LANFRANCO CARETTI GIORGIO LUTI

LANFRANCO CARETTI, GIORGIO LUTI

La letteratura italiana per saggi storicamente disposti

 

Ed. Mursia

 

Il Cinquecento

 

ARIOSTO

 

Dopo le polemiche e le opposizioni della Controriforma nei riguardi della

sostanza tematica e dell'unità del Furioso, seguite al successo e all'adesione ammi-

rativa dei contemporanei, bisognerà giungere, superando i travisamenti e le par-

ziali revisioni sei-settecentesche, alle intuizioni del Foscolo (si veda il saggio lon-

dinese Poemi narrativi, in Saggi di letteratura italiana, Il, Firenze, Le Monnier, 1958,

v ol. Xl delle Opere, Ediz. naz., con testo inglese e originale francese; per la trad. ital.

cfr. Saggio sui poemi narrativi e rontanzeschi italiani, in Opere, X, Firenze, Le Mon-

nier, 1953) per entrare nel vivo della moderna problematica critica sull'opera arioste-

sca. Merito del Foscolo è di avere chiarito, nel Furioso, oltre che l'esercizio continuo

di affinamento stilistico e linguistico, la fluidità del ritmo narrativo, la tecnica esperta

del taglio romanzesco e infine la naturalezza delle finzioni fantastiche che paiono

quasi creazioni ‘‘ veramente della natura ‘‘. Le suggestive indicazioni foscoliane sa-

rannO riprese e sviluppate negli interventi critici del De Sanctis (dal 1858 con le le-

zioni zurighesi, Corso sulla poesia cavalleresca, ora in La poesia cavalleresca e scritti

vari, Bari, Laterza, 1954, al 1870 con il cap. Xlll, L'Orlando Furioso, della Storia

della let~eratura italiana), orientato, sulla linea dell'impostazione hegeliana, ad

un'organica sistemazione storicistica dell'Orlando Furioso, localizzandolo nel pro-

cesso evolutivo della civiltà dal Medioevo al Rinascimento come cosciente rap-

prcsentazione della crisi del mondo cavalleresco. La posizione critica desancti-

siana resterà scissa tra il giudizio negativo espresso nei confronti della civiltà

rinascimentale e l'ammirazione intelligente e cordiale tributata al valore pro-

fondo ed autentico della poesia ariostesca. Questa dicotomia tuttavia, che era

stata generosamente articolata nel corso zurighese, si irrigidisce e si schematizza

nella Storia, in cui la poesia del Furioso, sacrificata sensibilmente dal discorso

alc sul Rill~lscimcnto, Vi tO come epoca priva di seri contenuti etici e civili,

inc I idon a alu jcitO modcllo di perfezione forma1esecondo la nota formula

dell'arte per l'arte. L'ultimo Ottocento registra, in età positivistica, una pausa del

processO critico per sviluppare tutta una serie di utili ricerche culturali e di in-

ventari eruditi sulla vita dell'Ariosto e sulle fonti del poema: insigne rimane tut-

t'oagi il monumentale lavoro di Pio Rajna (Le fonti dell'‘‘ Orlando Furioso ‘‘,

Firc1l7- San~oni lri~tampa~o ncl l900come insostituibile strumento di lavoro.

 

s rll IlU~V l)laO 1110 sviluppo U~ll'illL~lpr~L~ZiL)ll~

Ariosto minore

 

critica sull'opera ariostesca (Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 1920 POi

19615, e ora separatamente Ariosto, iVi, 19525), riprendendo l'impostazione desancti-

siana (soprattutto del corso zurighese) e sviluppandone in particolare uno dei due

termini, quello cioè attento alla individualità e peculiarità artistica del Furioso: il

poema dell'Ariosto è visto come la contemplazione distaccata e serena della multi-

forme esperienza umana; il poeta, quasi ‘‘ occhio di Dio ‘‘, guarda il muoversi del

creato fissandone gli opposti motivi in una rappresentazione unitaria, in una supe-

riore concezione di ‘‘ armonia cosmica ‘‘. Il suggestivo apporto del Croce è stato in

vario modo ricco di premesse per un'ulteriore serie di sviluppi e di approfondimenti:

dall'lnfroduzione al ‘‘ Furioso ‘‘, in Teocrito, Ariosto, minori e minimi, Milano, Cor-

baccio, 1926, di L. Ambrosini che situa la poesia del Furioso in un ‘‘ terzo mondo ‘‘

equilibrato fra realtà e fantasia, al Saggio sull'‘‘ Orlando Furioso ‘‘, Bari, Laterza,

1928 (POi 1954) di A. Momigliano, rivolto ad una sottile interpretazione di carattere

psicologico-sentimentale; fino al più recente lavoro di verifica stilistica operato da

M. Marti (11 tono medio dell'‘‘ Orlando Furioso ‘‘, in ‘‘ Convivium ‘‘, 1, 1955, e ora

in Dal vero al certo, Roma, Ed. dell'Ateneo, 1962). Il famoso saggio crociano aveva

comunque eluso la duplice articolazione della impostazione desanctisiana piuttosto

che risolverla compiutamente in una sintesi concreta e non metafisica che soddi-

sfacesse sia all'istanza storicistica quanto a quella estetica. Al De Sanctis si riallac-

cerà dunque il discorso critico di W. Binni (Metodo e poesia di L. Ariosto, Messina-

Firenze, D'Anna, 1947, POi 1960) con l'esigenza, pur nella comprensione e definizio-

ne del valore poetico irripetibile dell'esperienza ariostesca, di ripercorrere e chia-

rire la formazione e lo svolgimento della vita dinamica dell'opera, in rapporto con

la tradizione letteraria, le inclinazioni del gusto, I'esistenza pratica del tempo, con

la poetica insomma rinascimentale tesa alla serenità e all'armonia.

 

Il nuovo corso della filologia ariostesca, iniziato da S. Debenedetti sia con

l'ediz. critica, scientificamente approntata, del Furioso, Bari, Laterza, 1928, sia

con la pubblicazione dei Frammenti autografi dell'‘‘ Orlando Furioso ‘‘ (Torino,

Chiantore, 1937), ha portato un contributo di prim'ordine per l'interpretazione della

forma espressiva dell'Ariosto; si vedano almeno: il saggio di G. Contini, Come

lavorava l'Ariosto, in Esercizi di lettura, Firenze, Le Monnier, 1939 (POi 1947), che,

ripercorrendo il lavoro correttorio dell'autore, convalida, per via di tangibili rilievi

stilistici, l'interpretazione crociana; le letture di G. De Robertis (soprattutto Let-

7ura sinttomatica del I dell'‘‘ Orlando ‘‘, in ‘‘ Paragone ‘‘, 1950, 4, e ora in Studi 11,

Firenze, Le Monnier, 1971) rivolte a illustrare la struttura narrativa dell'ottava

ariostesca. In questa direzione si collocano: E. Bigi, Petrarchismo ariostesco, in

Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954; Id., Appunti sulla lingua

e sulla metrica del ‘‘ Furioso ‘‘, in ‘‘ Giorn. stor. della lett. ital. ‘‘, 1961; (ora in

La cultura del Poliziano e altri studi umanistici, Pisa, Nistri-Lischi, 1967); E. Tu-

rolla, Dittologia e 'enjambement' nella elaborazione dell'‘‘ Orlando Furioso ‘‘, in

‘‘ Lettcre italiane ‘‘, 1958; A. Limentani, Struìtura e storia deil'ottava rinla, in

‘‘ Lettere italiane ‘‘, 1961: A.M. Carini, L'iter~lziorle aggettil~nle 17ell'‘‘ Orlando Fu-

rioso ‘‘, in ‘‘ Convivium ‘‘, 1963; C. Segre, ksperienze ariostesche l'isa, Nistri-

Lischi, 1967.

 

Di più ampio carattere storico è l'impegno di L. Caretti (si veda lntroduzione

all'Ariosto, in Filologia e critica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955; e soprattutto

Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1961, 1967, e nella PB, 1970) che attraverso

un a~icllto c punluale liesallle crilico chiilri~cc la pUCsiJ d:l FuliUso C lle illU~lla

particolarmente i rapporti con le opere minori, tratteggiando un profilo nuovo e

complessivo dell' 'umanità' ariostesca. Da raccomandare è inoltre l'ottimo lavoro di

C. Dionisotfi, Appunti sui ‘‘ Cinque canti ‘‘ e sugli studi ariosteschi, in Studi e pro-

l~lemi di critica testuale, Convegno di studi di Filologia Italiana nel centenario della

Commissione per i testi di lingua, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961.

 

Per i recenti tentativi di lettura del Furioso sotto l'aspetto della tecnica nar-

rativa, cfr. L. Pampaloni, Per un'analisi narrativa del Furioso, in ‘‘ Belfagor ‘‘, 1971

e D. Delcorno Branca, L'Orlando Furioso e il ronlanzo cavalleresco medievale, Fi-

renze, Olschki, 1973. Quanto all'analisi della cultura ferrarese tra il Quattrocento e

il Cinquecento, si ricorra allo studio di G. Gctto, La corte estense di Ferrara come

luogo d'incontro di una civiltà letteraria, in Letteratura e critica nel tempo, Milano,

Mar~orati, 1954. Per le edizioni del poema, oltre a quella citata del Debenedetti, sono

fondamentali: Orlando Furioso, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954;

Orlando Furioso, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per

i testi di lingua, 1960 (con le varianti delle ediz. 1516 e 1521). Fra le edi-

zioni commentate si ricordi almeno: P. Nardi (Milano, Mondadori, 1927, ecc.);

N Sapegno (Messina-Milano, Principato, 1940, ecc.); W. Binni (Firenze, Sansoni,

1942); L. Caretti (Torino, Chiantore, 1959; e Torino, Einaudi, 1966); A. Seroni

(Milano, Mursia, 1961, 19684); C. Segre (Milano, Mondadori, 1964); G. Innamorati

IBologna, Zanichelli, 1967 e Bergamo, Minerva Italica, 1971). Per le opere minori

si veda: Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954 (con-

ticne: i Carmina, con trad. a fronte; le Rime; le Commedie, tranne I Studenti;

Le satire; r cinque canti e un'ampia scelta dalle Lettere). Per le Commedie si di-

spone ora dell'ed. critica, a c. di A. Casella e G. Ronchi (Milano, Mondadori, 1974);

per i Cinque canti si ricorra all'ed. commentata a c. di L. Caretti (Venezia, Corbo e

l iore, 1974).

 

ARIOSTO MINORE

 

Il dilemma azione-contemplazione s'impone a chiunque affronti l'avven-

tura di esistere; ma s'impone più decisamente a ogni poeta. Perch‚ la poesia

non può non avere come oggetto immediato la vita--la cerchi essa sulle

strade del mondo o nei labirinti dell'anima--; ma nell'istituirla a oggetto

essa se ne allontana, e s'addentra in un'altra vita, quella dell'arte e della

fantasia, La critica ha tuttavia avuto i suoi buoni motivi se per l'Ariosto,

più che per altri poeti, ha sentito di doversi affidare nelle sue esplorazioni

all'ago magnetico di questo dilemma. Perché il dilemma ritorna insistente, e

dolorosoJ proprio negli accenni autobiografici dell'Ariosto (integrabili con i

dati di una cronaca esterna documentatissima): d'un uomo che si sentiva

cllialllato a contemplare e a creare bellezza, e che si trovava invece obbligato

n .lltiita plaLica (diplomatica c govcrllativa). Così, ci Sollo stati proposti

i ritratti d'un Ariosto edonista e distaccato, insensibile ai travagli del suo

tempo; e d'un Ariosto uomo d'azione, elaboratore e partecipe della politica

dei suoi Signori e della sua patria--due ritratti che impongono prospettive

contrastanti anche per l'interpretazione della sua opera maggiore. Per fortuna

uoll c ii cilso,ucsLo, nc dti pronunciarsi per P una o pcr PalLra delle duc

 

52                                                                                                 53

Ariosto

 

tesi, né di suggerire, tra le due, un acquiescente ‘‘ giusto mezzo ‘‘. I1 dilemma

è sostanziale alla realtà dell'uomo e del poeta: occorre accettarlo e appro~

fondirlo. E ci viene in aiuto l'Ariosto stesso, a saperlo ascoltare.

 

Si potrà far leva, invece di affrontare subito il poema, sulle Satire, il

suo scritto in cui l'elemento personale e autobiografico è posto, coraggiosa-

mente, in primo piano. Le Satire, si noti, appartengono alla maturità del

poeta, essendo posteriori al primo Furioso; n‚ c'importa di controllarne l'esat-

tezza documentaria, quando anzi quel tanto di idealizzazione e di stilizzazione

che ne lucida la superficie non fa che perfezionare l'immagine interiore del

l'Ariosto.

 

Le Satire hanno di rado, e solo parzialmente, uno scopo pratico (Sat.

Vl: il Bembo viene pregato di trovare un buon insegnante di greco per

Virginio) o didascalico (Sat. V: consigli al cugino Annibale Malaguzzi sulla

scelta della moglie e sulla vita matrimoniale); più spesso esse esprimono

il risultato della meditazione, che tende a trascolorare in autobiografia, sulle

vicende del poeta. Così, momenti tra i più decisivi della vita dell'Ariosto

ci appaiono nella luce in cui egli li vide o li ripensò: il rifiuto di seguire

il Cardinale in Ungheria (Sat. I); le sgradevoli esperienze a contatto con la

Curia romana, in occasione di pratiche per benefici ecclesiastici (Sat. 11); la

scelta d'una vita tranquilla e semplice presso il duca Alfonso, rinunciando a

maggiori ambizioni (Sat. 111); le difficoltà del commissariato in Garfagnana

(Sat. IV); il rifiuto del posto d'ambasciatore presso Clemente VII (Sat. VII).

Ogni volta le notizie sull'argomento della satira s'inseriscono nella prospettiva

della memoria e dell'autoanalisi, e danno l'avvio a un giudizio morale ora

bonario, ora vivacemente polemico. Intorno al giudizio si svolge un gioco

tra soggettivo e oggettivo, perché da un lato l'introspezione s'allarga, alle

svolte più vive del ricordo, in rappresentazione drammatica di episodi (I'in-

contro deludente con Leone X; le grandezze e le miserie del governo della

Garfagnana), dall'altro la meditazione moralistica si fa esempio concreto (il

cameriere spagnolo che difende dai postulanti il riposo del prelato; i corrotti

parenti e protetti del Papa; i mariti incapaci di farsi obbedire; i vizi e le

vanità degli umanisti) o si purifica in favola (la gazza e il pastore; i contadini

che voglion prendere la luna; il pittore premiato dal diavolo; la zucca e il

pero). L'autobiografia, insomma, svolgendosi secondo il ritmo del ricordo, si

sporge verso la favola; e la favola non ignora, nel suo breve volo, da che

suolo abbia preso il balzo per ritornarvi.

