'impedire che usassero il proprio dialetto.
·
Questo,
senza considerare che nel 1861 l'80% della popolazione risultava analfabeta,
conoscendo soltanto il proprio dialetto (10 anni dopo il 60% delle persone in
età scolare rifuggiva ancora dall'obbligo scolastico).
·
Al tempo
dell'unità, se si escludono i toscani, i romani e gli alfabetizzati,
l'italiano era parlato da non più di 700.000 persone (su un totale di 25
milioni di persone). Persino il re Vittorio Emanuele II sapeva parlare solo in
francese e in dialetto piemontese.
·
Naturalmente
con la scolarizzazione, l'emigrazione forzata verso le zone industriali e col
trasferimento dei giovani di leva in tutto il territorio nazionale, l'uso della
lingua italiana tendeva a imporsi sui dialetti. Nel primo decennio del '900 la
percentuale degli analfabeti era ridotta al 38%.
·
Il
disprezzo che le autorità governative nutrivano nei confronti dei
dialetti porterà ad adottare, col fascismo, provvedimenti antistorici,
dettati solo dalla demagogia: si vietò qualunque uso dialettale nelle
scuole (fino a quel momento nelle Elementari i maestri erano stati praticamente
bilingui), si proibì l'uso di forestierismi, si ripristinarono parole
della classicità romana, si abolì l'uso del "lei" a
favore del "voi", s'impose l'italofonia in Alto Adige, si
manipolarono i dizionari…
·
E
pensare che G. Gentile, autore della Riforma scolastica che porta il suo nome,
ridimensionava alquanto l'uso della grammatica e affermava il ruolo positivo
dei dialetti.
·
Persino
Croce, favorevole alla libertà creativa della parola, negava qualunque
potere normativo alla lingua, specialmente in campo poetico e letterario.
Qualunque programma di lingue illustre imposto ai parlanti gli pareva una
violazione della libertà di espressione e comunicazione.
·
Discorso
a parte andrebbe fatto per il Manifesto futurista (1909) di F.T.
Marinetti, il quale se da un lato inneggiava alle parole in piena
libertà, portando all'eccesso l'eversione anarchica predicata dagli
scrittori del "Caffè", dall'altro, proprio per questo suo
forzato individualismo (lontano dalle contraddizioni sociali), apriva le porte,
inevitabilmente, a soluzioni di tipo autoritario.
·
Gli
antimanzoniani dell'800 chiedevano di elevare i dialetti al rango di lingue,
non di contrastare l'egemonia del fiorentino favorendo l'assoluta
arbitrarietà delle parole.
·
Il fatto
è che l'affermarsi dell'idea di nazione implicava un nesso inscindibile
con l'unficazione linguistica. Altre nazioni europee avevano già
percorso questa strada. La lingua -dice Gramsci- inevitabilmente veniva
considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica
culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da
valorizzare. La corrente manzoniana, convinta della natura progressiva
dell'unità nazionale sotto il vessillo di Casa Savoia, fu quella che si
lasciò strumentalizzare più facilmente.
VI
CONSIDERAZIONI CRITICHE
"L'italiana è lingua letteraria:
scritta sempre
e non mai parlata"
Ugo Foscolo
… in generale
1)
La
storia linguistica dell'Italia ha dimostrato che una lingua imposta a tutta la
nazione (e nella fattispecie il fiorentino), foss'anche il volgare più
illustre, non è destinata a durare; prima o poi tornano in auge le forze
centrifughe delle parlate locali, e se queste, col tempo, son andate
affievolendosi, può accadere che la lingua nazionale, essendo un
prodotto artificiale, perda facilmente il confronto con altre lingue nazionali
straniere, che per vari motivi tendono a imporsi: gli strati popolari, infatti,
non si sentono in dovere di difenderla.
