Pietro Bembo, Gli Asolani,

edizione critica a cura di G. Dilemmi, Firenze, Accademia della Crusca, 1991.

 

Libro I

I

 

             Suole a’ faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro et tempestoso nembo assaliti et sospinti, né stella scorgono, né cosa alcuna appar loro che regga la lor via, col segno della indiana pietra ritrovare la tramontana, in guisa che, quale vento soffi et percuota conoscendo, non sia lor tolto il potere et vela et governo là, dove essi di giugnere procacciano o almeno dove più la loro salute veggono, dirizzare; et piace a quelli che per contrada non usata caminano, qualhora essi, a parte venuti dove molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da mettersi non scorgendo, stanno in sul piè dubitosi et sospesi, incontrare chi loro la diritta insegni, sì che essi possano all’albergo senza errore, o forse prima che la notte gli sopragiunga, pervenire. Per la qual cosa avisando io, da quello che si vede avenire tutto dì, pochissimi essere quegli huomini, a’ quali nel peregrinaggio di questa nostra vita mortale, hora dalla turba delle passioni soffiato et hora dalle tante et così al vero somiglianti apparenze d’openioni fatto incerto, quasi per lo continuo et di calamita et di scorta non faccia mestiero, ho sempre giudicato gratioso ufficio per coloro adoperarsi, i quali, delle cose o ad essi avenute o da altri apparate o per se medesimi ritrovate trattando, a gli altri huomini dimostrano co me si possa in qualche parte di questo periglioso corso et di questa strada, a smarrire così agevole, non errare. Perciò che quale più gratiosa cosa può essere che il giovare altrui? O pure che si può qua giù fare, che ad huom più si convenga, che essere a molti huomini di lor bene cagione? Et poi, se è lodevole per sé, che è in ogni maniera lodevolissimo, un huom solo senza fallimento saper vivere non inteso et non veduto da persona, quanto più è da credere che lodar si debba un altro, il quale et sa esso la sua vita senza fallo scorgere et oltre a cciò insegna et dona modo ad infiniti altri huomini, che ci vivono, di non fallire? Ma perciò che tra le molte cagioni, le quali il nostro tranquillo navicar ci  turbano et il sentiero del buon vivere ci rendono sospetto et dubbioso,  suole con le primiere essere il non saper noi le più volte quale amore buono sia et qual reo, il che non saputo fa che noi, le cose che fuggire si devrebbono amando et quelle che sono da seguire non amando, et tal volta o meno o più del convenevole hora schifandole et hora cercandole travagliati et smarriti viviamo, ho voluto alcuni ragionamenti raccogliere, che in una brigata di tre nostre valorose donne et in parte di madonna la Reina di Cipri, pochi dì sono, tre nostri aveduti et intendenti giovani fecero d’Amore, assai diversamente questionandone in tre giornate, a ffine che il giovamento et pro che essi hanno a me renduto, da·lloro che fatti gli hanno sentendogli, che nel vero non è stato poco, possano etiandio rendere a qualunque altro, così hora da me raccolti, piacesse di sentirgli. Alla qual cosa fare, come che in ciascuna età stia bene l’udire et leggere le giovevoli cose et spetialmente questa, perciò che non amare come che sia in niuna stagione non si può, quando si vede che da natura insieme col vivere a tutti gli huomini è dato che ciascuno alcuna cosa sempre ami, pure io, che giovane sono, i giovani huomini et le giovani donne conforto et invito maggiormente. Perciò che a molti et a molte di loro per aventura agevolmente averrà che, udito quello che io mi profero di scriverne, essi prima d’Amore potranno far giudicio che egli di loro s’habbia fatto pruova. Il che, quanto esser debba lor caro, né io hora dirò, et essi meglio potranno ne gli altri loro più maturi anni giudicare. Ma di vero, sì come nel più delle cose l’uso è ottimo et certissimo maestro, così in alcune, et in quelle massimamente che possono non meno di noia essere che di diletto cagione, sì come mostra che questa sia, l’ascoltarle o leggerle in altrui, prima che a pruova di loro si venga, senza fallo molte volte a molti huomini di molto giovamento è stato. Per la qual cosa bellissimo ritrovamento delle genti è da dir che sieno le lettere et la scrittura, nella qual noi molte cose passate, che non potrebbono altramente essere alla nostra notitia pervenute, tutte quasi in uno specchio riguardando et quello di loro che faccia per noi raccogliendo, da gli altrui essempi ammaestrati ad entrare nelli non prima o solcati pelaghi o caminati sentieri della vita, quasi provati et nocchieri et viandanti, più sicuramente ci mettiamo. Senza che infinito piacere ci porgono le diverse lettioni, delle quali gli animi d’alquanti huomini, non altramente che faccia di cibo il corpo, si pascono assai sovente et prendono insieme da esse dilettevolissimo nodrimento. Ma lasciando questo da parte stare et alle ragionate cose d’Amore, che io dissi, venendo, acciò che meglio Si possa ogni lor parte scorgere tale, quale appunto ciascuna fu ragionata,  stimo che ben fatto sia che, prima che io passi di loro più avanti, come il ragionare havesse luogo si faccia chiaro.


II

 

             Asolo adunque, vago et piacevole castello posto ne gli stremi gioghi delle nostre alpi sopra il Trivigiano, è, sì come ogniuno dee sapere, di madonna la Reina di Cipri, con la cui famiglia, la quale è detta Cornelia, molto nella nostra città honorata et illustre, è la mia non solamente d’amistà et di dimestichezza congiunta, ma anchora di parentado. Dove essendo ella questo settembre passato a’ suoi diporti andata, avenne che ella quivi maritò una delle sue damigielle, la quale, perciò che bella et costumata et gentile era molto et perciò che da bambina cresciuta se l’havea, assai teneramente era da·llei amata et havuta cara. Per che vi fece l’apparecchio delle nozze ordinare bello et grande, et, invitatovi delle vicine contrade qualunque più honorato huomo v’era con le lor donne, et da Vinegia similmente, in suoni et canti et balli et solennissimi conviti l’un giorno appresso all’altro ne menava festeggiando con sommo piacer di ciascuno. Erano quivi tra gli altri, che invitati dalla Reina vennero a quelle feste, tre gentili huomini della nostra città, giovani et d’alto cuore, i quali, da’ loro primi anni ne gli studi delle lettere usati et in essi tuttavia dimoranti per lo più tempo, oltre a·cciò il pregio d’ogni bel costume haveano, che a nobili cavalieri s’appartenesse d’havere. Costor per aventura, come che a tutte le donne che in que’ conviti si trovarono, sì per la chiarezza del sangue loro et sì anchora molto più per la viva fama de’ loro studi et del lor valore fosser cari, essi nondimeno pure con tre di loro belle et vaghe giovani et di gentili costumi ornate, [perciò che prossimani eran loro per sangue et lunga dimestichezza con esse et co’ lor mariti haveano, i quali tutti e tre di que’ dì a Vinegia tornati erano per loro bisogne], più spesso et più sicuramente si davano che con altre, volentieri sempre in sollazzevoli ragionamenti dolci et honeste dimore trahendo. Quantunque Perottino, che così nominare un di loro m’è piaciuto in questi sermoni, poco et rado parlasse, né fosse chi riso in bocca gli havesse solamente una volta in tutte quelle feste veduto. Il quale etiandio molto da ogniuno spesse volte si furava, sì come colui che l’animo sempre havea in tristo pensiero; né quivi venuto sarebbe, se da’ suoi compagni, che questo studiosamente fecero, acciò che egli tra gli allegri dimorando si rallegrasse, astretto et sospinto al venirvi non fosse stato. Né pure solamente Perottino ho io con infinta voce in questa guisa nomato, ma le tre donne et gli altri giovani anchora; non per altro rispetto, se non per tarre alle vane menti de’ volgari occasione, i loro veri nomi non  palesando, di pensar cosa in parte alcuna meno che convenevole alla loro honestissima vita. Con ciò sia cosa che questi parlari, d’uno in altro passando, a brieve andare possono in contezza de gli huomini pervenire, de quali non pochi sogliono esser coloro che le cose sane le più volte rimirano con occhio non sano.


III

 

             Ma alle nozze della Reina tornando, mentre che elle così andavano come io dissi, un giorno tra gli altri nella fine del desinare, che sempre era splendido et da diversi giuochi d’huomini che ci soglion far ridere et da suoni di vari strumenti et da canti hora d’una maniera et quando d’altra rallegrato, due vaghe fanciulle per mano tenendosi, con lieto sembiante al capo delle tavole, là dove la Reina sedea, venute, riverentemente la salutarono; et poi che l’hebbero salutata, amendue levatesi, la maggiore, un bellissimo liuto che nell’una mano teneva al petto recandosi et assai maestrevolmente toccandolo, dopo alquanto spatio col piacevole suono di quello la soave voce di lei accordando et dolcissimamente cantando, così disse:

 

            Io vissi pargoletta in festa e ’n gioco,

De’ miei pensier, di mia sorte contenta:

Hor sì m’afflige Amor et mi tormenta,

C’homai da tormentar gli avanza poco.

            Credetti, lassa, haver gioiosa vita

Da prima entrando, Amor, a la tua corte;

Et già n’aspetto dolorosa morte:

O mia credenza, come m’hai fallita.

            Mentre ad Amor non si commise anchora,

Vide Colcho Medea lieta et secura;

Poi ch’arse per Iason, acerba et dura

Fu la sua vita infin a l’ultim’hora.

 

             Detta dalla giovane cantatrice questa canzone, la minore, dopo un brieve corso di suono della sua compagna che nelle prime note già ritornava, al tenor di quelle altresì come ella la lingua dolcemente isnodando, in questa guisa le rispose:

 

            Io vissi pargoletta in doglia e ’n pianto,

De le mie scorte et di me stessa in ira:

Hor sì dolci pensieri Amor mi spira,

Ch’altro meco non è che riso et canto.

            Harei giurato, Amor, ch’a te gir dietro

Fosse proprio un andar con nave a scoglio;

Così là ’nd’io temea danno et cordoglio,

Utile scampo a le mie pene impetro.

            Infin quel dì, che pria la punse Amore,

Andromeda hebbe sempre affanno et noia;

Poi ch’a Perseo si diè, diletto et gioia

Seguilla viva, et morta eterno honore.

 

             Poi che le due fanciulle hebber fornite di cantare le lor canzoni, alle quali udire ciascuno chetissimo et attentissimo era stato, volendo esse partire per dar forse a gli altri sollazzi luogo, la Reina, fatta chiamare una sua damigiella, la quale, bellissima sopra modo et per giudicio d’ogniun che la vide più d’assai che altra che in quelle nozze v’havesse, sempre quando ella separatamente mangiava di darle bere la serviva, le impose che alle canzoni delle fanciulle alcuna n’aggiugnesse delle sue. Per che ella, presa una sua vivola di maraviglioso suono, tuttavia non senza rossore veggendosi in così palese luogo dover cantare, il che fare non era usata, questa canzonetta cantò con tanta piacevolezza et con maniere così nuove di melodia, che alla dolve fiamma, che le sue note ne’ cuori degli ascoltanti lasciarono, quelle delle due fanciulle furono spenti et freddi carboni:

 

            Amor, la tua virtute

Non è dal mondo [et] da la gente intesa,

Che, da viltate offesa,

Segue suo danno et fugge sua salute.

Ma se fosser tra noi ben conosciute

L’opre tue, come là dove risplende

Più [del tuo] raggio puro,

[Camin dritto] et securo

Prenderia nostra vita, che no ’l prende,

Et tornerian con la prima beltade

Gli anni de l’oro et la felice etade.

 


IV

 

             Ora soleva la Reina per lo continuo, fornito che s’era di desinare et di vedere et udire le piacevoli cose, con le sue damigielle ritrarsi nelle sue camere, et quivi o dormire o, ciò che più le piacea di fare facendo, la parte più calda del giorno separatamente passarsi, et così concedere che ll’altre donne di sé facessero a·llor modo, infino a·ttanto che venuto là dal vespro tempo fosse da festeggiare; nel qual tempo tutte le donne et gentili huomini et suoi cortigiani si raunavano nelle ampie sale del palagio, dove si danzava gaiamente et tutte quelle cose si facevano che a festa di reina si conveniva di fare. Cantate adunque dalla damigiella et dalle due fanciulle queste canzoni et a tutti gli altri sollazzi di quella hora posto fine, levatasi dall’altre donne la Reina, come solea, et nelle sue camere raccoltasi, et ciascuno similmente partendo, rimase per aventura ultime, le tre donne, che io dissi, co’ loro giovani per le sale si spatiavano ragionando, et quindi, da’ piedi et dalle parole portate, ad un verone pervennero, il quale da una parte delle sale più rimota sopra ad un bellissimo giardino del palagio riguardava. Dove come giunsero, maravigliatesi della bellezza di questo giardino, poi che di mirare in esso alquanto al primo disiderio sodisfatto hebbero, hora a questa parte hora a quella gli occhi mandando dal disopra, Gismondo, che il più festevole era de’ suoi compagni et volentieri sempre le donne in festa et honesto giuoco teneva, a·lloro rivoltosi così disse:

             — Care giovani, il dormire dopo ’l cibo a questa hora del dì, quantunque in niuna stagion dell’anno non sia buono, pure la state, perciò che lunghissimi sono i giorni, come quello che cosa piacevole è, da gli occhi nostri volentieri ricevuto, alquanto meno senza fallo ci nuoce. Ma questo mese si incomincia egli a perder molto della sua dolcezza passata et a farsi di dì in dì più dannoso et più grave. Per che, dove voi questa volta il mio consiglio voleste pigliare, le quali stimo che per dormire nelle vostre camere a quest’hora vi rinchiudiate, io direi che fosse ben fatto, lasciando il sonno dietro le cortine de’ nostri letti giacere, che noi passassimo nel giardino, et quivi al rezzo, nel fresco dell’herbe ripost[i]ci, o novellando o di cose dilettevoli ragionando, ingannassimo questa incresciosa parte del giorno, infin che l’hora del festeggiare venuta nelle sale ci richiamasse con gli altri ad honorare la nostra novella sposa. —

             Alle donne, le quali molto più le ombre de gli alberi et gli accorti ragionamenti de’ giovani che il sonno delle coltre regali et le favole dell’altre donne dilettavano, piacque il consiglio di Gismondo. Per che, scese le scale, tutte liete et festose insieme con lui et cogli altri due giovani n andarono nel giardino.


V

 

             Era questo giardino vago molto et di maravigliosa bellezza; il quale, oltre ad un bellissimo pergolato di viti, che largo et ombroso per lo mezzo in croce il dipartiva, una medesima via dava a gl’intranti di qua et di là, et lungo le latora di lui ne la distendeva; la quale, assai spatiosa et lunga et tutta di viva selve soprastrata, si chiudeva dalla parte di verso il giardino, solo che dove facea porta nel pergolato, da una siepe di spesissimi et verdissimi ginevri, che al petto havrebbe potuto giugnere col suo sommo di chi vi si fosse accostar voluto, ugualmente in ogni parte di sé la vista pascendo, dilettevole a riguardare. Dall’altra honorati allori, lungo il muro vie più nel cielo montando, della più alta parte di loro mezzo arco sopra la via facevano, folti et in maniera gastigati, che niuna lor foglia fuori del loro ordine parea che ardisse di si mostrare; né altro del muro, per quanto essi capevano, vi si vedea, che dall’uno delle latora del giardino i marmi bianchissimi di due finestre, che quasi ne gli stremi di loro erano, larghe et aperte, et dalle quali, perciò che il muro v’era grossisimo, in ciascun lato sedendo si potea mandar la vista sopra il piano a cui elle da alto riguardano. Per questa dunque così bella via dall’una parte entrate nel giardino le vaghe donne co’ loro giovani caminando tutte difese dal sole, et questa cosa et quell’altra mirando et considerando et di molte ragionando, pervennero in un pratello che ’l giardin terminava, di freschissima et minutissima herba pieno et d’alquante maniere di vagh[i] fiori dipinto per entro et segnato; nello stremo del quale facevano gli allori, senza legge et in maggior quantità cresciuti, due selvette pari et nere per l’ombre et piene d’una solitaria riverenza; et queste tra l’una el l’altra di loro più a drento davan luogo ad una bellissima fonte, nel sasso vivo della montagna, che da quella parte serrava il giardino, maestrevolmente cavata, nella quale una vena non molto grande di chiara et fresca acqua, che del monte usciva, cadendo et di lei, che guari alta non era dal terreno, in un canalin di marmo, che ’l pratello divideva, scendendo, soavemente si facea sentire et, nel canale ricevuta, quasi tutta coperta dall’herbe, mormorando s’affrettava di correre nel giardino.


VI

 

             Piacque maravigliosamente questo luogo alle belle donne, il quale poi che da ciascuna di loro fu lodato, madonna Berenice, che per età alquanto maggiore era dell’altre due et per questo da esse henorata quasi corne lor capo, verso Gismondo riguardando disse:

             — Deh come mal facemmo, Gismondo, a non ci esser qui tutti questi dì passati venute, ché meglio in questo giardino che nelle nostre camere haremmo quel tempo, che senza la sposa et la Reina ci correz trapassato. Hora, pol che noi qui per lo tuo avedimento più che per lo nostro ci siamo, vedi dove a te piace che si segga, perciò che l’andare altre parti del giardin riguardando il sole ci vieta, che invidiosamente, come tu vedi, se le riguarda egli tuttavia. —

             A cui Gismondo rispose:

             — Madonna, dove a voi così piacesse, a me parrebbe che questa fonte non si dovesse rifiutare, perciò che l’herba è più lieta qui che altrove et più dipinta di fiori. Poi questi alberi ci terranno sì il sole, che, per potere che egli habbia, hoggi non ci si accosterà egli giamai.

             — Dunque — disse madonna Berenice — sediamvici, et dove a te piace, quivi si stia; et acciò che di niente si manchi al tuo consiglio seguire, col mormorio dell’acque che c’invitano a ragionare et con l’horrore di queste ombre che ci ascoltano, disponti tu a dir di quello che a te più giova che si ragioni, perciò che et noi volentieri sempre t’ascoltiamo et, poi che tu ad essi così vago luogo hai dato, meritamente dee in te cadere l’arbitrio de’ nostri sermoni. —

             Dette queste parole da madonna Berenice, et da ciascuna dell’altre due invitato Gismondo al favellare, esso lietamente disse:

             — Poscia che voi questa maggioranza mi date, et io la mi prenderò. —

             Et poi che, fatta di loro corona, a sedere in grembo dell’herbetta posti si furono, chi vicino la bella fonte et chi sotto gli ombrosi allori di qua et di là del picciol rio, Gismondo, accortamente rassettatosi et pel viso d’intorno piacevolmente le belle donne riguardate, in questa guisa incominciò a dire:

             — Amabili donne, ciascuno di noi ha udite le due fanciulle et la vagha damigiella, che dinanzi la Reina, prima che si levassero le tavole, due lodando Amore et l’altra di lui dolendosi, assai vezzosamente cantarono le tre canzoni. Et perciò che io certo sono che chiunque di lui si duole et mala voce gli dà, non ben conosce la natura delle cose et la qualità di lui et di gran lunga va errando dal diritto camin del vero, se alcuna di voi è, belle donne, o di noi, che so che ce ne sono, che creda insieme con la fanciulla primiera che Amore cosa buona non sia, dica sopra ciò quello che ne gli pare, che io gli risponderò, et dammi il cuore di dimostrargli quanto egli con suo danno da così fatta openione ingannato sia. La qual cosa se voi farete, et doverete voler fare, se volete che mio sia quello che una volta donato m’havete, assai bello et spatioso campo haremo hoggi da favellare. —

             Et, così detto, si tacque.


VII

 

             Stettero alquanto sopra sé le honeste donne, intesa la proposta di Gismondo, et già mezzo tra se stessa si pentiva madonna Berenice d’havergli data troppa libertà nel favellare. Pure, riguardando che, quantunque egli amoroso giovane et sollazzevole fosse, per tutto ciò sempre altro che modestamente non parlava, si rassicurò et con le sue compagne cominciò a sorridere di questo fatto; le quali insieme con lei altresì dopo un brieve pentimento rassicurate, s’accorsero, raccogliendo le parole di Gismondo, che egli la fiera tristitia di Perottino pugneva et lui provocava nel parlare, perciò che sapevano che egli di cosa amorosa altro che male non ragionava giamai. Ma per questo niente rispondendo Perottino et ogniuno tacendosi, Gismondo in cotal guisa riparlò:

             — Non è maraviglia, dolcissime giovani, se voi tacete; le quali credo io più tosto di lodare Amore che di biasimarlo v’ingegnereste, sì come quelle cui egli in niuna cosa può haver diservite giamai, se honesta vergogna et sempre in donna lodevole non vi ritenesse. Quantunque d’Amore si possa per ciascun sempre honestissimamente parlare. Ma de’ miei compagni sì mi maraviglio io forte, i quali doverebbono, se bene altramente credessero che fosse il vero, scherzando almeno favoleggiar contra lui, a·ffine che alcuna cosa di così bella materia si ragionasse hoggi tra noi; non che dovessero essi ciò fare, essendovene uno per aventura qui, che siede, il quale male d’Amor giudicando tiene che egli sia reo, et sì si tace. —

             Quivi non potendosi più nascondere Perottino, alquanto turbato, sì come nel volto dimostrava, ruppe il suo lungo silentio così dicendo:

             — Ben m’accorgo io, Gismondo, che tu in questo campo me chiami, ma io sono assai debole barbero a cotal corso. Per che meglio farai se tu, in altro piano et le donne et Lavinello et me, se ti pare, provocando, meno sassosi et rincrescievoli aringhi ci concederai poter fare. —

             Ora quivi furono molte parole et da Gismondo et da Lavinello dette, che il terzo compagno era, acciò che Perottino parlasse; ma egli, non si mutando di proposito, ostinatamente il ricusava. La qual cosa madonna Berenice et le sue compagne veggendo, lo ’ncominciaron tutte instantemente a pregare che egli et per piacer di ciascuno et per amor di loro aleuna cosa dicesse, disiderose di sentirlo parlare; et tanto intorno a·cciò con dolci parole hor una hor altra il combatterono, che egli alla fine vinto rendendosi disse loro così:

             — Et il tacere et il parlare hoggimai ugualmente mi sono discari, perciò che né quello debbo, né questo vorrei. Hora vinca la riverenza, donne, che io a’ vostri eommandamenti sono di portar tenuto, non già a quelli di Gismondo, il quale poteva con suo honore, miglior materia che questa non è proponendoci, et voi et me et se stesso ad un tratto dilettare, dove egli tutti insieme con sua vergogna ci attristerà. Perciò che né voi udirete cose che piacevoli sieno ad udire, et io di noiose ragionerò, et esso per aventura ciò che egli non cerca sì si troverà; il quale, credendosi d’alcuna occasion dare a’ suoi ragionamenti col mio, ogni materia si leva via di poter, non dico acconciamente, ma pure in modo alcuno favellare. Perciò che ravedutosi, per quello che a me converrà dire, in quanto errore non io, cui egli vi crede essere, ma esso sia, che ciò crede, se egli non ha ogni vergogna smarrita, esso si rimarrà di prender l’arme contra ’l vero; et quando pure ardisse di prenderlesi, fare no ’l potrà, perciò che non gli fia rimaso che pigliare.

             — O armato o disarmato — rispose Gismondo — in ogni modo ho io a farla teco questa volta, Perottino. Ma troppo credi, se tu credi che a me non debba rimaner che pigliare, il quale non posso gran fatto pigliar cosa che arma contra te non sia. Ma tu nondimeno àrmati, ché a me non parrebbe vincere. se bene armato non ti vincessi. —


VIII

 

             Riser le donne delle parole di due pronti cavalieri a battaglia. Ma Lisa, che l’una dell’altre due così mi piacque di nominare, a cui parea che Lavinello tacendosi occasione fugisse di parlare, a·llui sorridendo disse:

             — Lavinello, a te fie di vergogna, se tu, combattendo i tuoi compagni, con le mani a cintola ti starai: egli conviene che entri in campo anchor tu. —

             A cui il giovane con lieta fronte rispose:

             — Anzi non posso io, Lisa, in cotesto campo più entrare, che egli di vergogna non mi sia. Perciò che come tu vedi, poi che i miei compagni già si sono ingaggiati della battaglia tra loro, honesta cosa non è che io, con un di lor mettendomi, l’altro, a cui solo converria rimanere, faccia con due guerrieri combattitore.

             — Non t’è buona scusa cotesta, Lavinello — risposero le donne quasi con un dire tutt’e tre; et poi Lisa, raffermatesi l’altre due, che a·llei lasciavano la risposta, seguitò:

             — Et non ti varrà, nello non volere pigliar l’arme, il difenderti per cotesta via. Perciò che non sono questi combattimenti di maniera, che quello si debba osservare che tu di’, che da due incontro ad uno non si vada. Egli non ne muore niuno in così fatte battaglie: entravi pure et appigliati comunquemente tu vuoi.

             — Lisa, Lisa, tu hai havuto un gran torto — rispose allhora Lavinello, così con un dito per ischerzo minacciandola giochevolmente. Indi, all’al tre due giratosi disse:

             — Io mi tenni testé, donne, tutto buono, estimando, per lo vedervi intente alla zuffa di costor due, che a me non doveste volger l’animo, né dare altro carico di trappormi a queste contese. Hora, poscia che a Lisa non è piaciuto che io in pace mi stia, acciò che almeno doler di me non si possano i miei compagni, lasciamgli far da·lloro a·llor modo; come essi si rimarranno dalla mischia, non mancherà che, sì come i buoni schermidori far sogliono, che a sé riservano il sezzaio assalto, così io le lasciate arme ripigliando, non pruovi di sodisfare al vostro disio. —


IX

 

             Così detto et risposto et contentato, dopo un brieve silentio di ciascuno, Perottino, quasi da profondo pensiero toltosi, verso le donne levando il viso, disse:

             — Hora piglisi Gismondo ciò che egli si guadagnerà; et non si penta, poscia che egli questo argine ha rotto, se per aventura et a·llui maggiore acqua verrà addosso che bisogno non gli sarebbe d’avere, et di voi altramente averrà che il suo aviso non sarà stato. Ché, come che io non speri di potere in maniera alcuna, quanto in così fatta materia si converrebbe, di questo universale danno de gli huomini, di questa generalissima vergogna delle genti, Amore, o donne, raccontarvi, perciò che non che io il possa, che uno et debole sono, ma quanti ci vivono, pronti et accorti dicitori il più, non ne potrebbono assai bastevolmente parlare; pure et quel poco che io ne dirò, da che io alcuna cosa ne ho a dire, parrà forse troppo a Gismondo, il quale altramente si fa a credere che sia il vero, che egli non è, et a voi anchora potrà essere di molto risguardo, che giovani sete, ne gli anni che sono a venire, il conoscere in alcuna parte la qualità di questa malvagia fiera. —

             Il che poi che esso hebbe detto, fermatosi et più alquanto temperata la voce, cotale diede a’ suoi ragionamenti principio:

             — Amore, valorose donne, non figliuolo di Venere, come si legge nelle favole de gli scrittori, i quali tuttavia in questa stessa bugia tra se medesimi discordando il fanno figliuolo di diverse Idie, come se alcuno diverse madri haver potesse, né di Marte o di Mercurio o di Volcano medesimamente o d’altro Idio, ma da soverchia lascivia et da pigro otio de gli huomini, oscurissimi et vilissimi genitori, nelle nostre menti procreato, nasce da prima quasi parto di malitia et di vitio; il quale esse menti raccolgono et, fasciandolo di leggierissime speranze, poscia il nodriscono di vani et stolti pensieri, latte che tanto più abonda, quanto più ne sugge l’ingordo et assetato bambino. Per che egli crescie in brieve tempo et divien tale, che egli ne’ suoi ravolgimenti non cape. Questi, come che, di poco nato, vago et vezzoso si dimostri alle sue nutrici et maravigliosa festa dia loro della prima vista, egli nondimeno alterando si va le più volte di giorno in giorno et cangiando et tramutando, et prende in picciolo spatio nuove faccie et nuove forme, di maniera che assai tosto non si pare più quello che egli, quando e’ nacque, si parea. Ma tuttavia, quale che egli si sia nella fronte, egli nulla altro ha in sé et nelle sue operationi che amaro, da questa parola, sì come io mi credo, assai acconciamente così detto da chiunque si fu colui il quale prima questo nome gli diè, forse a·ffine che gli huomini lo schifassero, già nella prima faccia della sua voce avedutisi ciò che egli era. Et nel vero chiunque il segue, niuno altro guiderdone delle sue fatiche riceve che amaritudine, niuno altro prezzo merca, niuno appagamento che dolore, perciò che egli di quella moneta paga i suoi seguaci, che egli ha, et sì n’ha egli sempre grande et infinita dovitia, et molti suoi thesorieri ne mena seco che la dispensano et distribuiscono a larga et capevole misura, a quelli più donandone, che di se stessi et della loro libertà hanno più donato al lusinghevole signore. Per la qual cosa non si debbono ramaricar gli huomini se essi amando tranghiottono, sì come sempre fanno, mille amari et sentono tutto ’l giorno infiniti dolori, con ciò sia cosa che così è di loro usanza, né può altramente essere; ma che essi amino, di questo solo ben si debbono et possonsi sempre giustamente ramaricare. Perciò che amare senza amaro non si può, né per altro rispetto si sente giamai et si pate alcuno amaro che per amore. —


X

 

             Havea dette queste parole Perottino, quando madonna Berenice, che attentissimamente le raccoglieva, così a·llui incominciò traponendosi:

             — Perottino, vedi bene già di quinci ciò che tu fai; perciò che, oltra che a Gismondo dia l’animo di pienamente alle tue proposte rispondere, sì come egli testé ci disse, per aventura il non conciederti le sconcie cose etiandio a niuna di noi si disdice. Se pure non c’è disdetto il trametterci nelle vostre dispute, nella qual cosa io per me tuttavia errare non vorrei o esser da voi tenuta senza rispetto et presontuosa.

             — Senza rispetto non potrete voi essere, Madonna, né presontuosa da noi tenuta parlando et ragionando, — disse allhora Gismondo — et le vostre compagne similmente, poi che noi tutti venuti qui siamo per questo fare. Per che tramettetevi ciascuna, sì come più a voi piace, ché queste non sono più nostre dispute che elle esser possano vostri ragionamenti.

             — Dunque — disse madonna Berenice — farò io sicuramente alle mie compagne la via. — Et, così detto, a Perottino rivoltasi seguitò:

             — Et certo se tu havessi detto solamente, Perottino, che amare senza amaro non si possa, i’ mi sarei taciuta, né ardirei dinanzi a Gismondo di parlare; ma lo aggiugnervi che per altro rispetto amaro alcuno non si senta che per amore, soverchio m’è paruto et sconvenevole. Perciò che così potevi dire, che ogni dolore da altro che d’amore cagionato non sia; o io bene le tue parole non appresi.

             — Anzi le havete voi apprese bene et dirittamente, — rispose Perottino — et cotesto stesso dico io, Madonna, che voi dite: niuna qualità di dolore, niun modo di ramarico essere nella vita de gli huomini, che per cagion d’amore non sia, et da·llui, sì come fiume da suo fonte, non si dirivi. Il che la natura medesima delle cose, se noi la consideriamo, assai ci può prestamente far chiaro. Perciò che, sì come ciascun di noi dee sapere, tutti i beni et tutti i mali, che possono a gli huomini come che sia o diletto recare o dolore, sono di tre maniere et non più: dell’animo, della fortuna et del corpo. Et perciò che dalle buone cose dolore alcuno venir non può, delle tre maniere de’ mali, dalle quali esso ne viene, ragioniamo. Gravose febbri, non usata povertà, sceleratezza et ignoranza che sieno in noi, et tutti gli altri danni a questi somiglianti che infinita fanno la loro schiera, ci apportano senza fallo dolore et più et men grave secondo la loro et la nostra qualità; il che non haverrebbe se noi non amassimo i loro contrari. Perciò che se il corpo si duole, d’alcuno accidente tormentato, non è ciò se non perché egli naturalmente ama la sua sanità; ché se egli non l’amasse da natura, impossibile sarebbe il potersene alcun dolere, non altramente che se egli di secco legno fosse o di soda pietra. Et se, d’alto stato in bassa fortuna caduti, a noi stessi c’incresciamo, l’amore delle ricchezze il fa et de gli honori et dell’altre somiglianti cose, che per lungo uso o per elettione non sana si pon loro. Onde se alcuno è che non le ami, sì come si legge di quel philosopho che nella presura della sua patria niente curò di salvarsi, contento di quello che seco sempre portava, costui certamente de gli amari giuochi della fortuna non sente dolore. Già la bella virtù et il giovevole intendere, che albergano ne’ nostri animi, amati sogliono da ciascuno essere per naturale instinto et disiderati; perché ogniuno, da occulto pungimento stimolato, della sua malvagità et della sua ignoranza ravedutosi, si ramarica come di cose dolorose. Et se pure si concedesse alcuno potersi trovare, il quale, vitiosamente et senza lume d’intelletto vivendo, non s’attristasse alle volte del suo mal vivere come che sia, a costui senza dubbio, o per diffalta estrema di conoscimento o per infinita ostinatione della perduta usanza, il virtuosamente vivere et lo essere intendente in niun modo non sarebbe caro. Né pur questo solamente cade ne gli huomini, ma egli è anchora manifestamente conosciuto nelle fiere; le quali amano i loro figliuoli assai teneramente per lo generale ciascuna, mentre essi novellamente partoriti in loro cura dimorano. Allhora, se alcun ne muore o vien lor tolto come che sia, esse si dogliono quasi come se humano conoscimento havessero. Quelle medesime, i loro figliuoli cresciuti et per se stessi valevoli, se poi strozzare dinanzi a gli occhi loro si veggono et sbranare, di niente s’attristano, perciò che esse non gli amano più. Di che assai vi può esser chiaro che, sì come ogni fiume nasce da qualche fonte, così ogni doglia procede da qualche amore et, sì come fiume senza fonte non ha luogo, così conviene esser vero quello che voi diceste, che ogni dolore altro che d’amore non sia. Et perciò che non è altro l’amaro che io dissi, che il tormento et dolor dell’animo che egli per alcuno accidente in sé pate, quel medesimo conchiudendo, Madonna, vi raffermo, che voi ripigliaste: che per altra cagione amaro alcuno non si sente da gli huomini, né si pate, che per amore. —


XI

 

             Taceva da queste parole soprapresa madonna Berenice et sopra esse pensava, quando Gismondo sogghignando così disse:

             — Senza fallo assai agevolmente haresti tu hoggi stemperata ogni dolcezza d’amore con l’amaro d’un tuo solo argomento, Perottino, se egli ti fosse conceduto. Ma perciò che a me altramente ne pare, quando più tempo mi fie dato da risponderti, meglio si vedrà se cotesta tua cotanta amaritudine si potrà raddolcire. Hora insegnaci quanto quell’altra proposta sia vera, dove tu di’ che amare senza amaro non si puote.

             — Quivi ne veniva io testé — rispose Perottino — et di quello che io mi credo che ciascun di noi tuttavia in se stesso pruovi, ragionando, potrei con assai brievi parole, Gismondo, dimostrarloti. Ma poscia che tu pure a questi ragionamenti mi trahesti, a me piace che più stesamente ne cerchiamo. Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbationi dell’animo niuna è così noievole, così grave, niuna così forzevole et violenta, niuna che così ci commuova et giri, come questa fa, che noi Amore chiamiamo; gli scrittori alcuna volta il chiaman fuoco, perciò che, sì come il fuoco le cose nelle quali egli entra egli le consuma, così noi consuma et distrugge Amore; alcuna volta furore, volendo rassomigliar l’amante a quelli che stati sono dalle Furie sollecitati, sì come d’Horeste et d’Aiace et d’alcuni altri si scrive. Et perciò che per lunga sperienza si sono aveduti niuna essere più certa infelicità et miseria che amare, di questi due sopranomi, sì come di proprie possessioni, hanno la vita de gli amanti privilegiata, per modo che in ogni libro, in ogni foglio misero amante, infelice amante et si legge et si scrive. Senza fallo esso Amore niuno è che piacevole il chiami, niun dolve, niuno humano il nomò giamai: di crudele, d’acerbo, di fiero, tutte le carte son piene. Leggete d’Amore quanto da mille se ne scrive: poco o niente altro in ciascun troverete che dolore. Sospirano i versi in alcuno; piangono di molti i libri interi; le rime, gl’inchiostri, le carte, i volumi stessi son fuoco. Sospitioni, ingiurie, nimicitie, guerre già in ogni canzone si raccontano, nella quale d’amor si ragioni; et sono questi in amore mediocri dolori. Disperationi, rubellioni, vendette, catene, ferite, morti, chi può con l’animo non tristo o anchora con gli occhi asciutti trappassare? Né pur di loro le lievi et divolgate favole solamente de’ poeti, o anchora quelle che, per essempio della vita, scritte da·lloro state sono più giovevolmente, ma etiandio le più gravi historie et gli annali più riposti ne son macchiati. Che per tacere de gl’infelici amori di Piramo et di Tisbe, delle sfrenate et illecite fiamme di Mirra et di Bibli et del colpevole et lungo error di Medea et di tutti i loro dolorosissimi fini, [i] quali, posto che non fosser veri, sì furono essi almeno favoleggiati da gli antichi per insegnarci che tali possono esser quelli de’ veri amori; già di Paolo et di Francesca non si dubita che nel mezzo de’ loro disij d’una medesima morte et d’un solo ferro amendue, sì come d’un solo amore traffitti, non cadessero. Né di Tarquinio altresì fingono gli scrittori, al quale fu l’amore, che di Lucretia il prese, et della privation del regno et dell’essiglio insieme et della sua morte cagione. Né è chi per vero non tenga che le faville d’un Troiano et d’una Greca tutta l’Asia et tutta l’Europa raccendessero. Taccio mille altri essempi somiglianti, che ciascuna di voi può et nelle nuove et nelle vecchie scritture haver letti molte fiate. Per la qual cosa manifestamente si vede Amore essere non solamente di sospiri et di lagrime, né pur di morti particolari, ma etiandio di ruine d’antichi seggi et di potentissime città et delle provintie istesse cagione. Cotali sono le costui operationi, o donne, cotali memorie egli di sé ha lasciato, a·ffine che ne ragioni chiunque ne scrive. Vedi tu dunque, Gismondo, se vorrai dimostrarci che Amore sia buono, che non ti sia di mestiero mille antichi et moderni scrittori, che di lui come di cosa rea parlano, ripigliare. —


XII

 

             Detto fin qui da Perottino, Lisa in seder levatasi, che con la mano alla gota et col braccio sopra l’orlo della fonte tutta in sul lato sinistro ascoltandolo si riposava, così ne ’l dimandò et disse: — Perottino, quello che a Gismondo faccia mestiero di ripigliare egli il si veda, che t’ha a rispondere, quando ad esso piacerà o sarà tempo. A me hora rispondi tu. Se è cagione Amore di tanti mali quanti tu di’ che i vostri scrittori gli appongono, perché il fanno eglino Idio? Perciò che, sì come io ho letto alcuna fiata, essi il fanno adorar da gli huomini et consacrangli altari et porgongli voti et dannogli l’ali da volare in cielo. Chiunque male fa, egli certamente non è Idio, et chiunque Idio è, egli senza dubbio non può far male. Dunque, se ti piace, dimmi come questo fatto si stia. Et per aventura che tu in ciò a madonna Berenice et a Sabinetta non meno che a me piacerai, le quali possono altresì come io altra volta sopra questo dubbio haver pensato, né mai perciò non m’avenne di poterne dimandare così bene o pure così a tempo, come fa hora. —

             Alle cui parole continuando le due donne et mostrando che ciò sarebbe loro parimente caro a dover da Perottino udire, esso, alquanto prima taciutosi, così rispose:

             — I poeti, Lisa, che furono primi maestri della vita, ne’ tempi che gli huomini rozzi et salvatichi non bene insieme anchora si raunavano, insegnati dalla natura, che havea dato loro la voce et lo ’ngegno acconcio a cciò fare, i versi trovarono, co’ quali cantando amollivano la durezza di que’ popoli che, usciti de gli alberi et delle spelunche, senza più oltre sapere che cosa si fossero, a caso errando ne menavan la loro vita sì come fiere. Né guari cantarono que’ primi maestri le lor canzoni, che essi seco ne trahevano quegli huomini selvaggi, invaghiti delle lor voci, dove essi n’andavano cantando. Né altro fu la dilettante cethara d’Orpheo, che le vaghe fiere da’ lor boschi et gli alti alberi dalle lor selve et da’ lor monti le sode pietre et i precipitanti fiumi da’ lor corsi ritoglieva, che la voce d’un di que’ primi cantori, dietro alla quale ne venivano quegli huomini che con le fiere tra gli alberi nelle selve et ne’ monti et nelle rive de’ fiumi dimoravano. Ma altre a cciò, perciò che, raunata quella sciocca gente, bisognava insegnar loro il vivere et mostrar loro la qualità delle cose, acciò che seguendo le buone dalle ree si ritrahessero, né capeva in quegli animi ristretti la grandezza della natura et nelle loro sonnocchiose menti non poteva ragione entrare, che lor si dicesse, trovarono le favole altresì, sotto il velame delle quali la verità, sì come sotto vetro traparente, ricoprivano. A questa guisa del continuo dilettandogli con la novità delle bugie, et alcuna volta tra esse scoprendo loro il vero, hora con una favola et quando con altra gl’insegnarono a poco a poco la vita migliore. In quel tempo adunque che il giovane mondo i suoi popoli poco ammaestrati havea, fu Amore insieme con molti altri fatto Idio, sì come tu di’, Lisa, non per altro rispetto, se non per dimostrare a quelle grosse genti con questo nome d’Idio quanto nelle humane menti questa passione poteva. Et veramente se noi vogliamo considerando trapassar nel potere, che Amore sopra di noi ha et sopra la nostra vita, egli si vedrà chiaramente infiniti essere i suoi miracoli a nostro gravissimo danno et veramente maravigliosi, cagione giusta della deità dalle genti datagli, sì come io dico. Perciò che quale vive nel fuoco come salamandra, quale ogni caldo vital perdutone si raffredda come ghiaccio, quale come neve a sole si distrugge, quale a guisa di pietra, senza polso, senza spirito, mutolo et immobile et insensibile si rimane. Altri fia che senza cuore si viverà, a donna che mille stratij ad ogni hora ne fa havendol dato; altri hora in fonte si trasmuta, hora in albero, hora in fiera; et chi, portato da forzevoli venti, ne va sopra le nuvole, stando per cadere tuttavia, et chi nel centro della terra et ne gli abissi più profondi si dimora. Et se voi hora mi dimandaste come io queste così nuove cose sappia, senza che elle si leggono, vi dico che io tutte le so per pruova et, come per isperienza dotto, così ne favello. Oltra che maravigliosa cosa è il pensare chenti et quali sieno le disagguaglianze, le discordanze, gli errori, che Amore nelle menti de’ servi amanti traboccando accozza con gravosa disparità. Perciò che chi non dirà che essi sieno sopra ogni altra miseria infelici, quando et allegrissimi sono et dolorosissimi una stessa hora et da gli occhi loro cadono amare lagrime con dolce riso mescolate, il che bene spesso suole avenire; o quando ardiscono et temono in uno medesimo instante, onde essi, per molto disiderio pieni di caldo et di focoso ardire, impallidiscono et triemano dalla gelata paura; o quando da diversissime angoscie ingombrati et orgoglio et humiltà et improntitudine et tiepidezza et guerra et pace parimente gli assalgono et combattono ad un tempo; o quando, con la lingua tacendo et col volto, parlano et gridano ad alta voce col cuore? et sperano et disperano et la lor vita cercano et abbracciano la lor morte insiememente? et per lo continuo dando luogo in sé a due lontanissimi affetti, il che non suole potere essere nelle altre cose, et da essi stratiatamente qua et là in uno stesso punto essendo portati, tra queste et somiglianti distemperatezze il senso si dilegua loro et il cuore? Et fannoci a credere che vero sia quello che alcun philosopho già disse, che gli huomini hanno due anime ciascuno, con l’una delle quali essi all’un modo vogliono et con l’altra vogliono all’altro; perciò che egli non pare possibile che con una sola anima si debba poter volere due contrari.