 

Il tono delle Satire è dunque un tono conversativo: modi familiari, anche

proverbiali, scl1erzi amabili, sì da ricordarc, più che leulireJ le Lpislole ora-

ziane. Ma la presenza, abbondante, di espressioni dantesche (che conferiscono

al lessico possibilità realistiche); ma la frequenza di definizioni concettose,

di suggestive brachilogie, di tagli violenti delle immagini (che rendono ro-

busto, persino asprigno, il tono di ccrte tcrzine, mostrano guallto sia lon-

tana, nella sostanza, la satira dcll'Ariosto da quella di Orazio, dcttata com'è

 

Ariosto minore

 

da un risentimento morale vissuto e sofferto, più che da saggezza edonistica.

Non devono insomma ingannare gli atteggiamenti rinunciatari, le lodi al-

I'abitudinarietà serena e alla sedentarietà meditativa: esse hanno una fun-

zione dialettica (mostrare nel risvolto delle rinunce la ferma volontà del-

IAriosto di tutelare il proprio lavoro di poeta) e una polemica (di fronte

alle bassezze dell'arrivismo e dell'ambizione).

 

chiaro, ora, che se anche poteva configurarsi per l'Ariosto come una

forma di violenza il fatto che necessità e volontà esterne gl'imponessero la

scclta dell'azione ai danni della contemplazione, a guardar meglio i due estre-

mi del dilemma venivano a integrarsi come polarità ed anzi complementarità

entro i confini del suo mondo poetico: I'invenzione, almeno nelle Satire, era

stimolata dalla realtà e di essa concretata. In più, la lettura delle Satire ci

scopre un altro nesso essenziale tra la vita e la poesia: la moralità, che così

spesso traspare, nobilitandole, al di là delle attitudini bonarie e af~abili

dcll'Ariosto. Traspare, nelle Satire; e s'impone, alta e libera, nelle lettere,

che alle Satire sono per molti rispetti vicine.

 

Non destinate alla stampa, esse sono scritte in occasioni concrete e con

linguaggio spoglio ed eì~lcace. Sulle relazioni a proposito di incarichi ricevuti,

sulle epistole di cortesia, sulle suppliche, prevalgono di gran lunga, anche

numericamente, le lettere inviate al duca di Ferrara durante il commissariato

di Garfagnana: tra le difficoltà del governo e le direttive contraddittorie del

principe, I'Ariosto scrive per dar notizie e suggerimenti, per ricevere ordini.

I.a concisa relazione dei fatti, svolta con segno netto e sicuro, diventa a volte

quadro unitario e potente; ma quella che si apre una strada sempre più ampia

tra una materia in fondo meschina, e reclama immediatamente la nostra at-

tenzione, è la rivendicazione d'una coscienza. Perch‚ la moralità dell'Ario-

sto, tesa all'universale nelle commedie e nel Furioso, posata sull'estuario della

meditazione nelle Satire, nelle lettere è ancora tutta carica del sentimento

che l'ha infiammata, erta e vibrante. Questa coscienza combattiva diventa,

nclla scrittura, quadro di situazioni rigorosamente spoglio, definizione di

programmi, rimprovero schietto e coraggioso al principe; diventa, e sono le

cose più belle, accorato esame di coscienza, abbattimento, esortazione. Il

carattere dell’Ariosto ci si apre insomma senza alcuna mediazione letteraria,

e tuttavia con un vigore di stile proporzionato alla statura umana dello

scrittore .

 

un carattere al quale, a costo di smentire l'Ariosto stesso, l'attitudine

all'azione dev’essere riconosciuta in alto grado. Gli Estensi sapevano valutare

i loro uomini; a ragion veduta, e confortati dalla qualità degli esiti, devono

aver deciso di affidare all'Ariosto, piuttosto che le varie e poco avventurose

mansiOni adatte a un poeta di corte, quelle, oltre che di governatore, d'inviato

diplomatico anche in frangenti difficilissimi. Del resto, la chiarezza dei giu-

 

;l;C;, la capacit.l cli dominarc raziolla]mcnte i fatti contcmporanei,

ri~ulta da lanlc p~gindcl F~lrioso; c risulta ancor più da una Icttura diacro-

nica, che commisuri ai mutamenti politici gli ampliamenti e i ritocchi subiti,

in tre successive edizioni, dal poema.

 

L'opzione che l'Ariosto vagheggiò, e pot‚ appena attuare nei suoi ultimi

anni, era solo apparentemente antitetica a quella impostagli (n‚ le erano

estranei motivi di salute e motivi sentimentali). Dominare idealmente i fatti

invece d'esserne protagonista, significava per lui integrarli in un disegno più

ampio, di cui fossero oggetto non gli uomini e le passioni dell'ora, ma quelli

di sempre. Ed è qui che vien meno il parallelismo più volte, e opportuna-

mente, proposto col Machiavelli: il quale ansioso, a differenza dell'Ariosto,

di agire sugli avvenimenti, si dovette accontentare di teorizzarne le leggi.

Perch‚ quello del Machiavelli era un interesse esclusivo, per i fatti politici

e per il loro sottofondo storico, mentre per l'Ariosto il fatto politico appare

soltanto come una delle configurazioni assunte, nel suo attuarsi, dalla vita

degli uomini: una vita infinitamente variegata e misteriosa.

 

A questo punto la polarità azione-contemplazione, dopo esserci apparsa

prima come inerente alla natura, anzi alla moralità dell'Ariosto, poi come

operante nei rapporti tra esistenza e rappresentazione poetica, ci si rivela fi-

nalmente come punto decisivo di orientamento nella formulazione stessa degli

oggetti della poesia. L'aspirazione a un'analisi acuta e totale delle passioni

umane da un lato entrava in concorrenza col libero dominio della fantasia

dall'altro incontrava le resistenze d'una tradizione letteraria classicistica (al-

ludo insieme al gusto del maturo Umanesimo e a quello del petrarchismo bem

besco), portata soprattutto a eleganti e cristallizzate trasfigurazioni di tipo

lirico. Questi contrasti e queste antinomie verranno superati (si vedrà) nel

Furioso; ma ci appaiono scoperti nell'attività poetica che lo precede (la li-

rica latina) e in parte ne accompagna l'elaborazione, quasi come una frangia

sperimentale (le Rime). Essi spiegano anzi, meglio di quanto non si sia

fatto, perché quest'attività sia in parte un'attività minore, servile, in parte

un'attività carica di straordinari fermenti innovativi, che però, condensandosi

tutti nel poema, non raggiunsero una vera autonomia e lasciarono scarse

tracce nella lirica rinascimentale.

 

Le liriche latine risalgono in gran parte alla giovinezza del poeta (1494-

1504 circa). Alcune sono poco più che esercizi scolastici; in altre la tecnica

è già matura e appaiono, in nuce, atteggiamenti e invenzioni degni del mag-

giore Ariosto. Si tratta di epitaffi, di epigrammi spesso incisivi e spiritosi, o

galantcmente ironici, ma soprattutto di carmi dove gli accenni, spcsso con-

vcnzionali (sulle orme di Catullo, Orazio, Ovidio...ai primi amori, si me-

scolano con quelli nostalgici e affettuosi ai cari e dotti amici (Ercole Strozzi,

Pandolfo Ariosto, Pietro Bembo, Alberto Pio, Michele Marullo) e al maestro

Gregorio da Spoleto, ai lieti soggiorni in villa e alle fervorose illusioni della

giovinezza Tra le composizioni d'occasione l'Epitalamio (di tipo catulliano)

pcr lc nozzc di `ollso d'Este con Lucrczia Borgia (1502): escmpio di fc-

lìcc evocazionc classica.

 

Ariosto minore

 

La musa latina fu presto abbandonata dall'Ariosto (contro il parere del

Bembo); egli deve aver sentito che la resistenza del ‘‘ genere ‘‘ era accentuata

da quella della lingua, dall'artificiosità stessa dell'intento. Le liriche latine

restano poco più che come primi tentativi sulla strada della poesia; oltre che

come segni di una familiarità con gli autori classici e con i loro valori formali,

che darà risultati ben più superbi nelle ottave del poema.

 

Più interessanti, sulla linea del nostro discorso, le Rime; anche se esse

costituiscono un settore senz'altro periferico dell'opera del poeta.

 

Tolti alcuni componimenti d'occasione, le liriche sono quasi tutte amo-

rose; ed escono dalla convenzione petrarchistica (pur se ne sono sensibili le

tracce, insieme con quelle del gusto bembesco), per nettezza e immediatezza

d'immagini, per pienezza di sentimento e calda sensualità (sì da mostrare

piuttosto la profonda assimilazione degli erotici latini). Più che lo schema

chiuso della canzone, si confaceva all'Ariosto quello aperto del capitolo:

non per nulla un intero capitolo fu assorbito nel Furioso, e altri fornirono

materiali figurativi. Nei capitoli infatti l'Ariosto può soddisfare la sua voca-

zione narrativa e svolgere, oggettivandole, intere situazioni sentimentali,

quasi a saggiare, in un'analisi più decisa, la fenomenologia amorosa: la tran-

sizione dall'atmosfera magica dell'attesa all'esultanza del piacere; l'incontro

improvviso della freddezza da parte d'un amante felice; il tentativo, fallito

anche di fronte allo spettacolo del dolore, di attutire o scordare le pene

amorose; l'attesa febbrile d'un'innamorata, mentre l'uomo è lontano e forse

dimentico di lei; e così via. chiaro, anche a un'enunciazione spoglia dei

temi, che l'Ariosto lirico è più vicino all'Ariosto narratore che agli altri lirici

del Cinquecento: insofferente dei complessi schemi metrici e della stilizza-

zione neoplatonizzante, egli disegna nel più lineare andamento del capitolo

quadri in cui il gusto contemplativo abbellisce senza sacrificarla la narra-

zione d'una vicenda: in particolare d'una vicenda del sentimento.

 

Far agire dei personaggi; evocarne le voci; annodarne i movimenti; ri-

crearne lo sfondo ambientale: queste le possibilità offerte all'Ariosto, ben

più che dagli altri ‘‘ generi ‘‘, dalla forma drammatica; ma subito limitate, è

naturale, dalle trame convenzionali ereditate dalla commedia latina (a cui

egli si collegava nel comporre, primo non solo in Italia, commedie in volgare,

e nell'alternarle a traduzioni dirette da Plauto e da Terenzio), dall'indole

mondana che le rappresentazioni necessariamente assumevano nel quadro

della cortc ducale. E tuttavia queste possibilità devono essere almeno ba-

lcnate nella mente del poeta, se egli compose, e ritoccò e rifece, un bel nu-

mero di commedie e se mise tanta passione anche nell'opera di regista. E

 

pare di scorgerne una crescente consapevolezza quando si esaminino le com-

medie nella loro successione.

 

Nella Cassaria e nei Suppositi (1509) l'Ariosto ricorre dichiaratamente al

modello classico della co11talatio: personaggi e situazioni dei modelli

latini intrecciati in una nuova trama. Anche i temi sono quclli della com-

Ariosto

 

media classica: amori di giovani nobili per schiave, e inganni dei loro servi

ai danni del ruffiano (Cassaria); scambi di persona tra padrone innamorato

e servo, antagonismo tra giovane e vecchio pretendente, agnizione finale

(Suppositi). Cassaria e Suppositi furono composte dapprima in una prosa con

un andamento vagamente boccacciano e non senza tracce umanistiche e dia-

lettali; più tardi (1528-31) l'Ariosto le rifece in endecasillabi sdruccioli sciolti,

così da riprodurre il ritmo dei senari giambici. Esse assumevano in tal modo

un andamento più armonioso, anche se un po' monotono; ma soprattutto frui-

vano delle successive esperienze stilistiche e linguistiche del poeta. Diretta-

mente in endecasillabi sdruccioli furono composte le altre commedie del-

l'Ariosto, con trame di tipo più novellistico e con riferimenti diretti al mondo

contemporaneo. I1 Negromante (1520) è basato su un quadrangolo amoroso

complicato da nozze segrete e matrimoni imposti e non consumati, il negro-

mante imbroglione porta, nonostante i suoi errori, anzi grazie ad essi, a felice

conclusione ogni difficoltà. Gl'intrighi della Lerla ( 152 sono piuttosto di

ordine psicologico: circondano senza toccarlo il nucleo dell'amore tra due

giovani, e fanno invece risaltare il complesso personaggio cui l'opera s'in-

titola e l'ambigua situazione in cui esso muove. Ancora una serie di sosti-

tuzioni di persona negli Studenti, che però l'Ariosto lasciò incompiuta la

commedia fu conclusa da suo fratello Gabriele (La scolclstica) e da suo f;glio

Virginio (L'imperfetta).

 

Cesare SEGRE

 

(da L. Ariosto, Opere, a cura di C. Segre, vol. I, Milano, Mondadori, 1954,)

 

L'ARMONIA ARIOSTESCA

 

Le parole di amore e nostalgia, di amicizia e rimpianto, di stizza e in-

dignazione contro i principi poco curanti dei poeti, d'impazienza e disprczzo

verso il volgo ambizioso, e altrettali, sono, nelle liriche e nelle satire, assai

piU dirette e vivaci; e chi ne avesse vaghezza potrebbe mettere perfino in

parallelo alcuni concetti simili delle une e dell'altro, diversamente intonati nei

due divcrsi luoghi. Sc l'Ariosto avesse sempre trattato quei sentimenti nella

loro immcdiatczza, avrcbbc continuato a comporre canzoni, sonetti,  epistole e

satire, e non sarebbe asceso al Furioso. Anche per la materia cavalieresca, per

le cortesie, le armi e le audaci imprese, è dato per lo meno intravedere quel

che essa sarebbe diventata se fosse stata svolta nella sua immediatezza, esa-

minando il frammento del poema su Obizzo d'Este: o che esso appartenea

agli anni giovanili dell'Ariosto, precedendo la composizione del Furioso, o che

 

L'armonia ariostesca

 

(com'è più probabile sia un tentativo posteriore al compimento e alla prima

edizione di questo. C'è, in quel frammento, grande limpidezza e fluidità nar-

rativa; ma s'intende che, se il poeta fosse andato innanzi così, sarebbe stato

nient'altro che un elegante cantastorie; e cantastorie egli non era e non voleva

esscre, e perciò intermise l'opera iniziata. E se avesse versificato i suoi scherzi

sulle cose sacre sarebbe riuscito un arciere di motti arguti, un congegnatore

di sorprese buriesche, che avrebbe versato il ridicolo su frati e santi; e l'Ario-

sto sdegnava questo mestiere, egli di cui si ricordano grandiose distrazioni

ma non motti né lazzi, troppo sognatore, troppo fine artista da compiacersi in

consimili effetti.

 

A ridurre le dilettose storie cavalleresche e gli scherzi capricciosi a poesia,

e la piccola poesia erotica o narrante e ragionante a più complessa poesia, e

far compiere il passaggio e l'ascesa dalle opere minori alla veramente mag-

giore, a mediare l'immediato, operò il sentimento dell'Armonia, trasformando

quci vari ordini di sentimenti particolari nel modo che ci facciamo a con-

siderare.