2)
Le
parlate, i dialetti, gli idiomi locali, regionali sono sempre stati visti dagli
intellettuali e dal potere politico come un limite alla costruzione di una
lingua nazionale e non come una risorsa tipica del nostro Paese. Per mettere
gli italiani in grado di parlarsi e d'intendersi, occorreva favorire i processi
di scambio, economici, sociali, culturali…, lasciando che l'esigenza e il modo
di costruire un linguaggio comune evolvessero in maniera spontanea. Una
qualunque valorizzazione "centralistica" del policentrismo
linguistico porta inevitabilmente a privilegiare alcuni aspetti a danno di
tanti altri. Per valorizzarsi, i dialetti locali non avevano bisogno del
centralismo politico, ma solo di condizioni sociali più democratiche,
che permettessero gli scambi con facilità.
3)
L'adozione
di una lingua comune non avrebbe mai dovuto comportare la fine del dialetto
locale. La lingua comune avrebbe dovuto essere usata come seconda lingua,
conservando e anzi perfezionando gli strumenti della prima lingua, quella
strettamente legata al territorio in cui viene usata. Nel momento in cui un
dialetto (nella fattispecie il fiorentino) s'è imposto sugli altri
diventanto lingua nazionale, tutto ciò che è avvenuto dopo
è diventato inesprimibile per gli altri dialetti. In Italia è
stata tolta la possibilità agli intellettuali di mettere per iscritto la
loro lingua materna.
4)
I
dialetti non sono mai stati delle lingue povere. Essi anzi potevano esprimere i
complessi contenuti dell'agricoltura e dell'allevamento. Certo non quelli
tecnico-scientifici dell'epoca moderna.
5)
La
questione della lingua, per come è stata impostata da Dante, Bembo,
Machiavelli, Manzoni…, non potrà mai essere rimessa criticamente in
discussione se non si rivedono, storicamente, i criteri politici con cui
è stata fatta l'unificazione nazionale. Forse abbiamo ancora la
possibilità di salvaguardare alcune zone territoriali ove si parla il
dialetto. Tuttavia, i guasti culturali sono stati così gravi che
qualunque opera di mera conservazione dell'italiano pre-letterario rischia di
diventare una battaglia contro i mulini a vento. L'unica possibilità
realistica è quella permettere agli italiani di usare il proprio
dialetto o il proprio regionalismo senza vergogna, senza dover sottostare a
giudizi di liceità o meno.
6)
La
questione più incredibile non è stata tanto il fatto che
l'unificazione (a causa dell'immaturità democratica dei politici e degli
intellettuali di allora) sia avvenuta tramite annessioni senza condizioni
(anche dal punto di vista linguistico), quanto piuttosto il fatto che dopo aver
sperimentato per più di un secolo i tradimenti della classe borghese
(agli ideali risorgimentali), ancora oggi nessuno storico si pone la domanda se
le cose sarebbero potute andare diversamente o se, pur essendo andate in una
determinata direzione, esista ancora oggi la possibilità di una radicale
inversione di marcia.
7)
L'affermazione
dell'Umanesimo è avvenuta per le irrisolte contraddizioni dell'epoca
feudale: clericalismo e servaggio, ma oggi dovremmo chiederci se
i vantaggi ottenuti siano stati effettivamente superiori ai mali che la
borghesia diceva di voler superare. Può una classe essere democratica
quando i suoi interessi, oggettivamente, non possono coincidere con quelli di
tutto il popolo? Oggi abbiamo un Umanesimo del tutto formale, meramente
teorico, senza una reale conferma dei suoi principi nei fatti concreti: al
servaggio è stato sostituito il lavoro salariato; al clericalismo
il consumismo. La civiltà borghese non ha forse fatto il suo
tempo, come già quella feudale e prima ancora quella schiavistica?
… in particolare
8)
Attualmente
la situazione linguistica italiana è caratterizzata da questa
situazione:
a)
Italiano
colto e scritto
b)
Italiano
regionale parlato
c)
Dialetto
italianizzante (dialetto regionale, koinè dialettale)
d)
Dialetto
locale, arcaico (quest'ultimo sta scomparendo)
e)
Gergo
giovanile (che è un mix di b) e c), nonché di molte influenze
straniere)
La lingua di ogni
giorno parlata o è un italiano regionale o un dialetto regionale. Il
legame linguistico interregionale o è l'italiano scritto aulico,
cioè un insieme artificiale, oppure è una lingua parlata
dipendente dai mass-media: il fondo del lessico italiano è diventato
pluriregionale. La pronuncia della RAI è accettata su larga scala in
tutto il Paese, benché questo idioma sia unanimemente considerato come
asettico, freddo, impersonale.