XIII

 

             Le quali maniere di maraviglie, come che tutte s’usino nell’hoste che Amor conduce, pure l’ultima, che io dissi, v’è più sovente che altra et, tra molta dissonantia d’infiniti dolori, ella quasi giusta corda più spesso al suono della verità risponde, sì come quella che è la più propria di ciascuno amante et in sé la più vera, ciò è che essi la lor vita cercano et abbracciano la lor morte tuttavia. Con ciò sia cosa che mentre essi vanno cercando i diletti loro et quelli si credono seguitare, dietro alle lor noie inviati et d’esse invaghiti sì come di ben loro, tra mille guise di tormenti disconvenevoli et nuovi alla fin fine si procacciano di perire, chi in un modo et chi in altro, miseramente et stoltamente ciascuno. Et chi negherà che stoltamente et miseramente non perisca chiunque, da semplice follia d’amore avallato, trabocca alla sua morte così leggiero? Certo niuno, se non quei che ’l fanno; a’ quali spesse volte tra per sover chio di dolore et per manchamento di consiglio è così grave il vivere, che pure non che la schifino, anzi essi le si fanno incontro volentieri: chi perché ad esso pare così più speditamente che in altra maniera poter finire i suoi dolori, et chi per far venire almeno una volta pietà di sé ne gli occhi della sua donna, contento di trarne solamente due lagrime per guiderdone di tutte le sue pene. Non pare a voi nuova pazzia, o donne, che gli amanti per così lievi et istrane cagioni cerchino di fuggire la lor propria vita? Certo sì dee parere; ma egli è pure così. Et non che io in me una volta provato l’habbia, ma egli è buon tempo che, se mi fosse stato conceduto il morire, a me sarebbe egli carissimo stato et sarebbe hora più che mai. A questo modo, o donne, s’ingegnano gli amanti contro al corso della natura trovar via; la quale, havendo parimente ingenerato in tutti gli huomini natio amore di loro stessi et della lor vita et continua cura di conservarlasi, essi odiandola et di se stessi nimici divenuti amano altrui, et non solamente di conservarla non curano, ma spesso anchora, contro a se medesimi incrudeliti, volontariamente la rifiutano dispregiando. Ma potrebbe forse dire alcuno: "Perottino, coteste son favole a quistione d’innamorato più convenevoli, sì come le tue sono, che a vero argomentare di ragionevole huomo. Perciò che se a te fosse stato così caro il morire, come tu di’, chi te n’haverebbe ritener potuto, essendo così in mano d’ogni huomo vivo il morire, come non è più il vivere in poter di quelli che son già passati? Queste parole più follemente si dicono che i fatti non si fanno di leggiere". Maravigliosa cosa è, o donne, ad udir quello che io hora dirò; il che, se da me non fosse stato provato, appena che io ardissi d’imaginarlomi, non che di raccontarlo. Non è, sì come in tutte l’altre qualità d’huomini, ultima doglia il morire ne gli amanti; anzi loro molte volte in modo è la morte dinegata, che già dire si può che in somma et strema miseria felicissimo sia colui che può morire. Perciò che aviene bene spesso, il che forse non udiste voi, donne, giamai, né credevate che potesse essere, che, mentre essi dal molto et lungo doIor vinti sono alla morte vicini et sentono già in sé a poco a poco partire dal penoso cuore la lor vita, tanto d’allegrezza et di gioia sentono i miseri del morire, che questo piacere, confortando la sconsolata anima tanto più, quanto essi meno sogliono haver cosa che loro piaccia, ritorna vigore ne gl’indeboliti spiriti, i quali a forza partivano, et dona sostentamento alla vita che manchava. La qual cosa, quantunque paia nuova, quanto sia possibile ad essere in huomo innamorato, io ve ne potrei testimonianza donare, che l’ho provata, et recarvi in fede di ciò versi, già da me per lo adietro fatti, che lo discrivono, se a me non fosse dicevole vie più il piagnere che il cantare. —


XIV

 

             Quivi, come da cosa molto disiata sopragiunta et tutta in se stessa subitamente recatasi, madonna Berenice:

             — Deh — disse — se questo Idio ti conceda, Perottino, il vivere lietamente tutti gli anni tuoi, prima che tu più oltre vada ragionando, dicci questi tuoi versi. Perciò che buona pezza è che io son vaga sommissimamente d’udire alcuna delle tue canzoni, et certa sono che tu, le ne dicendo, diletterai insiememente queste altre due che t’ascoltano, né meno di me son vaghe d’udirti; perciò che ben sappiamo quanto tra gl’intendenti giovani sieno le tue rime lodate. —

             A cui Perottino, un profondissimo sospiro con le parole mandando fuora, in questa guisa rispose:

             — Madonna, questo Idio, male per me troppo bene conosciuto, i miei anni lieti non può egli più fare né farà giamai, quando anchora esso far lieti quegli di tutti gli altri huomini potesse, sì come non puote. Perciò che la mia ingannevole fortuna di quel bene m’ha spogliato, dopo il qua le niuna cosa mi può essere, né sarà mai, né lieta né cara, se non quella una che è di tutte le cose ultimo fine; la quale io ben chiamo assai spes so, ma ella sorda, con la mia fortuna accordatasi, non m’ascolta, forse perché io, soverchio vivendo, rimanga per essempio de’ miseri bene lun gamente infelice. Hora poscia che io ho già preso ad ubidirvi et ho a voi fatto palese quello che nascondere harei potuto, et sarebbe il meglio stato, ché men male suole essere il morirsi huom tacendo che lamentandosi, quantunque le mie rime da esser dette a donne liete et festeggianti non siano, io le pure dirò. —

             Mossono a pietà i pieghevoli cuori delle donne queste ultime parole di Perottino; quando egli, che con fatica grandissima le lagrime a gli occhi ritenne, alquanto rihavutosi, così incominciò a dire:

 

            Quand’io penso al martire,

Amor, che tu mi dai, gravoso et forte,

Corro per gir a morte,

Così sperando i miei danni finire.

            Ma poi ch’i’ giungo al passo,

Ch’è porto in questo mar d’ogni tormento,

Tanto piacer ne sento,

Che l’alma si rinforza, ond’io no ’l passo.

            Così ’l viver m’ancide,

Così la morte mi ritorna in vita:

O miseria infinita,

Che l’uno apporta et l’altra non recide.

 


XV

 

             Lodavano le donne et gli altri giovani la canzone da Perottino recitata, et esso interrompendogli, soverchio delle sue lode schifevole, volea seguitando alle prime proposte ritornare, se non che madonna Berenice, ripigliando il parlare:

             — Almeno — disse — sij di tanto contento, Perottino, poi che l’essere lodato contra l’uso di tutti gli altri huomini tu pure a noia ti rechi, che, dove acconciamente ti venga così ragionando alcun de’ tuoi versi ricordato, non ti sia grave lo sporloci; perciò che et noi tutte e tre, che del tuo honore vaghissime siamo, et i tuoi compagni medesimamente, i quali son certa che come fratello t’amino, quantunque essi altre volte possano le tue rime havere udite, sollazzerai con tua pochissima fatica grandemente. —

             A queste parole rispostole Perottino che come potesse il farebbe, così rientrò nel suo parlare:

             — Et che si potrà dir qui, se non che per certo tanto stremamente è misera la sorte de gli amanti, che essi, vivendo, perciò che vivono, non possono vivere et, morendo, perciò che muoiono, non possono morire? Io certamente non so che altro succhio mi sprema di così nuovo assenzo d’amore se non quest’uno, il quale quanto sia amaro siate contente, giovani donne, il cui bene sempre mi fie caro, di conoscere più tosto senten done raglonare che gustandolo. Ma, o potenza di questo Idio, non so qual più noievole o maravigliosa, non si contenta di questa loda né per somma la vuole de’ suoi miracoli Amore; il quale, perciò che si può argomentare che, sì come la morte può ne gli amanti cagionar la noia del vivere, così può bastare a cagionarvi la vita la gioia che essi sentono del morire, vuole tal volta in alcuno non solamente che esso non possa morire senza cagione havere alcuna di vita, ma fa in modo che egli di due manifestissime morti, da esse fierissimamente assalito, sì come di due vite si vive. A me medesimo tuttavia, donne, pare oltre ogni maniera nuovo questo stesso che io dico; et pure è vero: certo così non fosse egli stato, che io sarei hora fuori d’infinite altre pene, dove io dentro vi sono. Perciò che havendo già per li tempi adietro Amore il mio misero et tormentato cuore in cocentissimo fuoco posto, nel quale stando egli conveniva che io mi morissi, con ciò sia cosa che non havrebbe la mia virtù potuto a cotanto incendio resistere, operò la crudeltà di quella donna, per lo cui amore io ardeva, che io caddi in uno abondevolissimo pianto, del quale l’ardente cuore bagnandosi opportuna medicina prendeva alle sue fiamme. Et questo pianto haverebbe per sé solo in maniera isnervati et infieboliti i legamenti della mia vita et così vi sarebbe il cuore allagato dentro, che io mi sarei morto, se stato non fosse che, rassodandosi per la cocitura del fuoco tutto quello che il pianto stemperava, cagione fu che io non mancai. In questa guisa l’uno et l’altro de’ miei mali pro facendomi, et da due mortalissimi accidenti per la loro contraoperatione vita venendomene, si rimase il cuore in istato, ma quale stato voi vedete, con ciò sia cosa che io non so quale più misera vita debba potere essere, che quella di colui è, il quale da due morti è vivo tenuto et, perciò che egli doppiamente muore, egli si vive. —


XVI

 

             Così havendo detto Perottino, fermatosi et poi a dire altro passar volendo, Gismondo con la mano in ver di lui aperta sostandolo, a madonna Berenice così disse: — Egli non v’attien, Madonna, quello che egli v’ha testé promesso di sporvi delle sue rime, potendol fare. Perciò che egli una canzone fe’ già che di questo miracolo medesimo racconta, vaga et gentile, et non la vi dice. Fate che egli la vi dica, che ella vi piacerà. —

             Il che udito, la donna subitamente disse:

             — Dunque ci manchi tu, Perottino, della tua promessa così tosto? O noi ti credavamo huom di fede. —

             Et con tai parole et con altre scongiurandol tutte, non solamente a dir loro quella canzone della quale Gismondo ragionava, ma anchor del l’altre, se ad huopo venissero di quello che egli dir volea, il constrinsero, et fattolsi ripromettere più d’una volta, egli alla canzone venendo con voce compassionevole così disse:

 

            Voi mi poneste in foco,

Per farmi anzi ’l mio dì, Donna, perire;

Et perché questo mal vi parea poco,

Col pianto raddoppiaste il mio languire.

Hor io vi vo’ ben dire:

"Levate l’un martire,

Ché di due morti i’ non posso morire.

            Però che da l’ardore

L’humor che ven de gli occhi mi difende,

Et che ’l gran pianto non dstempre il core

Face la fiamma che l’asciuga e ’ncende.

Così quanto si prende

L’un mal, l’altro mi rende,

Et giova quello stesso che m’offende.

            Che se tanto a voi piace

Veder in polve questa carne ardita,

Che vostro et mio mal grado è sì vivace,

Perché darle giamai quel che l’aita?

Vostra voglia infinita

Sana la sua ferita,

Ond’io rimango in dolorosa vita.

            Et di voi non mi doglio,

Quanto d’Amor che questo vi comporte;

Anzi di me, ch’anchor non mi discioglio’’.

Ma che poss’io? con leggi inique et torte

Amor regge sua corte.

Chi vide mai tal sorte:

Tenersi in vita un huom con doppia morte?


XVII

 

             Et così detto seguitò:

             — Parti, Lisa, che a questi miracoli s’acconvenga che il loro facitore sia Idio chiamato? Parti che non sanza cagione que’ primi huomini gli habbiano imposto cotal nome? Perciò che tutte le cose che fuori dell’uso naturale avengono, le quali per questo si chiamano miracoli, che maraviglia a gli huomini recano o intese o vedute, non posson procedere da cosa che sopranaturale non sia, et tale sopra tutte l’altre è Dio. Questo nome adunque diedero ad Amore, sì come a colui la cui potenza sopra quella della natura ad essi parea che si distendesse. Ma io a dimostrarloti, più vago de’ miei mali che de gli altrui, non ho quasi adoperato altro, sì come tu hai veduto, che la memoria d’una menomissima parte de’ miei infiniti et dolorosi martiri; e quali però insieme a tutti, avenga che essi di soverchia miseria fare essempio mi potessero a tutto il mondo in fede della potenza di questo Idio, se bene in maggior numero non si stendessero che questi sono, de’ quali tu hai udito, pure, a comperatione di quelli di tutti gli altri huomini, per nulla senza fallo riputar si possono o per poco. Che se io t’havessi voluto dipignere ragionando le historie di centomila amanti che si leggono, sì come nelle chiese si suole fare, nelle quali dinanzi ad uno Idio non la fede d’un huom solo, ma d’infiniti, si vede in mille tavolette dipinta et raccontata, certo non altramente maravigliata te ne saresti che sogliano i pastori, quando essi primieramente nella città d’alcuna bisogna portati, a una hora mille cose veggono che son loro d’infinita maraviglia cagione. Né perché io mi creda che le mie miserie sien gravi, come senza fallo sono, è egli perciò da dire che lievi sieno l’altrui, o che Amore ne’ cuori di mille huomini per aventura non s’aventi con tanto impeto, con quanto egli ha fatto nel mio, et che egli cotante et così strane maraviglie non ne generi, quante et quali sono quelle che egli nel mio ha generate. Anzi io mi credo per certo d’havere di molti compagni a questa pruova per gratia del mio signore, quantunque essi non così tutti vedere si possano da ciascuno et conoscere, come io me stesso conosco. Ma è appresso le altre questa, una delle sciocchezze de gli amanti, che ciascuno si crede essere il più misero et di ciò s’invaghisce, come se di questa vittoria ne gli venisse corona, né vuole per niente che alcuno altro viva, il quale amando possa tanto al sommo d’ogni male pervenire, quanto egli è pervenuto. Amava Argia sanza fallo oltre modo, se alle cose molto antiche si può dar fede, la quale chi havesse udita, quando ella sopra le ferite del suo morto marito gittatasi piagneva, sì come si dee pensare che ella facesse, haverebbe inteso che ella il suo dolore sopra quello d’ogni altra dolente riponeva. Et pure leggiamo d’Evadna, la quale in quella medesima sorte di miseria et in un tempo con lei pervenuta, sdegnando alteramente la propria vita, il suo morto marito non pianse solamente, ma anchora seguìo. Fece il somigliante Laodomia nella morte del suo, fece la bella asiana Panthea, fece in quella del suo amante la infelice giovane di Sesto questa medesima pruova, fecero altresì di molt’altre. Per che comprender si può ogni stato d’infelicità potersi in ogni tempo con molti altri rassomigliare; ma non di leggier Si veggono, perciò che la miseria ama sovente di star nascosa. Tu dunque, Lisa, dando alle mie angoscie quella compagnia che ti parrà poter dare, senza che io vada tutte le historie ravolgendo, potrai agevolmente argomentare la potenza del tuo Idio tante volte più distendersi di quello che io t ho co’ miei essempi dimostrato, quanti possono esser quelli che amino come fo io, i quali possono senza fallo essere infiniti. Perciò che ad Amore è per niente, che può essere, solo che esso voglia, ad un tempo parimente in ogni luogo, di cotali prodezze, a rischio della vita de gli amanti, in mille di loro insieme insieme far pruova. Egli così giuoca et quello che a noi è d’infinite lagrime et d’infiniti tormenti cagione, suoi scherzi sono et suoi risi non altramente che nostri dolori. Et già in modo ha sé avezzo nel nostro sangue et delle nostre ferite invaghito il crudele, che di tutti i suoi miracoli quello è il più maraviglioso, quando egli alcuno ne fa amare, il qual senta poco dolore. Et perciò pochissimi sono quegli amanti, se pure alcuno ve n’è, che io no ’l so, che possano nelle lor fiamme servar modo; dove in contrario si vede tutto ’l giorno, lasciamo stare che di riposati, di riguardosi, di studiosi, di philosophanti, molte volte rischievoli andatori di notte, portatori d’arme, salitori di mura, feritori d huomini diveniamo, ma tutto dì veggiamo mille huomini, et quelli per aventura che per più costanti sono et per più saggi riputati, quando ad amar si conducono, palesemente impazzare.


XVIII

 

             Ma perciò che, fatto Idio da gli uomini Amore per queste cagioni che tu vedi, Lisa, parve ad essi convenevole dovergli alcuna forma dare, acciò che esso più interamente conosciuto fosse, ignudo il dipinsero, per dimostrarci in quel modo non solamente che gli amanti niente hanno di suo, con ciò sia cosa che essi stessi sieno d’altrui, ma questo anchora, che essi d’ogni loro arbitrio si spogliano, d’ogni ragione rimangono ignudi; fanciullo, non perché egli si sia garzone, che nacque insieme co’ primi huomini, ma perciò che garzoni fa divenire di conoscimento quei che ’l seguono et, quasi una nuova Medea, con istrani veneni alcuna volta gli attempati et canuti ribambire; alato, non per altro rispetto se non perciò che gli amanti, dalle penne de’ loro stolti disideri sostentati, volan per l’aere della loro speranza, sì come essi si fanno a credere, leggiermente infino al cielo. Oltre a cciò una face gli posero in mano accesa, perciò che, sì come del fuoco piace lo splendore ma l’ardore è dolorosissimo, così la prima apparenza d’Amore, in quanto sembra cosa pia cevole, ci diletta, di cui poscia l’uso et la sperienza ci tormentano fuor di misura. Il che se da noi conosciuto fosse prima che vi si ardesse, o quanto meno ampia sarebbe hoggi la signoria di questo tiranno et il numero de gli amanti minore che essi non sono. Ma noi stessi, del nostro mal vaghi, sì come farfalle ad essa n’andiam per diletto; anzi pure noi medesimi spesse volte ce l’accendiamo, onde poi, quasi Perilli nel proprio toro, così noi nel nostro incendio ci veggiamo manifestamente peri re. Ma per dar fine alla imagine di questo Idio, male per gli huomini di sì diversi colori della loro miseria pennellata, a tutte queste cose, Lisa, che io t’ho dette, l’arco v’aggiunsero et gli strali, per darci ad intendere che tali sono le ferite che Amore ci dà, quali potrebbono essere quelle d’un buono arciere che ci saettasse; le quali però in tanto sono più mortali, che egli tutte le dà nel cuore, et questo anchora più avanti hanno di male, che egli mai non si stanca od a pietà si muove, perché ci vegga venir meno, anzi egli tanto più s’affretta nel ferirci, quanto ci sente più deboli et più mancare. Ora io mi credo assai apertamente haverti, Lisa, dimostrato quali fossero le cagioni che mosser gli huomini a chiamare Idio costui, che noi Amore chiamiamo, et perché essi così il dipinsero, come tu hai veduto; il quale, se con diritto occhio si mira, non che egli nel vero non sia Idio, il che essere sarebbe sceleratezza pure a pensare non che mancamento a crederlo, anzi egli non è altro se non quello che noi medesimi vogliamo. Perciò che conviene di necessità che Amore nasca nel campo de’ nostri voleri, senza il quale, sì come pianta senza terreno, egli haver luogo non può giamai. E il vero che, comunque noi, ricevendolo, nell’animo gli lasciamo haver piè et nella nostra volontà far radici, egli tanto prende di vigore da se stesso, che poi nostro mal grado le più volte vi rimane, con tante et così pungenti spine il cuore affligendoci et così nuove maraviglie generandone, come ben chiaro conosce chi lo pruova.


XIX

 

             Ma perciò che io buona via mi sono teco venuto ragionando, tempo è da ritornare a Gismondo, il quale io lasciai, dalla tua voce richiamato, già su ne’ primi passi del mio camino, havendom’egli dimandato come ciò vero fosse, che io dissi, che amare senza amaro non si puote. Il che quantunque possa senza dubbio assai esser chiaro conosciuto per le precedenti ragioni da chi per aventura non volesse a suo danno farsi sophistico contra ’l vero, pure sì perché a voi, donne, maggiore utilità ne segua, le quali, perciò che femine siete et per questo meno nel vivere dalla fortuna essercitate che noi non siamo, più di consiglio havete mestiero, et sì perché a me già nel dolermi aviato giova il favellare bene in lungo de’ miei mali, sì come a’ miseri suole avenire, più oltre anchora ne parlerò; et così forse ad una hora a voi m’ubrigherò ragionando et disubrigherò consigliando et per le cose, che possono a chi non l’entendesse di molta infelicità esser cagione, discorrendo et avisando. —

             Havea dette queste parole Perottino et tacevasi, apparecchiandosi di riparlare, quando Gismondo, riguardate l’ombre del sole che alquanto erano divenute maggiori, alle donne rivoltosi, così disse:

             — Care donne, io ho sempre udito dire che il vincere più gagliardo guerri[e]re fa la vittoria maggiore. Per che di quanto più rinforza Perottino argomentando le sue ragioni et più lungamente nella iniqua sua causa s’affatica, aguzzando la punta del suo ingegno, di parlare, di tanto egli alle mie tempie va tessendo più lodevole et più gratiosa corona. Ma io temo, se io gli harò a rispondere, che non mi manchi il tempo, se noi vorremo, sì come usati siamo, all’hora del festeggiare insieme con gli altri nel palagio ritrovarci. Perciò che il sole già verso il vespro s’inchina et a noi forse non fie guari più d’altrettanto spatio di qui dimorarci conceduto, di quello che c’è passato poi che noi ci siamo; et l’hora è sì fuggevole et così ci pigliano l’animo le vezzose parole di Perottino, che a me pare d’esserci apen’apena venuto. —

             A cui Sabinetta, che la più giovane era delle tre donne, et nel principio di questi ragionamenti postasi a sedere nell’herbetta sotto gli allori, quasi fuori de gli altri stando et ascoltando, poi che Perottino a favellare incominciò, niente anchora havea parlato, anzi acerbetta che no, disse:

             — Ingiuria si farebbe a Perottino se tu, Gismondo, per cotesto dir volessi che egli a ristrignere dovesse havere i suoi sermoni. Parlisi a suo bell’agio egli hoggi quanto ad esso piace: tu gli potrai rispondere poscia domani, con ciò sia cosa che et a noi fie più dilettevole il pigliarci questo solazzo et diporto medesimamente dell’altre volte, che qui habbiamo più dì a starci, et a te potrà essere più agevole il rispondere, che haverai havuto questo mezzo tempo da pensarvi. —


XX

 

             Piacque a ciascuno l’aviso di Sabinetta, et così conchiuso che si facesse, in quello medesimo luogo il seguente giorno ritornando, poi che ogniun si tacque, Perottino incominciò:

             — Sì come delle vaghe et travagliate navi sono i porti riposo et delle cacciate fiere le selve loro, così de’ quistionevoli ragionamenti sono le vere conclusioni; né giova, dove queste manchino, molte voci rotonde et segnate raunando et componendo, le quali per aventura più da coloro sono con istudio cercate, che più da sé la verità lontana sentono, occupar gli animi de gli ascoltanti, se essi non solamente la fronte et il volto delle parole, ma il petto anchora et il cuor di loro con maestro occhio rimirano. Il che temo io forte, o donne, non domani avenga a Gismondo, il quale più del suo ingegno confidandosi che havendo risguardo a quello di ciascuna di voi o pure alla debolezza della sua causa rispetto et pensiero alcuno, spera di questa giostra corona. Nella quale sua speranza assai gli sarebbe la fortuna favorevole stata, più lungo spatio da prepararsi alla risposta concedendogli che a me di venire alla proposta non diede, se egli alla verità non fosse nimico. Et perché egli in me non ritorni quello che io hora appongo a·llui, alla sua richiesta venendo, dico che quantunque volte adiviene che l’huom non possegga quello che egli disidera, tante volte egli dà luogo in sé alle passioni; le quali, ogni pace turbandogli, sì come città da’ suoi nimici combattuta, in continuo tormento il tengono più et men grave, secondo che più o men possenti i suoi disideri sono. Et possedere qui chiamo non quello che suole essere ne’ cavalli o nelle veste o nelle case, delle quali il signore è semplicemente possessor chiamato, quantunque non egli solo le usi o non sempre o non a suo modo, ma possedere dico il fruire compiutamente ciò che altri ama, in quella guisa che ad esso è più a grado. La qual cosa perciò che è per se stessa manifestissima, che io altramente ne quistioni non fa mestiero. Hora vorre’ io saper da te, Gismondo, se tu giudichi che l’huomo amante altrui possa quello che egli ama fruire compiutamente giamai. Se tu di’ che sì, tu ti poni in manifesto errore, perciò che non può l’huom fruir compiutamente cosa che non sia tutta in lui; con ciò sia cosa che le strane sempre sotto l’arbitrio della fortuna stiano et sotto il caso et non sotto noi, et altri, quanto sia cosa istrana, dalla sua voce medesima si fa chiaro. Se tu di’ che no, confessare adunque ti bisognerà, né ti potranno gli amanti difendere, o Gismondo, che chiunque ama, senta et sostenga passione a ciascun tempo. Et perciò che non è altro l’amaro dell’animo che il fele delle passioni che l’avelenano, di necessità si conchiude che amare senza amaro non è più fattibile che sia che l’acque asciughino o il fuoco bagni o le nevi ardano o il sole non dia luce. Vedi tu hora, Gismondo, in quanto semplici et brievi parole la pura verità si rinchiude? Ma che vo io argomentando di cosa che si tocca con mano? che dico io con mano? anzi pur col cuore. Né cosa è che più a drento si faccia sentire o più nel mezzo d’ogni nostra midolla penetrando traff[ig]ga l’anima di quello che Amore fa, il quale, sì come potentissimo veneno, al cuore ne manda la sua virtù et quasi ammaestrato rubator di strada, nella vita de gli huomini cerca incontanente di por mano.


XXI

 

             Lasciando adunque da parte con Gismondo i silogismi, o donne, al quale più essi hanno rispetto, sì come a llor guerriere, che a voi che ascoltatrici siete delle nostre quistioni, con voi me ne verrò più apertamente ragionando quest’altra via. Et perciò che, per le passioni dell’animo discorrendo, meglio ci verrà la costui amarezza conosciuta, sì come quella che egli si trahe dall’aloe loro, poi che in esse col ragionare alquanto già intrati siamo et a voi piace che il favellare hoggi sia mio, il quale poco innanzi a Gismondo donato havevate, seguitando di loro Vi parlerò, più lunga tela tessendovi de’ lor fili. Sono adunque, o donne, le passioni dell’animo queste generali et non più, dalle quali tutte le altre dirivando in loro ritornano: soverchio disiderare, soverchio rallegrarsi, soverchia tema delle future miserie et nelle presenti dolore. Le quali passioni, perciò che sì come venti contrari turbano la tranquillità dell’animo et ogni quiete della nostra vita, sono per più segnato vocabolo perturbationi chiamate da gli scrittori. Di queste perturbationi, quantunque propria d’Amore sia la primiera, sì come di quello che altro che disiderio non è, pure egli, non contento de’ suoi confini, passa nelle altrui possessioni, soffiando in modo nella sua fiaccola, che miseramente tutte le mette a fuoco; il quale fuoco, gli animi nostri consumando et distruggendo, trahe spesse volte a·ffine la nostra vita o, se questo non ne viene, a vita peggior che morte senza fallo ci conduce. Ora per incominciar da esso disiderio, dico questo essere di tutte le altre passioni origine et capo et da questo ogni nostro male procedere, non altramente che faccia ogni albero da sue radici. Perciò che comunque egli d’alcuna cosa s’accende in noi, incontanente ci sospigne a seguirla et a cercarla, et così seguendola et cercandola a trabocchevoli et disordinati pericoli et a mille miserie ci conduce. Questo sospigne il fratello a cercare dalla male amata sorella gli abominevoli abbracciamenti, la matrigna dal figliastro et alcuna volta, il che pure a dirlo m’è grave, il padre medesimo dalla verginetta figliuola: cose più tosto mostruose che fiere. Le quali, perciò che vie più bello è il tacersi che il favellarne, lasciando nella loro non dicevole sconvenevolezza stare et di noi favellando, così vi dico, che questo disio i nostri pensieri, i nostri passi, le nostre giornate dispone et scorge et trahe a dolorosi et non pensati fini. Né giova spesse volte che altri gli si opponga con la ragione, perciò che quantunque d’andare al nostro male ci accorgiamo, non pertanto ce ne sappiam ritenere o, se pure alcuna volta ce ne riteniamo, da capo, come quelli che il male habbiam dentro, al vomito con maggior violenza di stomacho ritorniamo. Et aviene poi che, sì come quel sole, nel qual noi gli occhi tenevamo stamane quando e’ surgea, hora dilungatosi fra ’l giorno abbaglia chi lo rimira, così bene scorgiamo noi da prima il nostro male alle volte, quando e’ nasce, il quale medesimo, fatto grande, accieca ogni nostra ragione et consiglio.


XXII

 

             Ma non si contenta di tenerci Amore d’una sola voglia, quasi d’una verga sollecitati, anzi sì come dal disiderar delle cose tutte le altre passioni nascono, così dal primo disiderio che sorge in noi, come da largo fiume, mille altri ne dirivano, et questi sono ne gli amanti non men diversi che infiniti. Perciò che quantunque il più delle volte tutti tendano ad un fine, pure, perché diversi sono gli obbietti et diverse le fortune de gli amanti, da ciascuno senza fallo diversamente si disia. Sono alcuni che, per giugnere quando che sia la lor preda, pongono tutte le forze loro in un corso, nel quale o quante gravi et dure cose s’incontrano, o quante volte si cade, o quanti seguaci pruni ci sottomordono i miseri piedi! et spesse fiate aviene che prima si perde la lena che la caccia si tenga. Alcuni altri, possessori della cosa amata divenuti, niente altro disiderano se non di mantenersi in quello medesimo stato, et quivi fisso tenendo ogni loro pensiero et in questo solo ogni opera, ogni tempo loro consumando, nella felicità son miseri et nelle ricchezze mendici et nelle loro venture sciagurati. Altri, di possessione uscito de’ suoi beni, cerca di rientrarvi, et con mille dure conditioni, con mille patti iniqui, in prieghi, in lagrime, in strida consumandosi, mentre del perduto contende, pone in quistion pazzamente la sua vita. Ma non si veggono queste fatiche, questi guai, questi tormenti ne’ primi disii. Perciò che sì come nell’entrar d’alcun bosco ci pare d’havere assai spedito sentiero, ma quanto più in esso penetriamo caminando, tanto il calle più angusto diviene, così noi primieramente ad alcuno obbietto dall’appetito invitati, mentre a quello ci pare di dover potere assai agevolmente pervenire, ad esso più oltre andando di passo in passo troviamo più ristretto et più malagevole il camino. Il che a noi è delle nostre tribolationi fondamento, perciò che, per vi pure poter pervenire, ogni impedimento cerchiamo di rimuovere che il ci vieti, et quello che per diritto non si può, conviene che per oblico si fornisca. Quinci le ire nascono, le quistioni, le offese, et troppo più avanti ne segue di male, che nel cominciamento non pare altrui esser possibile ad avenire. Et a·ffine che io ogni cosa minuta raccontando non vada, quante volte sono da alcuno state per questa cagione le morti d’infiniti huomini disiderate? et per aventura alcuna volta de’ suoi più cari? Quante donne già dall’appetito trasportate hanno la morte de’ loro mariti procacciata? Veramente, o donne, se a me paresse poter dire maggior cosa che questa non è, io più oltre ne parlerei. Ma che si può dir più? il letto santissimo della moglie et del marito, testimonio della più secreta parte della lor vita, consapevole de’ loro dolcissimi abbracciamenti, per nuovo disio d’amore essere del sangue innocente dell’uno, col ferro dell’altro, tinto et bagnato.


XXIII

 

             Hora facendo vela da questi duri et importuni scogli del disio, il mare dell’allegrezza fallace et torbido solchiamo. Manifesta cosa vi dee adunque essere, o donne, che tanto a noi ogni allegrezza si fa maggiore, quanto maggiore ne gli animi nostri è stato di quello il disio che a noi è della nostra gioia cagione; et tanto più oltre modo nel conseguire delle cercate cose ci rallegriamo, quanto più elle da noi prima sono state cerche oltra misura. Et perciò che niuno appetito ha in noi tanto di forza, né con sì possente impeto all’obbietto propostogli ci trasporta, quanto quello fa che è dalli sproni et dalla sferza d’Amore punto et sollecitato, aviene che niuna allegrezza di tanto passa ogni giusto segno, di quanto quella de gli amanti passar si vede, quando essi d’alcuno loro disiderio vengono a riva. Et veramente chi si rallegrerebbe cotanto d’un picciolo sguardo, o chi in luogo di somma felicità porrebbe due tronche parolette o un brieve toccar di mano o un’altra favola cotale, se non l’amante, il quale è di queste stesse novelluzze vago et disievole fuor di ragione? certo, che io creda, niuno. Né perciò è da dire che in questo a miglior conditione, che tutti gli altri huomini, siano gli amanti, quando manifestamente si vede che ciascuna delle loro allegrezze le più volte, o, per dir meglio, sempre, accompagnano infiniti dolori, il che ne gli altri non suole avenire, in modo che quello che una volta sopravanza nel sollazzo è loro mille fiate renduto nella pena. Senza che niuna allegrezza, quando ella trapassa i termini del convenevole, è sana, et più tosto credenza fallace et stolta che vera allegrezza si può chiamare. La quale è anchora per questo dannosa ne gli amanti, che ella in modo gli lascia ebbri del suo veleno che, come se essi in Lethe havessero la memoria tuffata, d’ogni altra cosa fatti dimentichi salvo che del lor male, ogni honesto ufficio, ogni studio lodevole, ogni honorata impresa, ogni lor debito lasciato a dietro, in questa sola vituperevolmente pongono tutti i loro pensieri; di che non solamente vergogna et danno ne segue loro, ma oltre a cciò, quasi di se stessi nimici divenuti, essi medesimi volontariamente si fanno servi di mille dolori. Quante notti miseramente passa vegghiando, quanti giorni sollecitamente perde in un solo pensiero, quanti passi misura in vano, quante carte vergando non meno le bagna di lagrime che d’inchiostro l’infelice amante alcuna volta, prima che egli una hora piacevole si guadagni? la qual per aventura senza noia non gli viene, sì come di lamentevoli parole spesse volte et di focosi sospiri et di vero pianto mescolata, o forse non senza pericolo stando della propria persona o, se alcuna di queste cose no ’l tocca, certo con doloroso pungimento di cuore che ella sì tosto fuggendo se ne porti i suoi diletti, i quali egli ha così lungamente penato per acquistare. Chi non sa quanti pentimenti, quanti scorni, quante mutationi, quanti ramarichij, quanti pensieri di vendetta, quante fiamme di sdegno il cuocono et ricuocono mille volte, prima che egli un piacere consegua? Chi non sa con quante gelosie, con quante invidie, con quanti sospetti, con quante emulationi et in fine con quanti assenzi ciascuna sua brevissima dolcezza sia comperata? Certo non hanno tante conche i nostri liti né tante foglie muove il vento in questo giardino, qualhora egli più verde si vede et più vestito, quanti possono in ogni sollazzo amoroso esser dolori. Et questi medesimi sollazzi, se aviene alcuna fiata che sieno da ogni loro parte di duolo et di maninconia voti, il che non può essere, ma posto che sì, allhora per aventura ci sono eglino più dannosi et più gravi. Perciò che le fortune amorose non sempre durano in uno medesimo stato, anzi elle più sovente si mutano che alcuna altra delle mondane, sì come quelle che sottoposte sono al governo di più lieve signore che tutte le altre non sono. Il che quando aviene, tanto ci appare la miseria più grave, quanto la felicità ci è paruta maggiore. Allhora ci lamentiamo noi d’Amore, allhora ci ramarichiamo di noi stessi, allhora c’incresce il vivere, sì come io vi posso col mio misero essempio in queste rime far vedere. Le quali se per aventura più lunghe vi parranno dell’usato, fie per questo, che hanno havuto rispetto alla gravezza de’ miei mali, la quale in pochi versi non parve loro che potesse capere.