 

Il primo cangiamento ch'essi soffersero non appena vennero toccati dal-

l'Armonia che cantava in fondo al petto del loro poeta, si manifestò nella

perdita della loro autonomia, nella sottomissione a un unico signore, nella

discesa da tutto a parte, da motivi ad occasioni, da fini a strumenti, nel mo-

rire di essi tutti a beneficio di una nuova vita.

 

La forza magica, che compiva questo prodigio, era il tono dell'espres-

sione, quel tono disinvolto, lieve, tramutabile in mille guise e sempre gra-

zioso, che i vecchi critici chiamavano ‘‘ aria confidenziale ‘‘ ed enumeravano

tra le altre ‘‘ proprietà ‘‘ dello ‘‘ stile ‘‘ ariosteseo, ed in eui non solo eonsiste

intero lo stile, ma, poieh‚ lo stile non è altro ehe l'espressione del poeta e la

sua anima stessa, eonsisteva tutto intero l'Ariosto, eol suo eantare ar-

monioso.

 

Palpabile è quest'opera di svalutazione e distruzione, eseguita dal tono

espressivo, nei proemi dei singoli eanti, nelle digressioni ragionanti, nelle os-

servazioni intercalate, nelle riprese, nei voeaboli adoperati, nel fraseggiare e

nel periodare, e soprattutto nei frequenti paragoni ehe formano quadri e non

rinforzano la eommozione ma la divagano, e nelle interruzioni dei raeeonti

talvolta nel punto loro più drammatieo, eon gli agili passaggi ad altri rae-

eonti di diversa e sovente opposta natura. E nondimeno eiò ehe vi ha di pal-

pab;le, di rcttoricamente isolabile e analizzabile, è solo piecola parte del

tllttO, dcll'impalpabile, che scorre come sottile fluido, e non si laseia afferrare

eon ordigni seolastiei, ma, anima qual'è, si sente eon l'anima.

 

E questo tono è altresì la tante volte notata e denominata, e non mai bene

determinata ironia ariostesea: non bene determinata, pereh‚ è stata per solito

riposta in una sorta di seherzo o di seherno, simile e coincidente con quello

cllc l    nl~a talvolta nel contemplare le fi’‘~nc e le avventure caval-

leresche; e così e ;ccadu~o di resLrillgclla e rllaLcrializzarla a un tempo. .la

Ariosto

 

ciò che non bisogna perdere di vista è, che quell'ironia non colpisce già un

ordine di sentimenti, per esempio i cavallereschi o i religiosi, risparmiando

altri, ma li avvolge tutti, e perciò non è futile scherzo, ma qualcosa di assai

più alto, qualcosa di schiettamente artistico e poetico, la vittoria del motivo

fondamentale sugli altri tutti.

 

Tutti i sentimenti, i sublimi e gli scherzosi, i teneri e i forti, le effusioni

del cuore e le escogitazioni dell'intelletto, i ragionamenti d'amore e i cata-

loghi encomiastici di nomi, le rappresentazioni di battaglie e i motti della

comicità, tutti sono alla pari abbassati dall'ironia ed elevati in lei. Sopra l'e-

guale caduta di tutti, s'innalza la maraviglia dell'ottava ariostesca, che è cosa

che vive per s‚: un'ottava che non sarebbe sufficientemente qualificata col

dirla sorridente, salvo che il sorriso non s'intenda nel senso ideale, appunto

come manifestazione di vita libera ed armonica, energica ed equilibrata, bat-

tente nelle vene ricche di buon sangue e pacata in questo battito incessante.

 

Benedetto CROCE

 

(Da Ludovico Ariosto, Bari, Laterza, 19513, pp. 62-67.)

 

COME LAVORAVA L'ARIOSTO

 

Correggere, per la discrezione ariostesca, era prevedibile che significasse

anzitutto arte del levare. S'è veduto dianzi come l'innalzamento del tono s'in-

scrivesse nel capitolo più generale dell'armonia; ma questa si tradurrà Con

prevalenza statistica in abbassamento di tono. E si comincia dal caso mi-

nimo, cioè a dire l'abbassamento in quanto risulti da uno spostamento di pa-

rola: in ‘‘ Che tutte poi spargon per l'aria i venti ‘‘ il ‘‘ poi ‘‘ è trasportato

dietro ‘‘ spargon ‘‘; la iattanza di ‘‘ Vedrete altrove il falso amor rivolto ‘‘

si spenge nella modestia quasi bruttina di ‘‘ Vedrete il falso amor altrove

volto ‘‘ (poi: ‘‘ ... tolto... e altrove volto ‘‘). Le contraddizioni a codesta norma

di soffocazione sono infatti illusorie. Si tratterà, ad esempio, di riformare

questo passo (IX 24):

 

Quei giorni che con noi contrario vento

a' Biscaglini, a me propicio, il tenne

(che f~lr quaranta agli altri, a mc Ull momcnto

così al fuggire hebbon veloci penne)

 

nel senso di sottolineare, al secondo e terzo verso, l'antitesi retorica:

 

Contlalio agli altri, a mc propizio, il tcnne

(ell'agli altri fur quaranta...

 

Come lavorava l'Ariosto

 

in effetti, l'accentuazione apparente dell'artificio è aumento d'intimità, per

l'innamorata Olimpia. Anzi, l'alessandrinismo è l'individuato nemico del-

l'Ariosto. Se un particolare erudito, poniamo geografico, tende a ‘‘ localiz-

zarc ‘‘ in senso ornante, viene senz'altro soppresso. In una delle ottave sullo

Scudo, l'Isola Pcrduta, già ‘‘ di là da Tile oltre il gran polo asisa ‘‘, si fa

‘‘ di là dal polo e il mar di gelo asisa ‘‘. Altra volta si sostituisce l'onesto

nome (‘‘ E tosto che l'Aurora fece segno ‘‘) a una vana perifrasi letteraria

(‘‘ l~in che l'amica di Titon fe' segno ‘‘). E fin qui il procedimento è negativo,

si limita ad eliminare- ma spesso l'eliminazione ha un ‘‘ sottoprodotto ‘‘ po-

sitivo: elementi liricamente essenzialissimi, scoperti lungo la strada, surro-

gano elementi alessandrini. Così nel prologo dcl canto XII (dei prologhi sia

dctto, qui in parentesi, che sulla scorta dei manoscritti il Debenedcttil ha po-

tuto dimostrare inoppugnabilmente la posteriorità rispetto ai canti relativi):

 

Cerere, poi che da la madre Idea

tornando in fretta alla sicania valle...;

 

questo neghittoso ‘‘ epithe~on ‘‘ sostanzialmente ‘‘ ornans ‘‘ è espunto e sosti-

tuito dal pateticissimo ‘‘ solinga ‘‘. Stesso, stupendo, guadagno (anzi qui il

guadagno è quasi doppio) in un'altra apertura d'ottava (XLVI 59):

 

Quale il nettunio Egeo rimase quando

si fu alla mensa inhospitale accorto...;

 

‘‘ nettunio ‘‘ diventa ‘‘ canuto ‘‘, di più ‘‘ inhospitale ‘‘ diventa ‘‘ scelerata ‘‘.

Si viene trapassando dall'epillio ovidiano alla oceanica ed argonautica mito-

logia del Paradiso; ma questa qui è anche più spoglia di sontuoso prestigio

a priori.

 

E cogliamo finalmente il processo antialessandrino dell'Ariosto in due

specificazioni estreme. L'una è il passaggio dal determinato all'indetermi-

nato: intendiamo il determinato di Myricae e dei Conviviali (onesto in sede

di poetica, ma insomma contemporaneo dell'ldioma gentile), l'indeterminato

dell'Infinito e di A Silvia. Del paladino che naviga fuori della Schelda era

detto (IX 90):

 

E così, poi che dei guadosi stagni

ncl più profondo mar si vide uscito,

sì che non appariano li vivagni

del destro più, n‚ de1 sillisiro lito...

 

Santorrc Debenedetti (1878-1948, filologo, professore di letterature romanze a

Torino.a studiato la letteratura italiana in particolare dalle origini al Cinque-

 

I Oiu I uri(J~u (l).

Ariosto

 

Si noti che v'era già progresso: gli stagni erano stati ‘‘ salati ‘‘, il mare aveva

cominciato ad essere ‘‘ periglioso ‘‘. Ma al termine del procedimento elabo-

rativo sta la pura essenza marina:

 

E così, poi che fuor de la marea...

sì che segno lontan non si vedea...

 

La seconda specificazione è lo smorzamento d'un fantasma autonomo, antro-

pomorfico, che è sottomesso all'unità fondamentale dell'ottava. Troviamo,

proprio sull'inizio del primo frammento (IX 8), un fiume quasi mitologico,

 

che facea gonfio e bianco andar di spume

la nieve sciolta e le montane piove:

ed è ridotto a descrittivo, elemento di natura:

 

Ch'alhora gonfio e bianco iva di spume

per nieve sciolta e per montane piove:

 

(I'‘‘ iva ‘‘ diventerà poi ‘‘ era ‘‘, poi ancora ‘‘ gia ‘‘ nella stampa. Trionfa

altrove (XXXVII 110) un torrente mitologico (‘‘ Come torrente che superbo

faccia Lunga pioggia talvolta o nievi sciolte ‘‘~; ma quello resterà, come al-

legoria di Marganorre; e l'aggiunta, dunque la differenziazione, è dello stesso

tempo: fase revisoria dell'edizione del '21.

 

Ma come chiameremo, con precisione lessicale, i processi antialessandrini

che siamo venuti descrivendo? Certamente, processi distruttivi; e ricordiamo:

‘‘ Palpabile è quest'opera di svalutazione e distruzione... E questo tono è

altresì la tante volte notata e denominata, e non mai bene determinata ironia

ariostesca... ‘‘ (Croce. Così più su s'era dovuto definire con l'esatto nome il

proprio contenuto del Furioso: ‘‘ I1 primo cangiamento ch'essi (sentimenti par-

ticolari) soffersero non appena vennero toccati dall'Armonia..., si manifestò

nella perdita della loro autonomia, nella sottomissione a un unico signore

nella discesa da tutto a parte... ‘‘. E quanto dire: la direzione costante che

s'individua nel lavoro correttorio dell'Ariosto si trova a coincidere perfetta-

mente con la miglior descrizione caratterizzante che sia stata data fin qui

dalla sua poesia. In relazione al nostro discorso di sopra, si obiettera forse che

qlicllo dell'Ariosto è un caso limitc, e chc in lui infa~ti esistc solo po.sia

e non poetica? Basti, dopo troppi altri accenni teorici, avere insistito ancora

una volta su quanto tende a convertire direttamente questo caso particolare

in un paradigma generale.

Gianfranco CONTINI

 

(Da Escrci i dula, I ilCllZC, LcIonlli~r, 19', pp.>ìS-,21.)

 

Geografia ariostesca

 

GEOGRAFIA ARIOSTESCA

 

Quando, presa coscienza della ricchezza dell'arte ariostesca e della sua

< coscicnza ‘‘ per nulla innocente, penetriamo nel mondo dell'Orlando, ci

scntiamo attratti in un viaggio che si svolge complesso e vario in uno spazio

e in un tempo di originalissima dimensione: spazio illusorio e pur non car-

tacco, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente rafforzate, in

cui collabora un tempo ora fugace ora rallentato, intimo della libertà della

mcmoria e pure clliaro e fluido come la divisione delle giornate reali. La

geografia del viaggio ariostesco è ricca e sfumata, a volte preciso paradiso

naturalistico come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di una

~uropa mcdioevale che all'Ariosto veniva dall'epopea cavalleresca: le brume

scttentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra di Francia. Atmosfera

romanza che porta il suo fascino speciale nella chiara serenità rinascimen-

talc, la sua natura di presupposto della formazione fantastica dell'uomo mo-

dcrno, di riferimento sicuro ai sogni, al bisogno di errare e di evadere;

atmosfera che collabora suggestivamente con il paesaggio ariostesco che il

pocta evoca con estrema semplicità, ma su misure soprareali mai preten-

dcndo di farne un protagonista dichiarato del poema. Non insiste cioè a

dcf;l~rlo come autonomo, e anche quando siamo di fronte a paesaggi pre-

cisi e definiti (I'isola di Alcina, il castello di Atlante) essi non ci ven-

gOIlo imposti mai come fine ultimo di una descrizione, ma sono sempre pronti

a sfasarsi, a dileguare in quella specie di carta geografica fantasiosa e non

grottesca che rende favolosi gli spazi, le proporzioni della terra pur nutren-

dosi di un senso caldissimo di spazio vissuto, di aria impastata di luci, di

ombre, di oggetti. I1 paesaggio ariostesco è perciò sempre intonato nella sua

varietà: a volte assume l'aria di un volo sulla carta animato da brama di

viaggio, come nel XXXIII (96-101), in cui, dopo le avventure di Ullania,

I'Ariosto si sbizzarrisce per ben sette ottave in un rapido raccorciamento

di distanze punteggiate di nomi in un elenco sempre più denso, gustoso per

i nomi italianizzati e più per lo sfogo esuberante di questo vagare senza

scopo immediaìo A volte invece tutto si riduce ad un brevissimo accenno

che supera il puro gusto pittoresco in più larghe prospettive e in valore

mnsicale.

Nomi esotici adoperati con estrema familiarità come se quel mondo ster-

minatO fosse percorribile in poco tempo (e il tempo stesso è del tutto appros-

mati~o sì che avvcnture bre~/issillle non vcngono circoscritte e si allungano

n1jo indctcrato: ‘‘ una ‘‘ sa, ‘‘ un ‘‘ giorno c lunglli viaggi si

puntualizzano potentemente), geografia che è motivo di continua freschezza

per la poesia ariostesca ncl suo continuo dislocarsi in ambienti diversi che

agisconO a sollecitare il ritmo della fantasia, a caricarlo di nuovi moti e di

nuove suggestioni ed arricchendosene in un'unica atmosfera avventurosa e

Ariosto

 

A volte i paesaggi fluiscono in movimento (e questa è loro giustifica-

zione più naturalmente musicale), a volte si coagulano brevemente non in

quadri a s‚ stanti, ma in giri più calmi che funzionano da preludio a scene

più mosse. Così nel VI (35), il paesaggio fiabesco ed orientale del castello

di Alcina che precede la gioiosa pesca e l'avventura di Astolfo:

 

E come la via nostra e il duro e fello

distin ci trasse, uscimmo una matina

sopra la bella spiaggia, ove un castello

siede sul mar, de la possente Alcina.

Trovammo lei ch'uscita era di quello,

e stava sola in ripa alla marina:

e senza rete e senza amo traea

tutti li pesci al lito, che volea.

 

Ed anche nelle famose quattro ottave del VI (20-23) in cui si presenta

per la prima volta il paradiso alcinesco, in quel paesaggio quasi troppo

dolce, quasi di una raffmatezza polizianesca resa più sinfonica e più matura,

dopo la presentazione emblematica del nuovo motivo naturalistico

 

(culte pianure e delicati colli,

chiare acque, ombrose ripe e prati molli)

 

e la pienezza delle due ottave centrali, nell'ultima, dopo le agili manovre

di Ruggiero, il paesaggio dell'isola riappare con tanta maggiore suggestione

in una potenza essenziale resa con accenni più lineari e puri:

 

poi lo lega nel margine marino

a un verde mirto in mezzo a un lauro e un pino.