8)
L'italiano
scritto scolastico è l'antiparlato per definizione, in quanto i suoi
termini sono molto lontani dalla realtà. Quasi tutte le grammatiche
scolastiche insegnano la varietà d'italiano colto e scritto,
benché pretendano d'insegnare la lingua parlata comune. La lingua colta
che s'impara a scuola in realtà non è che una selezione povera
presa dalla ricchezza della varietà della lingua colta (letteraria). La
cosa assurda di questo insegnamento è che se qualcuno utilizzasse tutta
la ricchezza della lingua scritta non troverebbe poi nessuno in grado
d'intenderlo.
9)
Persino
l'insegnamento della lingua materna (orale) s'incentra su quella scritta
(purificata, logica, neutra, stilizzata). Facciamo un esempio:
a)
Non
credo che sia in grado di arrivare fin qui.
b)
Secondo
me non arriva fin qui.
c)
Non ce
la fa ad arrivare fin qui, secondo me.
La grammatica
sceglierà sicuramente la prima espressione.
Quello che in
sostanza non s'insegna è la varietà parlata comune di una lingua
(che, per sua natura, è meno ricca ma più chiara e potrebbe
essere imparata facilmente).
10)
Le
grammatiche usano la varietà d'italiano colto e scritto anche
perché la varietà colta di una lingua si traduce facilmente nella
varietà colta di un'altra. In realtà l'impressione che si ha di
passare facilmente da una lingua all'altra, è falsa. Facciamo un
esempio:
a)
Dubito
che dica la verità.
b)
Je doute
qu'il (ne) dise la vérité.
c)
J doubt
that he tells the truth.
Nessuno in
realtà parla così, né in italiano, né in francese,
né in inglese. Ed è altresì assurdo far imparare agli
stranieri un modello fiorentino di pronuncia che di fatto è usato solo
dai fiorentini, per i quali, tra l'altro, quella pronuncia costituisce la
versione locale dell'italiano. Paradossalmente la pronuncia settentrionale
è diventata più standardizzata e più nazionale della
stesso fiorentino, che appare municipale. Occorrerebbe dunque, come vogliono
alcuni linguisti, rinunciare alla distinzione tra "e" e "o"
aperte e chiuse", tra "s" e "z" sorde e sonore, ecc.,
anche perché in italiano non c'è corrispondenza tra scritture e
pronuncia su questi punti.
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[1] Il termine proviene dal latino hoc est: questo è.
[2] Il termine proviene dal latino hoc ille: è quello. Da Oil viene l'attuale francese Oui.
[3] Le motivazioni di questa improvvisa interruzione possono essere almeno tre:
1. avendo deciso di scrivere l'opera in latino, egli deve poi essersi reso conto che i cultori di questa lingua erano i meno indicati ad accettare le sue opinioni in materia di "volgare illustre";
2. è probabile che la constatazione della irrevocabilità del suo esilio abbia indotto Dante a rinunciare a cercare mediazioni e intese con gli intellettuali del suo tempo sul problema della lingua nazionale, e a decidersi, senza mezzi termini, per un volgare non solo illustre ma anche parlato (a volte anche scurrile), non solo fiorentino ma misto (come farà per la stesura della Commedia, iniziata intorno al 1306), da poter usare con un certo effetto popolare contro i suoi concittadini politicamente rivali.
3. Per realizzare il suo progetto linguistico, Dante aveva bisogno di una politica imperiale decisa, che allora mancava. Egli infatti era convinto che senza unità politico-imperiale non ci potesse essere quella linguistico-nazionale. Le sue ultime speranze (anche di un rimpatrio fiorentino) ebbero termine -come noto- con la morte dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, disceso in Italia nel 1310.
[4] Il Sì nasce propriamente dalla locuzione affermazione latina sic est: così è.
[5] Ovviamente Dante ha in mente la sola lingua della letteratura medievale francese. In realtà la frantumazione del latino parlato porterà alla nascita di molte più lingue romanze: portoghese, spagnolo, catalano, francese, franco-provenzale, provenzale, italiano, sardo, ladino e rumeno.