XXIV

 

            I più soavi et riposati giorni

Non hebbe huom mai né le più chiare notti,

Di quel c’hebb’io, né ’l più felice stato,

Alhor ch’io incominciai l’amato stile

Ordir con altro pur che doglia et pianto,

Da prima entrando a l’amorosa vita.

            Hor è mutato il corso a la mia vita

Et volto il gaio tempo, e i lieti giorni,

Che non sapean che cosa fosse un pianto,

In gravi, travagliate et fosche notti,

Col bel suggetto suo cangiar lo stile

Et con le mie venture ogni mio stato.

            Lasso, non mi credea di sì alto stato

Giamai cader in così bassa vita

Né di sì piano in così duro stile.

Ma ’l sol non mena mai sì puri giorni,

Che non sian dietro poi tante atre notti:

Così vicino al riso è sempre il pianto.

            Ben hebbi al riso mio vicino il pianto

Et io non me ’l sapea, che ’n quello stato

Così cantando e ’n quelle dolci notti

Forse havrei posto fine a la mia vita,

Per non tardar al fel di questi giorni,

Che m’ha sì inacerbito et petto et stile.

            Amor, tu che porgei dianzi a lo stile

Lieto argomento, hor gl’insegni ira et pianto,

A che son giunti i miei graditi giorni?

Qual vento nel fiorir svelse ’l mio stato

Et fe’ fortuna a la tranquilla vita

Entro li scogli a le più lunghe notti?

            U’son le prime mie vegghiate notti

Sì dolcemente? u’ ’l mio ridente stile

Che potea rallegrar ben mesta vita?

Et chi sì tosto l’ha converso in pianto?

C’hor foss’io morto alhor, quando ’l mio stato

Tinse in oscuro i suoi candidi giorni.

            Sparito è ’l sol de’ miei sereni giorni

Et raddoppiata l’ombra a le mie notti,

Che lucean più che i dì d’ogni altro stato.

Cantai un tempo e ’n vago et lieto stile

Spiegai mie rime, et hor le spiego in pianto,

C’ha fatto amara di sì dolce vita.

            Così sapesse ogniun qual è mia vita

Da indi in qua, ch’e miei festosi giorni,

Chi sola il potea far, rivolse in pianto;

Che pago mi terrei di queste notti,

Senza colmar de’ miei danni lo stile;

Ma non ho tanto bene in questo stato.

            Ché quella fera, ch’al mio verde stato

Diede di morso et quasi a la mia vita,

Hor fugge al suon del mi’ angoscioso stile

Né mai, per rimembrarle i primi giorni

O raccontar de le presenti notti,

Volse a pietà del mio sì largo pianto.

            Echo sola m’ascolta, et col mio pianto

Agguagliando ’l suo duro antico stato,

Meco si duol di sì penose notti;

Et se ’l fin si prevede da la vita,

Ad una meta van questi et quei giorni,

Et la mia nuda voce fia ’l mio stile.

            Amanti, i’ hebbi già tra voi lo stile

Sì vago, ch’acquetava ogni altrui pianto:

Hor me non queta un sol di questi giorni.

Così va chi ’n suo molto allegro stato

Non crede mai provar noiosa vita

Né pensa ’l dì de le future notti.

            Ma chi vol si rallegri a le mie notti,

Com’ancho quella, che mi fa lo stile

Tornar a vile e ’n odio esser la vita,

Ch’io non spero giamai d’uscir di pianto.

Ella se ’l sa, che di sì lieto stato

Tosto mi pose in così tristi giorni.

            Ite, giorni gioiosi et care notti,

Che ’l bel mio stato ha preso un altro stile,

Per pascer sol di pianto la mia vita.


XXV

 

             Voi vedete, o donne, a che porto la seconda fortuna ci conduce. Ma io, quantunque la morte mi fosse più cara, pure vivo, chente che la mia vita si sia. Molti sono stati, che non sono potuti vivere: così viene a gli huomini grave dopo la molta allegrezza il dolore. Ruppe ad Artemisia la fortuna con la morte del marito la felicità de’ suoi amori, per la qual cosa ella visse in pianto tutto il rimanente della sua vita, et alla fine piangendo si morì: il che avenuto non le sarebbe, se ella si fosse mezzanamente ne’ suoi piaceri rallegrata. Abandonata dal vago Enea la dolorosa Elisa se medesima miseramente abandonò uccidendosi, alla qual morte non traboccava, se ella meno seconda fortuna havuta havesse ne’ suoi amorosi disii. Né parve alla misera Niobe per altro sì grave l’orbezza de’ suoi figliuoli, se non perciò che ella a somma felicità l’havergli s’havea recato. Così aviene che, se le misere allegrezze de gli amanti sono di se sole ben piene, o a morti acerbissime gli conducono o d’eterno dolore gli fanno heredi; se sono di molta noia fregiate, elle senza dubbio alcuno et, mentre durano, gli tormentano et, partendo, niente altro lasciano loro in mano che il pentimento; perciò che di tutte quelle cose che a far prendiamo, quando ci vanno con nostro danno fallite, la penitenza è fine. O amara dolcezza, o venenata medicina de gli amanti non sani, o allegrezza dolorosa, la qual di te nessun più dolve frutto lasci a’ tuoi possessori che il pentirsi; o vaghezza che, come fumo lieve, non prima sei veduta che sparisci, né altro di te rimane ne gli occhi nostri che il piagnere; o ali che bene in alto ci levate perché, strutta dal sole la vostra cera, noi con gli homeri nudi rimanendo, quasi novelli Icari, cadiamo nel mare. Cotali sono i piaceri, donne, i quali amando si sentono. Veggiamo hora quali sono le paure.


XXVI

 

             Fingono i poeti, i quali sogliono alcuna volta favoleggiando dir del vero, che ne gli oscuri abissi tra le schiere sconsolate de’ dannati è uno fra gli altri, cui pende sopra ’l capo un sasso grossissimo, ritenuto da sottilissimo filo. Questi, al sasso risguardando et della caduta sgomentandosi, sta continuamente in questa pena. Tale de gl’infelici amanti è lo stato, i quali sempre de’ loro possibili danni stando in pensiero, quasi con la grave ruina delle loro sciagure sopra ’l capo, i miseri vivono in eterna paura, et non so che per lo continuo il tristo cuore dicendo loro, tacitamente gli sollecita et tormenta, seco stesso ad ogni hora qualche male indovinando. Perciò che quale è quello amante che de gli sdegni della sua donna in ogni tempo non tema? o che ella forse ad alcuno altro il suo amore non doni? o che per alcun mondo, che mille sempre ne sono, non gli sia tolta a’ suoi amorosi piaceri la via? Egli certamente non mi si lascia credere che huomo alcuno viva, il quale amando, comunque il suo stato si stia, mille volte il giorno non sia sollecito, mille volte non senta paura. Et che poi, di queste sollecitudini, hassene egli altro danno che il temere? Certo sì, et non uno, ma infiniti, ché questa stessa tema et pavento sono di molti altri mali seme et radice. Perciò che per riparare alle ruine che, lasciate in pendente, crediamo che possano cadendo stritolare la nostra felicità, molti torti pontelli con gli altrui danni o forse con le altrui morti cerchiamo di sottoporre a’ lor casi. Uccise il suo fratel cugino, che dalla lunga guerra si ritornava, il fiero Egisto, temendo non per la sua venuta rovinassero i suoi piaceri. Uccise simigliantemente l’im pazzato Oreste il suo, et dinanzi a gli altari de gli idij, nel mezzo de’ sacrificanti sacerdoti il fe’ cadere, perché in piè rimanesse l’amore che egli alla sorella portava. A me medesimo incresce, o donne, l’andarmi cotanto tra tante miserie ravolgendo. Pure se io v’ho a dimostrare quale sia questo Amore, che è da Gismondo lodato come buono, è huopo che io con la tela delle sue opere il vi dimostri; delle quali per aventura tante ne lascio adietro ragionando, quante lascia da poppa alcuna nave gocciole d’acqua marina, quando più ella da buon vento sospinta corre a tutte vele il suo camino.


XXVII

 

             Ma passiamo nel dolore, acciò che più tOSIo si venga a fine di questi mali. Il qual dolore, quantunque habbia le sue radici nel disiderio, sì come hanno le altre due passioni altresì, pure tanto egli più et men crescie, quanto prima i rivi dell’allegrezza l’hanno potuto più o me E no largamente inaffiare. Assai sono adunque di quegli amanti i quali, E da una torta guatatura delle lor donne o da tre parole proverbiose quasi da tre ferite traffitti, non pensando più oltre quanto elle spesse volte il soglian fare senza sapere il perché, vaghe d’alcuno tormentuzzo de’ loro amanti, si dogliono, si ramaricano, si tormentano senza consolatione alcuna. Altri, perché a pro non può venire de’ suoi disii, pensa di più non vivere. Altri, perché venutovi compiutamente non gode, a questo apparente male v’aggiugne il continuo rancore et fallo veramente esistente et grave. Et molti, per morte delle lor donne a capo delle feste loro pervenuti, s’attristano senza fine, et altro già che quelle fredde et pallide imagini, dovunque essi gli occhi et il pensier volgono, non viene loro innanzi. A’ quali tutti il tempo, sì come né ancho il verno le foglie a tutti gli alberi, la doglia non ne leva, anzi, sì come ad alquante piante sopra le vecchie frondi ne crescono ogni primavera di nuove, così ad alquanti di questi amanti duolo sopra duolo s’aumenta et, più che essi dopo le loro amate donne vivono, più vivono tormentati et miseramente di giorno in giorno fanno le loro piaghe più profonde, pure in sul ferro aggra vandosi che gl’impiaga. Né mancherà poi chi, per crudeltà della sua donna dalla cima della sua felicità quasi nel profondo d’ogni miseria caduto, a doversi dilungare nel mondo per farla ben lieta si dispone. Et questi nel suo essiglio di niuna altra cosa è vago se non di piagnere, niente altro disidera che bene stremamente essere infelice. Questo vuole, di que sto si pasce, in questo si consola, a questo esso stesso s’invia. Né sole, né stella, né cielo vede mai che gli sia chiaro. Non herbe, non fonti, non fiori, non corso di mormoranti rivi, non vista di verdeggiante bosco, non aura, non fresco, non ombra veruna gli è soave. Ma solo, chiuso sempre ne’ suoi pensieri, con gli occhi pregni di lagrime, le meno segnate valli o le più- riposte selve ricercando, s’ingegna di far brieve la sua vita, talhora in qualche trista rima spignendo fuori alcun de’ suoi rinchiusi dolori, con qualche tronco secco d’albero o con alcuna soletaria fiera, come se esse lo ’ntendessero, parlando et agguagliando il suo stato. Ora daratti il cuore, Gismondo, di dimostrarci che cosa buona Amor sia? Che Amore sia buono, Gismondo, daratti l’animo di cci dimostrare?


XXVIII

 

             Conosciuti adunque separatamente questi mali, o donne, del disiderio, dell’allegrezza, della sollecitudine et del dolore, a me piace che noi mescolatamente et senza legge alquanto vaghiamo per loro. Et prima che io più ad un luogo che ad un altro m’invij, mi si para davanti la novità de’ principij che questo malvagio lusinghiero dà loro ne gli animi nostri, quasi se di sollazzo et giuoco, non di doglia et di lagrime et di manifesto pericolo della nostra vita fossero nascimento. Perciò che mille fiate adiviene che una paroletta, un sorriso, un muover d’occhio con maravigliosa forza ci prendono gli animi, et sono cagione che noi ogni nostro bene, ogni honore, ogni libertà tutta nelle mani d’una donna riponiamo, et più avanti non vediamo di lei. Et tutto ’l giorno si vede che un portamento, un andare, un sedere sono l’esca di grandissimi et inestinguibili fuochi. Et oltre a·cciò quante volte avenne, lasciamo stare le parti belle del corpo, delle quali spesse fiate la più debole per aventura stranamente ci muove, ma quante volte avenne che d’un pianto ci siamo invaghiti? et di quelle, il cui riso non ci ha potuti crollare di stato, una lagrimetta ci ha fatti correre con frezzolosi passi al nostro male? A quanti la pallidezza d’una inferma è stata di piggior pallidezza principio? et loro, che gli occhi vaghi et ardenti non presero ne’ dilettevoli giardini, i mesti et caduti nel mezzo delle gravose febbri legarono, et furono ad essi di più perigliosa febbre cagione? Quanti già finsero d’esser presi et, nel laccio per giuoco entrati, poi vi rimasero mal loro grado con fermissimo et strettissimo nodo miserabilmente ritenuti? Quanti volendo spegnere l’altrui fuoco, a se medesimi l’accesero et hebbero d’aiuto mestiero? Quanti sentendo altrui ragionar d’una donna lontana, essi stessi s’avicinarono mille martiri? Ahi lasso me, questo solo vorre’ io haver taciuto. —


XXIX

 

             Appena hebbe così detto Perottino, che de gli occhi gli caddero alquante subite lagrime et la presta parola gli morì in bocca. Ma poi che, tacendosi ogniuno, vinti dalla pietà di quella vista, esso si rihebbe, così con voce rotta et spessa seguitando riprese a dire:

             — Di cotai faville, o donne, poi che vede gli animi nostri raccesi questo vezzoso fanciullo et fiero, aggiugne nutrimento al suo fuoco, di speranza et di disiderio pascendolo, de’ quali quantunque alcuna volta manchi la prima in noi, sì come quella che da istrani accidenti si crea, non perciò menoma il disiderio né cade sempre con lei. Perciò che, oltra che noi, dura gente mortale, da natura tanto più d’alcuna cosa c’invogliamo, quanto ella c’è più negata, ha questo Amore assai sovente in sé che, quanto sente più in noi la speranza venir meno, tanto più con disiderij soffiando nelle sue fiamme le fa maggiori; le quali come crescono, così s’aumentano le nostre doglie, et queste poi et in sospiri et in lagrime et in strida miseramente del petto si spargon fuori, et le più delle volte in vano: di che noi stessi ravedutici tanto sentiamo maggior dolore, quanto più a’ venti ne vanno le nostre voci. Così aviene che, delle nostre lagrime spargendolo, diviene maravigliosamente il nostro fuoco più grave. Allhora, vicini ad ucciderci, morte per estremo soccorso chiamiamo. Ma pure con tutto ciò, quantunque il dolerci in questa maniera ci aceresca dolore et misera cosa sia l’andarsi così lamentando senza fallo alcuno, è tuttavia ne’ grandi dolori alcuna cosa il potersi dolere. Ma più misera et di più guai piena è in ogni modo il non poter noi nelle nostre doglie spandere alcuna voce o dire la nociva cagione, qualhora più disideriamo et habbiam di dirla mestiero. Malvagissima et dolorosissima poi fuor di misura il convenirci la doglia nascondere sotto lieto viso solo nel cuore, né poter dare uscita pure per gli occhi a gli amorosi pensieri, i quali rinchiusi non solamente materia sostentante le fiamme sono, ma aumentante, perciò che quanto più si strigne il fuoco, tanto egli con più forza cuoce. Et questi tutti vengono accidenti non meno domestici de gli amanti che sien dell’aere i venti et le pioggie famigliari. Ma che dico io questi? essi pure sono infiniti et ciascuno è per sé doloroso et grave.


XXX

 

             Questi segue una donna crudele, il quale pregando, amando, lagrimando, dolente a morte, tra mille angosciosi pensieri durissima fa la sua vita, sempre più nel disio raccendendosi. A colui, servente d’una pietosa divenuto, la fortuna niega il potere nelle sue biade por mano, onde egli tanto più si snerva et si spolpa, quanto più vicina si vede la E disiderata cosa et più vietata, et sentesi sciaguratamente, quasi un nuovo Tantalo, nel mezzo delle sue molte voglie consumare. Quell’altro, di donna mutabile fatto mancipio, hoggi si vede contento, domani si chiama infelice et, quali le schiume marine dal vento et dall’onde sospinte hora innanzi vengono et quando adietro ritornano, così egli, hor alto hor basso, hor caldo hor freddo, temendo, sperando, niuna stabilità non havendo nel suo stato, sente et pate ogni sorte di pena. Alcun altro, solo di poca et debole et colpata speranza pascendosi, sostenta miseramente a più lungo tormento gli anni suoi. Et fie chi, mentre ogni altra cosa prima che la sua promessa fede o il suo lieto stato crede dovere poter manchare et rompersi, s’avede quanto sono di vetro tutte le credenze amorose et, nel secco rimanendo de’ suoi pensieri, sta come se il mondo venuto gli fosse meno sotto a’ piedi. Surgono oltre a queste repentinamente mille altre guise di nuove et fiere cose, involatrici d’ogni nostra quiete et donatrici d’infinite sollecitudini et di diversi tormenti apportatrici. Perciò che alcuno piagne la sùbita infermità della sua donna, la quale nel corpo di lei l’anima sua miseramente tormenta et consuma. Alcuno, d’un nuovo rivale avedutosi, entra in subita gelosia et dentro tutto ardendo vi si distrugge, con agro et nimichevole animo hora il suo aversario accusando et hora la sua donna non iscusando, né sente pace se non tanto, quanto egli solo la si vede. Alcuno, dalle nuove nozze della sua turbato, non con altro cuore gli apparecchi et le feste che vi si fanno riceve, né con più lieto occhio le mira, che se elle gli arnesi fossero et la pompa della sua sepoltura. Altri piangono in molte altre maniere tutto dì, da subita occasion di pianto sventuratamente soprapresi, delle quali se forse il caso o la virtù alcuna ne toglie via, in luogo di quella molte altre ne rinascono più acerbe spesse volte et più gravi; onde vie men dura conditione havrebbe chi con la fiera Hidra d’Hercole havesse la sua battaglia a dover fare, che quegli non ha, a cui conviene delle sue forze con la ferezza d’Amore far pruova. Et quello che io dico de gli uomini, suole medesimamente di voi, donne, avenire, et forse, ma non l’habbiate voi, giovani, a male, delle quali io non ragiono, come che io mi parli con voi, forse, dico, molto più. Perciò che da natura più inchinevoli solete essere et più arrendevoli a gli assalti d’Amore che noi non siamo, et voi le vostre fiamme più chiaramente ardono che noi le nostre non soglion fare; quantunque poi molti particolari accidenti, che a ciascuna soprastanno, vie più, che noi non siamo, sopravedute vi facciano et riguardose.


XXXI

 

             Oltre a·cciò sono i primi ardori, se ne gli animi fanciulli s’apprendono, sì come il caldo alle tenere frondi, così essi loro più dannosi; se nell’età matura si fanno sentire, più impetuosi senza fallo et più fieri, non altramente che il cielo soglia fare, il quale tanto più sconciamente si turba, quanto più lungamente chiaro et sereno è stato. A questo modo o giovani o attempati che noi di questo male infermiamo, a strano passo, a dura conditione, a molto fiero partito sta isposta la nostra vita. Ma tutti gli amorosi morbi, quanto più invecchiano, sì come quelli del corpo, tanto meno sono risanabili et meno alcuna medicina lor giova. Perciò che in amore pessima cosa è la lusinghevole usanza, nella quale di giorno in giorno senza consideratione più entrati, quasi nel labirintho trascorsi senza gomitolo, poi, quando ce ne piglia disio, tornare a dietro le più volte non possiamo. Et aviene alcuna fiata che in maniera ci naturiamo nel nostro male, che uscir di lui, etiandio potendo, non vogliamo. Sono poi, oltre a tutto questo, le lunghe discordie crudeli; sono le brievi angosciose; sono le riconciliagioni non sicure; sono le rinovagioni de gli amori passati perigliose et gravi, in quanto più le seconde febbri sogliono sopravenendo offendere i ricaduti infermi che le primiere; sono le rimembranze de’ dolci tempi perduti acerbissime, et di somma infelicità è maniera l’essere stato felice. Durissime sono le dipartenze, et quelle massimamente che con alcuna disiata notte et lamentata et con abbracciamento lungo et sospiroso et lagrimevole si chiudono, nelle quali e’ pare che i cuori de gli amanti si divellano dalle lor fibre o schiantinsi per lo mezzo in due parti. Ohimè, quanto amare sono le lontananze, nelle quali niun riso si vede mai nell’amante, niuna festa il tocca, niun giuoco; ma fisso alla sua donna stando ad ogni hora col pensiero, quasi con gli Occhl alla tramontana, passa quella fortuna della sua vita in dubbio del suo stato, et con un fiume sempre d’amarissime lagrime intorno al tristo euore et con la bocca piena di dolenti sospiri, dove col corpo esser non può, con l’animo vi sta in quella vece, né cosa vede, come che poche ne miri, che non gli sia materia di largo pianto. Sì come hora col mio misero essempio vi potete, donne, far chiare, di cui tale è la vita, chente suonano le canzoni, et vie anchora piggiore; delle quali per aventura quest altre due, appresso le ramemorate, poi che tanto oltre sono passato, non mi penterò di ricordarmi.


XXXII

 

            Poscia che ’l mio destin fallace et empio

Ne i dolei lumi de l’altrui pietade

Le mie speranze aeerbamente ha spento,

Di pena in pena et d’uno in altro scempio

Menando i giorni, et per aspre eontrade

Morte chiamando a passo infermo et lento,

Nebbia et polvere al vento

Son fatto et sotto ’l sol falda di neve;

Ch’un volto segue l’alma, ov’ella il fugge,

Et un penser la strugge

Cocente sì, ch’ogni altro danno è leve,

Et gli occhi, che già fur di mirar vaghi,

Piangono et questo sol par che gli appaghi.

            Hor che mia stella più non m’assecura,

Scorgo le membra via di passo in passo

Per camin duro e ’n penser tristo et rio;

Ch’io dico pien d’error et di paura:

"Ove ne vo, dolente? et che pur lasso?

Chi mi t’invidia, o mio sommo desio?’’.

Così dicendo, un rio

Verso dal cor di dolorosa pioggia,

Che può far lacrimar le petre stesse;

Et perché sian più spesse

L’angoscie mie, con disusata foggia,

U’che ’l piè movo, u’ che la vista giro,

Altro che la mia donna unqua non miro.

            Col piè pur meco et col cor con altrui

Vo caminando et de l’interna riva

Bagnando for per gli occhi ogni sentero,

Alhor ch’io penso: "Ohimè, che son, che fui?

Del mio caro thesoro hor chi mi priva,

Et scorge in parte, onde tornar non spero?

Deh perché qui non pero,

Prima ch’io ne divenga più mendico?

Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,

Per vestirmi di doglia

Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico

Destin, a che mi trahi, perché non sia

Vita dura mortal, quanto la mia!".

            Ove men’porta il calle o ’l piede errante,

Cerco sbramar piangendo, anzi ch’io moia,

Le luci, che desio d’altro non hanno;

Et grido: "O disaventuroso amante,

Hor se’ tu al fin della tua breve gioia

Et nel principio del tuo lungo affanno’’.

Et gli occhi, che mi stanno

Come due stelle fissi in mezzo a l’alma,

E ’l viso, che pur dianzi era ’l mio sole,

Et gli atti et le parole,

Che mi sgombrar del petto ogni altra salma,

Fan di pensieri al cor sì dura schiera,

Che meraviglia è ben com’io non pera.

            Non pero già, ma non rimango vivo;

Anzi pur vivo al danno, a la speranza

Via più che morto d’ogni mia mercede:

Morto al diletto, a le mie pene vivo;

Et, mancando al gioir, nel duol s’avanza

Lo cor, ch’ognihor più largo a pianger riede

Et pensa et ode et vede

Pur lei, che l’arse già sì dolvemente

Et hor in tanto amaro lo distilla,

Né sol d’una favilla

Scema ’l gran foco de l’accesa mente,

Et me fa gir gridando: "O destin forte,

Come m’hai tu ben posto in dura sorte’’.

            Canzon, homai lo tronco ne ven meno,

Ma non la doglia che mi strugge et sforza;

Ond’io ne vergherò quest’altra scorza.


XXXIII

 

             Tacquesi, finiti quei versi, Perottino et, poco taciutosi, appresso alcun doloroso sospiro, che parea che di mezzo il cuore gli uscisse, verissimo dimostratore delle sue interne pene, a questi altri passando seguitò e disse:

 

            Lasso ch’i’ fuggo et per fuggir non scampo

Né ’n parte levo la mia stanca vita

Del giogo, che la preme ovunque i’ vada.

Et la memoria, di ch’io tutto avampo,

A raddoppiar i miei dolor m’invita

Et testimon lassarne ogni contrada.

Amor, se ciò t’aggrada,

Almen fa con Madonna ch’ella il senta,

Et là ne porta queste voci estreme,

Dove l’alta mia speme

Fu viva un tempo et hor caduta et spenta

Tanto fa questo exilio acerbo et grave,

Quanto lo stato fu dolce et soave.

            Se in alpe odo passar l’aura fra ’l verde,

Sospiro et piango et per pietà le cheggio

Che faccia fede al ciel del mio dolore;

Se fonte in valle o rio per camin verde

Sento cader, con gli occhi miei patteggio

A farne un del mio pianto via maggiore;

S’io miro in fronda o ’n fiore,

Veggio un che dice: "O tristo pellegrino,

Lo tuo viver fiorito è secco et morto’’.

Et pur nel penser porto

Lei, che mi diè lo mio acerbo destino;

Ma quanto più pensando io ne vo seco,

Tanto più tormentando Amor ven meco.

            Ove raggio di sol l’herba non tocchi,

Spesso m’assido, et più mi sono amici

D’ombrosa selva i più riposti horrori;

Ch’io fermo ’l penser vago in que’ begli occhi,

Ch’i miei dì solean far lieti et felici,

Hor gli empion di miserie et di dolori.

Et perché più m’accori

L’ingordo error, a dir de’ miei martiri

Vengo lor, com’io gli ho di giorno in giorno.

Poi, quando a me ritorno,

Trovomi sì lontan da’ miei desiri,

Ch’io resto, ahi lasso, quasi ombra sott’ombra;

Di sì vera pietate Amor m’ingombra.

            Qualhor due fiere in solitaria piaggia

Girsen pascendo simplicette et snelle

Per l’herba verde scorgo di lontano,

Piangendo a lor comincio: "O lieta et saggia

Vita d’amanti, a voi nemiche stelle

Non fan vostro sperar fallace et vano:

Un bosco, un monte, un piano,

Un piacer, un desio sempre vi tene;

Io da la donna mia quanto son lunge?

Deh, se pietà vi punge,

Date udientia inseme a le mie pene’’.

E ’n tanto mi riscuoto et veggio expresso

Che per cercar altrui perdo me stesso.

            D’erma rivera i più deserti lidi

M’insegna Amor, lo mio aversario antico,

Che più s’allegra, dov’io più mi doglio.

Ivi ’l cor pregno in dolorosi stridi

Sfogo con l’onde, et hor d’un ombilico

Et de l’arena li fo penna et foglio;

Indi per più cordoglio

Torno al bel viso, come pesce ad esca,

Et con la mente in esso rimirando,

Temendo et desiando,

Prego sovente che di me gl’incresca;

Poi mi risento et dico: "O penser casso,

Dov’è Madonna?’’, e ’n questa piango et passo

            Canzon, tu viverai con questo faggio

Appresso a l’altra, et rimarrai con lei;

Et meco ne verranno i dolor miei.


XXXIV

 

             In questa guisa, o donne, Amore da ogni lato ci afflige; così da ogni parte, in ogni stato, fiamme, sospiri, lagrime, angoscie, tormenti, dolori sono de gl’infelici amanti seguaci; i quali, acciò che in loro compiutamente ogni colmo di miseria si ritruovi, non fanno pace giamai né pure triegua con queste lor pene, fuori di tutte l’altre qualità di viventi posti dalla lor fiera et ostinata ventura. Perciò che sogliono tutti gli animali, i quali, creati dalla natura, procacciano in alcun modo di mantener la lor vita, riposarsi dopo le fatiche et con la quiete ricoverar le forze, che sentono esser loro ne gli esercitij logore et indebolite. La notte i gai uccelli ne’ lor nidi et tra le frondi soavi de gli alberi ristorano i loro diurni et spatiosi giri; per le selve giacciono l’errabonde fiere; gli herbosi fondi de’ fiumi et le lievi alghe marine, per alcun spatio i molli pesci sostenendo, poi gli ritornano alle loro ruote più vaghi; et gli altri huomini medesimi, diversamente tutto ’l giorno nelle loro bisogne travagliati, la sera almeno, agiate le membra ove che sia et il vegnente sonno ricevuto, prendono sicuramente alcun dolce delle loro fatiche ristoro. Ma gli amanti miseri, da febbre continua sollecitati, né riposo, né intramissione, né alleggiamento hanno alcuno de’ lor mali: ad ogni hora si doglio no, in ogni tempo sono dalle discordanti lor cure, quasi Metij da’ cavalli distrahenti, lacerati. Il dì hanno tristo et a noi è loro il sole, sì come quello che cosa allegra par loro che sia, contraria alla qualità del loro stato; ma la notte assai piggiore, in quanto le tenebre più gl’invitano al pianto che la luce, come quelle che alla miseria sono più conformi; nelle quali le vigilie sono lunghe et bagnate, il sonno brieve et penoso et paventevole et spesse fiate non meno delle vigilie dal pianto medesimo bagnato. Che comunque s’adormenta il corpo, corre l’animo et rientra subitamente ne’ suoi dolori, et con imaginationi paurose et con più nuove guise d’angustia tiene i sentimenti sgomentati insidiosamente et tribolati, onde o si turba il sonno et rompesi appena incominciato o, se pure il corpo fiacco et fievole, sì come di quello bisognoso, il si ritiene, sospira il vago cuore sognando, triemano gli spiriti solleciti, duolsi l’anima maninconosa, piangono gli occhi cattivi, avezzi a non men dormendo che vegghiando la imagination fiera et trista seguire. Così a gli amanti, quanto sono i lor giorni più amari, tanto le notti vengono più dogliose, et in esse per aventura tante lagrime versano, quanti hanno il giorno risparmiati sospiri. Né mancha humore alle lagrime, per lo bene haver fatto lagrimando de gli occhi due fontane; né s’interchiude a mezzo sospiro la via, o men rotti et con minor impeto escono gli hodierni del cuore, perché de gli esterni tutto l’aere ne sia pieno. Né per doglie il duolo, né per lamenti il lamento, né per angoscie l’angoscia si fa minore; anzi ogni giorno arroge al danno et esso d’hora in hora divien più grave. Cresce l’amante nelle sue miserie, fecondo di se stesso a’ suoi dolori. Questi è quel Titio che pasce del suo fegato l’avoltoio, anzi che il suo cuore a mille morsi di non sopportevoli affanni sempre rinuova. Questi è quello Isione che, nelle ruota delle sue molte angoscie girando, hora nella cima hora nel fondo portato, pure dal tormento non si scioglie giamai, anzi tanto più forte ad ogni hora vi si lega et inchiodavisi, quanto più legato vi sta et più girato. Non posso, o donne, aguagliar con parole le pene, con le quali questo crudel maestro ci afflige, se io, nello stremo fondo de gl’inferni penetrando, gli essempi delle ultime miserie de’ dannati dinanzi a gli occhi non vi paro: et queste medesime sono, come voi vedete, per aventura men gravi. Ma è da porre hoggimai a questi ragionamenti modo et da non voler più oltra di quella materia favellare, della quale quanto più si parla, tanto più, a chi ben la considera, ne resta a poter dire.


XXXV

 

             Assai havete potuto adunque comprender, o donne, per quello che udito havete, che cosa Amore si sia et quanto dannosa et grave; il quale, incontro la maestà della natura scelerato divenuto, noi huomini cotanto a·llei cari et da essa dell’intelletto, che divina parte è, per ispetiale gratia donati, acciò che così, più pura menando la nostra vita, al cielo con esso s’avacciassimo di salire, di lui per aventura miseramente spogliandoci, ci tiene col piè attuffati nelle brutture terrene in maniera, che spesse volte disaventurosamente v’affoghiamo. Né solamente ne’ men chiari o meno pregiati così fa, come voi udite, anzi egli pur coloro che sono a più alta fortuna saliti, né a dorati seggi né a corone gemmate risguardando, con meno riverenza et più sconciamente sozzandogli, sovrasta miseramente et sopragrava. Per che, se la nostra fanciulla di lui si duole accusandolo, dee ringratiarnela Gismondo; se non in quanto ella contro così colpevole et manifesto micidiale de gli huomini porge poco lamentevole et troppo brieve querela. Ma io, o Amore, a te mi rivolgo, dovunque tu hora per quest’aria forse a’ nostri danni ti voli, se con più lungo ramarico t’accuso che ella non fece, non se ne dee alcun maravigliare, se non come io di tanto mi sia dalla grave pressura de’ tuoi piedi col collo riscosso, che io fuori ne possa mandar queste voci; le quali tuttavia, sì come di stanco et fievole prigioniere, a quello che alle tue molte colpe, a’ tuoi infiniti micidi si converrebbe, sono certissimamente et roche et poche. Tu d’amaritudine ci pasci; tu di dolor ci guiderdoni; tu de gli huomini mortalissimo idio in danno sempre della nostra vita ci mostri della tua deità fierissime et acerbissime pruove; tu de’ nostri mali c’indisii; tu di cosa trista ci rallegri; tu ogni hora ci spaventi con mille nuove et disusate forme di paura; tu in angosciosa vita ci fai vivere et a crudelissime et dolorosissime morti c’insegni la via. Et hora ecco di me, o Amore, che giuochi ti fai? il quale, libero venuto nel mondo et da·llui assai benignamente ricevuto, nel seno de’ miei dolcissimi genitori sicura et tranquilla vita vivendo, senza sospiri et senza lagrime i miei giovani anni ne menava felice, et pur troppo felice, se io te solo non havessi giamai conosciuto. Tu mi donasti a colei, la quale io con molta fede servendo sopra la mia vita hebbi cara, et in quella servitù, mentre a·llei piacque et di me la calse, vissi buon tempo, vie più che in qualunque signoria non si vive, fortunato. Hora che sono io? et quale è hora la mia vita, o Amore? Della mia cara donna spogliato, dal conspetto de’ miei vecchi et sconsolati genitori diviso, che assai lieta potevano terminar la lor vita se me non havesser generato, d’ogni conforto ignudo, a me medesimo noioso et grave, in trastullo della fortuna lungo tempo di miseria in miseria portato, allo stremo quasi favola del popolo divenuto, meco le mie gravi catene trahendo dietro, assai debole et vinto fuggo dalle genti, cer cando dove io queste tormentate membra abandoni ciascun die, le quali, più durevoli di quello che io vorrei, anchora tenendomi in vita, vogliono che io pianga bene infinitamente le mie sciagure. Ohimè, che doverebbono più tosto, almeno per pietà de’ miei mali, dissolvendosi pascere hoggimai della mia morte quel duro cuore, che vuole che io di così penosa vita pasca il mio. Ma io non guari il pascerò. —


XXXVI

 

             Quinci Perottino, postasi la mano in seno, fuori ne trasse un picciol drappo, col quale egli, sì come un’altra volta fatto havea poi che egli a ragionare incominciò, gli occhi che forte piangevano rasciugandosi et esso, che molle già era divenuto delle sue lagrime, per aventura fiso mirando, in più dirotto pianto si mise, queste altre poche parole nel mezzo del piagnere alle già dette aggiugnendo:

             — Ahi infelice dono della mia donna crudele, misero drappo et di misero ufficio istrumento, assai chiaro mi dimostrò ella donandomiti quale dovea essere il mio stato. Tu solo m’avanzi per guiderdone dell’infinite mie pene. Non t’incresca, poi che se’ mio, che io, quanto harò a vivere, che sarà poco, con le mie lagrime ti lavi. —

             Così dicendo, con amendue le mani a gli occhi il si pose, da’ quali già cadevano in tanta abondanza le lagrime, che niun fu o delle donne o de’ giovani che ritener le sue potesse. Il quale, poi che in quella guisa per buona pezza chino stando non si movea, da’ suoi compagni et dalle donne, che già s’erano da seder levate, fu molte volte richiamato, et alla fine, perciò che hora parea loro di quindi partirsi, sollevato et dolcemente racconfortato. A cui le donne, acciò che egli da quel pensiero si rihavesse, il drappo addimandarono, vaghe mostrandosi di vederlo, et quello havuto, et d’una in altra mano recato, verso la porta del giardin caminando, tutte più volte il mirarono volentieri. Perciò che egli era di sottilissimi fili tessuto et d’ogn’intorno d’oro et di seta fregiato, et per drento alcuno animaluzzo, secondo il costume greco, vagamente dipinto v’havea, et molto studio in sé di maestra mano et d’occhio discernevole dimostrava. Indi usciti del bel giardino i giovani et nel palagio le donne accompagnate, essi, perciò che Perottino non volle quel dì nelle feste rimanere, del castello scesero et, d’uno ragionamento in altro passando, acciò che egli le sue pungenti cure dimenticasse, quasi tutto il rimanente di quel giorno per ombre et per rive et per piagge dilettevoli s’andarono diportando.