 

Dopo la profusione vegetale di prima, quei tre alberi, mirto, lauro e

pino, son come dei colori puri che ci permettono una distinzione maggiore

di tutto il quadro su quello sfondo di mare con una prospettiva più pro-

fonda e meno sfumata.

 

Nel scnso più sottile del paesaggio non mancano brevi idilli con un mag.

gior limite di rabesco autonomo e prezioso, ma quasi sempre il loro valore

rifluisce nel ritmo generale che supera ogni possibile chiusura calligrafica (v.

XI, 45), e il pittoresco è quasi sempre colto con estrema rapidità, senza

compiacenza di esercizi descrittivi

 

(il manigoldo, in loco inculto et ermo,

pasto di corvi e d'avvoltoi lasciollo. XXXII, 9~

 

o è superato in musica da simmetrie che insieme sono traduzioni del gusto

di pi-oporzionc rinascilllclltale e~l cs~razinc siilisc:

 

L'ottava dell'Ariosto

 

Tra duri sassi e folte spine gia

Ruggiero intanto invcr la fata saggia,

di balzo in balzo e d'una in altra via

aspra, solir~ga, inospita e selvaggia;

tanto che a gran fatica riuscia

su la fervida nona in una spiaggia

tra '1 mare e '1 monte, al mezzodì scoperta,

arsiccia, nuda, sterile e deserta.

 

~VIII, 19);

 

o serve di accrescimento fantastico di un paesaggio come in questo quadro

c~li viene aggiunta quasi una nuova dimensione con l'introduzione di una voce

(il frinire della cicalache in un silenzio opprimente di estate meridionale e

dcsertica delinea spazi profondi e soprareali senza decadere in particolare

prczioso marinistico:

 

Percuote il sole ardente il vicin colle,

e del color che si riìlette a dietro,

in modo l'aria e l'arena ne bolle,

che saria troppo a far liquido il vetro.

Stassi cheto ogni augello all'ombra molle:

sol la cicala col noioso metro

fra i densi rami del fronzuto stelo

le valli e i monti assorda e il mare e il cielo.

(VIII, 20)

 

Walter BINNI

(Da Metodo e poesia di Lodovico Ariosto, Messina-Firenze, D'Anna, 1947,

pp. 121-125.)

 

L'OTTAVA DELL'ARIOSTO

 

Che cosa avrebbe risposto l'Ariosto se richiesto, sulla ottava del Poli-

ziano, che, come si sa, fu tutta una felice infrazione al segno limpido della

sua origine, dell’ottava, dico, come pura forma, come idea perfetta?

 

L’ottava polizianesca si descrisse già. Piccoli strumenti, ciascuno col suo

tl~hl-o nettissimo, anzi un poco agro; un sottile sapore di terra e d'ingegno.

Ricordano quelle zone celesti, quand'è cessato il tumulto della grande or-

chestra; o certe esecuzioni sinfoniche, dove il maestro badi a conservare la

distinzione delle diverse zone e parti, fino nelle minime pieghe e ombre,

non a fondere quelle zone e parti, e a farne, come dicono, uno strumento

L,Ll~lc m;llltencle distinte tutte le voci, fino alla insolTribile

 

64                                                                                                65

Ariosto

 

acuità; e fare che il miracolo avvenga per sé, direi per magia, dentro di noi,

in un secondo tempo, in un tempo stregato.

 

Ma che cosa avrebbe risposto l'Ariosto? Pensate: un intreccio di due

rime nei primi sei versi, che si riprendono alternamente, in fuga, e due rime

baciate in ultimo, a ribadire il circolo, ma anche a lasciarlo in sospeso, su

una nota forte, per quell'arresto subitaneo.--In principio era l'ottava--

avrebbe detto; quella pura forma, quell'idea folgorante nell'ordine delle rime,

e nei due tcmpi, l'uno scorrente, l'altro raccorciato.

 

Rispettare questi tempi fissi; fare, della fisica, metafisica, trascenderla

nella sua stessa legge. Da che piglia forza il corso dei primi sei versi? dal-

l'esser tutto come contratto in sé, e pronto a sciogliersi, dimostrarsi; essere

cioè, avanti, come ‘‘ in mente dei ‘‘, dell'artista dico, e di lì spiegarsi. Poi

con un atto di prepotenza, frenarlo. E in quell'atto sarà il segreto, come dire

in astratto, o solo pensato, d'un'altra ottava, quella seguente. All'origine, quasi

forma popolaresca da intrattenere narrando, l'ottava ariostesca si disegna

come una idea platonica, una pura sigla; e ritiene un resto di popolaresco,

di terrestre, che passa per altri umori, in quei due versi ultimi a rima baciata.

Lì più ride l'Ariosto, col suo volto di uomo.

 

Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!

Eran rivali, eran di f‚ diversi

e si sentian degli aspri colpi iniqui

per tutta la persona anco dolersi;

e pur per selve oscure e calli obliqui

insieme van senza sospetto aversi.

Da quattro sproni il destrier punto arriva

onde una strada in due si dipartiva.

 

Citata, ricordata, ammirata (proprio con meraviglia) sempre; non so se

mai si citasse, ricordasse, ammirasse per quel prepotentissimo primo verso,

come folgorazione improvvisa della mente, da cui si sciolgono i cinque versi

seguenti, fino all'ultimo: a Insieme van senza sospetto aversi ‘‘. Quell'idea

s'ingagliardisce (che sono quei ‘‘ quattro sproni’‘?) nel settimo verso, ma

l'armonia ha da rompersi di necessità: è l'imprevisto, è la sorte, che così

rimerita la ‘‘ gran bontà de' cavallieri antiqui ‘‘ (ecco una strada che ‘‘ in due

si dipartiva ‘‘). I1 bene, ogni bene, nella vita, dura così poco. Com'era glo-

riosa la coppia di versi della strofa precedente, il grido fiducioso del prin-

cipio di questa, lì appunìo nato, dirci scoccato (‘‘ Con preghi invita, ct al

fin toglis in groppa,--e pcr l'orm d'AnOclica galoppa ‘‘: ‘‘ Oh gran bonlà

de' cavallieri antiqui ‘‘). E tuttavia non se ne farà nulla...

 

Senza uscire ora dal primo canto (noi ne andiamo facendo una lettura

sintomatica), e per vedervi riconfermati tanto l'unità dell'ottava ariostesca,

quanto i due diversi toni e impuls nci sei e due versi (ma nel Poliziano,

sempre i quattro distici come elementi dcll'oitava concertante; qua~iro di

 

L'ottava dell'Ariosto

 

pari grado e come concorrenti a gara a uno scopo), per veder tutto questo,

cominciamo dall'inizio, che non ricava altro che da s‚ quell'‘‘ incipit ‘‘. Ottava

così scorrente e ritmata che si potrebbe leggerla e contarla senza uno sbaglio

(quelle poche virgole a che servono?). Ma il mutamento agli ultimi due versi

scmpre nettissimo; e se mai, si avvale d'un resto del verso precedente, che

infatti canta a distesa: ‘‘ ... che si di‚ vanto.--Di vendicar la morte di

Troiano--Sopra re Carlo imperator romano ‘‘ (e non fu, come si sa, un

semplice vanto). C'è di più, in questi esempi del comporre, a volte di tal vena,

ch'essa prorompe di ottava in ottava. Le ottave, intanto, cinque-sette; tutto

un periodo, un seguito di parti che si dan la mano, e passano; da quell'‘‘ Or-

lan~lo ‘‘ al principio, a quel ‘‘ tolse ‘‘ della fine: una intera storia; e di ottava

in ot~ava non s'allenta il corso (‘‘ Re Carlo era attendato alla campagna,--

Per far al re Marsilio e al re Agramante... ‘‘, ‘‘ Ma tosto si pentì d'esservi

giunto;--Che vi fu colta la sua donna e poi... ‘‘). E si ferma un poco alla

fine dclla settima ottava; ma subito le ottave otto-nove, a far delle due tutto

uno (‘‘ ... e di‚ in mano al duca di Bavera;--In premio promettendola... ‘‘.

 

S'è detto, s'è dimostrato che i due ultimi versi di ciascun'ottava hanno in

s‚ tanta riserva di forza, che ne prestano a quella seguente; e qualche volta

(raa è più d'una volta: saranno due e trecento, con un artific;o antico (le

‘‘ coblas capfinidas ‘‘), l'ultima parola del verso ottavo è ripresa al principio

dall'altra che gli vien dietro (‘‘ Ma seguitiamo Angelica che fugge--Fugge

tra selve... ‘‘; e nello stesso canto, poco innanzi, riprendendo non già una

parola, ma un gruppo di parole (‘‘ Tanto girò, che venne a una riviera.--

Su la riva Ferraù trovosse... ‘‘). Or dunque la trentatre, con quello scatena-

mento nell'attacco, offre novità parecchie, in un ordine di simmetrie.

 

Fugge tra selve spaventose e scure,

per lochi inabitati, ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi e di verzure,

che di cerri sentia, d'olmi e di faggi,

fatto le avea con subite paure

trovar di qua di la strani viaggi;

ch'ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

 

La strofa si muove al centro, nei quattro versi mediani, con un giro

perfetto, su una sospensione del periodo che matura proprio nel mezzo,

coll'inizio del quinto verso; e s'apre coi primi due versi, con quell'idea di

lu ,apaventata, si conchiude con gli ultimi due, col d.,re la ragione SCll-

sibile della fuga stessa. Ma c'è, in tutta l'ottava, una simmetria e una re-

gola più segreta (nei versi in sede pari, l'accento ribattuto sulla sesta e set-

tima sillaba, a rcndere, forse, la ir.lpressione dello spavento, che di tempo

ill tcnl;o si innova piu viva; e n~i vcrsi in scde dispari, un andamento

n~rmtivo, a prcpararc pcr via di contrasto l'..ssalto di spavento nci versi pari).

 

66                                                                                                67

Ariosto

 

E per rinsaldare la simmetria: il primo e il quinto verso, tutti e due comin-

cianti con un forte accento, sulla prima sillaba (‘‘ Fugge tra selve... Fatto

le avea... ‘‘). Quando si dice che lo studio delle varianti a poco o nulla

serve (chi lo dice?).

 

Ora ecco, al quarto verso, l'Ariosto era rimasto imp;g ato in una serie

stracca di nomi: ‘‘ Di cerri, d'olmi, abeti, pini e faggi ‘‘ (il troppo stroppia,

è verissimo detto), che uniti ai due altri del verso precedente: ‘‘ de le frondi

e di verzure ‘‘, accrescevano la confusione. E nessun riìlesso sull'animo della

fuggiasca, che pur si richiedeva, per dar sostegno a ‘‘ Fatto le avea con su-

bite paure... ‘‘ (anche per motivarlo a dovere). Pure, col pensarci (ch‚ l'er-

rore resiste nell'edizione del '16 e in quella del '21), comincia coll'insinuare,

subito dopo ‘‘ cerri ‘‘, il verbo a sentia ‘‘, toglie a abeti ‘‘ e a pini ‘‘, che fa-

cevano a pugni per diversità... a climatica ‘‘; e, fosse caso o consumata finezza,

restituisce, anche a questo verso, l'accentuazione degli altri versi in sede pari,

l'accentuazione ribattuta.L'ho vista io, poteva averla vista e voluta messer

Ludovico, no?).

 

Per concludere; e richiamandoci al principio esposto sull'ottava ario-

stesca (una a tesi ‘‘ prolungata, un'a arsi ‘‘ scattante, stretta, ed essa vive an-

cora negli a incipit ‘‘); quest'ottava ha il suo luogo di forza ad ogni chiusura.

E i fulminei passaggi debbono qualcosa a quel ritmo a rubato ‘‘, e qualcosa,

pur esse, debbono le similitudini, specie le similitudini che durano un'ottava

intera, e il secondo terrnine s'asserraglia nei due ultimi versi soli. Dirò an-

cora: che all'unità e velocità e varietà della a tesi ‘‘ conferisce assai una

sintassi per nulla aggiuntiva, ma legata col forte ausilio del relativo. E sa-

rebbero tutti quanti a riflessi ‘‘ provati e riprovati (perciò in sommo modo sin-

tomatici). Il miracolo lo compì, ed era fatale che così fosse, un poeta al colmo

della Rinascenza, un interprete assoluto di quei numeri rimasti segreti nel

purissimo ordine dell'ottava; che fece appunto, della fisica, una metafisica.

 

Giuseppe DE ROI)ERTIS

 

(Da ‘‘ Il Popolo ‘‘, 26 gennaio 1950; ora in Studi Il, Firenze, Le Monnier,)

 

PETRARCHISMO ARIOSTESCO

 

L'aspetto della sintassi del Furioso che più deve, a nostro awiso, al

Petrarca e per il quale è possibile indicare corrispondenze singolarmente con-

vincenti, ci sembra risiedere nell'impiego di alcuni artirlci retorici, già no-

tati nelle Rime del Bembo e nelle stesse Liriche ariostesche, quali antitesi,

coppic, asin~le e polisilldcti. Tali ar~i~ci ira~Li li~orloilo al~cllc ncl poela.l

non solo con una Irequenza che meglio che una minuta indagine s~aiis~ica

 

Petrarchismo ariostesco

 

può documentare la lettura di qualsiasi ottava ad apertura di libro, e con

una consapevolezza che ci è provata dal loro progressivo aumento attraverso

le successive correzioni, ma proprio con l'intento, come nel Petrarca, di

comporre in equilibrio e simmetria un discorso sintattico altamente ricco e

complesso. Non di rado anzi a renderli più idonei a questo compito, l'Ario-

sto appro/lLta proprio dei più sottili accorgimenti lessicali e musicali del

poeta aretino. Così le sue antitesi tendono a presentarsi come limpide ed esatte

contrapposizioni di qualità, come mostra--togliamo gli esempi dal lavoro

correttorio--il passaggio da ‘‘ Le lancie ambe sembrar di secco salce. E

non di verde frassino superbo ‘‘, A (1516), XVII, 93 e B (1521), XVII, 94, a

‘‘ Le lancie ambe di secco e suttil salce Non di cerro sembrar grosso et

acerbo ‘‘, C (1532), XIX, 94, dove, già lo notava il Pigna, lo spirito della

correzione consiste ncll'aver dato ai due membri opposti ‘‘ la quantità e la

qualità mcdesima, dcl tutto contraria ‘‘, e, possiamo aggiungere, nell'averli

disciolti ciascuno in due coppie di aggettivi, chiasticamente disposti; e come

appare dalla sostituzione, nella frase ‘‘ Se dell'aspra donzella il braccio

pesa, N‚ quel del cavallier nemico è lieve ‘‘, A, XVII, 96, del verbo pesa~

con il più esatto è grave, C, XIX, 97; ovvero dal mutamento di ‘‘ Che di pur-

pura ha il manto e la gonnella Candida sì che si può al latte opporre ‘‘,

A, XXXI, 54, in ‘‘ Che '1 manto ha rosso e bianca la gonnella, Che l'un può

al latte, e l'altro al minio opporre ‘‘, C, XXIV, 54, dove è chiarissimo il

gusto della ricomposizione ordinata, così come nel passaggio da ‘‘ Ch'abbi

gran ventre e una via sola e stretta ‘‘, A, XXI, 113, al perfetto bilanciamento

chiastico ‘‘ Che largo il ventre e la bocca abbia stretta ‘‘, C, XXIII, 113. Nelle

coppie e negli asindeti e polisindeti l'effetto armonizzatore è invece più fre-

quentemente ottenuto, oltre che, naturalmente, attraverso la scelta di parole

quasi o del tutto sinonimiche, per mezzo di accorgimenti ritmici squisitamente

petrarcheschi, quali la disposizione simmetrica degli accenti (‘‘ Non pur per

l'aria g‚miti e quer‚le, Ma volan braccia e spalle e capi sciolti ‘‘, XII, 80;