[6] Il giudizio che Dante dà del latino è quanto mai idealistico e antistorico. Egli afferma che "regolata dal sentimento concorde di molte genti, la grammatica [cioè il latino] non par sottoposta al singolare arbitrio di alcuno". Dante non fa alcuna analisi critica dei limiti storico-politici dell'imperialismo culturale romano espressosi attraverso l'uso del latino. D'altra parte egli avrebbe voluto trasporre sul piano del volgare illustre gli stessi processi politici che fecero del latino una lingua stabile e universale, almeno finché durò il dominio militare. Resta comunque significativo che lo stesso Dante, parlando del volgare romano a lui coevo, affermi essere "il peggiore di tutti".
[7] Il miglior dialetto municipale, secondo Dante, era il bolognese, che però lo riteneva del tutto inadatto a esprimere cose non strettamente tecnico-giuridiche. Essendo un poeta, Dante, voleva premiare una lingua che permettesse di scrivere belle "canzoni".
[8] "Se noi italiani -dice Dante nel De Vulgari- avessimo una reggia, esso [il volgare illustre] prenderebbe posto in quel palazzo" e diventerebbe per così dire naturale a tutta la nazione acquisirlo (in quanto non si potrebbe fare diversamente). L'aristocraticismo culturale di Dante faceva da pendant al suo idealismo politico imperiale: "se la reggia è la casa comune di tutto il regno… qualunque cosa è tale da essere comune a tutti, senza appartenere in proprio a nessuno". L'uguaglianza (anche linguistica) della nazione avrebbe dovuto essere garantita da una monarchia forte e giusta, capace d'imporsi sui localismi egoistici.
[9] L'esule e pellegrino Dante, che andava mendicando ospitalità di corte in corte, non poteva sostenere che una parlata o un volgare scritto fosse migliore di un altro. "Il nostro volgare illustre se ne va pellegrino come uno straniero e trova ospitalità in umili asili, dato che noi siamo privi di una reggia", dice nel De Vulgari.
[10] Petrarca, intellettuale di livello europeo e precursore dell'Umanesimo, riesce a imporre il volgare fiorentino come linguaggio delle classi dominanti e come lingua veicolare degli scambi all'interno delle alte sfere intellettuali; Boccaccio, col Decamerone, crea il modello di una lingua complessa dal punto di vista morfologico e sintattico e straordinariamente adatta ad esprimere tutte le sfumature del reale, dalle più umili alle più elevate.
[11] Bisogna dire che l'esempio dato da Dante di prosa volgare illustre (Vita Nuova e Convivio) ebbe fortuna solo a partire dal Settecento, in quanto la prosa nazionale resterà sempre legata ai parlati regionali, mentre in certi settori scientifici continuerà a dominare il latino.
[12] Dice nel testo, parlando di chi usa il volgare illustre (che poi in sostanza è quello stilnovista): "supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente. Non c'è nessun bisogno di dimostrarlo. E quanto ricchi di gloria renda i suoi servitori, noi stessi lo sappiamo bene, noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l'esilio". Ecco le qualità artistiche del suo volgare poetico: "egregium, extricatum, perfectum, urbanum".
[13] Questa ambiguità non fu capita dal Trissino, che credette di ravvisare nel rifiuto di Dante di privilegiare un volgare piuttosto che un altro, un buon motivo per sollecitare tutti gli intellettuali a nobilitare i loro propri dialetti, senza piegarsi all'egemonia di alcuno. Può anche darsi però che il Trissino avesse capito l'ambiguità, ma che la volesse usare come puntello per le sue tesi linguistiche altamente democratiche. Stupidi comunque quei critici che gli si sono opposti, sostenendo che Dante cercava un volgare illustre per le canzoni poetiche e non per la futura nazione italiana. Dante in realtà usò la poesia stilnovista come pretesto per affermare un primato nazionale del volgare fiorentino: cosa che Machiavelli aveva perfettamente capito. Come interpretare diversamente queste parole? "Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l'onore e la gloria".
[14] La crisi irreversibile della Crusca avverrà nella seconda metà del Settecento, a causa della grande influenza che in tutta Europa ebbero le idee connesse alla Rivoluzione francese.