Libro II

I

 

             A me pare, quando io vi penso, nuovo, onde ciò sia che, havendo la natura noi huomini di spirito et di membra formati, queste mortali et deboli, quello durevole et sempiterno, di piacere al corpo ci fatichiamo quanto per noi si può generalmente ciascuno, all’animo non così molti risguardano et, per dir meglio, pochissimi hanno cura o pensiero. Perciò che niuno è così vile, che la sua persona d’alcun vestimento non ricuopra, et molti sono coloro che, nelle lucide porpore et nelle dilicate sete et nell’oro stesso cotanto pregiato fasciandola et delle più rare gemme illustrandola, così la portano, per più di gratia et più d’ornamento le dare; dove si veggono senza fine tutto il giorno di quegli huomini, i quali la lor mente non solo delle vere et sode virtù non hanno vestita, ma pure d’alcun velo o filo di buon costume ricoperta né adombrata si tengono. Oltre a·cciò sì aviene egli anchora che, per vaghezza di questo peso et fascio terreno, il quale pochi anni disciogliono et fanno in polve tornare, dove a sostenimento di lui le cose agevoli et in ogni luogo proposteci dalla natura ci bastavano, noi pure i campi, le selve, i fiumi, il mare medesimo sollecitando, con molto studio i cibi più pretiosi cerchiamo, et per acconcio et agio di lui, potendo ad esso una capannuccia dalle nevi et dal sole difendendolo sodisfare, i più lontani marmi da diverse parti del mondo raunando, in più contrade palagi ampissimi gli fondiamo; et la celeste parte di noi molte volte, di che ella si pasca o dove habiti non curiamo, ponendole pure innanzi più tosto le foglie amare del vitio che i frutti dolcissimi della virtù, nello oscuro et basso uso di quello più spesso rinchiusa tenendola, che nelle chiare et alte operationi di questa invitandola a soggiornare. Senza che, qualhora aviene che noi alcuna parte del corpo indebolita et inferma sentiamo, con mille argomenti la smarrita sanità in lui procuriamo di rivocare; a gli animi nostri non sani poco curiamo di dare ricovero et medicina alcuna. Sarebbe egli ciò forse per questo che, perciò che il corpo più appare che l’animo non fa, più altresì crediamo che egli habbia di questi provedimenti mestiero? Il che tuttavia è poco sanamente considerato. Perciò che non che il corpo nel vero più che l’animo de gli huomini non appaia, ma egli è di gran lunga in questo da llui evidentemente superato. Con ciò sia cosa che l’animo tante faccie ha, quante le sue operationi sono, dove del corpo altro che una forma non si mostra giamai. Et questa in molti anni molti huomini appena non vedono, dove quelle possono in brieve tempo essere da tutto ’l mondo conosciute. Et questo stesso corpo altro che pochi giorni non dura, là dove l’animo sempiterno sempiternamente rimane, et può seco lunghi secoli ritener quello di che noi, mentre egli nel corpo dimora, l’avezziamo. Alle quali cose et ad infinite altre, che a queste aggiugner si potrebbono, se gli huomini havessero quella consideratione che loro s’apparterrebbe d’havere, vie più bello sarebbe hoggi il viver nel mondo et più dolve che egli non è, et noi, con bastevole cura del corpo havere, molto più l’animo et le menti nostre ornando et meglio pascendole et più honorata dimora dando loro, saremmo di loro più degni che noi non siamo, et molta cura porremmo nel conservarle sane et, se pure alcuna volta infermassero, con maggiore studio ci faticheremmo di riparare a’ lor morbi che noi non facciamo. Tra’ quali quanto sembri grave quello che Amore addosso ci reca, assai si può dalle parole di Perottino nel precedente libro haver conosciuto. Quantunque Gismondo, forte da·llui discordando, molto da questa openione lontano sia. Perciò che venute il dì seguente le belle donne, sì come ordinato haveano, appresso ’l mangiare co’ loro giovani nel giardino, et nel vago praticello accoste la chiara fonte et sotto gli ombrosi allori sedut[e]si, dopo alquanti festevoli motti sopra i sermoni di Perottino da’ due compagni et dalle donne sollazzevolmente gittati, aspettando già ciascuno che Gismondo parlasse, egli così incominciò a dire:


II

 

             — Assai vezzosamente fece hieri, sagge et belle donne, Perottino; il quale nella fine della sua lunga querimonia ci lasciò piangendo, acciò che quello, che haver non gli parea con le parole potuto guadagnare, le lagrime gli acquistassero, ciò è la vostra fede alle cose che egli intendea di mostrarvi. Le quai lagrime tuttavia, quello che in voi operassero, io non cerco: me veramente mossero elle a tanta pietà de’ suoi mali, che io, come poteste vedere, non ritenni le mie. Et questa pietà in me non pure hieri solamente hebbe luogo; anzi ogni volta che io alle sue molte sciagure considero, duolmente più che mezzanamente, et sonomi sempre gravi le sue fatiche, sì come di carissimo amico che egli m’è, forse non guari meno che elle si sieno a·llui. Ma queste medesime lagrime, che in me esser possono meritevolmente lodate, come quelle che vengono da tenero et fratellevole animo, veda bene Perottino che in lui non sieno per aventura vergognose. Perciò che ad huomo nelle lettere infin da fanciullo assai profittevolmente essercitato, sì come egli è, più si conviene calpestando valorosamente la nimica fortuna ridersi et beffarsi de’ suoi giuochi, che, lasciandosi sottoporre a llei, per viltà piagnere et ramaricarsi a guisa di fanciullo ben battuto. Et se pure egli anchora non ha da gli antichi maestri tanto di sano avedimento appreso, o seco d’animo dalle culle recato, che egli incontro a’ colpi d’una femina si possa o si sappia schermire, ché femina pare che sia la fortuna se noi alla sua voce medesima crediamo, assai havrebbe fatto men male et cosa ad huom libero più convenevole Perottino, se, confessando la sua debolezza, egli di se stesso doluto si fosse, che non è stato, dolendosi d’uno strano, havere in altrui la propria colpa recata. Ma che? Egli pure così ha voluto et, per meglio colorire la sua menzogna et il suo difetto, lamentandosi d’Amore, accusandolo, dannandolo, rimproverandolo, ogni fallo, ogni colpa volgendo in lui, s’è sforzato di farlovi in poco d’hora di liberalissimo donatore di riposo, di dolcissimo apportator di gioia, di santissimo conservatore delle genti, che egli sempre è stato, rapacissimo rubator di quiete, acerbissimo recator d’affanno, sceleratissimo micidiale de gli huomini divenire; et come se egli la sentina del mondo fosse, in lui ha ogni bruttura della nostra vita versata, con sì alte voci et così diverse sgridandolo, che a me giova di credere hoggimai che egli, più aveduto di quello che noi stimiamo, non tanto per nasconderci le sue colpe, quanto per dimostrarci la sua eloquenza, habbia tra noi di questa materia in così fatta E guisa parlato. Perciò che dura cosa pare a me che sia il pensare che egli ad alcun di noi, che pure il pesco dalla mela conosciamo, habbia voluto fare a credere che Amore, senza il quale niun bene può ne gli huomini haver luogo, sia a noi d’ogni nostro male cagione. Et certamente, riguardevoli donne, egli ha in uno canale derivate cotante bugie, et quelle così bene col corso d’apparente verità inviate dove gli bisognava, che senza dubbio assai acqua m’harebbe egli addosso fatta venire, sì come le sue prime minaccie sonarono, se io hora dinanzi a così intendenti ascoltatrici non parlassi, come voi sete, le quali ad ogni raviluppatissima quistio i ne sciogliere, non che alle sciolte giudicare, come questa di qui a poco sarà, sete bastanti. La qual cosa, acciò che senza più oltra tenervi incominci ad haver luogo, io a gli effetti me ne verrò, solo che voi alcuna attention mi prestiate. Né vi sia grave, o donne, il prestarlami, ché più a me si conviene ella hoggi che a Perottino hieri non fece. Perciò che oltre che lo snodare gli altrui groppi più malagevole cosa è che l’annodargli non è stato, io, la verità dinanzi a gli occhi ponendovi, conoscere vi farò quello che è sommamente dicevole alla vostra giovane etade et senza il che tutto il nostro vivere morte più tosto chiamar si può che vita; dove egli, la menzogna in bocca recando, vi dimostrò cosa, la quale posto che fosse vera, non che a gli anni vostri non convenevole, ma ella sarebbe vie più a’ morti che ad alcuna qualità di vivi conforme. —


III

 

             Havea così detto Gismondo et tacevasi, quando Lisa verso madonna Berenice baldanzosamente riguardando:

             — Madonna, — disse — egli si vuole che noi Gismondo attentamente ascoltiamo, poscia che di tanto giovamento ci hanno a dovere essere i suoi sermoni; la qual cosa se egli così pienamente ci atterrà, come pare che animosamente ci prometta, certa sono che Perottino habbia hoggi non men fiero difenditore ad havere, che egli hieri gagliardo assalitore si fosse. —

             Rispose madonna Berenice a queste parole di Lisa non so che, et rispostole, tutta lieta et aspettante d’udire si taceva; là onde Gismondo così prese a dire:

             — Una cosa sola, leggiadre donne, et molto semplice hoggi ho io a dimostrarvi, et non solamente da me et dalla maggior parte delle nostre fanciulle, che a questi ragionamenti argomento hanno dato, ma da quanti ci vivono, che io mi creda, almeno in qualche parte, solo che da Perottino, conosciuta, se egli pure così conosce come ci ragiona; et questa è la bontà d’Amore, nella quale tanto di rio pose hieri Perottino, quanto allhora voi vedeste et, sì come hora vederete, a gran torto. Ma perciò che a me conviene, per la folta selva delle sue menzogne passando, all’aperto campo delle mie verità far via, prima che ad altra parte io venga, a’ suoi ragionamenti rispondendo, in essi porrem mano. Et lasciando da parte stare il nascimento che egli ad Amore diè, di cui io ragionar non intendo, questi due fondamenti gittò hieri Perottino nel principio delle sue molte voci et, sopra essi edificando le sue ragioni, tutta la sua querela assai acconciamente compose: ciò sono che amare senza amaro non si possa, et che da altro non venga niuno amaro et non proceda che da solo Amore. Et perciò che egli di questo secondo primieramente argomentò, a voi, madonna Berenice, ravolgendosi, la quale assai tosto v’accorgeste quanto egli, già nell’entrar de’ suoi ragionamenti andava tentone, sì come quegli che nel buio era, di quinci a me piace d’incominciare, con poche parole rispondendogli, perciò che di molte a così scoperta menzogna non fa mestiero. Dico adunque così, che folle cosa è a dire che ogni amaro da altro non proceda che d’Amore. Perciò che se questo vero fosse, per certo ogni dolcezza da altro che da odio non verrebbe et non procederebbe giamai, con ciò sia cosa che tanto contrario è l’odio all’amore, quanto è dall’amaro la dolcezza lontana. Ma perciò che da odio dolcezza niuna procedere non può, ché ogni odio, in quanto è odio, attrista sempre ogni cuore et addolora, pare altresì che di necessità si conchiuda che da amore amaro alcuno procedere non possa in niun modo giamai. Vedi tu, Perottino, sì come io già truovo armi con le quali ti vinco? Ma vadasi più avanti, et a più strette lotte con le tue ragioni passiamo. Perciò che dove tu, alle tre maniere de’ mali appigliandoti, argomenti che ogni doglia da qualche amore, sì come ogni fiume da qualche fonte, si diriva, vanamente argomentando, ad assai fievole et falsa parte t’appigli con fievoli et false ragioni sostentata. Perciò che se vuoi dire che, se noi prima non amassimo alcuna cosa, niun dolore ci toccherebbe giamai, è adunque amore d’ogni nostra doglia fonte et fondamento, et che per ciò ne segua che ogni dolore altro che d’amore non sia; deh perché non ci di’ tu anchora così, che, se gli huomini non nascessero, essi non morrebbono giamai, è adunque il nascere d’ogni nostra morte fondamento, et perciò si possa dire che la cagion della morte di Cesare o di Nerone altro che il loro nascimento stata non sia? Quasi che le navi che affondano nel mare, de’ venti che loro dal porto aspirarono secondi et favorevoli, non di quelli che l’hanno vinte nimici et contrari, si debbano con le balene ramaricare, perciò che, se del porto non uscivano, elle dal mare non sarebbono state ingozzate. Et posto che il cadere in basso stato a coloro solamente sia noioso i quali dell’alto son vaghi, non perciò l’amore che alle ricchezze o a gli honori portiamo, sì come tu dicesti, ma la fortuna, che di loro ci spoglia, ci fa dolere. Perciò che se l’amarle parte alcuna di doglia ci recasse nell’animo, con l’amor di loro, possedendole noi o non possedendole, verrebbe il dolore in noi. Ma non si vede che noi ci dogliamo, se non perdendole; anzi manifesta cosa è egli assai ehe in noi nulla altro il loro amore adopera, se non che quelle cose, ehe la fortuna ei dà, esso dolei et soavi ce le fa essere: il che se non fosse, il perderle, che se ne facesse, et il mancar di loro, non ci potrebbe dolere. Se adunque nell’amar questi beni di fortuna doglia alcuna non si sente, se non in quanto essa fortuna, nel cui governo sono, gli permuta, con ciò sia cosa che Amore più a grado solamente ce gli faccia essere, et la fortuna, come ad essa piace, et ce gli rubi et ce gli dia, perché giova egli a te di dire che del dolore, il quale le loro mutationi recano a gli huomini, Amore ne sia più tosto che la fortuna cagione? Certo se mangiando tu a queste nozze, sì come tutti facciamo, il tuo servente contro tua voglia ti levasse dinanzi il tuo piatello pieno di buone et di soavi cose, il quale egli medesimo t’havesse recato, et tu del cuoco ti ramaricassi, et dicessi che egli ne fosse stato cagione, che il condimento dilicato sopra quella cotal vivanda fece, per che ella ti fu recata et tu a mangiarne ti mettesti, pazzo senza fallo saresti tenuto da ciascuno. Hora se la fortuna nostro mal grado si ritoglie que’ beni che ella prima ci ha donati, de’ quali ella è sola recatrice et rapitrice, tu Amore n’encolperai, che il conditor di loro è, et non ti parrà d’impazzare? Certo non vorrei dir così, ma io pure dubito, Perottino, che hoggimai non t’habbiano in cotali giudicij gran parte del debito conoscimento tolto le ingorde maninconie. Questo medesimamente, senza che io mi distenda nel parlare, delle ricchezze dell’animo et di quelle del corpo ti si può rispondere, quali unque sieno di loro i ministratori. Et se le tue fiere alcun de’ loro poppanti figliuoli perdendo si dogliono, il caso tristo che le punge, non l’amore che la natura insegna loro, le fa dolere. D’intorno alle quali tutte cose, hoggimai che ne posso io altro dire, che di soverchio non sia, se non che mentre tu con queste nuvole ti vai ombreggiando la tua bugia, niuna soda forma ci hai ritratta del vero? Se per aventura più forte argomento non volessimo già dire che fosse dell’amaritudine d’Amore quello dove tu di’ che Amore da questa voce Amaro assai acconciamente fu così da prima detto, a·ffine che egli bene nella sua medesima fronte dimostrasse ciò che egli era. Il che io già non sapea, et credea che non le somiglianze de sermoni, ma le sustanze delle operagioni fossero da dovere essere ponderate et riguardate. Che se pure le somiglianze sono delle sustanze argomento, di voi, donne, sicuramente m’incresce, le quali non dubito che Perottino non dica che di danno siate alla vita de gli huomini, con ciò sia cosa che così sono inverso di sé queste due voci, Donne et Danno, conformi, come sono quest’altre due, Amore et Amaro, somiglianti. —


IV

 

             Haveano a piacevole sorriso mosse le ascoltanti donne queste ultime parole di Gismondo, et madonna Berenice tuttavia sorridendo, all’altre due rivoltasi così disse:

             — Male habbiam procacciato, compagne mie care, poi che sopra di noi cadono le costoro quistioni. —

             A cui Sabinetta, della quale la giovanetta età et la vaga bellezza facevano le parole più saporose et più care, tutta lieta et piacevole rispose:

             — Madonna, non vi date noia di ciò: elle non ci toccano pure. Perciò che dimmi tu, Gismondo, qua’ donne volete voi che sien di danno alla vostra vita: le giovani o le vecchie? Certo delle giovani secondo il tuo argomentare non potrai dire, se non che elle vi giovino; con ciò sia cosa che Giovani et Giovano quella medesima somiglianza hanno in verso di sé che tu delle Donne et del Danno dicesti. Il che se tu mi doni, a noi basta egli cotesto assai: le vecchie poi sien tue.

             — Sieno pure di Perottino, — rispose tutto ridente Gismondo — la cui tiepidezza et le piagnevoli querele, poi che le somiglianze hanno a valere, assai sono alla fredda et ramarichevole vecchiezza conformi. A me rimangano le giovani, co’ cuori delle quali, lieti et festevoli et di calde speranze pieni, s’avenne sempre il mio, et hora s’aviene più che giamai, et certo sono che elle mi giovino, sì come tu di’. —

             A queste così fatte parole molte altre dalle donne et da’ giovani dette ne furono, l’uno all’altro scherzevolmente ritornando le vaghe rimesse de’ vezzosi parlari. Et di giuoco in giuoco per aventura garreggiando più oltre andata sarebbe la vaga compagnia, nella quale solo Perottino si tacea, se non che Gismondo in questa maniera parlando alla loro piacevolezza pose modo:


V

 

             — Assai ci hanno, mottegiose giovani, dal diritto camino de’ nostri ragionamenti traviati le somiglianze di Perottino, le quali, perciò che a noi di più giovamento non sono che elle state sieno utili a·llui, hoggimai a dietro lasciando, più avanti anchora de’ suoi ramarichi passi[a]mo. Et perché havete assai chiaro veduto quanto falsa l’una delle sue proposte sia, dove egli dice che ogni amaro altro che d’Amore non viene, veggasi hora quanto quell’altra sia vera, dove egli afferma che amare senza amaro non si puote. Nella quale una egli ha cotante guise d’amari portate et raunate, che assai utile lavorator di campi egli per certo sarebbe, se così bene il loglio, la felce, i vepri, le lappole, la carda, i pruneggiuoli et le altre herbe inutili et nocive della sua possessione sciegliesse et in un luogo gittasse, come egli ha i sospiri, le lagrime, i tormenti, le angoscie, le pene, i dolor tutti et tutti i mali della nostra vita sciegliendo, quegli solamente sopra le spalle de gl’innocenti amanti gittati et ammassati.

             Alla qual cosa fare, acciò che egli d’alcuno apparente principio incominciasse, egli prese argomento da gli scrittori, et disse che quanti d’Amor parlano, quello hora fuoco et hora furor nominando et gli amanti sempre miseri et sempre infelici chiamando, in ogni lor libro, in ogni lor foglio si dolgono, si lamentano di lui, né pure di sospiri o di lagrime, ma di ferite et di morti de gli amanti tutti i loro volumi son macchiati. Il che è da llui con assai più sonanti parole detto che con alcuna ragionevole pruova confermato, sì come quello che non sente del vero. Perciò che chi non legge medesimamente in ogni scrittura gli amorosi piaceri? Chi non truova in ogni libro alcuno amante che, non dico le sue venture, ma pure le sue beatitudini non racconti? Delle quali se io vi volessi hora recitare quanto potrei senza molto studio ramentarmi, certo pure in questa parte sola tutto questo giorno logor[e]rei, et temerei che prima la voce che la materia mi venisse mancata. Ma perciò che egli con le sue canzoni i gravi ramarichi de gli amanti et la ferezza d’Amore vi volle dimostrare, et fece bene, perciò che egli non harebbe di leggiero potuto altrove così nuovi argomenti ritrovare, come che a’ proprij testimoni non si creda, pure, se a voi, donne, non ispiacerà, io altresì con alcuna delle mie quanto d’Amore si lodino gli huomini et quanto habbiano da lodarsi di lui non mi ritrarrò di farvi chiaro. —


VI

 

             Volea a Gismondo ciascuna delle donne rispondere el dire che egli dicesse, ma Lisa, che più vicina gli era, con più tostana risposta fece l’altre tacere così dicendo:

             — Deh sì, Gismondo, per Dio; et non che egli ci piaccia, ma noi te ne preghiamo: anzi havea io per me già pensato di sollecitartene, se tu non ti proferevi.

             — Me non bisogna egli che voi preghiate o sollecitiate, — rispose incontanente Gismondo — perciò che delle mie rime, quali che elle si sieno, solo che a voi giovi d’ascoltarle, a me di sporlevi egli sommamente gioverà. Et oltre a cciò, se voi vi degnaste per aventura di lodarlemi, dove a Perottino parve che fosse grave, io a molta gloria mi recherei et rimarre’vene sopra il pregio ubrigato.

             — Cotesto farem noi volentieri, — rispose madonna Berenice — sì veramente che farai anchora tu che noi così te possiamo lodare come potevam lui.

             — Dura conditione m’havete imposta, Madonna, — disse alhora Gismondo — et io senza conditione vi parlava, troppo più vagho richieditore delle vostre lode che buono stimatore delle mie forze divenuto. Ma certo, avengane che può, io ne pure farò pruova.—

             Et questo detto, piacevolmente incominciò:

 

            Né le dolci aure estive,

Né ’l vago mormorar d’onda marina,

Né tra fiorite rive

Donna passar leggiadra et pellegrina,

F-r giamai medicina,

Che sanasse pensero infermo et grave,

Ch’io non gli haggia per nulla

Di quel piacer, che dentro mi trastulla

L’anima, di cui tene Amor la chiave:

Sì è dolce et soave.

 

             Pendeano dalla bocca di Gismondo le ascoltanti donne, credendo che più oltre havesse ad andare la sua canzona, et egli tacendosi diede lor segno d’haverla fornita. Là onde in questa maniera madonna Berenice a·llui rincominciò:

             — Lieta et vaghetta canzona dicesti, Gismondo, senza fallo alcuno; ma vuoi tu essere per così poca cosa lodato?.

Madonna mia, no — rispose egli. — Ben vorrei che mi dicesse Perottino dove sono in questa quelli suoi cotanti dolori, che egli disse che in ogni canzone si leggeano. Ma prima che egli mi risponda, oda quest’altra anchora:

 

            Non si vedrà giamai stanca né satia

Questa mia penna, Amore,

Di renderti, signore,

Del tuo cotanto honore alcuna gratia.

A cui pensando, volentier si spatia

Per la memoria il core,

Et vede ’l tuo valore,

Ond’ei prende vigore et te ringratia.

            Amor, da te conosco quel ch’io sono:

Tu primo mi levasti

Da terra e ’n cielo alzasti,

Et al mio dir donasti un dolce suono;

Et tu colei, di ch’io sempre ragiono,

A gli occhi miei mostrasti,

Et dentro al cor mandasti

Pensier leggiadri et casti, altero dono.

            Tu sei, la tua mercé, cagion ch’io viva

In dolce foco ardendo,

Dal qual ogni ben prendo,

Di speme il cor pascendo honesta et viva;

Et se giamai verrà ch’i’ giunga a riva,

Là ’ve ’l mio volo stendo,

Quanto piacer n’attendo,

Più tosto no ’l comprendo, ch’io lo scriva.

            Vita gioiosa et cara

Chi da te non l’impara, Amor, non have.


VII

 

             Assai era alle intendenti donne piaciuta questa canzone et sopra essa, lodandola, diverse cose parlavano. Ma Gismondo, a cui parea che l’hora fuggisse, sì come quegli che havea assai lungamente a parlare, interrompendole, in questa maniera i suoi ragionamenti riprese:

             — Amorose giovani, che le mie rime vi piacciano, se così è come voi dite, a me piace egli sopra modo. Ma voi allhora le vostre lode mi darete, quando io ad Amore harò date le sue. Perciò che honesta cosa non è che voi prima me di così bella merce paghiate, che io il mio sì poco lavorio vi fornisca. Hora venendo a Perottino, quanto egli falsamente argomenti, che ne’ versi che d’Amor parlano niente altro si legga che dolore, voi vedete. Né pure queste tra le mie rime, che uno sono tra gli amanti, solamente si leggono lodanti et ringratianti il loro signore, ma molte altre anchora, delle quali io, perciò che ad altre parti ho a venire, né bisogna che lungo tempo in questa sola mi dimori ragionando, secondo che elle mi verranno in bocca, alcuna ne racconterò, per le quali voi meglio il folle errore di Perottino comprenderete. Et certo se egli havesse detto che più sono stati di quegli amanti che d’Amor si sono ne’ loro scritti doluti, che quelli non sono stati che lodati di lui si sono, et più ragionevole sarebbe stato il suo parlare, et io per poco gliele harei conceduto; né perciò sarebbe questo buono argomento stato a farci credere che amare senza amaro non si possa, perché non così molti d’Amor si lodassero, quanti veggiamo che si lamentano di lui. Perciò che, lasciamo stare che da natura più labili siamo ciascuno a ramaricarci delle sciagure che a lodarci delle venture, ma diciamo così, che quelli che felicemente amano, tanta dolvezza sentono de’ loro amori, che di quella sola l’animo loro et ogni lor senso compiutamente pascendo et di ciò interissima sodisfattione prendendo, non hanno di prosa, né di verso, né di carte vane et sciocche mestiero. Ma gl’infelici amanti, perciò che non hanno altro cibo di che si pascere né altra via da sfogar le loro fiamme, corrono a gl’inchiostri et quivi fanno quelli cotanti romori che si leggono, simili a questi di Perottino, che egli così caldamente ci ha raccontati. Onde non altramente aviene nella vita de gli amanti che si vegga nel corso de’ fiumi adivenire, i quali dove sono più impediti et da più folta siepe o da sassi maggiori attraversati, più altresì rompendo et più sonanti scendono et più schiumosi; dove non hanno che gl’incontri et da niuna parte il loro camino a sé vietato sentono, riposatamente le loro humide bellezze menando seco, pura et cheta se ne vanno la lor via. Così gli amanti, quanto più nel corso de’ loro disij hanno gl’intoppi et gl’impedimenti maggiori, tanto più in essi rotando col pensiero et lunga schiuma de’ loro sdegni trahendo dietro, fanno altresì il suono de’ lor lamenti maggiore; felici et fortunati et in ogni lato godenti de’ loro amori, né da alcuna opposta difficultà nell’andare ad essi ritenuti, spatiosa et tranquilla vita correndo, non usano di farsi sentire. La qual cosa se così è, che è per certo, né potrà fare in maniera Perottino del vero co’ suoi nequitosi argomenti che egli pure vero non sia, potrassi dire che le molte ramaricationi degli amanti infelici sien quelle che facciano che esser non ne possano anchora de’ felici? Et chi dubita che egli non si possa? Che perché in alcuno famoso tempio dipinte si veggano molte navi, quale con l’albero fiacco et rotto et con le vele raviluppate, quale tra molti scogli sospinta o già sopravinta dall’onde arare per perduta, et quale in alcuna piaggia sdruscita, testimonianza donar ciascuna de’ loro tristi et fortunosi casi, non si può per questo dire che altrettante state non sien quelle che possono lieto et felice viaggio havere havuto, quantunque elle, sì come di ciò non bisognevoli, alcuna memoria delle loro prospere et seconde navigationi lasciata non habbiano.


VIII

 

             Hora si può accorgere Perottino come, senza volere io ripigliare alcuno antico o moderno scrittore, i suoi frigoli argomenti ripigliati et rifiutati per se stessi rimangono. Ma per non tenervi io in essi più lungamente che huopo ci sia, hoggimai ne gli amorosi miracoli et nelle loro discordanze passiamo, dove son quelli che vivono nel fuoco come salamandre, et quegli altri che ritornano in vita morendo et muoiono similmente della lor vita. Alle quali maraviglie sallo Idio che io non so che mi rispondere, che io di Perottino non mi maravigli, il quale, o folle credenza di farloci a credere che lo rassicurasse, o sfrenato disio di ramaricarsi che lo trasportasse, non solamente non s’è ritenuto di così vane favole raccontarci per vere, ma egli anchora con le sue canzoni medesime, quasi come se elle fossero le foglie della Sibilla Cumea o le voci delle indovinatrici cortine di Phebo, ce l’ha volute racconf[e]rmare. La qual cosa tuttavia questo hebbe di bene in sé, che a noi le sue canzoni, per quello che io di voi m’accorsi et in me conosco, non poco di piacere et di diletto porsero, ramorbidando gl’inacerbiti nostri spiriti dall’asprezza de’ suoi ruvidi et fieri sermoni. Le quali se tanto di verità havessero in sé considerandole, quanto udendole esse hanno havuto di novità et di vaghezza, io incontro di Perottino non parlerei. Hora che vi debbo io dire? Non sa egli per se stesso ciascun di noi, senza che io parli, che queste sono spetialissime licenze, non meno de gli amanti che de’ poeti, fingere le cose molte volte troppo da ogni forma di verità lontane? dare occasioni alla lingua o pure alla penna ben nuove, bene per adietro da niuno intese, bene tra se stesse discordanti et alla natura medesima importabili ad essere sofferute giamai? Deh, Perottino, Perottino, come se’ tu folle, se tu credi che noi ti crediamo che a gli amanti sia conceduto il poter quello che la natura non può, quasi come se essi non fossero nati huomini, come gli altri soggiacenti alle sue leggi. Dico adunque che i tuoi miracoli altro già che menzogne non sono. Perciò che niente hanno essi più di vero in sé, di quello che de’ seminati denti dall’errante Cadmo o delle feraci formiche del vecchio Eaco o dell’animoso arringo di Phetonte si ragioni o di mille altre favole anchora di queste più nuove. Né pure incominci tu questa usanza hora, ma tutti gli amanti, che hanno scritto o scrivono, così fecero et fanno ciascuno, o lieti o infortunati che essi stati sieno o essere si truovino de’ loro amori; se pure i lieti a scrivere delle loro gioie o pure a parlarne si dispongono giamai, il che suole alcuna volta di quelli avenire, che tra gli otij soavi delle Muse cresciuti, poi nelle dolci palestre di Venere essercitandosi, non possono sovente non ricordarsi delle loro donne primiere. I quali le più volte di quelli medesimi affetti favoleggiano che fanno i dolorosi, non perciò che essi alcuno di que’ miracoli pruovino in sé che i miseri et tristi dicono sovente di provare, ma fannolo per porgere diversi suggetti a gl’inchiostri, acciò che con questi colori i loro fingimenti variando, l’amorosa pintura riesca a gli occhi de’ riguardanti più vaga. Perciò che del fuoco, col quale si fatica Perottino di rinforzare la maraviglia de gli amorosi avenimenti, quali carte di qualunque lieto amante che scriva non sono piene? né pur di fuoco solamente, ma di ghiaccio insieme et di quelle cotante disagguaglianze, le quali più di leggiero nelle carte s’accozzano che nel cuo re? Chi non sa dire che le sue lagrime sono pioggia, et venti i suoi sospiri, et mille cotai scherzi et giuochi d’amante non men festoso che doglioso? chi non sa fare incontanente quella che egli ama saettatrice, fingendo che gli occhi suoi feriscano di pungentissime saette? La qual cosa per aventura più acconciamente finsero gli antichi huomini, che delle cacciatrici Nimphe favoleggiarono assai spesso et delle loro boscareccie prede, pigliando per le vaghe Nimphe le vaghe donne che con le punte de’ loro penetrevoli sguardi prendono gli animi di qualunque huomo più fiero. Chi non suole hora sé hora la sua donna a mille altre più nuove sembianze anchora, che queste non sono, rassomigliare? Aperto et comune et ampissimo è il campo, o donne, per lo quale vanno spatiando gli scrittori, et quelli massimame[n]te sopra tutti gli altri che, amando et d’Amore trattando, si dispongono di coglier frutto de’ loro ingegni et di trarne loda per questa via. Perciò che oltra che egli si fingono le impossibili cose, non solamente a ciascun di loro sta, qualunque volta esso vuole, il pigliar materia del suo scrivere o lieta o dolorosa, sì come più gli va per l’animo o meglio li mette o più agevolmente si fa, et sopra essa le sue menzogne distendere et i suoi pensamenti più strani, ma essi anchora uno medesimo suggetto si recheranno a diversi fini, et uno il si dipignerà lieto, et l’altro se lo adombrerà doloroso, sì come una stessa maniera di cibo, per dolce o amara che di sua natura ella [si] sia, condire in modo si può, che ella hora questo et hora quell’altro sapore haverà, secondo la qualità delle cose che le si pongon sopra.


IX

 

             Perciò che quantunque molti amanti, fingendo la lontananza del loro cuore, a lagrime et a lamenti et a dolorosi martiri la si tirino, sì come potete havere udito molte fiate, non è per questo che io altresì in una delle mie fingendola, a maraviglioso giuoco et a dilettevole sollazzo non me l’habbia recata. Et acciò che io a voto non ragioni. udite anchora de’ miei miracoli alcuno:

 

            Preso al primo apparir del vostro raggio,

Il cor, che ’n fin quel dì nulla mi tolse,

Da me partendo, a seguir voi si volse;

Et come quei che trova in suo viaggio

Disusato piacer, non si ritenne

Che fu ne gli occhi, onde la luce uscia,

Gridando: "A queste parti Amor m’invia’’.

 

             Vedete voi sì come fingono gli amanti che i loro cuori con piacere et con gioia di loro pure partir da·lloro si possono? Ma questo non è ad essi cosa molto anchora maravigliosa. Di più maraviglia è quello che segue:

 

            Indi tanta baldanza appo voi prese

L’ardito fuggitivo a poco a poco,

Ch’anchor per suo destin lasciò quel loco

Dentro passando, et più oltra si stese,

Che ’n quello stato a lui non si convenne;

Fin che poi giunto ov’era il vostro core,

Seco s’assise et più non parve fore.

             Già potete vedere non solamente che i nostri cuori da noi si partono, ma che essi sanno etiandio far viaggio. Udite tuttavia il rimanente:

 

            Ma quei, come ’l movesse un bel desire

Di non star con altrui del regno a parte,

O fosse ’l ciel che lo scorgesse in parte

Ov’altro signor mai non devea gire,

Là, onde mosse il mio, lieto sen’venne:

Così cangiaro albergo, et da quell’hora

Meco ’l cor vostro e ’l mio con voi dimora.

 

             Non sono questi miracoli sopra tutti gli altri? due cuori amanti, da i loro petti partiti, dimorarsi ciascuno nell’altrui, et ciò loro, non pure senza noia, ma anchora da celeste dono avenire? Ma che dico io questi? Egli vi se ne potrebbono, da chiunque ciò far volesse, tanti recare innanzi giochevoli et festevoli tutti, che non se ne verrebbe a capo agevolmente. Et perciò questo poco haver detto volendo che mi basti, hoggimai i tuoi fieri et gravi miracoli, Perottino, quanto facciano per te tu ti puoi avedere. I quali però tuttavia se sono veri, perciò che tu et i simili a te, tristi et miseri amanti, ne parliate o scriviate, veri debbono essere similmente questi altri vaghi et cari, poi che di loro io et i simili a me, lieti et felici amanti, parlandone o scrivendone ci trastulliamo: per che niuna forza i tuoi ad Amor fanno che egli dolce non possa essere, più di quello che facciano i miei che egli non possa essere amaro. Se sono favole, elle a te si ritornino per favole, quali si partirono, et seco ne portino la tua così ben dipinta imagine, anzi pure la imaginata dipintura del tuo Idio; della quale se tu scherzando ragionato non ci havessi quello tanto che detto ne hai, io da vero alcuna cosa ne parlerei, et harei che parlarne. Ma poi che del tuo fallo tu medesimo ti riprendesti, dicendoci, per amenda di lui, che nel vero non solamente Amore non è Idio, ma che egli pure non è altro che quello che noi stessi vogliamo, se io hora nuova tenzona ne recassi sopra, non sarebbe ciò altro che un ritessere a guisa dell’antica Penelope la poco innanzi tessuta tela. —


X

 

             Tacquesi, dette queste parole, Gismondo, et raccogliendo prestamente nella memoria quello che dire appresso questo dovea, prima che egli riparlasse, egli incominciò a sorridere seco stesso; il che vedendo le donne, che tuttavia attendevano che egli dicesse, divennero anchora d’udirlo più vaghe. Et madonna Berenice, alleggiato di sé un giovane alloro, il quale nello stremo della sua selvetta più vicino alla mormorevole fonte, quasi più ardito che gli al[tr]i, in due tronchi schietti cresciuto, al bel fianco di lei doppia colonna faceva, et sopra se medesima recatasi, disse:

             — Bene va, Gismondo, poi che tu sorridi, là dove io più pensava che ti convenisse di star sospeso. Perciò che, se io non m’inganno, sì sei tu hora a quella parte de’ sermoni di Perottino pervenuto, dove egli, argomentando dell’animo, ci conchiuse che amare altrui senza passione continua non si puote. Il qual nodo, come che egli si stia, io per me volentier vorrei, et perdonimi Perottino, che tu sciogliere così potessi di leggiero, come fu all’antica Penelope agevole lo stessere la poco innanzi tessuta tela. Ma io temo che tu il possa; così mi parvero a forte subbio quegli argomenti avolti et accomandati.

             — Altramente vi parranno già testé, Madonna — rispose Gismondo. — Né perciò di quello che essi infino a qui paruti vi sono me ne maraviglio io molto. Anzi hora, dovendo io di questi medesimi favellarvi, sì come voi dirittamente giudicavate, a quel riso che voi vedeste mi sospinse il pensare come sia venuto fatto a Perottino il poter così bene la fronte di sì parevole menzogna dipignere ragionando, che ella habbia troppo più, che di quello che ella è, di verità sembianza. Perciò che se noi alle sue parole risguardiamo, egli ci parrà presso che vero quello che egli vuole che vero ci paia che sia, in maniera n’ha egli col suo sillogizzare il bianco in vermiglio ritornato. Perciò che assai pare alla verità conforme il dire che, ogni volta che l’huom non gode quello che egli ama, egli sente passione in sé; ma non può l’huom godere compiutamente cosa che non sia tutta in lui: adunque l’amare altrui non può in noi senza continua passione haver luogo. Il che, se per aventura pure è vero, saggio fu per certo l’atheniese Timone, del qual si legge che, schifando parimente tutti gli huomini, egli con niuno volea havere amistà, niuno ne amava. Et saggi sarem noi altresì se, questo malvagio affannatore de gli animi nostri da noi scaciando, gli amici, le donne, i fratelli, i padri, i proprij figliuoli medesimi, sì come i più stranieri, ugualmente rifiutando, la nostra vita senza amore, quasi pelago senza onda, passeremo; solo che dove noi, a guisa di Narciso, amatori divenir volessimo di noi stessi. Perciò che questo tanto credo io che Perottino non ci vieti, poi che in noi noi medesimi siam sempre. La qual cosa se voi farete et ciascuno altro per sé farà, da questi suoi argomenti ammaestrato, certo sono che egli a brieve andare non solamente Amore haverà alla vita de gli huomini tolto via, ma insieme con esso lui anchora gli huomini stessi levatone alla lor vita Perciò che cessando l’amare che ci si fa, cessano le consuetudini tra sé de’ mortali, le quali cessando, necessaria cosa è che cessino et manchino eglino con esso loro insiememente. Et se tu qui Perottino mi dicessi che io di così fatto cessamento non tema, perciò che Amore ne gli huomini per alcun nostro proponimento mancar non può, con ciò sia cosa che ad amar l’amico, il padre, il fratello, la moglie, il figliuolo necessariamente la natura medesima ci dispone, che bisognava dunq[u]e che tu d’Amore più tosto ti ramaricassi che della natura? Lei ne dovevi incolpare, che non ci ha fatta dolve quella cosa che necessaria ha voluto che ci sia; se tu pure così amara la ti credi come tu la fai. Nella qual tua credenza dove a te piaccia di rimanerti, senza fallo agiatissimamente vi ti puoi spatiare a tuo modo, che compagno che vi cci venga per occuparlati, di vero, che io mi creda, non haverai tu niuno. Perciò che chi è di così poco diritto conoscimento, che creda, lasciamo stare uno che ami te, o amico o congiunto che egli ti sia, ma pure che l’amare un valoroso huomo, una santa donna, amar le paci, le leggi, i costumi lodevoli et le buone usanze d alcun popolo et esso popolo medesimo, non dico di dolore o d’affanno, ma pure di piacere et di diletto non ci sia? Et certo tutte queste cose sono fuor di noi. Le quali, posto che io pure ti concedessi che affanno recassero a’ loro amanti, perciò che elle non sieno in noi, vorresti tu però anchora che io ti concedessi che l’amare il cielo et le cose belle che ci son sopra et Dio stesso, perché egli non sia tutto in noi, con ciò sia cosa che, essendo egli infinito, essere tutto in cosa finita non può, sì come noi siamo, ci fosse doloroso? Certo questo non dirai tu giamai, perciò che da cosa beata, sì come sono quelle di là su, non può cosa misera provenire. Non è adunque vero, Perottino, che l’amore che alle cose istrane portiamo, per questo che elle istrane sieno, c’impassioni.