‘‘ In giostre, in lotte, in sc‚ne, in bagno, in danza ‘‘, VII, 31; ‘‘ Gentil, gio-

vane, ricca, on‚sta e b‚lla ‘‘, XIII, 5: ‘‘ I capri isn‚lli e le damme leggi‚re ‘‘,

XXIV, 13; ‘‘ f‚rma sperànza e c‚rta sicurtàde ‘‘, XXVII, 97, che era ‘‘ Infal-

libil speranza e sicurtade ‘‘, A, XXV, 97; ‘‘ N‚ nòtte o giorno, o pioggia,

o sol l'arresta ‘‘, XII, 67, proveniente da ‘‘ N‚ notte o dì, n‚ pioggia o sol

l'arresta ‘‘, A, X, 71); ovvero la ripetizione di identiche parole all'inizio di

cTni mcmbro la fre.sc ‘‘ Grifon in diece Colpi che tr;sse ‘‘, A, XVI, 3, diviene

‘‘ Per che Grifon in otto colpi e diece ‘‘, B, XVI, 3, e infine ‘‘ in dieci tagli e

 

ωIz cez~n~e’‘, C, X~/lll, 3; ‘‘E vanalllente poi dietro g]i croccia’‘, A,

‘‘ Invan gli grida, e invan dietro gli croccia ‘‘, BC, II, 39; e si ricordi in ge-

nere la cura di premettere sempre la preposizione davanti ai singoli termini

di una serie di complementi; o infine la scelta di membri di ugual numero

co1tc gil!sJo, bnrbnro ct nJ:cce ‘‘, XII, 9~; ‘‘ e tnglia e

fcl!e cc c lo,a c troiZca>, X~YVIII, Gl, dovc forse non c cesu .l,, n.p-

 

6                                                                                                69

Ariosto

 

pure la simmetria delle consonanti iniziali; ‘‘ Ch'all'erbe, all'ombre, atl'antro,

al rio, alle piante ‘‘, XXIII, l09). Sono troppo ‘‘ leggieri e minuti ‘‘ fatti questi

che siamo venuti passando in rasse~na? Pure per convincerci clle--ripren-

diamo ancora parole del Bembo--’‘ sono tali che, raccolti, molto adope-

rano ‘‘, per persuaderci insomma di quanto questi accorgimenti e artifici della

tecnica petrarchesca e petrarchistica contribuiscano a creare il movimento

originalissimo dell'ottava del Furioso, basterà rileggere qualcuna delle strofe

più note e per comune consenso più belle del poema, quella ad esempio che

descrive la fuga di Angelica:

 

Fugge tra selve spavenfose e scure,

pcr lochi inabitati, ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi e di verzure

che di cerri sentia, d'olmi e di faggi,

fatto le avea con subite paure

trovar di qua di là strani viaggi;

ch'ad o"ni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

(I, 33)

 

Avrebbe dawero potuto il poeta giungere alla beata ricomposizione

armoniosa degli incidenti dclla fuga spaventata di Angelica, senza il prov-

videnziale soccorso di quelle esatte antitesi (di qua di là... o in monte o in

valle) e specialmente in quelle coppie bilanciate (spaventose e scure... de le

frondi e di verzl~re) e di quei polisindeti a tre membri (inabitati, ermi e

selvaggi... di cerri... d'olmi e di faggi) in simmetrica alternanza, nei primi

quattro versi? Quanto l'autore fosse attento a tali effetti, ci prova anche

l unica ma importante correzione del quarto verso, polisindeto anche prima

ma ancora ‘‘ disordinato ‘‘ (‘‘ di cerri, e d'olmi, abeti, pini e faggi ‘‘, AB~

e comunque non simmetrico col secondo. Un esempio anche più evidente

di questa attenzione appare nelle correzioni dell'ottava che narra l'eroica

morte di Isabella (A, XXVII, 25; C, XXIX, 25):

 

Bagnossi come disse, et lieta porse

all'incauto pagano il collo ignudo,

il qual pel vin che tutta notte corse,

si ritrovava più cotto che crudo.

Quel uom bestial, clle le credeva, scorse

tanto che l'empia man, che 'l ferro crudo

quel capo che fu già d'amore albergo,

spiccò dal petto e dal candido tergo.

 

Bagnossi, come disse, e lieta porse

all'incauto pagano il collo ignudo,

i:lCal/~O, e Vil7ìO a;lCO dal vino forsc,

incontra a cui non vale eili1o It‚ scu~lo.

 

Petrarchismo ariostesco

 

Quel uom bestial le presta fede, e scorse

sì con la mano e sì col ferro crudo,

che del bel capo, già d'Amore albergo,

f‚ tronco rimanere il p‚ìto e il t‚rgo.

 

dove non è chi non senta come con l'aumento e la rcgolazione delle coppie

il poeta abbia voluto e ottenuto il supremo equilibrio, che soprattutto gli

stava a cuore, degli effetti commoventi e drammatici della scena (e si noti

di passaggio l'eliminazione, tutta nel gusto petrarchesco, e della frase fa-

miliare del verso 4 e della ripetizione in rima di crudo). Si direbbe anzi che

quanto più il tema è agitato e sconvolto tanto più l'Ariosto goda di inserire

i suoi elementi ordinatori, come nella descrizione degli effetti terribili della

pazzia di Orlando:

 

Li agricultori, accorti agli altru' esempli,

lascian nei campi ar tri e m rre e f lci:

chi monta su le case e chi sui templi

(poi che non son sicuri olmi n‚ salci),

onde l'orrenda furia si contempli,

ch'a pUgMi, ad ùrti, a morsi, a gr ffi, a c lci,

 

cavalli e buoi rompe, fracassa e strugge;

e ben è corridor chi da lui fugge...

~XXIV, 7)

 

ancora questo gusto di euritmia e di regolarità nella pur ricca e vi-

gorosa varietà che porta l'autore del Furioso a riprendere dalla tecnica pe-

trarchesca per la sua ottava molti altri raffinati accorgimenti di carattere più

strettamente musicale, in coincidenza sempre con le preferenze teorizzate e

messe in pratica dal Bembo, e già a suo tempo accennate. Qui pure, più che

una documentazione sul testo definitivo, varrà qualche esempio tipico tratto

dal lavoro correttorio. Così la sua cura di evitare bruschi e cacofonici in-

contri di consonanti si rivela, oltre che in alcuni mutamenti, già citati, di

origine grammaticale (in lo > nello, il scoglio > lo scoglio ecc.), in alcune

correzioni dove all'eufonia è sacrificata--e il Pigna lo nota non troppo

soddisfatto -- la proprietà dell'espressione, come nel passaggio da ‘‘ Do-

vunque 'l vago sol scalda e colora ‘‘ a ‘‘ luce e colora ‘‘, o in quello da ‘‘ Come

al spirar di due benigni venti ‘‘ a ‘‘ Corne al soffiar ecc. ‘‘. Analogamente ven-

gO1l0 clia nate, pcr quanto possi~ile, le ripetizioni di una stessa sillaba (‘‘ La

notte 'l giorno vi picchiano indarno ‘‘ diviene ‘‘ la notte e 'l dì vi picchia

~ca ilulLO ‘‘ con il sacrificio di una coppia euritmica) e anche di una stessa

consonante (‘‘ L'odor l'abbia a morbar del nostro sesso ‘‘, XXXVII, 40 è

corretto in autografo ‘‘ L'odor l'ammorbi del femineo sesso ‘‘), e si evitano

gli incontri di vocali dissonanti: ‘‘ Che la bandiera candida avea in testa ‘‘,

AB T, 6si fa i;l C ‘‘ E con un bianco pennoncello in testa ‘‘- ‘‘ Orlando

che l~!l?ocO1lo arc1a i1n1tlcrso ‘‘, A,VII, 47 gia in B è ‘‘ avea summerso ‘‘,

 

70                                                                                                 71

in C ‘‘ sommerso ‘‘. Così pure molte parole tronche, specie se terminanti in

consonante, vengono nelle edizioni successive variamente evitate o ridotte

in piane secondo il gusto petrarchesco e la preferenza mostrata dal Bembo

nelle Prose (p. 26 e 61, anche gli infiniti dei verbi, quando segua una par-

ticella breve come il o i~l: ‘‘ andar il palafren ‘‘, A, I, 36 ‘‘ a~ldare il pala-

œren ‘‘, C; ‘‘ cader in terra ‘‘, A, II, 56 ‘‘ cadere in terra ‘‘, C, e simili. Al

trettanto facilmente documentabile è la sottile cura dell'Ariosto nel contem-

perare sillabe lievi e dense: bastino due esempi tipici, uno indicato dal De~

benedetti, in cui, in contrasto con una consuetudine altrove osservata, si

pone onde in luogo di ove ‘‘ ... nel profondo oscuro Vo de lo 'nferno, onde

il pensar di vui... ‘‘ XXIV, 79, evidentemente per rialzare con quella voce

‘‘ rotonda, sonora e piena ‘‘, come la definisce il Bembo, ‘‘ i suoni di un

verso che era un po' fiacco ‘‘; l'altro dal Migliorini, che ha osservato come,

anche questa volta in contrasto con la normale tendenza, l'autore, in C,

XLIII, 74, ‘‘ di questa bella donna inamorosse ‘‘, abbia scempiato la doppia

di un primitivo ‘‘ innamorosse ‘‘, al fine di evitare un terzo raddoppia-

mento dopo quelli delle parole precedenti.

 

Ma si consideri, per finire, un altro aspetto caratteristico dell'ottava del

Furioso, quel giuoco finissimo di ‘‘ sfasature ‘‘, per così dire, che si crea fra il

ritmo limpido, pieno e vigoroso degli accenti e delle rime perfette e la sin-

tassi complessa e ordinata delle frasi e dei periodi: un giuoco che si ap-

poggia soprattutto su quelle fratture interne del verso e quegli enjambements,

che ben lontani dal frangere (come accadrà poi nel Della Casa e più nel

Tasso) la saldissima e dominante impalcatura ritmica, ne ammorbidiscono

e ne dissimulano con elegantissima sprezzatura i contorni:

 

Oh quante sono incantatrici, oh qllanti

incantator fra noi, che non si sanno!

clle con lor arti uomini e donne amanti

di s‚, cangiando i visi lor, fatto hanno...

 

(VIII, 1).

 

... L'un fugge, e l'altro caccia; e le profonde

selve s'odon sonar d'alto lamento.

Correndo usciro in un gran prato- e quello

avea nel mezzo un grande e ricco ostello.

 

(XII, 7).

 

Orhene come r.on awertire in queste fratture e in questi eniambements, così

essenziali al fluente e legato arrotondamento della strofa ariostesca, e quasi

sconosciuti, almeno come consapevole mezzo tecnico, all'ottava quattro-

centesca, un'eco della melodia petrarchesca, sapientemente discorsiva, che

tanto spesso si vale di tali procedimenti, o, sc preferiamo, del riecheggia-

mcl.to cIlc. colllc a s,lo luogo si è no~ato, IlC ra il Bcll-bo ncllc S~l- rimc?

Anzi pcr questi, comc in gclcle p.r gli alki ac.oigimcllti stilis.ici chc sialllo

 

Il primo ‘‘ Furioso ‘‘

 

venuti passando in rassegna, è possibile indicare un testo più preciso a do-

cumentare l'importante azione mediatrice del letterato veneziano: quello

cinquanta Stanze recitate ad Urbino nel 1507:

 

Ne l'odorato e lucido Oriente

là sotto '1 puro e temperato cielo

de la felice Arabia, che non sente,

sì che l'offenda, mai caldo n‚ gelo,

vive una riposata e lieta gente,

tutta di bene amarsi accesa in zelo,

come vuol sua ventura, e come piacque

a la cortese Dca che nel mar nacque.

A cui più ch'altri mai servi e devoti,

questi felici,...

 

in cui, come appare anche dai pochi versi citati, i più squisiti ritrovamenti

sintattici, ritmici e sonori della tecnica petrarchesca dell'aequitas, venivano

pcr la prima volta impiegati, con perfetta sicurezza e consapevolezza, ad as-

sodare e smussare l'irrequieta ottava quattrocentesca in un organismo lct-

tcrario veramente nuovo, disinvolto e vigoroso e pure altamente equilibrato,

che se non era ancora l'ottava ariostesca, dovette apparire all'Ariosto, che

aveva allora da poco iniziato il suo poema, un punto di riferimento davvero

saldo e congcniale.

 

Emilio BIGI

 

(Da Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 63-67; 68-70.)