XI

 

             Ma che diresti tu anchora se io, tutte queste ragioni donandoti amichevolmente, et buono facendoti quello stesso che tu argomenti, che amare altrui non si possa senza dolore, ti dicessi che questo amar le donne, che noi huomini facciamo, et che le donne fanno noi, non è amare altrui, ma è una parte di sé amare et, per dir meglio, l’altra metà di se stesso? Perciò che non hai tu letto che primieramente gli huomini due faccie haveano et quattro mani et quattro piedi et l’altre membra di due de’ nostri corpi similmente? I quali poi, partiti per lo mezzo da Giove, a cui voleano t"rre la signoria, furono fatti cotali, chenti hora sono. Ma perciò che eglino volentieri alla loro interezza di prima sarebbono voluti ritornare, come quelli che in due cotanti poteano in quella guisa et di più per lo doppio si valevano che da poi non si sono valuti, secondo che essi si levavano in piè, così ciascuno alla sua metà s’appigliava. Il che poi tutti gli altri huomini hanno sempre fatto di tempo in tempo, et è quello che noi hoggi Amore et amarci chiamiamo. Per che se alcuno ama la sua donna, egli cerca la sua metà, et il somigliante fanno le donne, se elle amano i loro signori. Se io così ti favellassi, che mi risponderesti tu, o Perottino? Per aventura quello stesso che io pure hora d’intorno a’ tuoi miracoli ragionando ti rispondea, ciò è che questi son giuochi de gli huomini, dipinture et favole et loro semplici ritrovamenti più tosto et pensamenti che altro. Non sono queste dipinture de gli huomini, né semplici ritrovamenti, Perottino. La natura stessa parla et ragiona questo cotanto che io t’ho detto, non alcuno huomo. Noi non siamo interi né il tutto di noi medesimi è con noi, se soli maschi o sole femine ci siamo. Perciò che non è quello il tutto, che senza altrettanto star non può, ma è il mezzo solamente et nulla più, sì come voi, donne, senza noi huomini et noi senza voi non possiamo. La qual cosa quanto sia vera già di quinci veder si può, che il nostro essere o da voi o da noi solamente et separatamente non può haver luogo. Oltre che etiandio quando bene separatamente ci nascessimo, certo, nati, non potremmo noi vivere separatamente. Perciò che se ben si considera, questa vita, che noi viviamo, di fatiche innumerabili è piena, alle quali tutte portare né l’un sesso né l’altro assai sarebbe per sé bastante, ma sotto esso mancherebbe; non altram[e]nte che facciano là oltre l’Alessandria tale volta i cameli, di lontani paesi le nostre mercatantie portanti per le stanchevoli arene, quando aviene per alcun caso che sopra lo scrigno dell’uno le some di due pongono i loro padroni, che, non potendo essi durare, cadono et rimangono a mezzo camino. Perciò che come potrebbono gli huomini arare, edificare, navicare, se ad essi convenisse anchora quegli altri essercitij fare che voi fate? O come potremmo noi dare ad un tempo le leggi a’ popoli et le poppe a figliuoli et tra i loro vagimenti le quistioni delle genti ascoltare? o drento a’ termini delle nostre case, nelle piume et ne gli agi riposando, menare a tempo le gravose pregnezze et a cielo scoperto incontro a gli assalitori, per difesa di noi et delle nostre cose, col ferro in mano et di ferro cinti discorrendo guerreggiare? Che se noi huomini non possiamo et i vostri uffici et i nostri abbracciare, molto meno si dee dir di voi, che di minori forze sete generalmente che noi non siamo. Questo vide la natura, o donne, questo ella da principio conoscea et, potendoci più agevolmente d’una maniera sola formare come gli alberi, quasi una noce partendo ci divise in due, et quivi nell’una metà il nostro et nell’altra il vostro sesso fingendone, ci mandò nel mondo in quella guisa, habili all’une fatiche et all’altre, a voi quella parte assegnando, che più è alle vostre deboli spalle confacevole, et a noi quell’altra sopraponendo, che dalle nostre più forti meglio può essere che dalle vostre portata; tuttavia con sì fatta legge accomandandoleci et la dura necessità in maniera mescolando per amendue loro, che et a voi della nostra et a noi della vostra tornando huopo, l’uno non può fare senza l’altro; quasi due compagni che vadano a caccia, de’ quali l’uno il paniere et l’altro il nappo rechi, che quantunque essi caminando due cose portino, l’una dall’altra separate, non perciò poi, quando tempo è da ricoverarsi, fanno essi anchora così, pure con la sua separatamente ciascuno, anzi sotto ad alcuna ombra riposatisi, amendue si pascono vicendevolmente et di quello del compagno et del suo. Così gli huomini et le donne, destinati a due diverse bisogne portare, entrano in questa faticosa caccia del vivere, et per loro natura tali, che a ciascun sesso di ciascuna delle bisogne fa mestiero, et sì poco poderosi che, oltre alla sua metà del carico, nessun solo può essere bastante; sì come le antiche donne di Lenno et le guerreggevoli Amazone con loro grave danno sentirono, che ne fer pruova, le quali mentre vollero et donne essere et huomini ad un tempo, per quanto le loro balìe si stenderono, et l’altrui sesso a·ffine recarono et il loro.


XII

 

             Per che se a stato alcuno venire né in istato mantenersi, né gli huomini né le donne non possono gli uni senza gli altri, né ha in sé ciascun sesso più che la metà di quello che bisogno fa loro o al poter vivere o al poter venire alla vita, poi che non è il tutto quello, sì come io dissi, che senza altrettanto star non può, ma è il mezzo solamente, non so io vedere, o donne, come noi più che mezzi ci siamo et voi altresì, et come voi la nostra metà, sì come noi la vostra, non vi siate, et infine come la femina et il maschio sieno altro che uno intero. Et certo non pare egli a voi, così semplicemente risguardando et estimando, che i vostri mariti l’una parte di voi medesime portino sempre con esso loro? Deh non vi pare egli tuttavia che da’ vostri cuori si diparta non so che et finisca ne gli loro, che sempre, dovunque essi vadano, quasi catena gli vi congiunga con inseparabile compagnia? Così è senza fallo alcuno: essi sono la vostra metà et voi la loro, sì come io quella della mia donna et essa la mia. La quale se io amo, che amo per certo et sempre amerò, ma se io amo lei et se ella me ama, non è tuttavia che alcun di noi ami altrui, ma se stesso; et così aviene de gli altri amanti, et sempre averrà. Ora per non far più lunga questa tenzona, se gli amanti amando tra loro amano se stessi, essi deano poter fruire quello che essi amano senza dubbio alcuno, se quello è vero che tu argomentavi, che fruire non si possa solamente dell’altrui. Et se essi possono fruir quello che essi amano, poi che il non poter fruire è solo quello che c’impassiona, non veggo io che ne segua quella conchiusione che tu ne trahevi, che Amore tenga l’animo de gli huomini sollecito et, come ci dicesti, perturbato. Cotale è il nodo, madonna Berenice, che voi poco avanti come io sciogliere potessi dubitavate; cotale è la tela di Perottino a quel forte subbio, che voi diceste, accomandata; la qual nel vero a me pare che più tosto una di quelle d’Aragne, che a quella di Penelope stata conforme dire si possa che sia. Ma non per tutto ciò si pente, o donne, né si ritiene in parte alcuna, raffrenando la trascorrevole follia de’ suoi ragionamenti, Perottino; anzi pure per questo medesimo campo dell’animo più alla scapestrata, quasi morbido giumento fuggendosi, con la lena delle parole vie più lunghi et più stolti discorrimenti ne fa, il suo male medesimo dilettandolo. Ma sì come suole alcuna volta del viandante avenire, il quale alla scielta di due strade pervenuto, mentre e’ si crede la sua pigliare, per quella che ad altre contrade il porta mettendosi, quanto egli più al destinato luogo s’affretta d’appressarsi, tanto più da esso caminando s’allontana, così Perottino a dir d’Amore per le passioni dell’animo già entrato, mentre egli si studia forse avisando di giugnere al vero, quanto più s’affanna di ragionarne, tanto egli più, per lo non diritto sentiero avacciandosi, si diparte et si discosta da·llui. La qual cosa, quantunque con semplici parole così essere vi potesse da ciascuno assai apertamente venir dimostrata, nondimeno sì perché alle segnate historie di Perottino non pare disdicevole che io un poco più partitamente ne ragioni, et sì anchora perché il così fattamente favellarne alla materia è richiesto, dove con vostro piacer sia, alquanto più ordinatamente parlando, chente sia il suo errore m’accosterò di farvi chiaro. —


XIII

 

             A questo rispostogli dalle belle donne che tanto di loro piacere era, quanto era di suo, et che dove a·llui non increscesse il favellare, comunque egli il facesse, a loro l’ascoltarlo non increscerebbe giamai, esso cortesemente ringratiatenele, et già atteso da ciascuna, poi che egli hebbe il braccio sinistro alquanto inverso le attendenti donne sporto in fuori, pregandole che attentamente l’ascoltassero, perciò che, dove poche delle parole che egli a dire havea si perdesse, niente gioverebbe l’haver parlato, del pugno che chiuso era due dita forcutamente levando inverso il cielo, così incominciò et disse:

             — In due parti, o donne, dividono l’animo nostro gli antichi philosophi: nell’una pongono la ragione, la quale con temperato passo muovendosi lo scorge per calle spedito et sicuro; dall’altra fanno le perturbationi, con le quali esso travalicando discorre per dirottissimi et dubbiosissimi sentieri. Et perciò che ogni huomo, quello che bene pare ad esso che sia, et di tener disidera et, tenuto, si rallegra di possedere, et similmente niuno è che il pendente male non solleciti, et pochi sono coloro che il sopracaduto non gravi, quattro fanno gli affetti dell’animo altresì: Disiderio, Allegrezza, Sollecitudine et Dolore; de’ quali, due dal bene, o presente o futuro, et due medesimamente dal male, o avenuto o possibile ad avenire, hanno origine et nascimento. Ma perciò che et il disiderar delle cose, dove con sano consiglio si faccia è sano, dove da torto appetito proceda e dannoso; et il rallegrarsi non è biasimato in alcuno, se non in quanto egli ha i termini del convenevole trapassati; et lo schifar de’ mali che avenir possono, secondo che noi o bene o male temiamo, così egli et di lodevole piglia qualità et di vituperoso, quinci aviene che questi tre affetti in buoni et in non buoni dividendo, a quella parte dell’animo, che con la ragione s’invia, danno l’honesto disiderio, l’honesta allegrezza, l’honesto temere; all’altra gli stremi loro, che sono il soverchio disiderare, il soverchio rallegrarsi, la soverchia paura. Il quarto, che è de mali presenti la maninconia, non dividono come gli altri; ma perciò che dicono d alcuna cosa, che avenga nella vita, il prudente et costante huomo né affligersi né attristarsi giamai, et soverchio et vano sempre essere ogni dolore delle avenute cose, questo solo affetto intero pongono nelle perturbationi. Così aviene che tre sono le sagge et regolate maniere de gli affetti dell’animo, et quattro le stolte et intemperate. Oltre a·cciò, perciò che certissima cosa è che male alcuno la natura far non può, et che solamente buone sono le cose da·llei procedenti, le tre maniere, sì come quelle che buone sono, affermano ne gli huomini essere naturali altresì, le quattro dicono in noi fuori del corso della natura haver luogo; quelle ragionevoli affetti secondo natura, queste contro natura disordi nate perturbationi chiamando et nominando. Sono adunque due, sì come di sopra s’è detto, le strade dell’animo, o donne: l’una della ragione, per la quale ogni naturale movimento s’incamina; l’altra delle perturbationi, per cui hanno i non naturali a’ loro traboccamenti la via. Hora non credo io che voi crediate che alcun non naturale movimento possa con la ragione dimorare, perciò che, dimorando con esso lei, bisognerebbe che egli fosse naturale; ma naturale come può esser cosa che naturale non sia? Né è da dire altresì che affetto alcuno naturale si mescoli nelle perturbationi, con ciò sia cosa che mescolandosi tra loro gli bisognerebbe essere non naturale; ma naturale et non naturale per certo niuna cosa essere puote giamai. Divise adunque le passioni dell’animo et trattate nella maniera che udito havete, recatevi questo sovente per la memoria, che affetto naturale alcuno non può ne gli animi nostri con le perturbationi haver luogo. Hora ritorniamo a Perottino, il quale pose Amore nelle perturbationi, et ragioniamo così: che se Amore è cosa che contro natura venga in noi, non può altrove essere il cativello che dove l’ha posto Perottino; ma se egli pure è affetto a gli animi nostri donato dalla natura, sì come cosa a cui buona conviene essere altresì, con la natura caminando, non potrà in maniera alcuna nelle perturbationi ree et ne gli affetti dell’animo sinistri et orgogliosi trapassare. Hora che vi voglio io, avedute giovani, o pure che vi debbo io più oltre dire? Bisogna egli che io vi dimostri che naturale è l’amore in noi? Questo si fe’ pur dianzi, quando noi dell’amore che a’ padri, a’ figliuoli, a’ congiunti, a gli amici si porta ragionavamo. Senza che io mi credo che non pur voi, che donne siete, anzi anchora questi allori medesimi, che ci ascoltanon se essi parlar potessero, ne darebbono testimonianza. —


XIV

 

             Di poco havea così detto Gismondo, quando Lavinello, il quale lungamente s’era taciuto, con queste parole gli si fe’ incontro:

             — Cattivi testimoni haresti trovati, Gismondo, se questi allori parlassero, a quello che tu intendi di provarci. Perciò che se essi ritratto fanno al primo loro pedale, sì come è natura delle piante, essi non amarono giamai. Perciò che non amò altresì quella donna che primieramente diè al tronco forma, del quale questi tutti sono rampolli, se quello vero è che se ne scrive.

             — Male stimi, Lavinello, et male congiugni le cose da natura separate — rispose incontanente Gismondo. — Perciò che questi allori bene fanno ritratto al primo loro pedale, sì come tu di’, ma non alla donna, la quale se stessa laseiò, quando ella primieramente la bueeia di lui prese.

             Questi, come ancho quello feee, amano et sono amati altresì, essi la terra et la terra loro, et di tale amor pregni partoriscono al lor tempo hora talli, hora orbache, hora frondi, secondo che esso, da cui tutti nacquero partoriva, né mai ha fine il loro amore, se non insieme con la lor vita. Il che volesse Idio che fosse ne gli huomini, che Perottino non harebbe forse hora cagion di piagnere così amaramente, come egli fa vie più spesso che io non vorrei. Ma la donna non amò già essendo amata, sì come tu ragioni; la qual cosa perciò che fu contro natura, forse meritò ella di divenir tronco, come si scrive. Et certo che altro è, lasciando le membra humane, albero et legno farsi, che, gli affetti naturali abandonando molli et dolcissimi, prendere i non naturali, che sono così asperi et così duri? che se questi allori parlassero et le nostre parole havessero intese, a me giova di credere che noi hora udiremmo che essi non vorrebbono tornare huomini, poi che noi contro la natura medesima operiamo, la qual cosa non aviene in loro; non che essi buoni testimoni non fossero, Lavinello, a quello che io ti ragiono.


XV

 

             È adunque, né bisogna che io ne quistioni, o donne, naturale affetto de gli animi nostri Amore, et per questo di necessità et buono et ragionevole et temperato. Onde quante volte aviene che l’affetto de’ nostri animi non è temperato, tante volte non solamente ragionevole né buono è più, ma egli di necessità anchora non è Amore. Udite voi ciò che io dico? Vedete voi a che parte la pura et semplice verità m’ha portato? "Che dunque è," potrestemi voi dire "se egli non è Amore? ha egli nome alcuno?". Sì bene che egli n’ha, et molti, et per aventura quelli stessi che Perottino quasi nel principio de’ suoi sermoni gli diè, pure di questo medesimo ragionando quello, che egli d’Amor si credea favellare: fuoco, furore, miseria, infelicità et, oltre a questi, se io porre ne gli posso uno, egli si può più acconciamente che altro chiamare ogni male, perciò che in Amore, sì come poco appresso vi fie manifesto, ogni bene si rinchiude. Che vi posso io dire più avanti? Né v’ingannino queste semplici voci, o donne, che senza fatica escono di bocca altrui, d’amore, d’amante, d’innamorato, che voi crediate che incontanente Amor sia tutto quello che è detto Amore, et tutti sieno amanti quelli che per amanti sono tenuti et per innamorati. Questi nomi piglia ciascuno per lo più co’ primi disij, i quali esser possono non meno temperati che altramente et, così presi, comunque poi vada l’opera, esso pure se gli ritiene, aiutato dalla sciocca et bamba oppenione de gli huomini che, senza discretion fare alcuna con diverse appellationi alle diverse operation loro, così chiamano amanti quelli che male hanno disposti gli affetti dell’animo loro nelle disiderate cose et cercate, come quelli che gli han bene. Ahi come agevolmente s’ingannano le anime cattivelle de gli huomini, et quanto è leggiera et folle la falsa et misera credenza de’ mortali. Perottino, tu non ami; non è amore, Perottino, il tuo; ombra sei d’amante, più tosto che amante, Perottino. Perciò che se tu amassi, temperato sarebbe il tuo amore, et essendo egli temperato, né di cosa che avenuta ne sia ti dorresti, né quello che per te havere non si può disidereresti tu o cercheresti giamai. Perciò che, oltre che soverchio et vano è sempre il dolore per sé, stoltissima cosa è et fuori d’ogni misura stemperata, quello che havere non si possa, pur come se egli haver si potesse, andare tuttavia disiderando et cercando. La qual follia volendo significarci i poeti, fecero i Giganti che s’argomentassero di pigliare il cielo, guerreggianti con gl’Idij, a cui essi non erano bastanti. Che se la fortuna t’ha della tua cara donna spogliato, dove tu amante di lei voglia essere, poscia che altro fare non se ne può, non la disiderare, et quello che perduto vedi essere, tieni altresì per perduto. Amala semplice et puramente, sì come amare si possono molte cose, come che d’haverle niuna speranza ne sia. Ama le sue bellezze, delle quali tanto ti maravigliasti già et lodastile volentieri; et dove il vederle con gli occhi ti sia tolto, contentati di rimirarle col pensiero, il che niuno ti può vietare. Et in fine ama di lei quello che hoggi poco s’ama nel mondo, mercé del vitio che ogni buon costume ha discacciato, l’honestà dico, sommo et spetialissimo thesoro di ciascuna savia, la qual sempre ci dee esser cara, et tanto più anchora maggiormente, quanto più care ci sono le donne amate da noi; sì come io m’ingegnai di fare già, che ella fosse a me cara nella persona della mia donna, non men di quello che la sua bellezza m’era gratiosa, quantunque ne’ primi miei disij, sì come veggiamo tutto dì a’ cavalli non usati essere la sella et il freno, ella dura et gravetta mi fosse alquanto nell’animo a sopportare. Di che io allhora ne feci in testimonio questa canzone; la quale tanto più volentieri vi sporrò, gratiose giovani, auanto a voi, che non meno honeste sete che belle, ella più che alcuna dell’altre già dette s’acconviene.


XVI

 

            Sì rubella d’Amor, né sì fugace

Non presse herba col piede,

Né mosse fronda mai Nimpha con mano,

Né trezza di fin oro aperse al vento,

Né ’n drappo schietto care membra accolse

Donna sì vaga et bella, come questa

Dolve nemica mia.

            Quel che nel mondo, et più ch’altro mi spiace,

Rade volte si vede,

Fanno in costei, pur sovra ’l corso humano,

Bellezza et castità dolce concento.

L’una mi prese il cor come Amor volse,

L’altra l’impiaga, sì leggiera et presta,

Ch’ei la sua doglia oblia.

            Sola in disparte, ov’ogni oltraggio ha pace,

Rosa o giglio non siede,

Che l’alma non gli assembri a mano a mano,

Avezza nel desio ch’i’ serro drento,

Quel vago fior, cui par huom mai non colse

Così l’appaga et parte la molesta

Secura leggiadria.

            Caro armellin, ch’innocente si giace,

Vedendo, al cor mi riede

Quella del suo penser gentile et strano

Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:

Sì novamente me da me disciolse

La vera maga mia che, di rubesta,

Cangia ogni voglia in pia.

            Bel fiume, alhor ch’ogni ghiaccio si sface,

Tanta falda non diede,

Quanta spande dal ciglio altero et piano

Dolcezza, che pò far altrui contento;

Et sé dal dritto corso unqua non tolse.

Né mai s’inlaga mar senza tempesta,

Che sì tranquillo sia.

            Come si spegne poco accesa face,

Se gran vento la fiede,

Similemente ogni piacer men sano

Vaghezza in lei sol d’honestate ha spento.

O fortunato il velo, in cui s’avolse

L’anima saga et lei, ch’ogni altra vesta

Men le si convenia.

            Questa vita per altro a me non piace,

Che per lei, sua mercede,

Per cui sola dal vulgo m’allontano;

Ch’avezza l’alma a gir là ’v’io la sento,

Sì ch’ella altrove mai orma non volse;

Et più s’invaga, quanto men s’arresta

Per la solinga via.

            Dolce destin, che così gir la face,

Dolci del mio cor prede,

Ch’altrui sì presso, a me ’l fan sì lontano:

Asprezza dolce et mio dolve tormento,

Dolve miracol, che veder non suolse,

Dolve ogni piaga, che per voi mi resta

Beata compagnia.

            Quanto Amor vaga, par beltate honesta

Né fu giamai, né fia.


XVII

 

             Hora, perciò che da ritornare è là, onde ci dipartimmo, quinci comprender potete, donne, et quale sia l’errore di Perottino et dove egli l’ha preso. Perciò che dovendo egli mettersi per quella via dell’animo che ad Amor lo scorgesse nel favellare, egli, entrando per l’altro sentiero, alla contraria regione è pervenuto, per lo quale caminando, in quelle tante noie si venne incontrato, in quelle pene, in que’ giorni tristi, in quelle notti così dolorose, in quelli scorni, in quelle gelosie, in coloro che uccidono altrui et talhora per aventura se stessi, in que’ Metij, in que’ Titij, in que’ Tantali, in quelli Isioni, tra’ quali ultimamente, quasi come se egli nell’acqua chiara guatato havesse, egli vide se stesso: ma non si riconobbe bene, ché altramente si sarebbe doluto et vie più vere lagrime harebbe mandate per gli occhi fuora che egli non fece. Perciò che credendo sé essere amante et innamorato, mentre egli pure nella sua forma s’incontra imaginando, egli è un solitario cervo divenuto, che poi, a guisa d’Atteone, i suoi pensieri medesimi, quasi suoi veltri, vanno sciaguratamente lacerando; i quali egli più tosto cerca di pascere che di fuggire, vago di terminare innanzi tempo la sua vita, poco mostrando di conoscer quanto sia meglio il vivere, comunque altri viva, che il morire, quasi come se esso hoggimai satio del mondo niuno altro frutto aspettasse più di cogliere per lo innanzi de gli anni suoi, i quali non hanno appena incominciato a mandar fuora i lor fiori. Che quantunque così smaghino la costui giovanezza, donne, et così guastino le lagrime, come voi vedete, non perciò venne egli prima di me nel mondo, il quale pure oltre a tanti anni non ho varcati, quanti sarebbero i giorni del minor mese, se egli di due anchora fosse minore che egli non è. Et cotestui, come se egli al centinaio s’appressasse, a guisa de gl’infermi perduti, chiama sovente chi di queste contrade levandolo in altri paesi ne ’l rechi, forse avisandosi, per mutare aria, di risanare. O sciagurato Perottino, et veramente sciagurato poi che tu stesso ti vai la tua disaventura procacciando et, non contento della tua, cerchi di teco far miseri insiememente tutti gli huomini. Perciò che tutti gli uomini amano, et necessariamente ciascuno. Che se gli amanti sempre accompagnano quegli appetiti così trabocchevoli quelle allegrezze così dolorose, quelle così triste forme di paura, quelle cotante angoscie che tu di’, senza fallo non solamente tutti gli huomini fai miseri, ma la miseria medesima costrigni ad essere per se stesso cia scun huomo. Taccio le pene di quelle maraviglie così fiere del tuo Idio che tu ci raccontasti, le quali non che a ffar la vita de gli huomini bastassero trista et cattiva, ma, di meno assai, gl’inferni tutti n’haverebbono et tutti gli abissi di soverchio. O istolto, quanto sarebbe meglio por fine hoggimai alla non profittevole maninconia, che ogni giorno andare meno giovevole ramarichio rincominciando; et alla tua salvezza dar riparo, mentre ella sostiene di riceverlo, che ostinatamente alla tua perdezza trovar via; et pensare che la natura non ti diè al mondo, perché tu stesso ti venissi cagion di tortene, che, tra queste lamentanze favolose vaneggiando et quasi al vento cozzando, dal vero sentimento et dalla tua salute medesima farti lontano.

             Ma lasciamo hoggimai da canto con le sue menzogne Perottino, il quale hieri dal molto dolor sospinto et molto d’Amor lamentandosi, alquanto più lunga m ha hoggi fatta tenere questa parte della risposta, che io voluto non harei. Né siamo noi così stolti, donne, che crediamo il dolore altro che da Amore non essere, che pure parte alcuna non ha con lui, o che pensiamo che amare non si possa senza amaro, il qual sapore per niente ne gli amorosi condimenti non può haver luogo. Et poscia che l’arme di Perottino, le quali egli contro ad Amore con sì fellone animo impalmate s’havea, nell’altrui scudo, sì come quelle che di piombo erano, si sono rintuzzate agevolmente, veggiamo hora quali sono quelle che Amore porge a chiunque si mette in campo per lui; come che Perottino si credesse hieri che a me non rimanesse che pigliare. Quantunque io né tutte le mi creda poter prendere, ché di troppo mi terrei da più che io non sono, né, se io pure il potessi, mi basterebbe egli il dì tutto intero a·eeiò fare, non ehe questo poeo d’hora meriggiana ehe m’è data. Tuttavia dove egli non fosse, dilettose giovani, ehe voi voleste ehe io aleun’altra eosa anehora ne sopraragionassi alle raecontate.


XVIII

 

             — Di nulla vogliam ritenerti, — rispose madonna Berenice, prima del volere delle compagne raccertatasi — né crediamo che faccia luogo altresì. Et a noi si fa tardi che quello, ehe tu ineomineiando il ragionare ei promettesti, si fornisea. Ma tu per aventura non t’affrettare. Perciò che, come che a te paia d’havere già assai lungamente favellato, se al sole guarderai, il tempo che t’avanza è molto infino alle fresche hore. Né te ne dei maravigliare, perciò che più per tempo ci venimmo hoggi qui, che noi non femmo hieri. Senza che, quando bene più alquanto ci dimorassimo, sì il poteremmo noi fare, perciò che il festeggiare non incominciò a pezza hieri, a quello che noi credavamo, quando di qui ci levammo con voi. Per che sicuramente, Gismondo, a tuo grandissimo agio potrai anchora di ciò, che più di dire t’aggraderà, lungamente ragionare. —

             Il giovane, al quale erano le parole della donna piaciute, sì come quegli che tuttavia incominciava mezzo seco stesso venir temendo non dalla strettezza del tempo fosse a’ suoi ragionamenti poca ampiezza conceduta, veduto per l’ombre che gli allori facevano che così era come ella diceva, et sperando di quivi più lunga dimora poter fare, che fatto il giorno passato non haveano, contento già era per seguitare. Et ecco dal monte venir due colombe volando, bianchissime più che neve, le quali, di fitto sopra i capi della lieta brigata il lor volo rattenendo, senza punto spaven t tarsi si posero l’una appresso l’altra in su l’orlo della bella fontana, dove per alquanto spatio dimorate, mormorando et basciandosi amorosamente stettero, non senza festa delle donne et de’ giovani, che tutti cheti le miravano con maraviglia. Et poi chinato i becchi nell’acqua cominciarono a bere, et di questo a bagnarsi sì dimesticamente in presenza d’ogniuno, ehe alle donne pareano pure la più dolce cosa del mondo et la più vezzosa. Et mentre che elle così si bagnavano, fuori d’ogni temenza sicure, una rapace aquila di non so onde scesa giù a piombo, prima quasi che alcuno aveduto se ne fosse, preso l’una con gli artigli, ne la portò via. L’altra per la paura schiamazzatasi nella fonte et quasi dentro perdutane, pure alla fine rihavutasi et malagevolmente uscita fuori sbigottita et debole et tutta del guazzo grave, sopra i visi della riguardante compagnia il meglio che poteva battendo l’ali, tutti spruzzandogli, lentamente s’andò con Dio. Havea traffitte le compassionevoli donne la subita presura della colomba, et fu il romore tra lor grande di così fatto accidente, né poteano rifinare di maravigliarsi come quella innocente uccella fosse di mezzo tutti loro così sciaguratamente stata rapita, la maladetta aquila mille volte et più per ciascuna bestemmiandosi, non senza ramarico de’ giovani altresì; et tra lor tutti mescolatamente chi della sciagura dell’una et chi dello spavento dell’altra et chi della vaghezza d’amendue et della loro dimestichezza ragionava, et hebbevi di quelli che più altamente estimando vollono credere che ciò che veduto haveano a caso non fosse avenuto; quando Gismondo, poscia che vide le donne rachetate, incominciò:

             — Se la nostra colomba fosse hora dalla sua rapitrice in quella guisa portata, nella quale fu già il vago Ganimede dalla sua, essere potrebbe men discaro alla sua compagna d’haverla perduta, et noi a ttorto haremmo la fiera aquila biasimata, di cui cotanto ramaricati ci siamo. Ora, perciò che il dolerci più oltra in quelle cose che per noi amendar non si possono è opera senza fallo perduta, queste nostre doglianze con quelle di Perottino dimenticando, nella bontà d’Amore, per venire hoggimai alle promesse che io vi feci, entriamo. —

             Allhora Lisa, prima che egli andasse più avanti, tutta pienà di dolce vezzo, più per tentarlo che per altro:

             — A mal tempo — disse — lasci tu, Gismondo, i tuoi ragionamenti primieri, dopo il caso, che ci ha hora tutti tenuti sospesi, lasciandonegli. Perciò che se dolore è questo che noi sentiamo, d’havere in piè alla sua nimica la nostra misera bestiuola veduta, et amore quell’altro, che della sua vaghezza n’havea presi, assai pare che ne segua chiaro che insieme et amare et dolere ci possiamo; et potrassi qui contra te dir quello che si dice tutto dì, che di gran lunga il più delle volte sono dal fatto le parole lontane. —

             Quivi Gismondo verso le donne sorridendo disse:

             — Vedete argomento di costei. Ma non sei però tu per levarmi la verità di mano, Lisa, così agevolmente come la nostra semplice colomba l’aquila di testé fece, ché io ne la difenderò. Tuttavolta tu mi ritorni in quelle siepi, delle quali n’eravamo usciti pur dianzi, quando io ti conchiusi che del perdere delle cose che noi amiamo, non è Amore, che di loro vaghi ci fa, ma la fortuna, che ce ne spoglia, cagione. Per che et amare et dolere, come tu di’, bene ci possiamo, ma dolerci per cagion d’Amore non possiamo. Oltra che l’amore, che tra le passioni dell’animo si mescola, non e amore, come che egli sia detto amore et per amore tenuto dalle più genti. Per che non sono io per disposto di più oltra distendermi da capo nelle già dette ragioni d’intorno a questo fatto o in simili, di quello che allhora mi stesi, come che io molte ve n’havessi dell’altre. Elle assai essere ti possono bastanti, dove tu per aventura in su l’ostinarti non ti mettessi; il che suole essere alle volte diffetto nelle belle donne, non altramente che soglia essere ne’ be’ cavalli il restio.

             — Se solamente ne’ be’ cavalli — rispose Lisa tutta nel viso divenuta vermiglia — cadesse, Gismondo, il restio, io che bella non sono — et era tuttavia bella come un bel fiore — mi crederei dover potere hora parlare a mio senno, senza che tu per ostinata m’havessi. Ma perciò che an chora ne’ mal fatti cotesto vitio, et più spesso per aventura che ne gli altri, suole capere, sicuramente tu hai trovata la via da farmi hoggi star cheta; ma io te ne pagherò anchora. —


XIX

 

             Poscia che tra di queste parole et d’altre et del rossor di Lisa si fu alquanto riso fra la lieta compagnia, Gismondo, tutti gli altri ragionamenti che sviare il potessero troncati, dirittamente a’ suoi ne venne in questa maniera:

             — La bontà d’Amore, o donne, della quale io hora ho a ragionarvi, è senza fallo infinita, né, perché se ne quistioni, si dimostra ella a gli ascoltanti tutta giamai. Nondimeno quello che scorgere favellando se ne può, così più agevolmente si potrà comprendere, se noi quanto ella giovi et quanto ella diletti ragioneremo; con ciò sia cosa che tanto ogni fonte è maggiore, quanto maggiori sono i fiumi che ne dirivano. Dico adunque, dal giovamento incominciando, che senza fallo tanto ogni cosa è più giovevole, quanto ella di più beni è causa et di più maggiori. Ma perciò che non di molti et grandissimi solamente ma di tutti i beni anchora, quanti unque se ne fanno sotto ’l cielo, è causa et origine Amore, si dee credere che egli giovevole sia sopra tutte le altre cose giovevoli del mondo. Io stimo che a voi sembri, giudiciose mie donne, che io troppo ampiamente incominci a dir d’Amore et facciagli troppo gran capo, quasi come se porre sopra le spalle d’un mezzano huomo la testa d’Atalante volessi. Ma io nel vero parlo quanto si dee, et niente per aventura più. Perciò che ponete mente d’ogni’intorno, belle giovani, et mirate quanto capevole è il mondo, quante maniere di viventi cose et quanto diverse sono in lui. Niuna ce ne nasce tra tante, la quale d’Amor non habbia, sì come da primo et santissimo padre, suo principio et nascimento. Perciò che se Amore due separati corpi non congiugnesse, atti a generar lor simili, non ci se ne generarebbe né ce ne nascerebbe mai alcuna. Che quantunque per viva forza comporre insieme si potessero et collegar due viventi, potenti alla generatione, pure se Amore non vi si mescola et gli animi d’amendue a uno stesso volere non dispone, eglino potrebbono così starsi mill’anni, che essi non generarebbono giamai. Sono per le mobili acque nel loro tempo i pesci maschi seguitati dalle bramose femine, et essi loro si concedono parimente, et così danno modo, medesimamente volendo, alla propagatione della spetie loro. Seguonsi per l’ampio aere i vaghi uccelli l’un l’altro. Seguonsi per le nascondevoli selve et per le loro dimore le vogliose fiere similmente. Et con una legge medesima eternano la lor brieve vita, tutti amando tra loro. Né pure gli animanti soli, che hanno il senso, senza amore venire a stato non possono né a vita, ma tutte le selve de gli alberi piede né forma non hanno né alcuna qualità senza lui. Ché, come io dissi di questi allori, se gli alberi la terra non amassero et la terra loro, ad essi già non verrebbe fatto in maniera alcuna il potere impedalarsi et rinverzire. Et queste herbuccie stesse, che noi tuttavia sedendo premiamo, et questi fiori non harebbono nascendo il loro suolo così vago, come egli è, et così verdeggiante renduto, forse per darci hora più bel tapeto di loro, se naturalissimo amore i lor semi et le lor radici non havesse col terreno congiunte in maniera che, elleno da·llui temperato humore disiderando et esso volontariamente porgendogliele, si fossero insieme al generare accordati disiderosamente l’uno l’altro abbracciando. Ma che dico io questi fiori o queste herbe? Certo se i nostri genitori amati tra lor non si fossero, noi non saremmo hora qui, né pure altrove, et io al mondo venuto non sarei, sì come io sono, se non per altro almeno per difendere hoggi il nostro non colpevole Amore dalle fiere calunnie di Perottino.


XX

 

             Né pure il nascere solamente dà a gli huomini Amore, o donne, che è il primo essere et la prima vita, ma la seconda anchora dona loro medesimamente, né so se io mi dico che ella sia pure la primiera, et ciò è il bene essere et la buona vita, senza la quale per aventura vantaggio sarebbe il non nascere o almeno lo incontanente nati morire. Perciò che anchora errarebbono gli huomini, sì come ci disse Perottino che essi da prima facevano, per li monti et per le selve ignudi et pilosi et salvatichi a guisa di fiere, senza tetto, senza conversatione d’huomo, senza dimestichevole costume alcuno, se Amore non gli havesse, insieme raunando, di comune vita posti in pensiero. Per la qual cosa ne’ loro disiderij alle prime voci la lingua snodando, lasciato lo stridere, alle parole diedero cominciamento. Né guari ragionarono tra loro, che essi, gli habitati tronchi de gli alberi et le rigide spilunche dannate, dirizzarono le capanne et, le dure ghiande tralasciando, cacciarono le compagne fiere. Crebbe poi a poco a poco Amore ne’ primi huomini insieme col nuovo mondo et, crescendo egli, crebbero l’arti con lui. Allhora primieramente i consapevoli padri conobbero i loro figliuoli da gli altrui, et i cresciuti figliuoli salutarono i padri loro; et sotto il dolve giogo della moglie et del marito n’andarono santamente gli huomini legati con la vergognosa honestà. Allhora le ville di nuove case s’empierono, et le città si cinsero di difendevole muro, et i lodati costumi s’armarono di ferme leggi. Allhora il santo no me della riverenda amicitia, il quale onde nasca per se stesso si dichiara, incominciò a seminarsi per la già dimesticata terra et, indi germogliando et cresciendo, a spargerla di sì soavi fiori et di sì dolci frutti coronarnela, che anchora se ne tien vago il mondo; come che poi, di tempo in tempo tralignando, a questo nostro maligno secolo il vero odore antico et la prima pura dolcezza non sia passata. In que’ tempi nacquero quelle donne, che nelle fiamme de’ loro morti mariti animosamente salirono, et la non mai bastevolmente lodata Alveste, et quelle coppie si trovarono di compagni così fide et così care, et dinanzi a gli occhi della fiera Diana fra Pilade et Oreste fu la magnanima et bella contesa. In que’ tempi hebbero le sacre lettere principio, et gli amanti accesi alle lor donne cantarono i primi versi. Ma che vi vo io di queste cose, leggiere et deboli alle ponderose forze d’Amore, lungamente ragionando? Questa machina istessa così grande et così bella del mondo, che noi con l’animo più compiutamente che con gli occhi vediamo, nella quale ogni cosa è compresa, se d’Amore non fosse piena, che la tiene con la sua medesima discordevole catena legata, ella non durerebbe, né havrebbe lungo stato giamai. È adunque, donne, sì come voi vedete, cagion di tutte le cose Amore; il che essendo egli, di necessità bisogna dire che egli sia altresì di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione. Et perciò che, come io dissi, colui è più giovevole che è di più beni causa et di più maggiori, conchiudere hoggimai potete voi stesse che giovevolissimo è Amore sopra tutte le giovevolissime cose. Hora parti egli, Perottino, che a me non sia rimaso che pigliare? o pure che non sia rimasa cosa, la quale io presa non habbia? —


XXI

 

             Quivi, prima che altro si dicesse, trapostasi madonna Berenice et con la sua sinistra mano la destra di Lisa, che presso le sedea, sirochievolmente prendendo et strignendo, come se aiutar di non so che ne la volesse, a Gismondo si rivolse baldanzosa et sì gli disse:

             — Poscia che tu, Gismondo, così bene dianzi ci sapesti mordere, che Lisa hoggimai più teco havere a fare non vuole, et per aventura che tu a questo fine il facesti, acciò che meno di noia ti fosse data da noi, et io pigliar la voglio per la mia compagna, come che tuttavia poco maestra battagliera mi sia. Ma così ti dico che, se Amore è cagione di tutte le cose, come tu ci di’, et che per questo ne segua che egli sia di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione, perché non ci di’ tu anchora che egli cagion sia medesimamente di tutti i mali che si fanno per loro? la qual cosa di necessità conviene essere, se il tuo argomentare dee haver luogo. Che se il dire delle orationi, che io fo, dee essere scritto ad Amore perciò che per Amore io son nata, il male medesimamente, che io dico, dee essere a·llui portato, perciò che se io non fossi nata, non ne ’l direi. Et così de gli altri huomini et dell’altre cose tutte ti posso conchiudere ugualmente. Hora se Amore non è meno origine di tutti i mali, che egli sia di tutti i beni fondamento, per questa ragione non so io vedere che egli così nocevolissimo come giovevolissimo non sia.

             — Sì sapete sì, Madonna, che io mi creda — rispose incontanente Gismondo — Perciò ehe non vi sento di così labole memoria, che egli vi debba glà essere di mente uscito quello che io pure hora vi ragionai. Ma voi volete la vostra compagna vendicare di cosa in che io offesa non I ho, in quelle dispute medesime, delle quali n’eravamo usciti, altresì come ella ritornandomi. Perciò che non vi ricorda egli che io dissi che, perciò che ogni cosa naturale è buona, Amore, come quello che natural cosa è, buono etiando è sempre, né può reo essere in alcuna maniera giamai? Per che egli del bene che voi fate è ben cagione, sì come colui che per ben fare solamente vi mise nel mondo; ma del male, se voi ne fate, che io non credo perciò, ad alcun disordinato et non naturale appetito, che muove in voi, la colpa ne date et non ad Amore. Questa vita, che noi viviamo, a·ffine che noi bene operiamo c’è data, et non perché male facendo la usiamo; come il coltello, che alla bisogne de gli huomini fa l’artefice et dàllo altrui, se voi ad uccidere huomini usaste il vostro et io il mio, a noi ne verrebbe la colpa, sì come del misfatto commettitori non all’artefice che il ferro, del commesso male istrumento, ad alcun mai fine non fece. Ma passiamo, se vi piace, alla dolvezza d’Amore. Quantunque, o donne, grandissimo incarico è questo per certo, a volere con parole asseguire la dimostrazione di quella cosa che, quale sia et quanta, si sente più agevolmente che non si dice. Perciò che sì come il dipintore bene potrà come che sia la bianchezza dipignere delle nevi, ma la freddezza non mai, sì come cosa il giudicio della quale, al tatto solamente conceduto, sotto l’occhio non viene, a cui servono le pinture, similmente ho io testé quanto sia il giovamento d’Amore dimostrarvi pure in qualche parte potuto, ma le dolcezze che cadono in ogni senso et, come sorgevole fontana assai più anchora che questa nostra non è, soprabondano in tutti loro, non possono nell’orecchio solo, per molto che noi ne parliamo, in alcuna guisa capere. Ma una cosa mi conforta, che voi medesime per isperienza havete conosciuto et conosciete tuttavia quali elle sono, onde io non potrò hora sì poco toccarne ragionando, che non vi sovenga il molto; il che per aventura tanto sarà, quanto se del tutto si potesse parlare. Ma donde comincierò io, o dolcissimo mio signore? Et che prima dirò io di te et delle tue dolcezze indicibili, incomparabili, infinite? Insegnalemi tu, che le fai, et sì come io debbo andare, così mi scorgi et guida per loro. Ora per non mescolare favellando quelle parti che dilettar ci possono separatamente, delle dolvezze de gli occhi, che in amore sogliono essere le primiere, primieramente et separatamente ragioniamo. —


XXII

 

             Il che havendo detto Gismondo, con un brieve silentio fatta più attenta l’ascoltante compagnia, così incominciò:

             — Non sono come quelle de gli altri huomini le viste de gli amanti, o donne, né sogliono gl’innamorati giovani con sì poco frutto mirare ne gli obbietti delle loro luci, come quelli fanno, che non sono innamorati. Perciò che sparge Amore col movimento delle sue ali una dolcezza ne gli occhi de’ suoi seguaci, la quale, d’ogni abbagliaggine purgandogli, fa che essi, stati semplici per lo adietro nel guardare, mutano subito modo et, mirabilmente artificiosi divenendo al loro ufficio, le cose che dolci sono a vedere essi veggono con grandissimo diletto, là dove delle dolcissime gli altri huomini poco piacere sentono per vederle et il più delle volte non niuno. Et come che dolci sieno molte cose, le quali tutto dì miriamo, pure dolcissime sopra tutte le altre, che veder si possano per occhio alcuno giamai, sono le belle donne, come voi siete. Non per tanto elle dolvezza non porgono se non a gli occhi de gli amanti loro, sì come que’ soli a’ quali Amore dona virtù di passar con la lor vista ne’ suoi thesori. Et se pure alcuna ne porgono, che tuttavolta non è huom quegli a cui già in qualche parte la vostra vaga bellezza non piaccia, a rispetto di quella de gli amanti ella è come un fiore a comperatione di tutta la primavera. Perciò che aviene spesse volte che alcuna bella donna passa dinanzi a gli occhi di molti huomini, et da tutti generalmente volentieri è veduta: tra’ quali, se uno o due ve n’ha che con diletto più vivo la riguardino, cento poi son quelli per aventura che ad essa non mandano la seconda o la terza guatatura. Ma se tra que’ cento l’amante di lei si sta et vedela, che a questa opera non suole però essere il sezzaio, ad esso pare che mille giardini di rose se gli aprano allo ’ncontro et sentesi andare in un punto d’intorno al cuore uno ingombramento tale di soavità, che ogni fibra ne riceve ristoro, possente a scacciarne qualunque più folta noia le possibili disaventure della vita v’havessero portata et lasciata. Egli la mira intentamente et rimira con infingevole occhio, et per tutte le sue fattezze discorrendo, con vaghezza solo da gli amanti conosciuta, hora risguarda la bella treccia, più simile ad oro che ad altro, la quale sì come sono le vostre, né vi sia grave che io delle belle donne ragionando tolga l’essempio in questa et nelle altre parti da voi, la quale, dico, lungo il soave giogo della testa, dalle radici ugualmente partendosi et nel sommo segnandolo con diritta scriminatura, per le deretane parti s’avolge in più cerchi; ma dinanzi, giù per le tempie, di qua et di là in due pendevoli ciocchette scendendo et dolcemente ondeggianti per le gote, mobili ad ogni vegnente aura, pare a vedere un nuovo miracolo di pura ambra palpitante in fresca falda di neve. Hora scorge la serena fronte con allegro spatio dante segno di sicura honestà; et le ciglia d’ebano piane et tranquille, sotto le quali vede lampeggiar due occhi neri et ampi et pieni di bella gravità, con naturale dolcezza mescolata, scintillanti come due stelle ne’ lor vaghi et vezzosi giri, il dì che primieramente mirò in loro et la sua ventura mille volte seco stesso benedicendo. Vede dopo questi le morbide guancie, la loro tenerezza et bianchezza con quella del latte appreso rassomigliando, se non in quanto alle volte contendono con la colorita freschezza delle matutine rose. Né lascia di veder la sopposta bocca, di picciolo spatio contenta, con due rubinetti vivi et dolci, haventi forza di raccendere disiderio di basciargli in qualunque più fosse freddo et svogliato. Oltre a cciò quella parte del candidissimo petto riguardando et lodando, che alla vista è palese, l’altra che sta ricoperta loda molto più anchora maggiormente, con acuto sguardo mirandola et giudicandola: mercé del vestimento cortese, il quale non toglie perciò sempre a’ riguardanti la vaghezza de’ dolci pomi che, resistenti al morbido drappo, soglion bene spesso della lor forma dar fede, mal grado dell’usanza che gli nasconde. —

             Trassero queste parole ultime gli occhi della lieta brigata a mirar nel petto di Sabinetta, il quale parea che Gismondo più che gli altri s’havesse tolto a dipignere, in maniera per aventura la vaga fanciulla, sì come quella che garzonissima era, et tra per questo et per la calda stagione d’un drappo schietto et sottilissimo vestita, la forma di due poppelline tonde et sode et crudette dimostrava per la consentiente veste. Per che ella si vergognò veggendosi riguardare, et più harebbe fatto, se non che madonna Berenice, accortasi di ciò, subitamente disse:

             — Cotesto tuo amante, Gismondo, per certo molto baldanzosamente guata et per minuto, poi che egli infino dentro al seno, il quale noi nascondiamo, ci mira. Me non vorrei già che egli guatasse così per sottile.

             — Madonna, tacete, — rispose Gismondo — ché voi ne havete una buona derrata. Perciò che se io volessi dir più avanti, io direi che gli amanti passano con la lor vista in ogni luogo et, per quello che appare, agevolmente l’altro veggono, che sta nascoso. Per che nascondetevi pure a gli altri huomini a vostro senno, quanto più potete, ché a gli amanti non vi potete voi nascondere, donne mie belle, né dovete altresì. Et poi dirà Perottino che ciechi sono gli amanti. Cieco è egli, che non vede le cose che da veder sono, et non so che sogni si va, non dico veggendo, ché veder non si può ciò che non è, anzi pure ciò che non può essere, ma dipingendo: un garzone ignudo, con l’ali, col fuoco, con le saette, quasi una nuova chimera fingendosi, non altramente che se egli mirasse per uno di quelli vetri che sogliono altrui le maraviglie far vedere.


XXIII

 

             Ma tornandomi all’amante, del quale io vi ragionava, mentre che egli queste cose che io v’ho dette et quelle che io taccio rimira et vàlle con lo spirito de gli occhi ricercando, egli si sente passare un piacere per le vene tale, che mai simile non gliele pare havere havuto; onde poi e’ ragiona seco medesimo et dice: "Questa che dolvezza è che io sento? o mirabile forza de gli amorosi risguardamenti, quale altro è di me hora più felice?". Il che non diranno giamai quegli altri che la riguardata donna non amano. Perciò che là dove Amore non è, sonnocchiosa è la vista insieme con l’anima in que’ corpi et, quasi col cielabro, dormono loro gli occhi sempre nel capo. Ma egli non è perciò questa ultima delle sue dolcezze, che al cuore li passano per le luci. Altre poi sono et possono ogni ora essere senza fine; sì come è il vedere la sua donna spatiando con altre donne premere le liete herbe de’ verdi prati, o de’ puri fiumicelli le freschissime ripe, o la consentiente schiena de’ marini liti, incontro a’ soavi zephiri caminando, talhora d’amorosi versi discrivendo al consapevole amante la vaga rena, o ne’ ridenti giardini entrata, spiccare con l’unghie di perle rugiadose rose dalle frondi loro, per aventura futuro dono di chi la mira; o forse carolando et danzando muovere a gli ascoltati tempi de gli strumenti la schietta et diritta et raccolta persona, hora con lenti varchi degna di molta riverenza mostrandosi, hora con cari ravolgimenti o inchinevoli dimore leggiadrissima empiendo di vaghezza tutto il cerchio, et quando con più veloci trapassamenti, quasi un trascorrevole sole, ne gli occhi de’ riguardanti percotendo. Et pure queste tutte essere possono gioie di novelli amanti, né anchora molto rassicurati ne’ loro amori. Che se di quelli che a pieno godono volessimo ragionare, di certo quanti diletti possono tutti gli huomini che non amano in tutti gli anni della lor vita sentire, non mi si lasciarebbe credere che a quel solo aggiugnessero, che in ispatio di poca hora si sente da uno amante, il quale, con la sua donna dimorando, la miri et rimiri sicuramente, et ella lui, con gli occhi disievoli et vacillanti dolcezza sopra dolcezza beendo, l’uno dell’altro inebbriandosi.


XXIV

 

             Deh perché vo io nelle cose che, o poco o molto che piacciano altrui, pure et piacevoli sono da sé in ogni modo et come che sia piacciono elle sempre a chiunque le mira, il tempo et le parole distendendo, quando anchora di quelle che, vedute, affanno sogliono recare all’altre persone, a gli amanti alcuna volta sono dolcissime oltra misura? O care et belle giovani, quanto sono malagevolissime ad investigarsi pure col pensiero le sante forze d’Amore, non che a raccontarsi! Senza fallo quale piU affannosa cosa può essere che il veder piagnere i suoi più cari? et chi e di Si ferigno animo, che nelle cadenti loro lagrime possa tener gli occhi senza dolore? Non per tanto questo atto tale, quale io dico, del piagnere, vede fare alle volte l’amante alla sua donna, la quale egli ha più cara che tutto il mondo, vie maggior diletto et festa sentendone, che d’infiniti risi non sogliono tutti gli altri huomini sentire. —

             Tosto che così hebbe detto Gismondo, et madonna Berenice così disse

             — Cotesto non vorrei già io che a me avenisse, che il mio signore fe sta et diletto delle mie lagrime si prendesse. Anzi ti dico io bene che io mi credo, Gismondo, se io il risapessi, che io ne gli vorrei male et per aventura, se io potessi, io darei a·llui cagione altresì di piagnere et ridere mi poscia di lui allo ’ncontro. — Appresso alle cui parole seguirono le due giovani, quello a Gismondo raffermando che ella havea detto, aggiugnendo oltre a·cciò che egli cortesia farebbe a spesso piagnere dinanZi alla sua donna, per darle quel piacere; et tutte insieme ne ragionavano scherzevolmente, alla nuova occasione di motteggiarlo appigliatesi con gran festa. Ma egli, che in quest’arte rade volte si lasciava vincere, poscia che alquanto le hebbe lasciate cianciare et ridere, in viso madonna Berenice guardando, le disse:

             — Molto dovete esser cruda et acerba voi, Madonna, et poco compassionevole, poscia che voi il vostro signore vorreste far piagnere. Ma io non vi veggo già così fiera nel volto, se voi non m’ingannate, anzi mostrate voi d’essere la più dolce cosa et la più piacevole che mai fosse. Et certo sono che, se il romitello del Certaldese veduta v’havesse, quando egli primieramente della sua celletta uscì, egli non harebbe al suo padre chiesto altra papera da rimenarne seco et da imbeccare che voi. —

             Tacque a tanto madonna Berenice, mirando con un tale atto mezzo di vergogna et di maraviglia ne’ volti delle sue compagne. Et Lisa ridendo ver lei, come quella che stava tuttavia aspettando che Gismondo co’ suoi motti alcun’altra ne toccasse, per havere nel suo male compagnia, veggendola in quella guisa soprastare, tutta si fe’ innanzi et sì·lle disse:

             — Madonna, e’ mi giova molto che in sul vostro hoggimai passi quel la gragniuola, la quale pur hora cadde in sul mio. Io non mi debbo più dolere di Gismondo, poscia che anchor voi non ne sete risparmiata. Ben vi dico io, Madonna, che egli ha hoggi rotto lo scilinguagniolo. Di che io vi so confortare che non lo tentiate più, ché egli pugne come il tribolo da ogni lato.

             — Già m’accorgo io che egli così è come tu mi di’, Lisa — rispose madonna Berenice. — Ma vatti con Dio, Gismondo, che tu ci sai hoggi a tua posta fare star chete. Io per me voglio esser mutola per lo innanzi. —


XXV

 

             In questa guisa rimanendo a Gismondo più libero l’altro corso de’ suoi sermoni, dalle donne ispeditosi, ad essi procedendo così disse:

             — Le narrate dolcezze de gli amanti, o donne, essere vi possono segno et dimostramento delle non narrate, le quali senza dubbio tante so; no et alle volte così nuove et per lo continuo così vive, che egli non e hoggimai da maravigliarsi di Leandro, se egli, per vedere la sua donna pure un poco, largo et periglioso pelago spesse volte a nuoto passava. Hora entrisi a dire dell’altro senso, il quale scorge all’anima le vegnenti voci, di cui, se ben si considera, niente sono le dolvezze minori. Perciò che in quanti modi esser può recamento di gioia il vedere le lor donne a gli amanti, in tanti l’udirle può loro essere similmente. Che sì come uno medesimo obbietto, diversamente da gli occhi nostri veduto, diversi diletti ci dà, così una stessa voce, in mille guise da gli orecchi ascoltata, ci dona dolcezza in mille maniere. Ma che vi posso io dir più avanti d’intorno a questa dolcezza, che a voi, sì come a me, non sia chiaro? Non sapete voi con quanta sodisfattione tocchi i cuori delle innamorate giovani un sicuro ragionar co’ loro signori in alcuno solitario luogo o forse sotto gratiose ombre di novelli alberi, nella guisa che noi ragioniamo, dove altri non gli ascolti che Amore, il quale allhora suole essere non men buono confortatore delle paurose menti, che egli si sia de gli ascoltati ragionamenti segreto et guardingo testimonio? Non v’è egli anchor palese di quanta tenerezza ingombri due anime amanti un vicendevole raccontamento di ciò che avien loro? un dimandare, un rispondere, un pregare, un ringratiare? Non v’è egli manifesto di quanta gioia dell’una ogni parola dell’altra sia piena? ogni sospiro, ogni mormorio, ogni accento, ogni voce? O chi è quello, nel cui rozzo petto in tanto ogni favilluzza d’amoroso pensiero spenta sia, che egli non conosca quanto sia caro et dilettevole a gli amanti talhora recitare alcun lor verso alle lor donne ascoltanti et talhora esse recitanti ascoltare? o gli antichi casi amorosi leggendo, incontrarsi ne gli loro et trovar ne gli altrui libri scritti i loro pensieri, tali nelle carte sentendogli, quali essi gli hanno fatti nel cuore, ciascuno i suoi affettuosamente a quelli et con dolve maraviglia aguagliando. O pure con quanta soavità ci soglia li spiriti ricercare un vago canto delle nostre donne, et quello massimamente che è col suono d alcun soave strumento accompagnato, tocco dalle loro dilicate et musice mani? con quanta poi, oltre a questa, se aviene che elle cantino alcuna delle nostre canzoni o per aventura delle loro? Che quantunque de gli uomini quasi proprie sieno le lettere et la poesia, non è egli perciò che, si come Amore nelle nostre menti soggiornando con la regola de gli occhi vostri c insegna le più volte quest’arte, così anchora ne’ vostri giovani petti entrato, egli alle volte qualche rima non ne tragga et qualche verso: i quali poi tanto più cari si dimostrano a noi, quanto più rari si ritruovano in voi. Così aviene che rinforzando le nostre donne in più doppi la soavità della loro harmonia, fanno altresì la nostra dolcezza rinforzare, a quale, passando nell’anima, sì la diletta che niuna più, come quella che, dalle celestiali harmonie scesa ne’ nostri corpi et di loro sempre disiderosa, di queste altre a sapor di quelle s’invaghisce, più gioia sentendone, che quasi non pare possibile, a chi ben mira, di cosa terrena doversi sentire. Benché non è terrena l’harmonia, donne, anzi pure in maniera con l’anima confacevole, che alcuni furono già che dissero essa anima altro non essere che harmonia.


XXVI

 

             Ma tornando alle nostre donne, in tante maniere quante io dissi raddoppianti i concenti loro, quale animo può essere così tristo, quale cuore così doloroso, quale mente così carica di tempestosi pensieri, che udendole non si rallegri, non si racconforti, non si rassereni? O chi, tra tante dolcezze posto et tra tante venture, i suoi amari et le sue disaventure non oblia? Leggesi ne’ poeti che, passante per gli abissi Orpheo con la sua cethera, Cerbero rattenne il latrare che usato era di mandar fuori a ciascuno che vi passava; le Furie l’imperversare tralasciarono; gli avoltoi di Titio, il sasso di Sisipho, le acque et le mele di Tantalo, la ruota sione et l’altre pene tutte di tormentare soprastettero i dannati loro, ciascuna, dalla piacevolezza del canto presa, il suo ufficio, non mai per o adietro tralasciato, dimenticando. Il che non è a dire altro, se non che e dure cure de gli huomini, che necessariamente le più volte porta seco la nostra vita, in diverse maniere i loro animi tormentanti, cessano di dar lor pena, mentre essi invaghiti quasi dalla voce d’Orpheo, così da quella delle lor donne, lasciano et obliano le triste cose. Il quale obliamento tuttavia di quanto rimedio ci soglia essere ne’ nostri mali et quanto poi ce gli faccia oltre portare più agevolmente, colui lo sa che lo pruova. Senza che necessario è a gli huomini alcuna fiata dare a’·llor guai alleggieramento et, quasi un muro, così alcun piacere porre tra l’animo et i neri pensieri. Perciò che, sì come non puo il corpo nelle sue fatiche durare senza mai riposo pigliarsi, così l’animo senza alcuna traposta allegrezza non può star forte ne’ suoi dolori. Tale è la dimenticanza, o Perottino, nella quale si tuffa la memoria de gl’innamorat. huomini così trista, che tu dicevi; tale è la medicina così venenata de gli amanti, che tu ci raccontasti; tali sono gli assenzi, tali sono l’ebbriezze loro. Ma queste dolcezze nondimeno, sì come io dissi di quelle de gli occhi, se aviene, che può avenire spesso, che gli orecchi tocchino di quegli huomini, che delle donne, da cui elle escono, amanti non sono, non crediate che elle passino il primo cerchio. Perciò che sì come se il giardinaio di qua entro, lungo la doccia di questo canale passando, non ne levasse alle volte o pietre o bronchi o altro che vi può cadere tuttodì, ella in brieve si riempierebbe et riturerebbe in maniera, che poi all’acqua che vi corre della fontana essa luogo dare non potrebbe, così quell’orecchio, che Amore non purga, alle picchianti dolcezze non può dar via. Et chi non sa che se noi tutti qui la voce udissimo della mia donna, che a gli orecchi ci venisse in qualche modo, niuna è di voi che quella dolcezza ne sentisse che sentire’ io? Et così fareste voi, se il somigliante avenisse de vostri signori, ché niuna tanta gioia di sentir quegli dell’altre piglierebbe, quanta ella farebbe del suo. Ma passiamo più avanti; et perché io, donne, per le dolcezze di questi due sentimenti scorte v’habbia, non crediate perciò che io scorgere vi voglia per quelle anchora de gli altri tre, ché io potrei pervenire a parte, dove io hora andare non intendo. Scorgavi Amore, che tutte le vie sa per le quali a que’ diletti si perviene che la nostra humanità pare che disideri sopra gli altri. Et quale scorta potreste voi più dolve di lui havere né più cara? certo niuna. Esso que’ diletti ci fa essere carissimi et dolcissimi, quale è egli, che, senza lui havuti, sono, come l’acqua, di niun sapore et di niun valore parimente. Per che pigliatelo sicuramente per vostro duca, o vaghe giovani. Et io, in guiderdone della fatica che io prendo hoggi per lui, ne ’l priego che egli sempre felicemente vi guidi. Ma tuttavia venite hora meco per quest’altra strada.


XXVII

 

             Dico adunque che, oltra i cinque sentimenti, i quali sono ne gli huomini strumenti dell’animo insieme, insieme et del corpo, hacci etian dio il pensiero, il quale, perciò che solamente è dell’animo, ha vie più d’eccellenza in sé che quelli non hanno, et di cui non sono partecipi gli animali con esso noi, sì come partecipi sono di tutti gli altri. Perciò che bene vedono essi et odono et odorano et gustano et toccano et l’altre operagioni de gl’interni sensi essercitano altresì, come noi faciamo, ma non consigliano né discorrono in quella guisa, né in brieve hanno essi il pensiero che a noi huomini è dato. Il quale tuttavia non è solo di maggior pregio, perciò che egli proprio sia de gli huomini, dove quelli sono loro in comune con le fiere, ma per questo anchora, che i sentimenti operar non Si possono se non nelle cose che presenti sono loro et in tempo parimente et in luogo, ma egli oltre a quelle et nelle passate ritorna, quando esso vuole, et mettesi altresì nelle future, et in un tempo et per le vicine discorre et per le lontane, et sotto questo nome di pensiero et vede et ascolta et fiuta et gusta et tocca et in mille altre maniere fa et rifà quello a che non solamente i sentimenti tutti d’uno huomo, ma quelli anchora di tutti gli huomini essere non potrebbono bastanti. Per che comprendere si può che egli più alle divine qualità s’accosta, chi ben guarda, che alle humane. Questo pensiero adunque tale, quale voi vedete, se essercitando le sue parti, sì come buon lavoratore per li suoi colti, così egli per l’animo s’adopra, che è suo, infinite dolcezze ci rende l’animo di questa coltura, tanto da doverci essere di quelle del corpo più care, quanto è esso più eccellente cosa che il corpo. Se pigro et lento et pieno di melenSaggine Si giace, lasciamo stare che dolcezze non se ne mietino, ma certo io non veggo a che altro fine sia l’animo dato al corpo, che al porco si dia il sale, perché egli non infracidisca. La qual cosa aviene ne gli huomini che non amano. Perciò che a chi non ama, niuna cosa piace; a chi niuna cosa piace, a niuna volge il pensiero: dorme adunque il pensiero in loro. Et il contrario ne viene de gli amanti. Perciò che a chiunque ama, piace quello che egli ama, et d’intorno a quello che piace sovente pensa ogniuno volentieri. Per che si conchiude che le dolcezze del pensiero sono de gli amanti et non de gli altri. Le quali dolcezze tuttavia quante sieno non dirò io già, che non sarei a raccontarle più bastante che io mi fossi a noverar le stelle del cielo. Ma quali, se noi vorremo in qualche parte dirittamente riguardare? Quanto diletto è da credere che sia d’un gentile amante il correre alla sua donna in un punto col pensiero et mirarla, per molto che egli le sia lontano, ad una ad una tutte le sue belle parti ricercando? Quanto poi, ne’ costumi di lei rientrato, la dolcezza considerare, la cortesia, la leggiadria, il senno, la virtù, l’animo et le sue belle parti? O Amore, benedette sieno le tue mani sempre da me, con le quali tante cose m’hai dipinte nell’anima, tante scritte, tante segnate della mia dolce donna, che io una lunga tela porto meco ad ogni hora d’infiniti suoi ritratti in vece d’un solo viso, et uno alto libro leggo sempre et rileggo pieno delle sue parole, pieno de’ suoi accenti, pieno delle sue voci, et in brieve mille forme vaghissime riconosco di lei et del suo valore, qualhora io vi rimiro, cotanto dolci sutemi et cotanto care, non picciola parte di quella viva dolcezza sentendo nel pensiero, che io già, operandolo ella, ne’ loro avenimenti mi sentia. Le quali figure, posto che pure da sé non chiamassero a·lloro la mia mente così spesso, sì la chiamerebbeno mille luoghi che io veggo tutto dì, usati dalla mia donna hora in un diporto et hora in altro; i quali non sono da me veduti più tosto, che alla memoria mi recano: qui fu Madonna il tal giorno, qui ella così fece, qui sedette, quinci passò, di qui la mirai; et così pensando et varcando, quando meco stesso, quando con Amore, quando con le piagge et con gli alberi et con le rive medesime, che la videro, ne ragiono. La qual cosa, perciò che a me pare hoggimai d’haver compreso che a ciascuna di voi piacciono molto meglio i versi et le rime, che i semplici ragionamenti non fanno, dimostrare anchor vi posso con questa canzone, la quale non ha guari del cuor mi trassero queste medesime contrade, che della mia donna mi sovenivano et udironlami tra esse cantare, sì come io l’andava tessendo:


XXVIII

 

            Se ’l pensier, che m’ingombra,

Com’è dolce et soave

Nel cor, così venisse in queste rime,

L’anima saria sgombra

Del peso, ond’ella è grave,

Et esse ultime van, ch’anderian prime;

Amor più forti lime

Useria sovra ’l fianco

Di chi n’udisse il suono;

Io, che fra gli altri sono

Quasi augello di selva oscuro humile,

Andrei cigno gentile

Poggiando per lo ciel, canoro et bianco,

Et fora il mio bel nido

Di più famoso et honorato grido.

            Ma non eran le stelle,

Quando a solear quest’onda

Primier entrai, disposte a tanto alzarme;

Che, perché Amor favelle

Et Madonna risponda

Là, dove più non pote altro passarme,

S’io voglio poi sfogarme,

Sì dolce è quel concento,

Che la lingua no ’l segue,

Et par che si dilegue

Lo cor nel cominciar de le parole;

Né giamai neve a sole

Sparve così, com’io strugger mi sento:

Tal ch’io rimango spesso

Com’huom, che vive in dubbio di se stesso.

            Legge proterva et dura

S’a dir mi sferza et punge

Quel, ond’io vivo, hor chi mi tene a freno?

Et s’ella oltra mia cura

Dal mondo mi disgiunge,

Chi mi dà poi lo stil pigro et terreno?

Ben posson venir meno

Torri fondate et salde;

Ma ch’io non cerchi et brami

Di pascer le gran fami,

Che ’n sì lungo digiuno, Amor, mi dai,

Certo non sarà mai:

Sì fur le tue saette acute et calde,

Di che ’l mio cor piagasti,

Ove ne gli occhi suoi nascosto entrasti.

            Quanto sarebbe il meglio,

Et tuo più largo honore,

Ch’i’ havessi in ragionar di lei qualch’arte.

Et sì come di speglio

Un riposto colore

Saglie talhor et luce in altra parte,

Così di queste carte

Rilucesse ad altrui

La mia celata gioia;

Et perché poi si moia,

Non ci togliesse il gir solinghi a volo

Da l’uno a l’altro polo;

Là dove hor taccio a tuo danno, con cui

S’io ne parlassi, havria

Voce nel mondo anchor la fiamma mia.

            Et forse avenirebbe,

Ch’ogni tua infamia antica

Et mille alte querele acqueteresti;

Ch’uno talhor direbbe:

"Coppia fedele, amica,

Quanti dolci pensier vivendo havesti!".

Altri: "Ben strinse questi

Nodo caro et felice,

Che sciolto a noi dà pace".

Hor, poi ch’a lui non piace,

Ricogliete voi, piagge, i miei desiri

Et tu, sasso, che spiri

Dolcezza et versi amor d’ogni pendice,

Dal dì che la mia donna

Errò per voi secura in treccia e ’n gonna.

            Et se gli honesti preghi

Qualche mercede han teco,

Faggio, del mio piacer compagna eterna,

Pietà ti stringa et pieghi

A darne segno hor meco,

Et mova da la tua virtute interna

Chi ’l mio danno discerna,

Sì che, s’altro mi sforza

Et di valor mi spoglia,

S’adempia una mia voglia

Dopo tante, che ’l vento ode et disperde.

Così mai chioma verde

Non manchi a la tua pianta, et ne la scorza

Qualche bel verso viva,

Et sempre a l’ombra tua si legga o scriva.

            Già sai tu ben, sì come

Facean qui vago il cielo

De le due chiare stelle i santi ardori,

Et le dorate chiome

Scoperte dal bel velo,

Spargendo di lontan soavi odori

Empiean l’herba di fiori;

Et sai, come al suo canto

Correano inverso ’l fonte

L’acque nel fiume, e ’l monte

Spogliar del bosco intorno si vedea,

Ch’ad ascoltar scendea,

Et le fere seguir dietro et da canto,

Et gli augelletti inermi

Sovra in su l’ali star attenti et fermi.

            Riva frondosa et fosca,

Sonanti et gelid’acque,

Verdi, vaghi, fioriti et lieti campi,

Chi fia, ch’oda et conosca

Quanto di lei vi piacque,

Et meco d’un incendio non avampi?

Chi verrà mai, che stampi

L’andar soave et caro

Col bel dolce costume,

Et quel celeste lume,

Che giunse quasi un sole a mezzo ’l die

Sovra le notti mie:

Lume, nel cui splendor mirando imparo

A sprezzar il destino

Et di salir al ciel scorgo ’l camino?

            Quando, giunte in un loco,

Di cortesia vedeste,

D’honestà, di valor sì care forme?

Quando a sì dolce foco

Di sì begli occhi ardeste?

Et so ch’Amor in voi sempre non dorme.

O chi m’insegna l’orme,

Che ’l piè leggiadro impresse?

O chi mi pon tra l’herba,

Ch’anchor vestigio serba

Di quella bianca man, che tese il laccio,

Onde uscir non procaccio,

Et del bel fianco et de le braccia istesse,

Che stringon la mia vita,

Sì ch’io ne pero et non ne cheggio aita?

            Genti, a cui porge il rio

Quinci ’l piè torto et molle,

Et quindi l’alpe il dritto horrido corno,

Deh hor tra voi foss’io,

Pastor di quel bel colle

O guardian di queste selve intorno

Quanto riluce il giorno

Del mio sostegno andrei

Ogni parte cercando,

Reverente inchinando

Là ’ve più fosse il ciel sereno et queto

E ’l seggio ombroso et lieto;

Ivi del lungo error m’appagherei,

Et basciando l’herbetta,

Di mille miei sospir farei vendetta.

            Tu non mi sai quetar, né io t’incolpo,

Pur che tra queste frondi,

Canzon mia, da la gente ti nascondi.


XXIX

 

             Né pure i luoghi, stati alcuna volta delle nostre donne ricevitori, o quelli che più spesso ci sogliono di loro essere et conservatori fedelissimi et dolcissimi renditori, alla mente le ci ritornano, come io dissi; ma in ciascuna parte anchora sempre si vede qualche cosa, nella qual noi con gli occhi della testa riguardando, nelle nostre donne con quelli dell’anima miriamo, di loro dolcissimamente ricordandoci per alcuno sembievole modo. Che per dir pure di me stesso, come fece di sé Perottino, certo se io sono, come io soglio alle volte, in alcun camino, niuna verde ripa di chiaro fiume, niuna dolve vista di vaga selva scorgono gli occhi miei et di lieta montagnetta niuna solinga parte, niun fresco seggio, niuna riposta ombra, niun segreto nascondimento non miro, che alla bocca non mi corra sempre: "Deh fosse hor qui la mia donna meco et con Amore, se ella tra queste solitudini, di me solo non si tenendo sicura, pure si cercasse compagnia’’; et così, volto il pensiero ver lei, poi di lei meco medesimo in lunga gioia lunga pezza lunghi ragionamenti non tiri. Et dove per lo fuggir del sole la sopravenuta ombra della terra, levando il colore alle cose, mi lievi et tolga la vista loro, non è che io nella tacita notte le stelle mirando non pensi: "Deh se queste sono delle mondane venture dispensatrici, quale è hor quella che indestinò prima la dolce necessità de’ miei amori?". O alla vaga luna riguardando et nel suo freddo argento fisse tenendo le mie luci, io non ragioni tra me stesso: "Or chi sa che la mia donna hora in questo medesimo occhio non miri, che io miro?" et così ella di me ricordandosi, come io di lei mi ricordo, non dica: "Forse guardano gli occhi del mio Gismondo, qualunque terra egli prema hora col piede, te, o Luna, sì come guardo io"; et a questa guisa in uno obbietto stesso et le nostre luci s’avengano et i nostri pensieri? ". Così, hora in un modo et quando in altro, nell’imaginar pure della mia don na rientrando et de’ nostri amori, vie più con lei che con me stesso dimoro. Ma che giova ramemorar quello che il pensiero ci risveglia nelle lontane contrade? Già nella nostra città niuna bella donna mi può davanti apparere, che io incontanente nelle bellezze non entri con l’animo della mia. Niun vago giovane veggo per via piè innanzi piè solo et pensoso portar se stesso, che io non istimi:"Forse pensa costui hora della sua donna"; il che istimare, me altresì della mia mette tantosto in dolcissimi pensamenti. Et se nelle nostre diportevoli barchette alle volte pigliando aria alquanto da gli strepiti della città m’allontano, a niuna parte m’avicino de’ nostri liti, che a me non paia vedervi la mia donna andar per loro spatiandosi, al suono cantando delle roche onde et marine conche con vaghezza fanciullesca ricogliendo. Infinite et innumerabili oltre a queste, et tante appunto, quante noi medesimi vogliamo, sono le vie per le quali può mandare all’animo le dolcezze de’ diletti già passati il nostro vago et maestrevole pensiero. Perciò che a·llui né passo, né ponte, né porta si rinchiude. Non cielo che minacci, non mare che si turbi, non scoglio che s’apponga lo ritiene. Amor gli presta le sue ali, contro le quali niuna ingiuria può bastare. Et queste ali tuttavia, sì come nelle passate gioie a sua posta il ritornano, così né più né meno, quandunque ad esso piace, ne ’l portano nelle future. Le quali, posto che pure perdano dalle passate, in quanto le future così certe non sono, sì avanzano elle poi da quest’altra parte, che dove della suta dolcezza una sola forma ritorna nell’animo col pensarvi, tale quale ella fu, di quella che ad essere ha, perciò che non fu anchora, mille possibili maniere ci si rapresentano care et vaghe et dilettevolissime ciascuna. Così le nostre feste, et prima che avengano con la varietà, et appresso avenute con la certezza del pensiero dilettandoci, continue et presenti si fanno a noi in ogni luogo, in ogni tempo; il che dicono esser proprio di quelle de gl’Idij.


XXX

 

             Hora per ritornare alquanto adietro per questa così dilettevole strada, per la quale infino a qui venuti ci siamo, poscia che ciascun di questi tre piaceri, che io dissi, cotanti giuochi ci può porgere separatamente, sì come in parte ci s’è ragionato, quanti è da credere, donne, che porgan tutti e tre congiunti et collegati? Ohimè, niun condimento è così dolce, niuno così soave. Essi sono pur tanti et tali, che malagevolissimamente con la stimativa si comprendono, non che con la lingua si raccontino altrui. Ma perciò che Perottino hieri, nelle passioni di quella miseria, che egli Amore si credea che fosse, mettendosi, mescolatamente s’andò per loro ravolgendo et raviluppando lunga hora, a me non fie noievole che noi altresì, nelle feste di questa felicità, che io so che è Amore, già entrati, alquanto più innanzi anchora senza ordine erriamo et discorria mo per loro. Nel quale discorrimento se averrà che davanti ci si parino le gioie de gli altri sentimenti, le quali io di tacer vi proposi, acciò che elle in tutto doler di noi non si possano, o forse s’accordassero per lo innanzi di lasciarci, sì come noi hora havessimo loro lasciate, la qual cosa Idio non voglia, che io ne starei molto male, noi potremmo far quello stesso qui ragionando, che nelle pur dianzi ricordate tavole della nostra Reina desinando et cenando facciamo. Perciò che delle molte maniere di vivanda et di beveraggio che dinanzi recate ci sono, a una o a due fermatici, di quelle ci satolliamo, dell’altre tutte, almeno per honorare il convito, alcuna tazza et alcun tagliere assaggiamo solamente et assaporiamo. Così hora alla pastura delle dolcezze de’ due primi sentimenti et del pensiero stando contenti nel ragionare, quelle de gli altri, dove elle ci vengano dinanzi, presone il sapore et il saggio, lasciaremo noi andare con la loro buona ventura. Quantunque io per me non mi seppi far mai così savio, che io a quella guisa ne’ conviti d’Amore mi sia saputo rattemperare, alla quale ne gli altri mi rattempero tutto dì. Né consiglierei io già il nostro novello sposo che, quando Amore gli porrà dinanzi le vivande delle sue ultime tavole, che egli anchora non ha gustate, egli di quelle contento che gustate ha, assaggiandole et assaporandole, partire le si lasciasse; ché egli se ne potrebbe pentere. Non so hora il consiglio che voi, belle giovani, dareste alla sposa.


XXXI

 

             Ma tornando alle nostre dolcezze, dico che sì come quanta sia la bellezza del dì, allhora più interamente si comprende, qualhora più allo ’ncontro quanti sieno gl’incommodi della notte si considera sottilmente, così per aventura gli amorosi giuochi più aperti ci si verranno dimostrando et più chiari, se noi alquanto alla vita di quelli che non amano porrem mente. Perciò che essi primieramente niuna vaghezza tenendo di se medesimi, sì come coloro che non hanno a cui piacere, di niuna cortese maniera cercano d’adestrar la loro persona, ma così abandonatamente la portano le più volte, né capello, né barba, né dente ordinandosi, né mano, né piede, come se ella non fosse la loro. Male et disagiatamente vestono, habitano disordinati et maninconosi. Né famiglia, né cavallo, né barchetta, né giardino hanno essi, che così non paia piagnere come fanno i loro signori. Essi non hanno amicitie, essi non hanno compagnie. Né sono giovati da gli altri, né essi giovano altrui. Né dalle cose, né da gli huomini pigliano o danno frutto alcuno. Fuggono le piazze, fuggono le feste, fuggono i conviti, ne’ quali se pure alcuna volta s’avengono dalla necessità o dalla loro seiagura portati, né costume, né parlare, né accoglienza, né motto, né giuoco hanno essi, che villano et salvatico non sia. Né di prosa sovien loro, né di verso. Veggono, ascoltano, pensano tutte le cose ad un modo. Et in brieve, sì come essi di fuori vivono pieni sempre di mentecattaggine et di stordigione, così vive l’anima in loro. A’ quali se voi dimandaste chenti sono le dolcezze et il frutto che essi sentono del loro vivere dì per dì, essi si maraviglierebbono che voi parlaste in questa maniera, et risponderebonvi che voi havete buon tempo, ma che essi già altro che noie et rincrescimenti et fatiche non sentirono della lor vita giamai. Ma se voi ad amanti ne dimandaste, essi per aventura in altra guisa vi risponderebbono et direbbono così: ’O donne, che è quello che voi ci dimandate? Senza numero sono i nostri avanzi et le nostre dolcezze et non si possono raccontare. Perciò che incontanente che Amore con gli occhi d’alcuna bella donna primieramente ci fiere, destasi l’anima nostra, che infino a quella hora è giaciuta, tocca da non usato diletto, et destandosi ella sente destare in sé un pensiero, il quale d’intorno alla imagine della piaciuta donna con maravigliosa festa girando, accende una voglia di piacerle, la quale è poi d’infinite gioie, d’infiniti beni principio. Mirabile cosa è ad estimare gli occulti raggi di questo primo disio, quali essi sono. Perciò che non solamente ogni vena empiono di soavissimo caldo et tutta l’anima ingombrano di dolcezza, ma anchora gli spiriti nostri raccendendo, che senza Amore si stanno a guisa di lumi spenti, di materiali et grosse forme ci recano ad essere huomini aveduti et gentili. Con ciò sia cosa che per piacere alle nostre donne et per la loro gratia et il loro amore acquistare, quelle parti che più lodarsi ne gli altri giovani sentiamo, sovente cerchiamo d’haver noi, acciò che per loro più riguardevoli tra gli altri huomini et più pregiati divenuti, più altresì alle nostre donne gradiamo. Onde in poco spatio tutte le prime rustichezze lasciate et di dì in dì et d’hora in hora più di gentili costumi apprendendo, quale si dà all’armeggiare, quale ad usar magnificenze si dispone, quale ne’ servigi delle corti a gran re et a gran signori si fa caro, quale a cittadinesca vita s’adordina, nelle honorate bisogne della sua patria et in cortesie il tempo che gli è dato ispendendo, et quale, a gli studi delle lettere volto il pensiero, o le historie de gli antichi leggendo, se stesso con gli altrui essempi fa migliore et diviene simile a loro o, nell’ampissimo campo della philosophia mettendosi, et in dottrina et in bontà come albero da primavera cresce di giorno in giorno, o pure nel vago prato entra della poesia et quivi, hora in una maniera et hora in altra, cantando tesse alla sua donna care girlande di dolcissimi et soavissimi fiori. Quale poi, di più abondevole ingegno sentendosi o da più alto amore sollecitato, di diversi costumi s’anderà ornando, d’arme, di lettere, di cortesie et d’altre parti insieme tutte lodate et pregiate; onde egli quasi un celeste arco, di mille colori vestito, vaghissimo si dimostrerà a’ riguardanti. In questa maniera ciascun per sé, mentre d’esser cari ad una sola donna s’ingegnano, si fanno da tutti gli huomini per valorosi tenere et per da molto; dove se dallo spron d’Amore punti non fossero stati, per aventura conosciuti non sarebbono da persona o, per dir più il vero, non si conoscerebbono essi stessi. Così quello, che né battitura di maestro, né minaccie di padre, né lusinghe o guiderdoni, né arte o fatica o ingegno o ammaestramento alcuno non può fare, fallo Amore spesse volte agevolmente et dilettevolmente.