 

IL PRIMO ‘‘ FURIOSO ‘‘

 

La storia degli studi ariosteschi è stata fatta e rifatta più volte in questi

ultimi anni con una insistcnza che a me sembra degna di miglior causa, ma

che evidentemente supera il limite normale della moda che la cosiddetta storia

dclla critica ha avuto e ancora ha. un segno che quanto è stato scritto sul-

l'Ariosto continua a pesare gravemente sulle ultime generazioni. Infatti, dopo

il saggio crociano, i malati di armonia sono stati molti, compresi quelli che

all1arlllonia non si rasscgnavano e opponcvano una formula divcrsa. Ana-

D .Incllt, dc.a i loli (li l~cl~cc j~l C ac aduto che si imponessero a

tutti le correzioni e giunte del terzo Fllrioso. Di qui siamo tutti partiti, fe-

licemcnte e comoclarllcnte. Ma non senza un rischio: clle è, ncl corso delle

nostre ricerche, di spostare ogni questione sul terreno che ci è più famigliare,

 

72                                                                                                73

Ariosto

 

e nella fattispecie di vedere troppo esclusivamente l'opera tutta di Ariosto

in funzione del terzo Furioso. Questo rischio è aggravato dal fatto che, già

nella critica cinquecentesca, per ovvie ragioni, e conseguentemente in tutta la

tradizione successiva, la tendenza prevalente è stata di invecchiare, se

così può dirsi, il Furioso, e serbarne solo l'immagine ultima, coi ritocchi,

se mai, apportati da Ruscelli e compagni, quasi che l'opera naturalmente

stesse a mezza via fra il remoto e dimenticato Boiardo e il rivale Tasso, più

vicina anzi a questo che a quello. La graduale riscoperta del Boiardo e del

Quattrocento in genere indubbiamente servì a mutare quella interpretazione

del Furioso. Ma il parallelo subito istituito fra Boiardo e Ariosto in termini

d'invenzione e d'arte, opponendo l'invenzione acerba dell'uno all'arte ma-

tura dell'altro, ha poi fatto sì che la vecchia tradizione pacificamente ri-

prendesse il sopravvento. La tentazione di tradurre e giustificare in termini

cronologici il divario fra i due, come se non l'intensità ma la quantità del

tempo contasse, era naturalmente incoraggiata dal fatto che nel Furioso

del '32 Ariosto era giunto in tempo a schierarsi con la nuova letteratura

avanzante compatta verso la metà del secolo al segno delle Prose della volgar

lingua. Ariosto riconciliato con Bembo, poesia e grammatica alleate, con qual-

che scusabile licenza dell'una e prepotenza dell'altra: il quadro era troppo

bello, e troppo anche corrispondente alla realtà dei fatti per una larga zona

centrale del Cinquecento, perché se ne mettesse in discussione l'applica-

bilità alla storia tutta e propria del Furioso. Anche era un quadro geometri-

camente semplice: un bel triangolo segnato ai vertici da Boiardo, Ariosto

e Bembo. E certo in questo triangolo si può far stare tutta la storia, ma

come in una cornice, e a patto di riempire lo spazio d'altre figure e linee

e punti. Sia ben chiaro che non intendo qui opporre finezza a geometria,

opposizione nove volte su dieci deleteria e spregevole in una ricerca storica.

I punti fermi, su cui giova insistere, sono questi: il Furioso del 1516 è un

capolavoro assoluto, nello stesso ordine della Gerusalemme liberata, se an-

che il Furioso del '32, in ciò di~erente dalla Conquistata, ne abbia legitti-

mamente preso il posto; e quel Furioso del 1516, essendo provvidenzial-

mente apparso l'anno stesso in cui uscivano a Ancona le Regole del For-

tunio e nove anni prima delle Prose del Bembo, risulta affatto indipenden-

te dalla altrui codificazione grammaticale del volgare, ed è tuttavia opera

che linguisticamente non si spiega, da parte del ferrarese Ariosto, senza un

risoluto impegno di lui e di altri intorno a lui nella riccrca dclle regole

el volgare. E certo il nome di Bembo va fatto a questo punto, non l'autore

delle Prose di là da venire, ma il Bembo degli Asolani e delle rime urbi-

nati, il maestro di una lingua e di uno stile remoti e nuovi. Che non pote-

vano però essere, n‚ sarebbero stati mai, lingua e stile di Ariosto. In nes-

sun momento mai dalla poetica di Bembo Ariosto pot‚ prendere l'avvio per

un poema come il Furioso. Poich‚ di un triallgolo si c parlato c pcro di Ull

lato clle congiungc Ariosto c Ecm'l~o, bisogna prccisal-c chc su quclla linca

 

Il primo ‘‘Furioso ‘‘

 

del Furioso del '32 Ariosto raggiunge sì Bembo, ma non viceversa. L'omag-

gio dell'uno resta senza la risposta dell'altro. La sostituzione di tosto a pre-

sto, di ne la a in la e simili, che, come Debenedetti ha dimostrato, derivano

al Furioso del '32 dalla lezione delle Prose, non sono naturalmente a qui-

squilie ‘‘ se non per la delicatezza di tocco del nostro grande e caro maestro,

grande e caro anche per questo suo disprezzo del pedale, di ogni enfatica

sottolineatura. Debenedetti stesso ha del resto fornito una illustrazione de~

finitiva dell'industria di Ariosto nei suoi ultimi anni, dai Frammenti auto-

gral al terzo Furioso. Ma a paragone di questa industria, sottile sì e a tratti

animosa, ma ormai sicura, è chiaro che ben altrimenti rischiose dovettero

essere le scelte linguistiche e stilistiche di Ariosto prima del 1516. E se è

vero che anche dopo le Prose e per lo stesso Bembo, non vi fu scelta lingui-

stica che non fosse al tempo stesso una decisione letteraria e di stile, doven-

dosi attendere i grammatici d'un'altra generazione, la generazione di Castel-

vetro, per un isolamento tecnico della lingua, è però a fortiori vero che nel

primo venticinquennio del secolo, così nella composizione del Furioso come

in quella delle Satire, l'inchiesta linguistica di Ariosto dovette essere inestri-

cabile dalle altre sue scelte poetiche, di poeta che cercava la sua via nella

realtà storica dell'età sua. Il recupero critico di questa che, quando s'estenda

al 1521, non so come possa con proprietà dirsi vigilia dell'arte ariostesca,

è ancora, mi sembra, in buona parte da fare. Sono d'accordo che i dati

linguistici vadano illustrati e discussi per primi. E ritengo che, per co-

minciare dalla questione più ovvia e semplice e di sicuro successo, le corre-

zioni della seconda edizione rispetto alla prima risulteranno più importanti

di quanto oggi si creda. Al di là, retrocedendo nel tempo, le difficoltà si fa-

ranno inevitabilmente più aspre. Perch‚ a quel livello dello scavo, nonch‚

un quadro sufficiente delle condizioni linguistiche, neppure abbiamo un suf-

ficiente quadro della letteratura popolare e di corte, della poesia e della

prosa, del latino e del volgare. Per questo appunto non ci si può illudere

che l'analisi linguistica basti.

 

Ho detto più su che c'è una vischiosità dei buoni studi, una tendenza

nostra naturale a incamminarci là dove ci è stata aperta e battuta la via.

~la accade anche l'opposto: che i buoni studi siano considerati per meri-

tato ossequio o per comodo definitivi, e finiscano per sbarrare la via. E

questo accade curiosamente, e tipicamente nel caso dell'Ariosto, per studi

c1i cui siano stati riconosciuti i limiti, e magari gli errori, senza che questo

riconoscimento tcorico provocasse alcuno sforzo risoluto per rimettere le

cose a posto.vli sembra che la monumentale Vita del Catalano,2 in cui se-

 

Z Micllele Catalano (Termini Imerese, Palermo, 1884 - Messina, 1955, insegnante

e critico letterario Studiò a Catania, a Firenze frequentò la scuola di perfeziona-

 

~n~lno. L/!1 L. ,lriostcincvra, 1 a voll. 2); La scuola poetica siciìialla

Ica 7).

 

74                                                                                                 75

Ariosto

 

condo una delle tante moderne rassegne della critica ariostesca,< dal punto

di vista documentario non c'è proprio nulla da rettificare neanche alla distanza

di oltre vent'anni ‘‘, rischia di diventare la pietra tombale della vita di Ariosto.

Ma il caso tipico è naturalmente quello delle Fonti di Rajna,3 cioè dell'unico

valido studio d'insieme che sia stato finora fatto sulla materia del Furioso.

Qui la concordia e iterazione dei giudizi negativi e delle riserve sui risultati

ottenuti è mirabile, ma è mirabile anche la continenza e inappetenza degli

studiosi di fronte alle lusinghe dei testi che Rajna si era preso la briga di

leggere. Si è così giunti alla caricatura involontaria del recente libro (1953)

di D. Bonomo, che candidamente intitolandosi a L'Orlando Furioso nelle sue

fonti ‘‘ ossia ‘‘ le fonti dell'Orlando Furioso nel più grande movimento illu-

minista europeo: l'Umanesimo ‘‘, offre la sua merce a sostituzione e com-

penso di quelle ‘‘ fonti fisiche e perciò sterili e inadeguate ‘‘ che possono tro-

varsi indicate nel ‘‘ dotto e per ogni parte completo libro del Rajna ‘‘. Dopo

di che non stupisce che il Bonomo escluda ‘‘ assolutamente ‘‘ l'ironia ario-

stesca. Appena occorre dire che il libro del Rajna è, come tutte le cose di

lui, dotto, ma non è, come non sono le cose umane, ‘‘ per ogni parte corn-

pleto ‘‘. Coerentemente con la preparazione e gli interessi di Rajna, le fonti

francesi e quelle popolari italiane, e fra queste le toscane o presunte tali,

acquistano nel libro un rilievo che non appare n‚ giustificato n‚ verosimile;

per contro i testi della letteratura cortigiana settentrionale di fine Quattro e

primo Cinquecento, quelli che l'Ariosto aveva a portata di mano e non po-

teva non conoscere, galleggiano qua e là rari nantes, relitti di un naufragio

dal quale soltanto l'Innamorato e il Mambriano risultano indenni. Ed è no-

tevole che questi relitti siano stati in buona parte ricuperati da Rajna nella

seconda edizione del suo libro, e abbiano trovato così posto negli angoli

di una fabbrica che non era stata costrutta per includerli. Negli ultimi ses-

santa anni poco mi sembra sia stato fatto per rimediare al difetto del libro,

di Rajna. Mi sembra anzi che il Mambriano, nonostante l'edizione del Rua,4

sia scaduto fra i testi di cui nessuno più parla. Ma ogni regola ha le sue

eccezioni. Così abbiamo pur avuto l'introduzione di Zingare]lis alla sua edi-

zione del Furioso, nella quale introduzione l'esperienza del romanista di

 

' Pio Rajna (Sondrio 1847- Firenze 1930, filologo, professore di lingue e lette-

rature neolatine a Firenze. ifra i maestri del metodo storico del nostro Ottocento.

Autore, fra l'altro, delle Fonti dell'Orlando Furioso (76) e de Le origini del-

 

I'c0l~a frmlcese (

 

iuseppe Rua, (Gardone Val Trompia 1865 - Torino 1928, letterato. Dedicò

importanti ricerche alla letteratura piemontese nel tempo di Carlo Emanuele I e

alla novellistica comparata. Novelle scelte italiane di scrittori dal XIV al XIX

sec., (Torino, 1924).

' Nicola Zingarelli (Cerignola 1860 - Milano 1935, letterato, professore a Pa-

 

lclmo c l~lilano, autorc n eebla!o m~nuale su !e (19'),li unl

eiollelell'Orla~/~lo Furioso (19 e oel Vocal~olario.'clla lill~ua italiafla1922).

 

Il primo ‘‘ Furioso ‘‘

 

ccchia ma buona scuola si fa sentire, e la probìematica di Rajna, fra consensi

e dissensi, riacquista la vivacità di una ricerca in atto. E più notevole ec-

cczione il saggio ariostesco di Enrico Carrara,6 non di un romanista questa

volta, ma di un italianista che fra Quattro e Cinquecento stava a casa sua e

clle a una rara finezza di giudizio e di scrittura sempre aggiungeva l'infor-

mazione diretta, attinta dai testi. E Carrara si è naturalmente accorto subito

clle, ad es., il tanto discusso rapporto Boiardo-Ariosto non può essere di-

scusso senza passare attraverso l'opera dcl ‘‘ povero diavolo ‘‘ Niccolò degli

Agostini. Perche è ben vero che questi era, e si riconosceva da s‚, un povero

diavolo, e non si nega il diritto dei posteri e nostro di giudicarlo per que~

che valeva e magari di ignorarlo, ma resta il fatto che non lo ignoravano

Ariosto e i contemporanei suoi, e che Ariosto non pot‚ continuare la storia

di Eoiardo senza fare i conti con la continuazione dell'Agostini, e, per toccare

una questione che ancora di recente è stata discussa in un bel saggio di Bac-

chelli, non avrebbe mai potuto dichiararsi esplicitamente nel suo poema

continuatore, e pagare il debito, che i moderni avrebbero desiderato da lui,

al suo predecessore, senza rischiare che i suoi contemporanei lo prendessero

pcr un competitore tardivo dell'Agostini, l'opera del quale si era ormai in

popolari edizioni avviticchiata all'Innamorato. Si nega insomma a chi studi

la genesi del Furioso e debba perciò farsi con industria storica contempora-

neo di Ariosto, il diritto di ignorare Niccolò degli Agostini. La scena che

questi immaginò del libero connubio, alla bella stella, di Bradamante e Rug-

gero, non è certo tale da poter essere inclusa nelle antologie scolastiche, ma

è tale che, più di un lungo discorso critico, illumina per contrasto il pro-

ccsso dell'invenzione ariostesca nella storia di quei due personaggi. L'esem-

pio dcll'Agostini può bastare qui come indicazione di un campo di ricerca

in cui molto ancora resta da fare. 1spiegabile e bello che Rajna immagi-

nasse Ariosto tenacemente intento nella biblioteca estense di Ferrara alla

Icttura di interminabili prose di romanzi francesi: proprio come lui Rajna,

con la sua tenacia di montanaro lombardo e con il suo furore di romanista,

nella Biblioteca Estense di Modena o nell'Università di Torino. Ma stori-

camente il dittico non convince: certo le letture e il modo di leggere di

Ariosto erano diversi, nonch‚ da quelli di Rajna, da quelli del Boiardo,

tanto quanto era diverso il modo di scrivere. probabile che la ricerca vada

indirizzata su una zona di cultura più propriamente italiana e cronologica-

mente più vicina a Ariosto, piuttosto su libri stampati che su manoscritti.

~on ci si può illuclcre che la ricerca sia perciò più facile. Tutti sappiamo

 

nlico Carrara (l~eggio Emilia 1871 - Torino 1958, critico letterario. Titolare

di lettelatura italiana nell'Università di Torino. Fu autore di molti e importanti

saggi, nei quali il metodo storico, di cui il C., già allievo del Carducci, era con-

~i1nO SOstcllito~c, s~ckva a intcrllrcta7ione orranica e cocssa dcl fatto letterario.

 

I.a l~oesiastoralc (1), L)ue s(orie/el ‘‘ I'urioso ‘‘ (15.

come siano estremamente rari gli esemplari superstiti del primo e del se-

condo Furioso. Così sono i testi congeneri e contemporanei di una letteratura

che fu tutta consumata in letture frivole e appassionate. Da questa lette-

ratura il Furioso si distingue subito, com'è noto, per l'ampia parte che in

esso ha la realtà contemporanea. Il racconto del Boiardo si spezza all'urto

di questa realtà. Così resta fondamentalmente evasivo il Mambri~no, dove i

riferimenti storici sono sì più frequenti che nell'Innamorato, ma sono vaghi,

casuali, non consentono, checch‚ ne abbia pensato il Rua, una definizione

cronologica dell'opera, nonch‚ una caratterizzazione dell'autore come uomo

del suo tempo. Nel 1521 escono dell'Agostini Li successi belliciseguiti nella

Italia dal fatto d'arme di Gieradada nel MCCCCCIX fin al presente, dove la

materia che il titolo annuncia si spiega nella forma di un poema cavalle-

resco di 24 canti e oltre 2500 ottave. cosa diversa dai cantari e lamenti

storici della tradizione popolareggiante e municipale. Senza dubbio a quella

data, 1521, anche un povero diavolo come l'Agostini poteva essersi accorto

della novità del Furioso. Ma in quanto questa novità era venuta a dar voce

alla commozione esilarante e tremenda di tutta Italia che vedeva sul Ga-

rigliano e sull'Adda, a Ravenna e a Marignano decidersi a un tempo il suo

destino e quello dell'Europa. Questo è lo sfondo ineliminabile di qualunque

storia si faccia, della poesia, della lingua o di che altro, in quegli anni.