XXXII

 

             Et certo pieni et dolci frutti son questi, tra quelli che ci rende Amore, i quali sono veramente diversissimi et senza fine. Perciò che sì come non sono tutte una le maniere de gli amanti ma molte, così non sono tutte una le guise de’ nostri guadagni ma infinite. Sono alcuni che altro che l’honestà pura et semplice l’uno dell’altro non amano, et di questa sola tanto appagamento ne viene alle menti loro, qualunque volta essi nell’altezza mirano de’ loro disij, che estimare senza fallo non si può se non si pruova. Alcuni dall’amorose fiamme più riscaldati, ogni disvolere levando de’ loro amori, niuna cosa si niegano giamai, ma quello che vuole l’uno, vuole l’altro subitamente con quello medesimo affetto che esso facea, et in questa guisa due anime governando con un solo filo, ad ogni possibile diletto fortunosamente si fanno via. Alcuni poi, tra l’una et tra l’altra posti di queste contentezze, hora il pregio della schifeltà honorando, hora i frutti della dimestichezza procacciando, et con l’agro dell’una il dolce dell’altra mescolando, un sapore sì dilettevole ne condiscono, che d’altro cibo alle loro anime né prende maraviglia, né sorge disio. Oltre a·cciò a quella timidetta verginella incomparabile festa porgono i saluti et le passate del suo nuovo et accettevole amadore. Quest’altro beano le lettere della sua cara donna, vergate con quella mano che egli anchor tocca non ha, non più le note di lei leggendovi che la voce et il volto et il cuore. Quell’altro mettono in un mare di dolvezza dieci tremanti parole dettegli dalla sua. A molti la loro lungamente amata donna et affettuosamente da gli anni più teneri vagheggiata, nel bel colmo delle lor fiamme donerà il cielo a moglie, somma et honestissima ventura de gli humani disii. Et alquante saranno altre coppie di cari amanti, le quali, havendo le più calde hore della loro età in risguardo et in salvatichezza trapassate, l’uno scrivendo et l’altra leggendo et amendue fama et grido solamente di cercar dilettandosi de’ loro amori, poscia che la neve delle tempie sopravenuta ogni sospetto ha tolto via, sedendo et ragionando et gli antichi fuochi con sicuro diletto ricordando, tranquilli et riposati menano dolcissimo tutto il rimanente della lor vita, ogni hora del così condotto tempo più contenti. Ma che v’andiamo noi pure tuttavia di molti amanti i diletti ragionando et le venture, quando delle sole di ciascuna coppia lunga historia tessere se ne può agevolmente? Perciò che quale diletto è da dire che sia il vedere quella fronte nella quale corrono tutti i pensieri del cuore, nudi et semplici, secondo che essi nascono et risorgono in lui? Quale, mirando ne’ coralli et nelle perle, di cui sono men pretiose tutte le gemme de gli or[i]entali thesori, sentirne uscir quelle voci che sono dall’ascoltante anima ricevute sì volentieri? Quale poi, tacendo et mirando, far più dolve un silentio che mille parlari, tuttavolta con lo spirito de gli occhi ragionando cose, che altri che Amore né può intendere, né sa dettare? Quale, per mano tenendosi, tutto il petto sentirsi allagare della dolcezza, non altramente che se un fiume di calda manna ci andasse il cuore et le midolle torniando? Tacciansi le altre cotante dolvezze et così vive; delle quali dire si può che, poi che tale è la nostra vita, quale la natura ce la fece essere, poscia che noi venuti ci siamo, dolcissima cosa è per certo accordarci col suo volere et quella far legge della vita, che gli antichi fecero delle cene: o pàrtiti, o bei. Oltre a cciò quanta contentezza credete voi che sia la nostra, quanta sodisfattione, quanta pace, d’ogni nostro fatto, d’ogni nostro accidente, d’ogni ventura, d’ogni sciagura, d’ogni oltraggio, d’ogni piacere ragionarsi tra due con quella medesima sicurezza con che appena suole altri seco medesimo ragionare? di nulla nascondere la nostra compagna anima, et sapere altresì di nulla essere da·llei nascosi? ogni diletto, ogni speranza raccomunare, ogni disio? niuna fatica schifare per lo suo riposo, più di quello che ciascun fa per se stesso, niuna gravezza, niun peso? bene, male, ogni cosa portar dolcemente, acconci con lieto viso, sì come di vivere l’uno per l’altro, così di morire? Il che fa che a ciascuno et le seconde cose via più giovano et le sinistre offendono meno, in quanto le seconde l’uno col piacer dell’altro allettando in molti doppi crescono, et quell’altre, subitamente partite et da ciascuno la metà toltane fratellevolmente, già da prima perdono della loro intera forza; oltre che poi et confortando et consigliando et aiutando, esse si deleguano, come neve sotto primi soli, o almeno da nuovi diletti aombrate, sì ne gli oblij delle passate cose le tuffiamo, che appena dir si può che elle ci sieno state.


XXXIII

 

             Dicono i sonatori che, qua[n]do sono due liuti bene et in una medesima voce accordati, chi l’un tocca, dove l’altro gli sia vicino et a fronte, amendue rispondono ad un modo, et quel suono che fa il tocco, quello stesso fa l’altro non tocco et non percosso da persona. O Amore, et qua’ liuti o qua’ lire più concordemente si rispondono, che due anime che s’amino delle tue? Le quali, non pur quando vicine sono et alcuno accidente l’una muove, amendue rendono un medesimo concento, ma anchor lontane et non più mosse l’una che l’altra, fanno dolcissima et conformissima harmonia. Pensa della sua cara donna il lontano amante volentieri quando e’ può, et vedela et odela col pensarvi, né ella con più diletto a veruna cosa giamai volge l’animo che a·llui, et sono certi ciascuno che quello che l’uno fa, faccia l’altro tuttavia parimente. Per che noi ci maravigliamo di Laodomia, alla quale per mirar nel suo lontano Protesilao fosse huopo la dipinta cera della sua figura. A questa guisa, donne, et vicini et lontani, sempre diletto, sempre sollazzi troviamo. Perciò che Amore, sì come il sole, quantunque cangi segno, sempre chiaro si mostra però a’ mortali, così egli, benché alle volte muti paese con noi, pur tuttavia in ogni luogo de’ suoi doni ci fa sentire. Egli in piano, egli in monte, egli in terra, egli in mare, egli ne’ porti et nelle sicurezze, egli nelle fortune et ne gli arrischiamenti, egli ad huomini, egli a donne, sì come la sanità, sempre è piacevole, sempre giova. Trastulla nelle rigide spilunche et nelle semplici et povere capanne i duri et vaghi pastori. Conforta ne’ morbidi palagi et nelle dorate camere le menti pensose de gli alti re. Tranquilla le noie de’ giudicanti, ristora le fatiche de’ guerreggianti; in quelli con le severe leggi de gli huomini la piacevolissima della natura mescolando, a questi nel mezzo de’ nocentissimi et sanguinosi guerreggiari pure et innocentissime paci recando. Pasce i giovani, sostiene gli attempati, diletta gli uni et gli altri; et sovente fa quello che cotanto pare a vedere maraviglioso, con ciò sia cosa che egli nelle vecchie scorze ritorna il vigore delle fanciulle piante et, sotto le bionde et liscie cotenne, insegna essere innanzi tempo mille vizzi et canuti pensieri. Piace a’ buoni, diletta i saggi, è salutevole a tutti. Scaccia la tristitia, toglie la maninconia, rimuove le paure, compone le liti, fa le nozze, aceresce le famiglie. Insegna parlare, insegna tacere, insegna cortesia. Dolci ci fa le dipartenze, perciò che più cari et di più viva forza pieni ci apparecchia i ritorni loro; dolcissimi i ritorni et le dimore, i quali col pensiero delle lor gioie ci fanno poi essere ogni nostra lontananza soave. Lietissimi ci mena i giorni, ne’ quali ci fanno luce et risplendono spesse volte due soli; ma le notti anchor più, sì come quelle che il nostro sole non ci togliono perciò sempre. Il che quando pure non aviene, egli non manca per lo più che il sonno cortese quelle medesime feste non ci apporti et non ci doni, che alle vigilie vengono tolte et negate; et così ci miriamo noi, così ragioniamo insieme, così le nostre ragioni contiamo, così per mano ci prendiamo, come quelli fanno che più veracemente l’appruovano quando che sia. Crescono ogni giorno le dolcezze, avanzano ogni notte le venture; né per quelle che sopravengono, mancano o scemano le sottostanti, anzi, sì come belle nevi da belle nevi sopragiunte, più fresche et più morbide si mantengono in quella maniera, così de gli amorosi sollazzi, sotto le dolci copriture de gli ultimi, più dolci si conservano i primieri. Né per le vecchie le nuove, né le d’hoggi per quelle di hieri menomano et perdono della loro forza giamai, anzi, sì come numero che s’accosti a numero, vie maggior somma fa, che soli et separati far non possono, così le nostre feste, poste et giunte altre con altre, più di bene ci porgono ciascuna, che fatto da sé non havrebbono. Sole bastano, accompagnate crescono. Una mille ne fa, et delle mille in brieve tempo mille ne nascono per ciascuna. Sono aspettate giocondissime, sono non aspettate venturose. Sono care agevoli, ma disagevoli vie più care, in quanto le vittorie con alcuna fatica et con alcun sudore acquistate fanno il triompho maggiore. Donate, rubate, guadagnate, guiderdonate, ragionate, sospirate, lagrimate, rotte, reintegrate, prime, seconde, false, vere, lunghe, brievi, tutte sono dilettevoli, tutte sono gratiose. Et in brieve, sì come nella primavera prati, campi, selve, piagge, valli, monti, fiumi, laghi, ogni cosa che si vede è vaga; ride la terra, ride il mare, ride l’aria, ride il cielo; di lumi, di canti, d’odori, di dolvezze, di tiepidezze ogni parte, ogni cosa è pieno; così in Amore ciò che si dice, ciò che si fa, ciò che si pensa, ciò che si mira, tutto è piacevole, tutto è caro. Di feste, di sollazzi, di giuochi, d’allegrezze, di piacimenti, di venture, di gioia, di riposo, di pace ogni stato, ogni anima è ripiena". —


XXXIV

 

             Non si potea rattener Gismondo del dire, già tutto in su le lode d’Amore con le parole et con l’animo riscaldato, et tuttavia diceva, quando le trombe, che nelle feste della Reina le danze temperavano col lor suono, del palagio rimbombando, alla bella brigata dello incominciato festeggiare dieder segno. Per che, parendo a ciascuno di doversi partire, et levatisi, disse loro Gismondo:

             — Queste et altre cose assai per aventura, o mie donne, v’harebbono ragionato gli amanti huomini, se voi a dirvi di sopra quali sono gli amorosi diletti gli haveste chiesti et dimandati. Et a me hora non picciolo spatio convien lasciare del mio aringo, che io correre non posso. Ma Lavinello, al quale tocca domane l’ultimo incarico de gli amorosi ragiona menti, dirà per me quello che io dire hoggi compiutamente non ho potuto, come io volea; non voglio dire "dovea’’, ché io sapea bene non ci essere bastante. —

             Allhora madonna Berenice, già insieme con gli altri verso il palagio inviatasi, disse:

             — Come che hora il fatto si stia, Gismondo, del tuo havere a bastanza ragionato o no, noi siam pure molto ben contente che di Lavinello habbia a dovere essere il ragionar di domane; il quale se noi non conoscessimo più temperato nelle sue parole, che tu hoggi nelle tue non sei stato, io per me non so quello che io mi facessi di venirci.

             — Et che ho io detto, Madonna? — rispondea Gismondo. — Ho io detto altro che quello che si fa, et anchor meno? Per che se io cotanto spiaciuto vi sono, ben ti so confortar, Lavinello, che tu di quello ragioni che non si fa, se tu le vuoi piacere. —

             Voleasi Lavinello pure ritrarre dal dover dire, recandone sue ragioni, che detto se n’era assai et che egli non era hoggimai agevole, appresso due tali et così diverse openioni et così abondevolmente sostentate dall’uno et dall’altro de’ suoi compagni, recarne la sua, et quasi darne sentenza. Ma ciò era niente; perciò che alle donne pure piaceva che anchora egli dicesse, vaghe d’havere uditi una volta tutti e tre que’ giovani partitamente ragionare, che elle sempre tenuti haveano et riputati per da molto. Et quando bene le donne lasciate di male se ne havessero, non se ne lasciava Gismondo; anzi diceva:

             — O Lavinello, o tu ci prometti di dire, o io ti fo citar questa sera dinanzi la Reina; ché io disposto sono di vedere se i patti, che si fanno nelle sue nozze, s’hanno a rompere in questa maniera. Et forse averrà quello che tu quando i patti si fecero non istimavi, che ti converrà poi dire in sua presenza.

             — Non si tiene ragione hora, — rispondea Lavinello — mentre il festeggiar dura. Le liti ci sono sbandite. — Pure, temendo di quello che avenir gli potea, disse di fare ciò che essi voleano. Et con queste parole giugnendo in su le sale, et quivi da altri giovani cortigiani, che le feste inviavano, vedute le belle donne venire, senza lasciarle più oltre passare f[u]rono invitate tutte e tre et messe in danza, et li tre giovani si rimasero tra gli altri.


Libro III

I

 

             Non si può senza maraviglia considerare, quanto sia malagevole il ritrovare la verità delle cose che in quistion cadono tutto ’l giorno. Perciò che di quante, come che sia, può alcun dubbio nelle nostre menti generarsi, niuna pare che se ne veda sì poco dubbiosa, sopra la quale et in pro et in contro disputare non si possa verisimilmente, sì come sopra la contesa di Perottino et di Gismondo, nelli dinanzi libri raccolta, s’è disputato. Et furono già di coloro, che, di ciò che venisser dimandati, prometteano incontanente di rispondere. Né mancarono ingegni, che in ogni proposta materia disputassero et all’una guisa et all’altra. Il che diede per aventura occasione ad alcuni antichi philosophi di credere, che di nulla si sapesse il vero et che altro già che semplice openione et stima havere non si potesse di che che sia. La qual credenza quantunque et in que’ tempi fosse dalle buone schuole rifiutata, et hora non truovi gran fatto, che io mi creda, ricevitori, pure tuttavia è rimaso nelle menti d’infiniti huomini una tacita et comune doglianza incontro la natura, che ci tenga la pura midolla delle cose così riposta et di mille menzogne, quasi di mille buccie, coperta et fasciata. Per che molti sono che, disperando di poterla in ogni quistion ritrovare, in niuna la cercano et, la colpa alla natura portando, lasciata la cognitione delle cose, vivono a caso; altri poi, et vie più molti anchora ma di meno colpevole sentimento, i quali, dalla malagevolezza del fatto in[viliti], o ad altrui credono ciò che ciascuno ne dice et, a qualunque sentenza udire sono quasi dall’onde portati, in quella sì come in uno scoglio si fermano, o essi ne cercano leggiermente et di quello, che più tosto viene loro trovato, contenti, non vanno più avanti. Ma de’ primieri non è da farne lungo sermone, i quali a me sembrano a male recarsi che essi sieno nati huomini più tosto che fiere, poseia ehe eglino, quella parte ehe da esse ei diseosta rifiutando, privano del suo fine l’animo et del nostro maggiore ornamento spogliano et see mano la loro vita. A quest’altri si può ben dire primieramente ehe egli non si dee così di leggiero a rischio dell’altrui erranza porre et mandar la sua fede, quando si vede che alcuni da particòlare affettione sospinti, altri dalla institutione della vita o dalla disciplina de’ seguitati studi presi et quasi legati, a ragionare et a scrivere d’alcuna cosa si muovono, et non perché essi nel vero credano et stimino che così sia (senza che sì suole egli etiandio non so come alle volte avenire che, o parlando o scrivendo d’alcuna cosa, ci sott’entra nell’animo a poco a poco la credenza di quello medesimo, che noi trattiamo); et poi, che egli non basta, poscia che essi ne cercano, leggiermente cercarne et d’ogni primo trovamento contentarsi; perciò che se a gli a[l]tri, che ne hanno cerco, non si dee subitamente credere tutto quello che essi ne dicono, perché si sono ingannar potuti, né a noi doveremo credere subitamente, che ingannare altresì ci possiamo; et sì anchora perciò che la debolezza de’ nostri giudicij è molta, et di poche cose aviene che una prima et non molto considerata et con lunghe disputationi essaminata openione sia ben sana. Che se alla debolezza de’ nostri giudicij s’aggiugne la oscurità del vero, che naturalmente pare che sia in tutte le cose, vedranno chiaro questi cotali niuna altra differenza essere tra essi et quelli che di nulla cercano, che sarebbe tra chi, assalito da contrari venti sopra il nostro disagevole porto, non sperando di poterlo pigliare, levasse dal governo la mano et del tutto in loro balìa si lasciasse, né di porto né di lito procacciando, et chi, con speranza di doverlo poter pigliare, pure al terreno si piegasse, ma dove fossero i segni che la entrata dimostrano non curasse di por mente. La qual cosa non faranno quegli huomini et quelle donne che me ascolteranno; anzi, quanto essi vedranno essere et maggiore la oscurità nelle cose et ne’ nostri giudicij minore et meno penetrevole la veduta, tanto più né a gli altri quistionanti ogni cosa crederanno, senza prima diligente consideratione havervi sopra, né, quando del vero in alcun dubbio cercheranno, appagheranno se stessi per cercarne poco, et meno a quello, che trovato haveranno ne’ primi cercari, comunque loro paia potersene sodisfare, si terranno appagati, estimando ehe se più oltre ne eereheranno, altro anchora ne troverranno, come quel tanto hanno fatto, che più loro sodisfarà. Né essi della natura si verran dolendo, come quelli fanno, perciò che ella non ci habbia in aperto posta la verità delle conoscibili cose, quando ella né l’argento, né l’oro, né le gemme ha in palese poste, ma nel grembo della terra per le vene de gli aspri monti et sotto la rena de’ correnti fiumi et nel fondo de gli alti mari, sì come in più segreta parte, sotterate. Che se ella questi più cari abbellimenti della nostra caduca et mortal parte ha, come si vede, nascosi, che dovea ella fare della verità, non bellezza solamente et adornamento, ma luce et scorta et sostegno dell’animo, moderatrice de’ soverchievoli disij, delle non vere allegrezze, delle vane paure discacciatrice et delle nostre menti ne’ suoi dolori serenatrice et d’ogni male nimica et guerriera? Le cose da ogniuno agevolmente possedute sono a ciascuno parimente vili, et le rare giungono vie più care. Quantunque io stimo che saranno molti che mi biasimeranno in ciò, che io alla parte di queste investigationi le donne chiami, alle quali più s’acconvenga ne gli uffici delle donne dimorarsi, che andare di queste cose cercando. De’ quali tuttavia non mi cale. Perciò che se essi non niegano che alle donne l’animo altresì come a gli huomini sia dato, non so io perché più ad esse che a noi si disdica il cercare che cosa egli sia, che si debba per lui fuggire, che seguitare; et sono queste tra le meno aperte quistioni, et quelle per aventura d’intorno alle quali, sì come a perni, tutte le scienze si volgono, segni et berzagli d’ogni nostra opera et pensamento. Che se esse tuttavolta a quegli uffici, che diranno que’ tali esser di donna, le loro convenevoli dimore non togliendo, ne gli studi delle lettere et in queste cognitioni de’ loro otij ogni altra parte consumeranno, quello che alquanti huomini di ciò ragionino non è da curare, perciò che il mondo in loro loda ne ragionerà quando che sia. Et hora le quistioni etiandio di Lavinello, il terzo giorno a maggior coro na, che quelle de’ suoi compagni non furono, recitate, ascoltiamo.


II

 

             Perciò che, cercandosi il dì dinanzi delle tre donne per quelle che dimorar con esso loro soleano, nello andare che elle fecero nelle feste, et trovato che elle erano nel giardino et la cagione risaputasi, pervenne la novella di bocca in bocca a gli orecchi della Reina, la quale ciò udendo et sentendo che belle cose si ragionavano tra quella brigata, ma più avanti di loro non sapendole perciò alcuna ben dire, mossa dal chiaro grido che i tre giovani haveano di valenti et di scientiati, ne le prese talento di volere intendere quali stati fossero i loro ragionamenti. Per che la sera, poscia che festeggiato si fu et cenato et confettato, né altro attendendosi che quello che la Reina commandasse, havendo ella tra le più vicine a sé madonna Berenice, il viso et le parole verso lei dirizzando lietamente disse:

             — Chente v’è paruto il nostro giardino, madonna Berenice, questi dì, et che ce ne sapete dire? perciò che noi habbiamo inteso che voi con vostre compagne vi sete stata.

             — Molto bene, Madama — rispose la donna, al dire di lei levatasi in chinevolmente. — Egli m’è paruto tale, quale bisognava che egli mi paresse, essendo di Vostra Maestà. —

             Et quivi dettone quello che dir se ne poteva cortesemente, et talvolta il testimonio di Lisa et di Sabinetta mescolandovi, che molto lontane non l’erano, fece tutte l’altre donne, che l’udivano et veduto non l’haveano, in maniera disiderose di vederlo, che loro si facea già tardi che la Reina si levasse, per potervi poi andare quella sera anchora col giorno, il quale tuttavia di gran passo s’inchinava verso il Marrocco per nascondersi. Ma la Reina leggiermente avedutasene, poi che madonna Berenice si tacque:

             — Nel vero — disse — egli ci suole essere di diporto et di piacere assai. Et perciò che buoni dì sono che noi non vi siamo state, et queste donne per aventura piglierebbono un poco d’aria volentieri, noi vi potemo andare tutte hora per lo fresco. —

             Et così levatasi et presa per mano madonna Berenice, con tutte l’altre scesa le scale et nel bel giardino entrata, lasciatene molte andare chi qua chi là sollazzandosi, con lei ad una delle belle finestre riguardanti sopra lo spatievole piano si pose a sedere et sì·lle disse:

             — Voi ci havete ben detto di questo giardino molte cose, le quali noi sapevamo, come che voi ce l’havete fatte maggiori che elle non sono. Ma de’ vostri ragionamenti, che fatti v’havete, de’ quali niuna cosa sappiamo et nondimeno intendiamo che sono suti così belli et così vaghi, non ci havete perciò detto cosa niuna. Fatecene partecepa, ché egli ci sarà caro. —

             Per che ella non sapendo come negargliele et, dopo altre parole et dopo molte lode date a’ tre giovani, fatta dolvemente sua scusa, che ella pure a ripensare tra se stessa il tutto di tanti et tali ragionamenti non si sarebbe di leggiero arrischiata, non che di raccontargli a Sua Maestà si fosse tenuta bastante, dalla maggioranza data primieramente a Gismondo et dalla sua cagione cominciatasi, non ristette prima di dire, che ella, tutte le parti de’ sermoni di Perottino et di quelli di Gismondo brievemente raccogliendo, la somma delle loro questioni al meglio che ella seppe le hebbe isposta, havendo sempre risguardo che come donna et come a Reina gli esponea. La Reina, uditola et parendole la macchia et l’ombra haver veduta di belle et convenevoli dipinture, sentendo che Lavinello havea a dire il dì seguente, si dispose di volerlo udire anchora essa et d’honorare sì bella compagnia, quel dì che ella potea, con la sua presenza; et dissegliele. Il che alla donna fu molto caro, parendole che, se la Reina vi venisse, ogni materia dovesse potere essere tolta via a chiunque di così fatti ragionamenti et di tale dimora fosse venuto in pensiero di parlarne meno che convenevolmente.

             Erasi già col fine delle parole di madonna Berenice ogni luce del dì partita dal nostro hemispero, et le stelle nel cielo haveano cominciato a riprendere da ogni parte la loro; per che, con quella di molti torchi, la Reina et l’altre donne, risalite le scale, s’andarono alle loro camere per riposarsi. Nelle quali come fu con le sue compagne madonna Berenice, detto loro ciò che con la Reina ragionato havea tanta hora et il suo pensiero, mandarono di presente per li tre giovani; i quali venuti, disse madonna Berenice a Lavinello:

             — Lavinello, egli t’è pure venuto fatto quello, di che hoggi Gismondo ti minacciò: sappi che ti converrà dire in presenza di madonna la Reina domane. —

             Et fatto loro intendere come la cosa era ita et alquanto sopra ragionatone, licentiatigli, a’ bisogni della notte et al sonno diedero le sue hore.


III

 

             Ma venuto il dì et desinatosi et ciascuno alle sue dimore ritornato, presa la Reina quella compagnia di donne et di gentili huomini, che le parve dover pigliare, con le tre donne et co’ tre giovani n’andò nel giardino et, messasi anchor lei a sedere sopra la verde et dipinta herbetta all’ombra de gli allori, come l’altre, in su due bellissimi origlieri, che quivi posti dalle sue damigielle l’aspettavano, et ciascuno altro delle donne et de gli huomini secondo la loro qualità, chi più presso di lei et chi meno, rassettatisi, altro che il dire di Lavinello non s’attendeva: il quale, fatta riverenza alla Reina, incominciò:

             — Poscia che io intesi, Madonna, esser piacere di Vostra Maestà che io in presenza di voi ragionassi quello, che alla picciola nostra brigata di questi due dì havere a ragionare mi eredea, stetti buona pezza sopra me, alla debolezza del mio ingegno et all’importanza delle cose propostemi et al convenevole di Vostra Altezza ripensando; et pareami havere mal fatto quando io, alle nostre donne et a’ miei compagni promettendo di dire, accettai questo peso. Perciò che, quantunque io allhora estimassi come che sia poter per aventura sodisfare al loro disio, nondimento tosto che io mi pensai che le mie parole alle vostre orecchie doveano pervenire, et la imagine di voi mi posi innanzi, subitamente et le mie forze più brievi et la materia più ampia essere m’apparvono d’assai, che elle non m’erano per lo adietro parute. Per che io mi tenni essere a stretto partitO infino a·ttanto che, all’infinita vostra naturale humanità rivolto il pensiero, da·llei confortato ripresi animo, estimando di non dover potere erra re ubidendovi, perciò che io d’ogni mio possibile fallo ne la conoscea vie maggiore. Oltre che poi, più altre parti d’intorno a questo fatto considerate, compresi che se la fortuna, havendo risguardo alla grandezza delle cose che dir si poteano, havea loro maggiore ascoltatrice et più alta giudice apparecchiata, ciò a me non dovea essere discaro, quando da voi et perdono, dove io errassi, et aiuto, dove io mancassi, venire abondevolmente mi potea et non altro. Senza che, se io risguardo più avanti, buona arra mi può esser questa di dovere anchora poter vincere la presente quistione da Gismondo propostaci, et da·llui et da Perottino disputata, il vedere allo ascoltamento de’ miei amorosi ragionamenti datami la Reina di Cipri, la qual cosa non avenne de gli loro. Vagliami adunque il così preso di voi augurio, Madonna, in quella parte che io il prendo, et aspiri hora in ciò che io debbo dire il dolce raggio della vostra salutevole assidenza, nell’ampio favor della quale distendendo le sue ali il mio picciolo et pauroso ardire, con buona licenza di voi io incomincierò.


IV

 

             Comportevoli poteano essere amendue le openioni, Madonna, hieri a voi dalle nostre donne et loro questi giorni da’ miei compagni recitate, et di volontà si sarebbe la lor lite terminar potuto senza nuovo giudicio alcuno, se, l’uno dalla noia et l’altro dalla gioia, che essi amando sentono, sollecitati, la giusta misura nel giudicare passata non havessero et la libertà del dire portata ciascuno in troppo stretto et rinchiuso luogo. Perciò che, per comprendere in brieve spatio tutto quello in che essi occuparono lunga hora, se, come hanno voluto dimostrarci, l’uno che Amore sempre è reo, né può esser buono, et l’altro che egli sempre è buono, né può reo essere, havessero così detto che egli è buono et che egli è reo, et oltre a cciò non si fossero iti ristrignendo, di meno si sarebbe potuto fare di dare hora questo disagio a Vostra Maestà d’ascoltarmi. Perciò che nel vero così è, che Amore, di cui ragionato ci s’è, può essere et buono et reo, sì come io m’accostarò di far lor chiaro. Et quantunque, di queste loro tali et così fatte openioni, manifestamente ne segua convenirsi di necessità confessare che almeno l’una non sia vera, perciò che esse tra sé si discordano, non pertanto eglino sopra ciò in cotal guisa le vele diedero de i loro ragionamenti, che senza fallo et l’una et l’altra sono potute a gli ascoltanti parer vere, o almeno quale sia la men vera sciorre non si può agevolmente; il che tuttavia che amendue sieno false non è picciol segno, con ciò sia cosa che la verità, quando ella è tocca, saglie quasi favilla fuori delle bugie, subitamente manifestandosi a chi vi mira. Et certo molte cose hae raccolte Perottino, molte novelle, molti argomenti recati per dimostrarci che Amore sempre è amaro, sempre è dannoso; molti dall’altra parte Gismondo in farci a credere che egli altro che dolcissimo et giovevolissimo essere non possa giamai. L’uno doglioso, l’altro festoso è stato. Quegli piangendo ha fatto noi piagnere, questi motteggiando ci ha fatti ridere più volte. Et mentre che in diverse maniere ciascuno et con più amminicoli s’è ingegnato di sostentare la sua sentenza, dove gli altri per trarne il vero disputano, che in dubbio sia essi con le loro dispute l’hanno posto in quistione dove egli non v’era. Hora non aspettino i miei compagni che io a ciascuna parte m’opponga delle loro contese, che sono per lo più di soverchio. Io di tanto con loro garreggierò, di quanto fie bastevole a fargli racconoscenti delle loro torte et mal prese vie.


V

 

             Dico adunque, Madonna, che con ciò sia cosa che Amore niente altro è che disio, il quale come che sia d’intorno a quello che c’è piaciuto si gira, perciò che amare senza disio non si può, o di goder quello che noi amiamo o d’altramente goderne, che noi non godiamo, o di goderne sempre, o di bene, che noi con la volontà all’amate cose cerchiamo; et disio altro non è che amore, perciò che disiderare cosa che non s’ami non è di nostra possa, né può essere in alcun modo: ogni amore et ogni disio sono quel medesimo et l’uno et l’altro. Et questi sono in noi di due maniere solamente, o naturali o di nostra volontà. Naturali sono, sì come è amare il vivere, amare lo intendere, amare la perpetuagione di se medesimi, i figliuoli, et le giovevoli cose che la natura senza mezzo alcuno ci dà, et sempre durano et sono in tutti gli huomini ad un modo. Di nostra volontà sono poi quegli altri, che in noi separatamente si creano, secondo che essa volontà, invitata da gli obbietti, muove a disiderare hor uno hor altro, hor questa cosa hor quella, hor molto hor poco; et questi disij et scemano et crescono, et si lasciano et si ripigliano, et bastano et non bastano, et in quest’animo d’una maniera et in quello sono d’altra, sì come noi medesimi vogliamo et acconci siamo a dar loro ne’ nostri animi alloggiamento et stato. Ma non a ventura né a caso ci furono così date queste guise di disij, Madonna, che io vi ragiono, anzi con ordinato consiglio di chiunque s’è colui, che è di noi et di tutte le cose prima et verissima cagione. Perciò che volendo egli che la generation de gli huomini, sì come ancho quelle de gli altri animali, s’andasse col mondo perpetuando, ricoverandosi di tempo in tempo, s’avide essere di necessità crear in tutti noi altresì, come in loro, questo amor di vita, che io dissi, et de’ figliuoli et delle cose che giovano et fanno a nostro migliore et più perfetto stato; il quale amore se stato non fosse. sarebbe co’ primi huomini la nostra spetie finita, che anchor dura. Ma perciò che, havendoci esso a maggiori cose et a più alto fine creati, che fatto gli altri animali non havea, aggiunse ne’ nostri animi le parti della ragione, fu di mestiero, acciò che ella in noi vana et otiosa non rimanesse, che egli la volontà, che io dissi, etiandio aggiugnesse in noi libera et di nostro arbitrio, con la quale et disiderare et non disiderare potessimo d’intorno alle altre cose, secondo che a noi venisse parendo il migliore. Così aviene che nelle naturali et primiere nostre voglie tutti amiamo et disideriamo ad un modo, sì come fanno gli altri animali medesimi, i quali procacciano di vivere et di bastare al meglio che essi possono ciascuno; ma nelle altre non così, perciò che io tale ne potrò amare, che non amerà Perottino, et tale amerà egli, che io per aventura non amerò, o egli molto l’amerà, dove io l’amerò poco. Hora è da saper quello di che hieri Gismondo ci ragionò, che, perciò che la natura non s’inganna, i disij, che naturali sono, sono similmente buoni sempre, né possono rei essere in alcuna maniera giamai; ma gli altri, il che non ci ragionò già hieri Gismondo, perciò che la nostra volontà può ingannarsi, et più sovente il fa che io non vorrei, et buoni et rei esser possono altresì, come sono i fini a cui ella dirizza il disio. Et di questa maniera di disij è quello di cui ci propose il ragionare Gismondo, et il quale Amore generalmente chiamano le genti tutto dì, et per lo quale noi Amanti comunemente ci chiamiamo; con ciò sia cosa che secondo l’arbitrio di ciascuno amiamo et disamiamo, et diversamente amiamo, et non necessariamente sempre et tutti quel medesimo et ad un modo, sì come aviene ne’ naturali disij. Per che egli et buono et reo esser può, secondo la qualità del fine che dalla nostra volontà gli è dato. Quantunque Gismondo per sostegno delle sue ragioni, che cadeano, co’ naturali disij ne ’l mescolasse, volendoci dimostrar per questo che egli buono fosse sempre, né potesse malvagio essere in alcun tempo. Perciò che chi non sa che se io gentile et valorosa donna amerò et di lei lo ’ngegno, l’honestà, la cortesia, la leggiadria et l’altre parti dell’animo, più che quelle del corpo, né quelle del corpo per sé, ma in quanto di quelle dell’animo sono fregio et adornamento, chi non sa, dico, che se io così amerò, il mio amore sarà buono, perciò che buona sarà la cosa da me amata et disiderata? Et allo ’ncontro, se io ad amare dishonesta et stemperata donna mi disporrò, o pure di casta et di temperata quello, che suole essere obbietto d’animo dishonesto et stemperato, come si potrà dire che tale amore malvagio et fello non sia, con ciò sia cosa che quello che si cerca è in se medesimo fello et malvagio? Certo, sì come a chi in quella guisa ama, le più volte aviene che quelle venture lo seguono, che ci disse Gismondo che seguivano gli amanti: risvegliamento d’ingegno, sgombramento di sciocchezza, accrescimento di valore, fuggimento d’ogni voglia bassa et villana et delle noie della vita in ogni luogo in ogni tempo dolcissimo et salutevolissimo riparo, così a chi in questa maniera disia, altro che male avenire non gliene può, perciò che bene spesso quell’altre sciagure lo ’ncontrano, nelle quali ci mostrò Perottino che incontravano gli amanti, cotante et così gravi: scorni, sospetti, pentimenti, gielosie, sospiri, lagrime, dolori, manchezza di tutte le buone opere, di tempo, d’honore, d’amici, di consiglio, di vita et di se medesimo perdezza et distruggimento.


VI

 

             Ma non credere tuttavia, Gismondo, perciò che io così parlo, che io per aventura stimi buono essere lo amare nella guisa che tu ci hai ragionato. Io tanto sono da te, quanto tu dalla verità lontano, dalla quale ti discosti ogni volta che fuori de’ termini de’ duo primi sentimenti et del pensiero ti lasci dal tuo disiderio traportare, et di loro amando non stai contento. Perciò che è verissima openione, a noi dalle più approvate schuole de gli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio. La qual bellezza che cosa è se tu con tanta diligenza per lo adietro havessi d’intendere procacciato, con quanta ei hai le parti della tua bella donna voluto hieri dipignere sottilmente, né come fai ameresti tu già, né quello, che ti cerchi amando, haresti a gli altri lodato come hai. Perciò che ella non è altro che una gratia che di proportione et di convenenza nasce et d’harmonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa et più vaghi, et è accidente ne gli huomini non meno dell’animo che del corpo. Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra tengono proportione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé harmonia; et tanto più sono di bellezza partecipi et l’uno et l’altro, quanto in loro è quella gratia, che io dico, delle loro parti et della loro convenenza, più compiuta et più piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, et d’animo parimente et di corpo, et a·llei, sì come a suo vero obbietto, batte et stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre ha: l’una, che a quella dell’animo lo manda, et questa è l’udire; l’altra, che a quella del corpo lo porta, et questa è il vedere. Perciò che sì come per le forme, che a gli occhi si manifestano, quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli orecchi ricevono, quanta quella dell’animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare dalla natura dato, che perché esso fosse tra noi de’ nostri animi segno et dimostramento. Ma perciò che il passare a’ loro obbietti per queste vie la fortuna et il caso sovente a’ nostri disiderij t"r possono, da·lloro, sì come spesso aviene, lontanandoci, ché, come tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l’occhio né l’orecchio non si stende, quella medesima natura, che i due sentimenti dati n’havea, ci diede parimente il pensiero, col quale potessimo al godimento delle une bellezze et delle altre, quandunque a noi piacesse, pervenire. Con ciò sia cosa che, sì come ci ragionasti tu hieri lungamente, et le bellezze del corpo et quelle dell’animo ci si rappresentano col pensarvi, et pìgliassene, ogni volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come alle bellezze dell’animo aggiugnere né fiutando, né toccando, né gustando non si può, così non si può né più né meno etiandio a quelle del corpo, perciò che questi sentimenti tra le siepi di più materiali obbietti si rinchiudono, che non fanno quegli altri. Che perché tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra quest’herbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è odorante, quale fiatoso, quale amaro, quale dolce, quale aspero, quale morbido, ma che bellezza sia la loro, se tu non gli mirassi altresì, mica non potresti tu conoscere, più di quello che potesse conoscere un cieco la bellezza d’una dipinta imagine, che davanti recata gli fosse. Per che se il buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, et se alla bellezza altro di noi et delle nostre sentimenta non ci scorge che l’occhio et l’orecchio et il pensiero, tutto quello che è da gli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori di ciò che per sostegno della vita si procaccia, non è buono amore, ma è malvagio; et tu in questa parte amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose. Perciò che sozzo et laido è l’andare di que’ diletti cercando, che in straniera balìa dimorano et havere non si possono senza occupatione dell’altrui et sono in se stessi et disagevoli et nocenti et terrestri et limacciosi, potendo tu di quelli havere, il godere de’ quali nella nostra potestà giace et godendone nulla s’occupa, che alcuno tenga proprio suo, et ciascuno è in sé agevole, innocente, spiritale, puro. Questi bastava che tu hieri ci havessi lodati, o Gismondo, questi potrai tu ad ogni tempo con le prose et con le rime inalzare, ché sopra il convenevole senza fallo alcuno essi giamai non saranno inalzati. Di quegli altri se tu pure ragionar ci volevi, biasimandogli a tuo potere et avallandogli dovevi tu farlo, che il buono amore haresti lodato acconciamente in questa guisa, dove tu l’hai sconciamente in quella maniera vituperato. Il quale, perciò che grande idio si dice essere, io ti conforterei, Gismondo, che tu hora il contrario facessi in amenda del tuo errore, di quello che fe’ già Stesichoro ne gli antichi tempi in amenda del suo; perciò che, havendo egli co’ suoi versi la greca Helena vituperata, et fatto per questo cieco, da capo in sua loda ricantandone, tornò sano; eosì tu hoggi contrariamente tanto di loro ei rifavellassi disprezzandogli, quanto tu hieri ci hai apprezzandogli ragionato, et sì rihaverai tu la luce del diritto giudicio, che hai perduta. —


VII

 

             Tacque Lavinello così un poco, detto che egli hebbe infin qui, et, come aviene che si fa ragionando, sostatosi, ricoglieva spirito per riparlare, quando la Reina, soavemente alquanto sopra sé recatasi, così a llui con sereno aspetto cominciò, et disse:

             — Bene havete fatto, Lavinello, per certo a sovenirci hora di quello, poeti et versi ricordandoci, di che per aventura la vaghezza de’ vostri ragionamenti, tacendol voi, ci harebbe tenuta obliosa. Perciò che, havendo i vostri compagni, sì come noi habbiamo inteso, tra gli loro ragionamenti di questi dì cotante et così belle rime mescolate, che le vostre donne udite hanno, non volete anchor voi hora alcuna delle vostre mescolare et tramettere in questi parlari, che noi etiandio ascoltiamo, poscia che le loro non habbiamo ascoltate?