Bembo, Ariosto, Castiglione, non meno dei politici e storici, di Machiavelli e

Guicciardini, sono segnati della stessa impronta. Dopo Pavia e il Sacco

di Roma, la situazione cambia: la partita è giocata e succede uno stato

d'animo che nei più è di rassegnazione e di adattamento alle circostanze

non senza un qualche sollievo e l'aperto riconoscimento della grandezza del

vincitore. Che è la situazione nitidamente riflessa nelle giunte del terzo Fu~

rioso. Ma il primo Furioso nasce da uno stato d'animo tutt'altro, è di un

poeta partecipe e spettatore d'una partita aperta. Ho detto partecipe. Sul

disinteresse e le distrazioni e l'oblio dell'Ariosto, sul presunto acquisto da lui

fatto, a prezzo di adulazione cortigiana e per virtù di fantasia, di una per-

sonale neutralità storica, sono state scritte in passato, anche da persone ri-

spettabili, cose che non meritano rispetto. Su questo punto non credo che

occorra insistere oltre. Ma negli studi ariosteschi, anche in quelli più ade-

renti ai documenti e ai testi, mi pare che sia pur sempre insufficiente il

giudizio storico: di rado mi accade di sentire nell'interprete di Ariosto il

lettore di Guicciardini, anche più di rado il lettore dei Diarii di Sanudo.7

 

Carlo DIONISOTTI

 

(Da Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Commissione per i testi di

lingua, 1961, pp. 374-380.)

 

I\I.Irin S.n~ldoil Giov~nc (Vcnczia 146$-15), c~onista, autolc dcllc Vi~c dei

Do~i (1490-1530) c dci Di~ri (96-1533), prcziosa follte di notizic dcl tClllpO.

 

Il ‘‘ romanzo ‘‘ ariostesco

 

IL ‘‘ ROMANZO ‘‘ ARIOSTESCO

 

La materia del Furioso preesiste quasi tutta intera all'invenzione ario-

stcsca. La si può trovare (e c'è chi l'ha fatto con scrupolo encomiabile)l

negli scrittori classici e nei poemi e cantari cavallereschi del Medioevo e del

Rinascimento sino al Boiardo, che è la fonte più larga e immediata del poe-

ma. L'Ariosto stesso, del resto, amava far passare la sua opera come una

selllplice ‘‘ gionta ‘‘ a quella boiardesca. E certo quel suo adeguarsi, ap-

parentemente docile e remissivo, a un genere letterario già sfruttato e quel

suo derivare azioni e personaggi da un patrimonio poetico largamente cono-

sciuto, possono in qualche modo giustificare il sospetto che l'Ariosto abbia

veramente scelto il terreno su cui edificare il poema pensando pigramente

a un successo rapido e alla facile conquista del pubblico della corte, al quale

la materia cavalleresca era familiare e particolarmente grata.

 

A pensarci meglio, ci coglie però il dubbio che non si sia trattato sem-

plicemente di inerzia o di calcolo utilitario, bensì di una scelta compiuta

per ragioni più profonde e per fini artistici, allo scopo di assecondare, nel

migliore dei modi consentiti, la realizzazione di quel complesso e vario

mondo di af~etti che il poeta aveva maturato in s‚ e che intendeva esprimcre

pocticamente nella sua più assoluta integrità. Si può, infatti, parlare di un

incontro congeniale tra il poeta e il poema cavalleresco, tra le sue esigenze

di narrativa avventurosa e molteplice, cioè di spazio illimitato, e la dispo-

nibilità inesauribile di intrecci, di scomposizioni e ricomposizioni sempre

nuove della materia, che quel genere letterario gli offriva. Sì che una volta

chiarito il carattere seriamente deliberato della scelta ariostesca, come op-

zione naturale per il luogo più adatto e confacente allo spirito dinamico

ed espansivo dell'opera nuova, sembra senza fondamento anche l'altra as-

serzione che l'Ariosto non abbia sentito la materia del proprio poema (le

istituzioni cavalleresche) e che anzi l'abbia sottoposta all'assidua usura del-

l'ironia e della satira. Perch‚ così facendo, mi sembra che si tengano d'oc-

chio soltanto i dati esterni del Furioso (appunto la materiale evidenza dei suoi

oggctti), e non si voglia invece vedere la ricca, animosa e gagliarda vita che

vi scorre dentro con pienezza inusitata. Dietro il mondo fittizio delle figure

e degli intrecci tradizionali, ciò che veramente costituisce la grandezza e la

origillalità del Furioso sono l'energia attiva che gli dà slancio e lo sorregge

da cima a fon~lo, l'empito fiducioso che ne pervade ogni pagina e la illu-

m na 1aarict`1 clci motivi che vi troviamo espressi e che sentiarr,o forte-

mente radicati nel cuore del poeta. La ragione della perplessità di tanti

ettoridi fronte al tono generale dell'opera, consiste forse nel fatto che tra

 

r,  i1 richi .mo a quc~l ‘‘ monumento ‘‘ di ricerca storica che è il libro di

 

'11 o1o I:llioso, i illlZC, S~llSOlli, l~UO J, to a tOIIo

a~iaLo a mero rcpcrtorio eru(liLo.

 

78                                                                                                79

Ariosto

 

le due vie che gli si aprivano davanti, quella di battere in breccia le vecchie

impalcature della letteratura romanzesca e quella di rinnovarle dall'in-

terno con arte abilmente dissimulata, fingendo di prestarsi al vecchio gioco

e in realtà immettendo in quel consunto scenario le forme della nuova sen-

sibilità rinascimentale, l'Ariosto ha scelto la seconda. Mancando così visibil-

mente l'azione violenta di rottura, si è stati indotti a guardare ancora alla

materia cavalleresca come al vero oggetto della poesia ariostesca. Onde poi

l'impressione di ambiguità nel tono dell'opera e l'accusa al poeta di indif-

ferenza morale e di scetticismo. In verità occorre proprio capovolgere i ter~

mini della questione, giacch‚ l'Ariosto ci appare del tutto estraneo ormai

per mentalità e condizione storica, allo spirito aggressivo e polemico dei

Pulci come a quello candido ed emozionale del Boiardo, per i quali ancora

è consentito istituire un rapporto concreto di reazione o di adesione tra la

loro poesia e le istituzioni cavalleresche. Le quali istituzioni, essendo ormai

superate definitivamente dalla coscienza rinascimentale nelle ragioni storiche

e spirituali su cui erano state originariamente edificate, si riducevano nelle

mani dell'Ariosto a puri elementi di più comoda mediazione letteraria. An-

zich‚ ad esse, perciò, occorre soprattutto guardare allo straordinario margine

di libertà che l'Ariosto ha saputo conquistarsi entro i vecchi schemi....]

 

Se ci si persuaderà che la vera materia del Furioso non è costituita dalle

antiche istituzioni cavalleresche ormai scadute nella coscienza cinquecentesca,

ma propriamente da quella moderna concezione della vita e dell'uomo che

in ogni pagina del poema è presente e liberamente celebrata (e non in an-

titesi con la vecchia, ma in se stessa, disinteressatamente, tanto perentoria

è ormai la sua forza autonoma), apparirà chiaro che l'Ariosto non è affatto

indifferente alla propria materia, ma partecipa ad essa con tutto il suo im-

pegno. Anzi, è egli stesso che la suscita, la foggia e la definisce, trasformando

così il poema cavalleresco in romanzo contemporaneo, nel romanzo cioè

delle passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo. E se tutto que-

sto è avvenuto senza visibile spargimento di sangue, ma nella forma più

semplice e naturale, il grande merito è da ricercare in quella condizione di

straordinaria saggezza che l'Ariosto aveva saputo attingere attraverso un'at-

tiva esperienza della vita. Quella saggezza consisteva in un'apertura serena

e cordiale verso il mondo, fondata sulla conoscenza dell'uomo, della sua

varia e anche contraddittoria natura, e sull'accettazione della realtà in tutti

i suoi aspetti.

 

Proprio questa apertura verso il mondo, che caratterizza l'atteggiamcnto

fondamentale dcllo spirito ariostesco, induceva il poeta a rivolgersi con in-

teresse egualmente vivo a ogni manifestazione umana, a ogni sentimento,

senza tuttavia risolversi in nessuno di essi in particolare. Questa virtù, ve-

ramente eccezionale ncll'Ariosto, di concedersi sinceramente ogni volta alla

vcrità di ml aìfctto, di una passionc, e quin(li di riprcndsrsi al molllcllto

giusto pcr rivolgcrsi acl altro  fli~tto, ad altra passione, spiega la particolare

 

Il ‘‘ romanzo ‘‘ ariostesco

 

natura della narrativa ariostesca fondata essenzialmente sulla fluidità dina-

mica dell'azione, e quindi sulla velocità dei trapassi e sui mutamenti im-

provvisi di situazione. A un'arte siffatta sembra ozioso rimproverare l'as-

senza di personaggi di forte rilievo e di complessa psicologia, così come di

un sentimento dominante. Non è dif~lcile infatti rispondere che l'Ariosto non

mirava a figure autonome, alla creazione di caratteri veri e propri, n‚ in

senso obbiettivamente realistico n‚ come riflesso lirico e intimista della pro-

pria autobiografia. Egli intendeva piuttosto creare delle figure che, di volta

in volta, riflettessero soltanto un aspetto tipico della natura umana e non

g `1 che ne esaurissero l'infinita varietà. Agiva dunque nei confronti dei per-

sonaggi con intenti riduttivi e semplificatori, senza preoccuparsi di una im-

mediata e circostanziata dermizione sentimentale (del ritratto a tutto tondo,

in piena luce), ma curando soprattutto la coerenza dei loro atteggiamenti

nell'orditura complessiva dell'opera. Perciò la vita affettiva dei personaggi

ariosteschi non è mai approfondita, se non per scorci rapidissimi e essen-

ziali, nella sua interna dialettica. Ciò evita che essi si rinchiudano troppo a

lungo in se stessi, bloccando il movimento narrativo e concentrando sul

proprio ‘‘ caso ‘‘ tutta l'attenzione del lettore. Parlerei, al contrario, di una

intensa vita di relazione, cioè di rapporti continui tra ciascun personaggio

e gli altri personaggi, sì che le figure, anzich‚ fare argine allo svolgimento

della vicenda o addirittura evaderne, ne vengono costantemente a rappresen-

tare i protagonisti attivi o le vittime. Onde ben si comprende perché nel

Furioso nessun personaggio riassuma in s‚ compiutamente tutto lo spirito

dcll'opera, cioè tutta la ‘‘ verità ‘‘ ariostesca, ma si identifichi, con precisa e

mai esorbitante funzione, con uno soltanto dei suoi innumerevoli registri.

 

Alla varietà dei personaggi corrisponde poi un'altrettanto ricca pluralità

di motivi, di cui nessuno preminente. Neppure l'amore, che tuttavia costi-

tuisce il tema più frequente del poema. Prima di tutto perché l'amore nel

Furioso si manifesta in modi diversi e talvolta addirittura contrastanti (da

auelli puri e patetici a quelli sensuali e voluttuosi, da quelli eroici a quelli

semplicementc puntigliosi, da quelli tragici a quelli comici e realistici), sì

chc nessuno saprebbe dire quali dei tanti ‘‘ amori ‘‘ ariosteschi può essere

legittimamente considerato motivo fondamentale dell'opera; in secondo luogo

perché accanto all'amore ci sono, nel poema, molti altri sentimenti espressi

con altrcttanta intensità e sincera adesione da parte del poeta: i temi dell'ami-

ci ia, dclla fcdclt.l, clella c-'cvozione, dclla gcntilczza, della cortesia, dcllo

spirito d~avventura. E accanto ai tcmi per così dire ‘‘ virtuosi ‘‘ non mancano

 

i temi opposti, non meno schietti dei primi: quelli dell'infedeltà, dell'in-

ganno, dcl tradi~nento della superbia, della violenza, della crudeltà. Non

basta. Come la vita dei personaggi, anche quella dei sentimenti è, nell'opera

ariostcscauna vita così strettamente correlata che i vari temi dell'opera

 

l n)1'3 lolo cond;. ionanclo~i a viccnd3 C ricbianlallcl s l'uno cc n

) pcr a.mliO pcr contrasto. Llterlallza pcrcii, anchc contig-la, di

 

80                                                                                                 81

Ariosto

 

motivi tra loro opposti (ad esempio: il tragico sublime immediatamente

rincalzato dal grottesco), che ha creato tanta perplessità nei lettori del

11urioso e ha fatto pensare a una ambiguità sentimentale del poeta (al punto

che taluno non ha voluto concedere serietà d'ispirazione se non all'uno o

all'altro di quei motivi), in realtà corrispondeva alla disposizione dell'Ariosto

a rappresentare con fedeltà il particolare nel molteplice, evitando con cura

che ogni particolare di cui la natura è doviziosamente dotata risultasse iso-

lato e brillasse di vita propria e indipendente. Onde le smorzature repentine,

l'alzarsi e l'abbassarsi tempestivo dei toni.

 

A un'arte che spaziava così largamente e che mirava a una così com-

plessa rappresentazione della vita, molti pericoli sovrastavano. Primo fra

tutti quello di approdare a una meccanica giustapposizione di figure e di

temi, a una mera somma di risultati episodici, non a un organismo perfetta-

mente fuso. E invece ogni pericolo di anarchia compositiva appare evitato

e l'opera ariostesca si presenta a noi come un esempio mirabile di unità e

di armonia compositiva. La ragione è che l'Ariosto non si rivolgeva alla

varietà della natura per il semplice gusto istintivo del romanzesco avventu-

roso, ma per cogliervi le leggi profonde che la regolano e la governanol

Così quella varietà, anzich‚ frantumarglisi nelle mani, veniva rivelando, alla

sua coscienza d'uomo moderno, quel segreto ordine dell'universo entro cui

si conciliano, senza esclusioni di sorta, anche le opposizioni più irriducibili.

Gli era dunque consentito, dopo uno scandaglio così acuto, di assumere lie-

tamente nella sua opera tutta intera la natura, non considerando alcunch‚

di essa meritevole di esserne escluso. L'unità che deriva da tale atteggia~

mento, e che il Furioso riflette fedelmente in s‚, è tutt'altra cosa dall'unità

di tipo medievale, immobile e con un centro fisso e prestabilito. E, proprio

all'opposto, un'unità dinamica risultante dalla serie infinita dei moti della

vita universale, compresenti nella loro totalità all'intelletto dello scrittore

che li abbraccia e li rappresenta nei loro rapporti sempre diversi e inesauri-

bili. Perciò il poema è solo apparentemente dominato dal caso (non si parli

di ‘‘ destino ‘‘ che è concetto estraneo all'anima ariostesca). Tanto è vero

che, mentre l'evento imprevisto sembra essere l'unico motore dell'opera, in

realtà è la mente dell'Ariosto che ne predispone tutte le implicazioni e ne

amministra con mano ferma e sicura tutti gli impulsi e le energie.

 

L'unità del Furioso è dovuta, dunque, all'opera di sapiente armonizza-

zione che l'Ariosto ha saputo compiere per ridurre a cordiale e naturale con-

vivenza i molteplici temi, anche contrastanti, di cui il poema è contesto.

Un'opera che solo lo scrittore, in quanto uomo dell'arte, può realizzare

interpretando e rappresentando la vita degli uomini della natura (i perso-

naggi univoci della finzione poetica), soggetti agli impulsi esterni e spesso

anche vittime di essi. Lo scrittore, infatti, è ormai al di fuori della vita

imricata dcgli impulsi. colai chc, pcr averli conosciuti tuLLi nc]la loro cs-

scllza e nelle loro conLracldizioni, puo controllarli intcramente e quincli raìfi-

 

11 ‘‘ romanzo ‘‘ ariostesco

 

gurarne con lucido coordinamento, cioè in unità, l'assidua complicazione.

Questa condizione di eccezionale libertà conferisce all'Ariosto quella sua

rara virtù di sereno e obbiettivo distacco, quell'autentica saggezza che è

stata erroneamente giudicata come indifferenza o superficialità sentimentale.

Che se mancano nel Furioso i personaggi o le situazioni intensamente dram-

rnatici, i contrasti violenti, le passioni esacerbate, sembra chiaro ormai che la

ragione deve essere ricercata in quella particolare e storica visione della

vita in cui si rispecchia la più profonda e adulta coscienza rinascimentale

e alla cui luce chiara e diffusa l'Ariosto si è maturato. Una visione intera-

mcnte tesa alla soppressione delle differenze e all'accordo dei contrari, la

quale non poteva tollerare, se non per sconfitta della sua più intima essenza,

la lacerazione di quel tessuto di cui essa stessa aveva pazientemente ordito e

serrato le trame. Così si spiega perché nel Furioso le situazioni non siano

mai esasperate n‚ troppo a lungo protratte sopra una sola nota, perché

manchino i conflitti cruenti, le dissonanze aspre, il gusto insistito dell'or-

rido e del deforme. Anche i momenti drammatici e i casi strazianti sono sem-

pre mantenuti nell'ordine della compostezza e dell'equilibrio, dell'esecuzione

accurata della misura e del decoro espressivo.

 

Se il Furioso doveva riflettere, nelle intenzioni del suo autore, tutti gli

aspetti della vita sensibile nella molteplicità dei loro rapporti, ben si com-

prende come il movimento, cioè l'azione, dovesse costituirne l'aspetto domi-

nante e come il romanzesco (per il complesso gioco delle complicanze e la

serie dei mutamenti che offriva) dovesse risultarne la forma più naturale e

consentanea. I1 poema non ci offre pertanto una struttura chiusa (una cor-

nice a contorni fissi, con figure e sentimenti energicamente scolpiti a forte

rilievo), ma una struttura estremamente aperta, tutta percorsa da una energia

dinamica, nella quale non appare alcun centro stabile, alcun luogo premi-

nente, così come ne risulta esclusa una durata prestabilita. Tutti i luoghi del

Furioso (da quelli pittoreschi o grandiosi a quelli semplici e familiari, dai

civili castelli alle selve inospiti, dai giardini e dagli orti alle lande aspre e

deserte, dalle città alle campagne: dall'Occidente all'Oriente, dalla Terra alla

Luna), tutti i luoghi della inesauribile geografia ariostesca divengono infatti,

di volta in volta, temporanei centri della vicenda, punti vitali di confluenza

o di intersezione di alcune delle sue direttrici. Per tal modo l'Ariosto alla

cosmogonia teocentrica medievale sostituiva definitivamente una cosmogonia

antropomorfica nella quale il centro era, in ogni momento, liberamente va-

riahile. La stessa Parigi, che pure nel Furioso è teatro delle battaglie più

 

colossali e ospita l'ultima scena del romanzo, è da considerarsi luogo pre-

minente solo nella misura in cui sono preminenti, rispetto alle altre, le av-

venture che si riferiscono all'amore di Orlando per Angelica e quello di

Ruggiero e Bradamante, nel senso cioè che costituisce uno dei dati strutturali

(l! l'iù cn~e f~m~icllal t c non propriamcnte il centro vitale dell'orga-

Ariosto

 

Questa varietà di luoghi, questo mutare continuo di prospettive, contri-

buiscono a creare quell'impressione di vasti orizzonti e di distanze illimitate

che è uno degli aspetti più suggestivi del poema. E dentro a questo profondo

spazio le azioni si svolgono, si intrecciano e si aggrovigliano in modi quasi

sempre inattesi, secondo una nozione del tempo che non è se non raramente

quella statica della contemplazione lirica, ma piuttosto quella varia, acciden-

tata e inesauribile della storia. Qui è il segreto della durata narrativa del

Furioso, la quale non conosce argini neppure nella morte e si dilata al

di là di essa, rispecchiando il perenne fluire della vita (le lunghe onde del-

l'oceano di cui ragionava, pensando al poetare ariostesco, Didimo Chierico).2

Se spazio e durata non hanno confini definiti, ogni avventura non è che il

momentaneo concentrarsi di quell'impeto inesausto in una sorta di risucchio,

sì che la corsa da lineare si fa mulinello e si svolge a spirale, fingendo per

breve tempo la situazione immobile. Dipoi l'energia, che qui si è raccolta,

sprigiona un nuovo impulso e il movimento riprende a scorrere veloce e irre-

frenabile. Anche le ‘‘ favole ‘‘, le quali sembrano sottrarsi a questa legge

dinamica e costituire punti fermi a contrasto della corrente in realtà sono

semplicemente zone più quiete e raccolte dove la poesia ariostesca si flette

a suo agio in volute dolci e frenate, concedendosi un momento di riposo ma

poi rilanciandosi in avanti, subito appresso, muovendo da esse come da

ben predisposti punti d'appoggio.

 

Questa è la ragione per cui il Furioso ci appare come un libro senza

vera conclusione, come un libro perenne. Anche se protratto felicemente

per lunghissimo corso, il suo impeto narrativo non appare mai definitiva-

mente esaurito. Sentiamo, invece, che la grande avventura, il viaggio me-

raviglioso, si prolunga idealmente oltre le pagine scritte, senza incontrare

mai, neppure nelle ottave finali, un ostacolo invalicabile. Non c'è nel poema

un vero e proprio congedo, proprio perché vi manca la catastrofe risolutiva.

La morte di Rodomonte è, infatti, un ‘‘ accidente ‘‘, non una catastrofe; e

il matrimonio tra Ruggiero e Bradamante serve appena come ‘‘ lieto fine ‘‘,

già scontato e in fondo provvisorio, di uno dei nuclei narrativi dell'opera

e non già come conclusione perentoria (conclusione senza residui) di tutta

la complessa storia ariostesca. Potremmo perciò definire il Furioso come l'au-

 

2 ‘‘ Aveva non so quali controversie con l'Ariosto, ma le ventilava da s‚- e un

giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l'Oceano

rompca sulla spiaggia, esclamò: Così vien poeìando l'Ariosto ‘‘ (.otizia intorllo a

Didimo C1lierico, in U. Foscolo, lose vuricI'ar~e a c-1ra (li 1. Fubini Firc117c,

Le Monnier, 1951, p. 181). Ma fondamentali, per la varietà e l'unità del poema,

per la questione delle fonti e per le varianti delle tre edizioni del Furioso, le pagine

ariostesche del Foscolo nel saggio Poemi narrativi (in U. Foscolo, Sag~i  i lettera-

tura italiana. a cura di C. Foligno, Firenze Le Monnier, 1958 p. 11, testo inglese

e originale francese; per la traduzione itaiiana, che ha costituito sino ad o~gi la

 

‘‘ VU].`.l’‘, C~I. U. Foscolo. Sa(7~eio s;li poellli llalia~ivi e rolllall csclli iulli~lli, in

Opere, vol. X, Fircllzc, Lc Molllicr).

 

Il ‘‘ romanzo ‘‘ ariostesco

 

reo capitolo di una vicenda a cui è ignota qualsiasi forma di piano prov-

videnziale e nella quale si rispecchia piuttosto il senso libero, estroso, incal-

colabile e inesauribile della vita. Di qui la suggestione di un movimento che

sentiamo preesistere alle prime parole dell'esordio (<Le donne, i cavalier,

l'arme, gli amori... ‘‘) e ancora prolungarsi oltre l'ultima immagine (‘‘ Alle

squallide ripe d'Acheronte... ‘‘).

 

Quanto si è detto spiega l'andamento di romanzo che è caratteristico

del Furioso e indica le ragioni interne della narrativa ariostesca, ma insieme

lascia intravedere la somma di problemi stilistici che l'Ariosto era chiamato a

risolvere. Si trattava, infatti, di realizzare il massimo della varietà (nell'or-

dine dei sentimenti come in quello delle situazioni) con il massimo della

naturalezza, conciliando la fertilità inventiva con il rigore logico ossia

con l'intrinseca coerenza del racconto. A ciò l'Ariosto ha magistralmente

provveduto con una tecnica estremamente raffmata, tanto più ammirevole

quanto più dissimulata e quasi inavvertibile. A un attento lettore non potrà

soprattutto sfuggire la straordinaria sapienza con cui l'Ariosto lega e fonde

tra loro le varie parti dell'opera, spesso con ricuperi arditissimi a distanza,

ovunque mostrando di conoscere a perfezione l'arte del taglio tempestivo,

della sospensione opportuna, del compendio fulmineo. E ancora sarà da am-

mirare l'abilità consumata con cui, nel Furioso, sono reciprocamente armo-

nizzati i momenti più estrosi e fantastici (là dove il ‘‘ magico ‘‘ interviene ad

accentuare l'imprevisto) e quelli più consueti e familiari (sino al realismo

anche crudo delle ‘‘ favole ‘‘). Lo scambio assiduo tra finzione e realtà, la

trasfusione tra il naturale e il sovrannaturale, sono infatti operazioni che

l'Ariosto compie con innesti così accorti e con trapassi così snodati da cancel-

lare ogni impressione di divario, di salto brusco e immotivato. Ma a spie-

gare questa agilità e scioltezza di ritmo narrativo, gioverà non perdere mai

di vista la struttura dell'ottava e la lingua dell'Ariosto. Nella prima, infatti,

si rispecchia perfettamente l'equilibrio dinamico che è proprio di tutta l'opera

e che qui è realizzato con i rari enjambements in funzione di legato op-

pure di breve sospensione musicale (mai di forte frattura), con un primo

tempo fluido e scorrente (i primi sei versi) e quindi con la forza contenuta

degli ultimi due versi, posti a suggello, da cui prende tante volte slancio

l'ottava successiva, mentre nella lingua (elaborata assiduamente, come l'ot-

tava, dalla prima all'ultima edizione) si attua, in maniera del tutto nuova e

originale, un accordo tra gli opposti: tra il linguaggio popolare regionale

e quello aristocratico e letterario, attraverso un processo, quanto mai libero

e personale, che se da un lato tende a espugnare le forme del d;ale~to, o

meglio quelle più dissonanti e volgari, tenendo d'occhio il toscano, dall'altro

dà la caccia, con non minore perseveranza, agli inutili latinismi, ai modi pu-

ramente decorativi e artificiosi. Ma a proposito della lingua sarà da aggiun-

~clcInalìla o~scrva~ionc.c la rc~isiollc ling~lisìica dcl pocma, tra la sc-

~olda e la ìerza edizione, ha collle di e ìricc corrc~toria la doìtrina bcmbcsca

 

84                                                                                                -

e quindi come punto di riferimento il toscano letterario, la ragione è che

l'Ariosto sapeva d'aver concepito un'opera destinata, per vastità e profondità

di interessi, a varcare la cerchia municipale- Per questo egli perseguiva te-

nacemente uno strumento espressivo, insieme classico e moderno, che per-

mettesse alla sua poesia di lasciare alle proprie spalle la corte estense. [...]

 

Se il Furioso esprime veramente lo spirito rinascimentale nella pienezza

fulgida della sua maturità (si consideri la vitale energia di alcuni suoi mo-

tivi costanti: il libero e spregiudicato gioco degli affetti; la schietta affer-

mazione della vita; la piena rivalutazione dell'intelletto e della libertà del-

l'uomo; la soppressione, ormai neppure più polemica, d'ogni residuo di men-

talità metafisica, formalistica e dogmatica; la riduzione della magia e del-

l'astrologia nell'ordine della natura; l'armonia intesa come legge dell'uni-

verso; l'amore sentito come principio conservatore dell'esistenza), si com-

prende perché l'Ariosto, attendendo all'ultima ristampa del poema, abbia ri-

nunciato a inserirvi molte pagine nuove, che ora ci sono conservate nei Cinque

canti e su alcune delle quali grava un'ombra di cruccio, quasi un presenti-

mento di sventura. L'esclusione, infatti, è significativa non tanto perché può

attestare un generico scontento artistico, ma piuttosto perché ci mostra con

quanta consapevolezza il poeta sapesse difendere il vero spirito della pro-

pria opera anche contro se stesso, inibendosi di innestare nell'organismo com-

patto del Furioso, di cui non voleva alterata la perfetta coerenza, il tono

unitario e irripetibile, materiale per taluni aspetti diverso e ‘‘ seriore ‘‘ ri-

spetto alla prima e più autentica ispirazione del poema. Ma quell'ombra

di cruccio, anche se saggiamente espunta, avverte noi che nell'ultima parte

della sua vita dopo la lunga e fiduciosa stagione della ‘‘ narrativa ‘‘ che ha

il suo momento più pieno ed intenso, moralmente e spiritualmente, negli anni

del ‘‘ primo ‘‘ Furioso, si andava facendo strada nel cuore dell'Ariosto la

consapevolezza del declino di quel mondo incontaminato e forte di cui egli

aveva con impareggiabile dedizione celebrato la vitalità.

 

Erano i preannunci di quella profonda crisi che travaglierà di lì a poco

sulle rovine della defunta libertà italiana e sullo sfondo delle ultime favole

rinascimentali, la generazione immediatamente successiva a quella dell'Ario-

sto. Sarà allora il tempo della frattura profonda tra il poeta e la natura,

della dissociazione di quella sintesi armonica, non astratta o metafisica ma

storica e culturale, che il Furioso rispecchia con tanta eloquente sugge-

stione. Dovremo, da quel momento, attendere sino al Romanticismo per ri-

trovare scrittori nuo~amente intenti a ristabilire, nell'o~era loro, un rar~porto

cordiale tra l'individuo e il mondo, a ricomporre, sia pure in forma diversa,

quell'immagine unitaria della vita che, dopo il poema ariostesco, era desti-

nata a restare estranea per lungo tempo alla nostra letteratura.

 

Lanfranco CARETTI

(Da Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1970, pp. 28-40.)



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