             — Se io rime havessi, Madonna, — rispose con riverente fronte Lavinello — le quali di tanto fossero di quelle de’ miei compagni più vaghe, di quanto sete voi delle nostre donne maggiore, io per aventura potrei hoggi senza biasimo d’arroganza recitarne alcuna, sì come essi fecero hieri et dianz’hieri le molte loro, che voi dite. Ma io non le ho pure di gran lunga al nostro picciolo primier cerchio bastevoli, non che elle ardissero di lasciarsi in così ampio theatro, quale la vostra presenza è, in alcuna guisa sentire. Per che piaccia più tosto a Vostra Maestà di non mi porre addosso quel peso, che io portar non posso.

             — Voi di troppo ci honorate — riprese la Reina — con la vostra grande humanità, et le vostre donne si potranno di voi dolere, le quali noi come sorelle honoriamo. Ma, lasciando ciò andare, voi di certo ci fareste ingiuria, se di quello non voleste rallegrarci, di che hanno i vostri compagni le loro ascoltatrici rallegrate et di che tuttavia sentiamo che sete abondevole et dovitioso anchor voi. —

             Per la qual cosa non trovando Lavinello via come honestamente ricusare gliele potesse, dopo altre parole, sì di madonna Berenice, che la Reina cortesemente pregava che al tutto lo facesse dire alcuna canzone, et sì di Gismondo, che diceva che egli n’era maestro, esso così disse:

             — Io dirò, Madonna, poi che così piace a Vostra Maestà; et dirò pure come io potrò, et poscia che a questo fare mi chiamate hora, che io delle tre innocenti maniere di diletti che bene amando si sentono, vi ragionava, quello di loro, che tre mie canzoni nate ad un corpo ne raccogliessero già, in parte vi racconterò, acciò che io così, più tosto questo rischievole passo valicato, l’altra parte de’ miei ragionamenti possa con più sicuro piede fornire. —

             Et ciò detto, così incominciò la primiera


VIII

 

            Perché ’l piacer a ragionar m’invoglia,

Et di sua propria man mi detta Amore,

Né da l’un, né da l’altro ardisco aitarmi;

Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,

Et sol questa mercede appaghi il core,

Tanto ch’io dica et possa contentarmi;

C’haver dinanzi sì bel viso parmi,

Sì pure voci et tanto alti pensieri,

Che, perch’io mai non speri

Per forza di mio ingegno o per altr’arte,

Cose leggiadre et nove,

Che ’n mill’anni volgendo il ciel non piove,

Qual’io le sento al cor, stender in carte,

Pur le mie ferme stelle

Portan ad hor ad hor ch’io ne favelle.

            Era ne la stagion che ’l ghiaccio perde

Da le viole, e ’l sol cangiando stile

La faccia oscura a le campagne ha tolta,

Quando tra ’l bel cristallo e ’l dolce verde

Mi corse al cor la mia donna gentile,

Che correr vi dovea sol una volta.

Mia ventura in quel punto havea disciolta

La treccia d’oro, et quel soave sguardo,

Lieto, cortese et tardo,

Armavan sì felici et cari lumi,

Che quant’io vidi poi,

Vago amoroso et pellegrin fra noi,

Rimembrando di lor, tenni ombre et fumi;

Et dicea fra me stesso:

"Amor senz’alcun dubbio è qui da presso".

            Ben diss’io ’l ver, che come ’l dì col sole,

Così con la mia donna Amor ven sempre,

Che da’ begli occhi mai non s’allontana;

Poi senti’ ragionando dir parole

Et risonar in sì soavi tempre,

Che già non mi sembiar di lingua humana:

Correa da parte una chiara fontana,

Che vide l’acque sue quel dì più vive

Avanzar per le rive,

E ’ncontro i raggi de le luci sante

Ogni ramo inchinarsi

Del bosco intorno et più frondoso farsi,

Et fiorir l’herbe sotto le sue piante,

Et quetar tutti i venti

Al suon de’ primi suoi beati accenti.

            Quante dolcezze con amanti unquanco

Non eran state certo infin quel giorno,

Tutte fur meco, et non la scorsi apena:

Vincea la neve il vestir puro et bianco

Dal collo a’ piedi, e ’l bel lembo d’intorno

Havea virtù da far l’aria serena;

L’andar toglieva l’alme a la lor pena

Et ristorava ogni passato oltraggio;

Ma ’l parlar dolve et saggio,

Che m’havea già da me stesso diviso,

E i begli occhi et le chiome,

Che fur legami a le mie care some.

De le cose parean di paradiso

Scese qua giuso in terra,

Per dar al mondo pace et torli guerra.

            "Deh se per mio destin voci mortali,

Et son di donna pur queste bellezze,

Beato chi l’ascolta et chi la mira;

Ma se non son, chi mi darà tante ali

Ch’io segua lei, s’aven ch’ella non prezze

Di star là ’ve si piagne et si sospira?".

Così pensava, e ’n quanto occhio si gira,

Vidi un che ’l dolce volto dipingea

Parte, et parte scrivea

Ne l’alma dentro le parole e ’l suono,

Dicendo: "Queste homai

Penne da gir con lei tu sempre harai’’.

Alhor mi scossi et, qual io qui mi sono,

Tal la mia donna bella

M’era nel petto in viso et in favella.

            Rimanti qui, canzon, poi che de l’alto

Mio thesoro infinito

Così poveramente t’hai vestito.


IX

 

             Detta questa canzone, volea Lavinello a’ suoi ragionamenti ritornare, ma la Reina, che del suo dire di tre canzoni nate ad un corpo non s’era dimenticata, essendonele questa piaciuta, volle che egli etiandio alle altre due passasse, onde egli la seconda in questa guisa incomin ciando seguitò, et disse:

 

            Se ne la prima vogha mi rinvesca

L’anima desiosa, et pur un poco

Per levarmi da lei l’ale non stende,

Meraviglia non è, di sì dolc’esca

Movono le faville et nasce il foco,

Ch’a ragionar di voi, Donna, m’accende

Voi sete dentro, et ciò che fuor risplende

Esser altro non pò che vostro raggio;

Ma perch’io poi non haggio

In ritrarlo ad altrui le rime accorte.

Ben ha da voi radice

Tutto quel che per me se ne ridice.

Ma le parole son debili et corte;

Che se fosser bastanti,

Ne ’nvaghirei mille cortesi amanti.

            Però che da quel dì, ch’io feci imprima

Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia

Tutto questo mio viver non è stato;

Et se per lunghe prove il ver s’estima,

Quantunque ch’io mi viva o ch’io mi moia,

Non spero d’esser mai se non beato,

Sì fermo è ’l piè del mio felice stato.

Et certo sotto ’l cerchio de la luna

Sorte gioiosa alcuna,

Et un ben, quanto ’l mio, non si ritrova;

Ché s’altri è lieto alquanto,

Immantenente poi l’assale il pianto;

Ma io non ho dolor che mi rimova

Da la mia festa pura,

Vostra mercé, Madonna, et mia ventura.

            Et se duro destin a ferir viemmi

Con più forza talhor, di là non passa

Da la spoglia, ond’io vo caduco et frale;

Ché ’l piacer, di che Amor armato tiemmi,

Sostiene il colpo et gir oltra no ’l lassa,

Là ’ve sedete voi, che ’l fate tale.

Però s’io vivo a tempo, che mortale

Fora ad altrui, non è per proprio ingegno:

Io per me nacqui un segno

Ad ogni stral de le sventure humane;

Ma voi sete il mio schermo,

Et perch’io sia di mia natura infermo,

Sotto ’l caso di me poco rimane.

Lasso, ma chi pò dire

Le tante guise poi del mio gioire?

            Che spesso un giro sol de gli occhi vostri,

Una sol voce in allentar lo spirto

Mi lassa in mezzo ’l cor tanta dolcezza,

Che no ’l porian contar lingue né inchiostri;

Né così ’l verde serva lauro o mirto,

Com’ei le forme d’ogni sua vaghezza;

Et ho sì l’alma a questo cibo avezza,

Ch’a lei piacer non pò, né la desvia

Cosa che voi non sia

O col vostro penser non s’accompagne,

Et quando il giorno breve

Copre le rive et le piagge di neve,

Et quando ’l lungo infiamma le campagne,

Et quando aprono i fiori,

Et quando i rami poi tornan minori.

            Gigli, caltha, viole, acantho et rose

Et rubini et zaphiri et perle et oro

Scopro, s’io miro nel bel vostro volto.

Dolce harmonia de le più care cose

Sento per l’aere andar et dolce choro

Di spiriti celesti, s’io v’ascolto.

Tutto quel che diletta, inseme accolto

Et posto col piacer, che mi trastulla

Se di voi penso, è nulla.

Né giurerei ch’Amor tanto s’avanzi

Perc’ha la face et l’arco,

Quanto per voi, mio pretioso incarco;

Et hor me ’l par veder, ch’a voi dinanzi

Voli superbo et dica:

"Tanto son io, quanto m’è questa amica".

            Né tu per gir, canzon, ad altro albergo,

Del mio ti partirai,

Se quanto rozza sei conoscerai.


X

 

             Et poi di questa passò Lavinello etiandio alla terza senza dimora, et disse:

 

            Dapoi ch’Amor in tanto non si stanca

Dettarmi quel, ond’io sempre ragioni,

E ’l piacer più che mai dentro mi punge,

Anchor dirò; ma se dal vero manca

La voce mia, Madonna il mi perdoni,

Che ’n tutto dal nostr’uso si disgiunge.

Et come salirei dov’ella aggiunge,

Io basso et grave et ella alta et leggera?

Basti matino et sera

L’alma inchinarle, quanto si convene,

Et qualche pura scorza

Segnar, alhor che ’l gran desio mi sforza,

Del suo bel nome, et le più fide arene,

Acciò che ’l mar la chiami

Et ogni selva la conosca et ami.

            Questo faccia il desir in parte satio,

Che vorria alzarsi a dir de la mia donna;

Ma tema di cader lo tene a freno.

Et se per le sue lode unqua mi spation

Ch’è ben d’alto valor ferma colonna,

Non è però ch’io creda dirne a pieno.

Ma perch’altrui lo mio stato sereno

Cerco mostrar, che sol da lei deriva,

Forza è talhor ch’io scriva

Com’ogni mio pensier indi si miete:

O di quella soave

Aura, che del mio cor volge la chiave,

O pur di voi, che ’l mio sostegno sete,

Stelle lucenti et care,

Se non quando di voi ml sete avare.

            Voi date al viver mio l’un fido porto,

Ché come ’l sol di luce il mondo ingombra

Et la nebbia sparisce inanzi al vento,

Così mi ven da voi gioia et conforto

Et così d’ogni parte si disgombra

Per lo vostro apparir noia et tormento.

L’altro è quando parlar Madonna sento,

Che d’ogni bassa impresa mi ritoglie

Et quel laccio discioglie,

Che gli animi stringendo a terra inclina;

Tal ch’io mi fido anchora,

Quand’io sarò di questo carcer fora,

Far di me stesso a la morte rapina,

E ’n più leggiadra forma

Rimaner de gli amanti exempio et norma.

            Il terzo è ’l mio solingo alto pensero,

Col qual entro a mirarla et cerco et giro

Suoi tanti honor, che sol un non ne lasso;

Et scorgo il bel sembiante humile altero

E ’l riso, che fa dolce ogni martiro,

E ’l cantar, che potria mollire un sasso.

O quante cose qui tacendo passo,

Che mi stan chiuse al cor sì dolcemente!

Poi raffermo la mente

In un giardin di novi fiori eterno,

Et odo dir ne l’herba:

"A la tua donna questo si riserba;

Ella potrà qui far la state e ’l verno".

Di cota’ viste vago,

Pascomi sempre et d’altro non m’appago.

            Et chi non sa quanto si gode in cielo

Vedendo Dio per l’anime beate,

Provi questo piacer, di ch’io li parlo.

Da quel dì inanzi mai caldo né gelo

Non temerà, né altra indignitate

Ardirà de la vita unque appressarlo;

Et pur ch’un poco mova a salutarlo

Madonna il dolce et gratioso ciglio,

Più di nostro consiglio

Non havrà huopo et vincerà il destino,

Ché quelle vaghe luci

A salir sopra ’l ciel li saran duci,

Et mostreranli il più dritto camino,

Et potrà gir volando,

Ogni cosa mortal sotto lasciando.

            Ove ne vai, canzon, s’anchora è meco

L’una compagna et l’altra?

Già non sei tu di lor più ricca o scaltra.


XI

 

             Ispeditosi Lavinello del dire delle tre canzoni, i suoi primieri ragionamenti così riprese:

             — Questo poco, Madonna, che io v’ho fin qui detto, sarebbe alle nostre donne potuto per aventura bastare per dimostramento della menzogna che l’uno et l’altro de’ miei compagni sotto le molte falde delle loro dispute haveano questi giorni, sì come udito havete, assai acconciamente nascosa; ma non a voi, né pure alla vostra fanciulla, che così vagamente l’altr’hieri alle tavole di Vostra Maestà cantando, ci mostrò quello che io dire ne dovea, poscia che i miei compagni, per le pedate dell’altre due mettendosi, haveano a tacerlo. Nella qual cosa tuttavia ben provide senza fallo alcuno al mio gran bisogno la fortuna di questi ragionamenti. Perciò che andando io questa mattina per tempo, da costor toltomi et del castello uscito, solo in su questi pensieri, posto il piè in una vietta per la quale questo colle si sale, che c’è qui dietro, senza sapere dove io m’andassi, pervenni a quel boschetto, che, la più alta parte della vaga montagnetta occupando, cresce ritondo come se egli vi fosse stato posto a misura. Non ispiacque a gli occhi miei quello incontro, anzi, rotto il pensar d’amore et in sul piè fermatomi, poscia che io mirato l’hebbi così dal di fuori, dalla vaghezza delle belle ombre et del selvareccio silentio invitato, mi prese disiderio di passar tra loro, et messomi per un sentiero, il quale appena segnato, dalla vietta ove io era dipartendosi, nella vaga selva entrava, et per entro passando, non ristetti prima, sì m’hebbe in uno aperto non molto grande il poco parevole tramitello portato. Dove come io fui, così dall’uno de’ canti mi venne una capannuccia veduta, et poco da·llei discosto tra gli alberi un huom tutto solo lentamente passeggiare, canutissimo et barbuto et vestito di panno simile alle corteccie de’ querciuoli, tra’ quali egli era. Non s’era costui aveduto di me, il quale in profondo pensiero essendo, sì come a me parea di vedere, tale volta nello spatiare si fermava et, stato ched egli era così un poco, a passeggiare lento lento si ritornava; et così più volte fatto havea, quando io mi pensai che questi potesse essere quel santo huomo, che io havea udito dire che a guisa di romito si stava in questo dintorno, venutovi per meglio potere, nello studio delle sante lettere dimorando, pensare alle alte cose. Per che volentieri mi sarei fatto più avanti per salutarlo et, se egli era colui che io istimava che egli fosse, ricordandomi che io havea hoggi a dire dinanzi a Vostra Maestà, per havere da·llui etiandio alcun consiglio d’intorno a miei ragionamenti. Perciò che io havea inteso che egli era scientiatissimo et che, con tutto che egli fosse di santa et disagevole vita, sì come quegli che di radici d’herbe et di coccole salvatiche et d’acqua et sempre solo vivea, egli era nondimeno affabilissimo, et poteasi di ciò, che altri havesse voluto, sicuramente dimandarlo, ché egli a ciascuno sempre dolce et humanissimo rispondea. Ma villania mi parea fare a torlo da suoi pensieri; et così mirandolo mi stava in pendente. Né stetti guari, che egli si volse verso la parte dove io era et, veggendomi, occasione mi diede a quello che io cercava; perciò che, incontro passandogli, con molta riverenza il salutai.


XII

 

             Stette nel mio saluto alquanto sopra sé il santo huomo et poi, verso me con miglior passo facendosi, disse: "Dunque sei tu pure qui hora, il mio Lavinello’’. Et questo detto, ravicinatomisi et di me amendue le gote soavemente prendendo, mi basciò la fronte. Nuova cosa mi fu senza fallo alcuno l’essere quivi così amichevolmente ricevuto et per nome chiamato da colui, del quale io alcuna contezza non havea, né sapea in che modo egli havere di me la si potesse. Per che da subita maraviglia soprapreso, et mirando cotal mezzo con vergogna il santo huomo pure per vedere se io racconoscere ne ’l potessi, et non racconoscendolo, sì come quello che io altra volta veduto non havea, stetti per buono spatio senza nulla dire, infino a·ttanto che egli, con un dolce sorriso, del mio maravigliare mostrò che s’accorgesse. Là onde io, preso ardire, così risposi: "Qui è hora, Padre, Lavinello per certo, sì come voi dite, non so se a caso venutoci o pure per volere del cielo. Ma voi il fate sopra modo maravigliare, né sa pensare come ciò sia, che voi lui conosciate, il quale né in questo luogo fu altra volta più, né vi vide, che egli sappia, giamai’’. Allhora il buon vecchio, che già per mano preso m’havea, movendo verso la capanna il passo, con lieto et tranquillo sembiante disse: "Io non voglio, Lavinello, che tu di cosa che ad alto possa piacere ti maravigli. Ma perciò che tu, come io veggo, a piè qui dal castello venuto, salendo il colle puoi havere alcuna fatica sostenuta più tosto che no, sì come dilicato che mi pare che tu sij, andiamoi colà, et sì sederai et io ti terrò volentieri compagnia, che non sono perciò il più gagliardo huom del mondo, et quello che io so di te, sedendo et riposando, ti farò chiaro’’. Indi con pochi valchi sotto alcune ginestre guidatomi, che dinanzi la picciola casa erano, sopra il piano d’un tronco d’albero, il quale, lungo le ginestre posto, a·llui et a’ suoi hosti semplice et bastevole seggio facea, si pose a sedere et volle che io sedessi; et poi che m’hebbe alquanto lasciato riposare, incominciò: "Tanto è largo et cupo il pelago della divina providenza, o figliuolo, che la nostra humanità, in esso mettendosi, né termine alcuno vi truova, né in mezzo può fermarsi; perciò che vela di mortale ingegno tanto oltre non porta et fune di nostro giudicio, per molto che ella vi si stenda, non basta a pigliar fondo; in maniera che bene si veggono molte cose tutto dì avenire, volute et ordinate da·llei, ma come elle avengano o a che fine, noi non sappiamo, sì come hora in questo mio conoscerti, di che ti maravigli, è avenuto’’. Et così seguendo mi raccontò che, dormendo egli questa notte prossimanamente passata, gli era nel sonno paruto vedermi a sé venire tale quale io venni, et dettogli chi io era et tutti gli accidenti di questi due passati giorni et le nostre dispute et il mio dover dire d’hoggi alla presenza di Vostra Maestà et quello che io in parte pensava di dirne, che è quanto testé udito havete, raccontatogli, dimandarlo di ciò che ne gli paresse et che esso d’intorno a questo fatto dicesse, se a·llui convenisse ragionarne, come a me conveniva. Là onde egli con questa imaginatione destatosi et levatosi, buona pezza v’havea pensato et tuttavia, quando io il sopragiunsi, vi pensava. Di che egli a guisa di conosciuto mi ricevette et a sé già per la contezza della notte fatto dimestico et famigliare. Crebbe in cento doppi la mia dianzi presa maraviglia, udendo il santo huomo, et la credenza, che io vi recai, della sua santità, divenne senza fine maggiore. Et così tutto d’horrore et di riverenza pieno, come esso tacque: "Ben veggo io, ’‘ dissi "Padre, che io non senza volere de gl’Idij qui sono, a’ quali voi cotanto siete, quanto si vede, caro. Ora, perciò che si dee credere che essi con l’havuta visione v’habbiano dimostrato essere di piacer loro che voi a questo mio maggiore huopo aiuto et consiglio mi prestiate, credo io acciò che la nostra Reina, dolce cura della loro maestà, non come io posso ma come essi vogliono, s’honori, piacciavi al voler loro di sodisfare, ché al mio hoggimai non debbo io dir più’’. "Anzi pure a Colui piaccia al quale ogni ben piace, che io al tuo disiderio possa con la sua volontà sodisfare’’ rispose il santo huomo. Et così risposto et gli occhi verso il cielo alzati et per picciolo spatio con fiso sguardo tenutovegli, a me rivolto in questa guisa riprese a dire:


XIII

 

             "Grande fascio havete tu et i tuoi compagni abbracciato, Lavinello, a me hoggimai non meno di figliuol caro, a dir d’Amore et della sua qualità prendendo: sì perché infinita è la moltitudine delle cose che dire vi si posson sopra, et sì anchora maggiormente perciò che tutto il giorno tutte le genti ne quistionano, quelle parti ad esso dando, che meno gli si converrebbe dare, et quelle che sono sue certissime, propriissime, necessariissime tacendo et da parte lasciando per non sue; la qual cosa ci fa poi più malagevole il ritrovarne la verità contro le openioni de gli altri huomini, quasi allo ’ndietro caminando. Non pertanto non dee alcuno di cercarne spaventarsi et, perché faticoso sia il poter giugnere a questo segno, ritrarsi da farne pruova. Perciò che di poche altre cose può avenire, o forse di non niuna, che lo intendere ciò che elle sono più ci debba esser caro, che il sapere che cosa è Amore. Il che quanto a voi sia hora nelle dispute de’ tuoi compagni et in quello che tu stimi di poterne dire avenuto, et chi più oltre si sia fatto di questo intendimento et chi meno, ne rimetto io a madonna la Reina il giudicio. Ma dello havere havuto ardire di cercarne, bella loda dare vi se ne conviene. Tuttavolta se a te giova che io anchora alcuna cosa ne rechi sopra et più avanti se ne cerchi, facciasi a tuo sodisfaccimento, pure che non istimi che la verità sotto queste ginestre più che altrove si stia nascosa. Et a ffine che tu in errore non istij di ciò che detto hai, che Amore et disidero sono quello stesso, io ti dico che egli nel vero non è così. Ma veggasi prima che cosa in noi o pure che parte di noi è Amore; dapoi, che egli non sia disidero, ti farò chiaro. È adunque da sapere che, sì come nella nostra intellettiva parte dell’animo sono pure tre parti o qualità o spetie, ciascuna di loro differente dall’altre et separata (perciò che v’è primieramente l’intelletto, che è la parte di lei acconcia et presta allo ’ntendere et può nondimeno ingannarsi; v’è per secondo lo intendere, che io dico, il quale non sempre ha luogo, ché non sempre s’intendono le intelligibili cose, anzi non ha egli se non tanto, quanto esso intelletto si muove et volge con profitto d’intorno a quello che a·llui è proposto per intendersi et per sapersi; èvvi dopo queste ultimamente et di loro nasce quella cosa o luce o imagine o verità, che dire la vogliamo, che a noi bene intesa si dimostra, frutto et parto delle due primiere, la qual tuttavia, se è male intesa, né verità né imagine né luce dire si può, ma caligine et abbaglia mento et menzogna), così, né più né meno, sono nella nostra vogliosa parte del medesimo animo pure tre spetie, per gli loro ufficij propria et dall’altre due partita ciascuna. Con ciò sia cosa che v’è di prima la volontà, la qual può et volere parimente et dis[vo]ere, fonte et capo delle due seguenti; et che v’è dopo questa il volere, di cui parlo, et ciò è il disporsi a mettere in opera essa volontà o molto o poco, o anchora contrariamente, che è disvolendo; et che v’è per ultimo quello, che di queste due si genera: il che, se piace, amore è detto, se dispiace, odio per lo suo contrario necessariamente si convien dire. Nasce adunque amore, Lavinello, et creasi nella guisa che tu hai veduto, et è in noi o di noi quella parte, che tu intendi. Hora che egli non sia disiderio in questo modo potrai vedere. Perciò che bene è vero che disiderar cosa per noi non si può, che non s’ami, ma non perciò ne viene che non s’ami cosa, che non si disideri altresì; perciò che se n’amano molte et non si disiderano, et ciò sono tutte quelle che si posseggono; ché, tosto che noi alcuna cosa possediamo, a noi manca di lei il disiderio in quella parte che noi la possediamo, et in luogo di lui sorge et sottentra il piacere. Ché altri non disidera quello che egli ha, ma egli se ne diletta godendone; et tuttavia egli l’ama et hallo caro vie più che prima: sì come fai tu, il quale, mentre anchor bene l’arte del verseggiare et del rimare non sapevi, sì l’amavi tu assai, sì come cosa bella et leggiadra che ella è, et insieme la disideravi; ma hora che l’hai et usar la sai, tu più non la disideri, ma solamente a te giova et ètti caro di saperla et amila molto anchor più, che tu prima che la sapessi et possedessila non facevi. La qual cosa meglio ti verrà parendo vera, se tu a quello che odio et timor siano parimente risguarderai. Perciò che quantunque temere di niuna cosa non si possa, che non s’habbia in odio, pure egli non è che alle volte non s’odij alcuna cosa senza temerla. Ché tu puoi havere in odio i violatori delle mogli altrui, et di loro tuttavia non temi, perciò che tu moglie non hai, che essere ti possa violata. Et io in odio ho i rubatori dell’altrui ricchezze, né perciò di lor temo, ché io non ho ricchezza da temerne, come tu vedi. Per la qual cosa ne segue che, sì come odio può in noi essere senza timore, così vi può amore essere senza disio. Non è adunque disio Amore, ma è altro.


XIV

 

             Tuttavia io non voglio, Lavinello, ragionar teco et disputare così sottilmente come per aventura farei tra philosophi et nelle schuole. Et sia per me, se così a te piace, amore et disidero quello stesso. Ma io sapere da te vorrei, poscia che tu questa notte detto m’hai che amore può essere et buono et reo, secondo la qualità de gli obbietti et il fine che gli è dato, perché è che gli amanti alle volte s’appigliano ad obbietti malvagi et cattivi. Non è egli per ciò, che essi nello amare più il senso seguono che la ragione?’’. "Non per altro, che io mi creda, ’‘risposi "Padre, che per cotesto’’. "Ora se io ti dimanderò allo ’ncontro’’ seguitò il santo huomo "perché aviene che gli amanti etiandio s’invogliano de gli obbietti convenevoli et sani, non mi risponderai tu eiò avenire per questo, che essi, amando, quello che la ragione detta loro più seguono, che quello che il senso pon loro innanzi?’’. "Così vi risponderò, ’‘dissi io "et non altramente’’. "È adunque’’ diss’egli "ne gli huomini il seguir la ragione più che il senso, buono, et allo ’ncontro il seguire il senso più che la ragione, reo’’. "È’’ dissi io "senza fallo alcuno’’. "Hora mi di’, ’‘ riprese egli "che cagione fa che ne gli huomini seguire il senso più che la ragione sia reo?’’. "Fallo’’ risposi "ciò, che essi la cosa migliore abandonano, che è la ragione, et essa lasciano, che appunto è la loro, là dove alla men buona s’appigliano, che è il senso, et esso seguono, che non è il loro’’. "Che la ragione miglior cosa non sia che il senso, io’’ diss’egli "non ti niego, ma come di’ tu che il senso non è il loro? non è egli de gli huomini il sentire? ’‘. "A quello che io avedere me ne possa, Padre, voi hora mi tentate, ’‘ risposi "ma io nondimeno v’ubidirò’’; et dissi: "Sì come nelle scale sono gradi, de’ quali il primiero et più basso niuno n’ha sotto sé, ma il secondo ha il primo et il terzo ha l’uno et l’altro et il quarto tutti e tre, così nelle cose che Dio create ha infino alla spetie de gli huomini, dalla più vile incominciando, essere si vede avenuto. Perciò che sono alcune che altro che l’essere semplice non hanno, sì come sono le pietre et questo morto legno, che noi hora sedendo premiamo. Altre hanno l’essere et il vivere, sì come sono tutte le herbe, tutte le piante. Altre hanno l’essere et la vita et il senso, sì come hanno le fiere. Altre poi sono, che hanno l’essere et la vita et il senso et la ragione, et questi siam noi. Ma perciò che quella cosa più si dice esser di ciascuno, che altri meno ha, come che l’essere et il vivere sieno parimente delle piante, non si dice tuttavia se non che il vivere è il loro, perciò che l’essere delle pietre è et di molte altre cose parimente, delle quali non è poi la vita. Et quantunque l’essere et il vivere et il sentire sieno delle fiere, come io dissi, medesimamente ciascuno, non pertanto il sentire solamente si dice essere il loro, perciò che il vivere ess[e] hanno in comune con le piante et l’essere hanno in comune con le piante et con le pietre, delle quali non è il sentire. Simigliantemente perché l’essere et il vivere et il senso et la ragione sieno in noi, dire per questo non si può che l’essere sia il nostro o il vivere o il sentire, che sono dalle tre maniere, che io dico, havute medesimamente et non pur da noi, ma dicesi che è la ragione, di cui le tre guise delle create cose sotto noi non hanno parte’’. "Se così è, ’‘ disse allhora il santo huomo "che la ragione sia de gli huomini et il senso delle fiere, perciò che dubbio non è che la ragione più perfetta cosa non sia che il senso, quelli che amando la ragione seguono, ne’ loro amori la cosa più perfetta seguendo, fanno in tanto come huomini, et quelli che seguono il senso, dietro alla meno perfetta mettendosi, fanno come fiere’’. "Così non fosse egli da questo canto, ’‘ risposi io "Padre, vero cotesto che voi dite, come egli è’’. "Adunque possiamo noi la miglior parte nello amare abandonando,’’ diss’egli "che è la nostra, alla men buona appigliarci, che è l’altrui?’’. "Possiamo’’ rispos’io "per certo’’. "Ma perché è’’ diss’egli "che noi questo possiamo? ’‘. "Perciò che la nostra volontà, ’‘ risposi "con la quale ciò si fa o non fa, è libera et di nostro arbitrio, come io dissi, et non stretta o, più a questo che a quello seguire, necessitata’’. "Ora le fiere’’ seguitò egli "possono elleno ciò altresì fare, che la miglior parte et quella che è la loro abandonino et a dietro lascino giamai? ’‘. "Io direi che esse abandonare non la possono, ’‘ risposi "se non sono da istrano accidente violentate. Perciò che ad esse volontà libera non è data, ma solo appetito, il quale, dalla forma delle cose istrane con lo strumento delle sentimenta invitato, sempre dietro al senso si gira. Perciò che il cavallo, quandunque volta a bere ne lo ’nvita il gusto, veduta l’acqua, egli vi va et a bere si china, dove, la briglia ritrahendo, non gliele vieti colui che gli è sopra’’.


XV

 

             "Quanto vorrei che tu altramente m’havessi potuto rispondere, Lavinello’’ disse il santo huomo. "Perciò che, se noi possiamo ne’ nostri amori, alla men buona parte appigliandoci, la migliore abandonare, et le fiere non possono, esse non operando come piante et noi operando come fiere, piggior conditione pare che sia in questo la nostra, figliuolo, a quello che ne segue, che non pare la loro; et questa nostra volontà libera, che tu di’, a nostro male ci sarà suta data, se questo è vero. Et potrassi credere che la natura, quasi pentita d’havere tanti gradi posti nella scala delle spetie, che tu di’, poscia che ella ci hebbe creati col vantaggio della ragione, più ritorre non la ne potendo, questa libertà ci habbia data dell’arbitrio, a·ffine che in questa maniera noi medesimi la ci togliessimo, del nostro scaglione volontariamente a quello delle fiere scendendo; a guisa di Phebo, il quale, poscia che hebbe alla troiana Cassandra l’arte dell’indovinare donata, pentitosi et quello che fatto era frastornare non si possendo, le diede che ella non fosse creduta. Ma tu per aventura che ne stimi? parti egli che così sia? ’‘. "Io, Padre, quello che me ne paia o non paia, non so dire, ’‘ risposi "se io non dico che tanto a me ne pare, quanto pare a voi. Ma pure volete voi che io creda che la natura si possa pentere, che non può errare? ’‘. "Mai no, che io non voglio che tu il creda’’ disse il santo huomo. "Ben voglio che tu consideri, figliuolo, che la natura, la quale nel vero errar non può, non havrebbe alla nostra volontà dato il potere, dietro al senso sviandoci, farci scendere alla spetie che sotto noi è, se ella dato medesimamente non l’havesse il potere, dietro alla ragione inviandoci, a quella farci salire che c’è sopra. Perciò che ella sarebbe stata ingiusta, havendo nelle cose, da sé in uso et in sosten tamento di noi create, posta necessità di sempre in quelli privilegi servarsi, che ella concessi ha loro; a noi, che signori ne siamo et a’ quali esse tutte servono, havere dato arbitrio d’arrischiare il capitale da·llei donatoci sempre in perdita, ma in guadagno non mai. Né è da credere che alle tante et così possenti maniere d’allettevoli vaghezze, che le nostre sentimenta porgono all’animo in ogni stato in ogni tempo in ogni luogo, perché noi dietro all’appetito avallandoci sozze fiere diveniamo, ella ci habbia concesso libero et agevole inchinamento; et a quelle che lo ’ntelletto ci mette innanzi, a·ffine che noi con la ragione inalzandoci diveniamo Idij, ella il poter poggiare ci habbia tolto et negato. Perciò che, o Lavinello, che pensi tu che sia questo eterno specchio dimostrantesi a gli occhi nostri, così uno sempre, così certo, così infaticabile, così luminoso, del sole, che tu miri? et quell’altro della sorella, ehe uno medesimo non è mai? et gli tanti splendori che da ogni parte si veggono di questa circonferenza che intorno ci si gira, hora queste sue bellezze hora quelle altre scoprendoci, santissima, capacissima, maravigliosa? Elle non sono altro, figliuolo, che vaghezze di Colui che è di loro et d’ogni altra cosa dispensatore et maestro, le quali egli ci manda incontro a guisa di messaggi, invitantici ad amar lui. Perciò che dicono i savi huomini che, perciò che noi di corpo et d’animo constiamo, il corpo, sì come quello che d’acqua et di fuoco et di terra et d’aria è mescolato, discordante et caduco da’ nostri genitori prendiamo, ma l’animo esso ci dà purissimo et immortale et di ritornare a·llui vago, che ce l’ha dato. Ma perciò che egli in questa prigione delle membra rinchiuso più anni sta, che egli lume non vede alcuno, mentre che noi fanciulli dimoriamo, et poscia, dalla turba delle giovenili voglie ingombrato, ne’ terrestri amori perdendosi può del divino dimenticarsi, esso in questa guisa il richiama, il sole ogni giorno, le stelle ogni notte, la luna vicendevolmente dimostrandoci. Il quale dimostramento che altro è, se non una eterna voce che ci sgrida: "O stolti, che vaneggiate? Voi ciechi, d’intorno a quelle vostre false bellezze oc cupatl, a guisa di Narciso vi pascete di vano disio, et non v’accorgete che elle sono ombre della vera, che voi abandonate. I vostri animi sono eterni: perché di fuggevole vaghezza gl’innebbriate? Mirate noi, come belle creature ci siamo, et pensate quanto dee esser bello Colui, di cui noi siam ministre".


XVI

 

             Et senza dubbio, figliuolo, se tu, il velo della mondana caliggine dinanzi a gli occhi levandoti, vorrai la verità sanamente considerare, vedrai alla fine altro che stolto vaneggiamento non essere tutti i vostri più lodati disij. Che per tacere di quegli amori, i quali di quanta miseria sien pieni li perottiniani amanti et Perottino medesimo essere ce ne possono abondevole essempio, che fermezza, che interezza, che sodisfattione hanno perciò quegli altri anchora, che essi cotanto cercar si debbano et pregiare, quanto Gismondo ne ha ragionato? Senza fallo tutte queste vaghezze mortali che pascono i nostri animi, vedendo, ascoltando et per l’altre sentimenta valicando et mille volte col pensiero entrando et rientrando per loro, né come esse giovino so io vedere, quando elle a poco a poco in maniera di noi s’indonnano, co’ loro piaceri pigliandoci, che poi ad altro non pensiamo, et gli occhi alle vili cose inchinati, con noi medesimi non ci raffrontiamo giamai, et infine, sì come se il beveraggio della maliosa Circe preso havessimo, d’huomini ci cangiamo in fiere; né in che guisa esse così pienamente dilettino so io considerare: pogniamo anchora che falso diletto non sia il loro, quando elle sì compiute essere in suggietto alcuno non si vedono, né vedranno mai, che esse da ogni parte sodisfacciano chi le riceve, et pochissime sono le più che comportevolmente non peccanti. Senza che esse tutte ad ogni brieve caldicciuolo s’ascondono di picciola febbre che ci assaglia, o almeno gli anni vegnenti le portan via, seco le giovanezza, la bellezza, la piacevolezza, i vaghi portamenti, i dolci ragionamenti, i canti, i suoni, le danze, i conviti, i giuochi et gli altri piaceri amorosi trahendo. Il che non può non essere di tormento a coloro che ne son vaghi, et tanto anchor più, quanto più essi a que’ diletti si sono lasciati prendere et incapestrare. A’ quali se la vecchiezza non toglie questi disij, quale più misera disconvenevolezza può essere che la vecchia età di fanciulle voglie contaminare, et nelle membra tremanti et deboli affettare i giovenili pensieri? Se gli toglie, quale sciocchezza è amar giovani così accesamente cose, che poi amare quelli medesimi non possono attempati? et credere che sopra tutto et giovevole et dilettevole sia quello, che nella miglior parte della vita né diletta né giova? Ché miglior parte della vita nostra è per certo quel la, figliuolo, in cui la parte di noi migliore, che è l’animo, dal servaggio de gli appetiti liberata, regge la men buona temperatamente, che è il corpo, et la ragione guida il senso, il quale dal caldo della giovanezza portato non l’ascolta, qua et là dove esso vuole scapestratamente traboccando. Di che io ti posso ampissima testimonianza dare, che giovane sono stato altresì, come tu hora sei; et quando alle cose, che io in quegli anni più lodar solea et disiderare, torno con l’animo ripensando, quello hora di tutte me ne pare, che ad un bene risanato infermo soglia parere delle voglie che esso nel mezzo delle febbri havea, che schernendosene conosce di quanto egli era dal convenevole conoscimento et gusto lontano. Per la qual cosa dire si può che sanità della nostra vita sia la vecchiezza et la giovanezza infermità; il che tu, quando a quegli anni giugnerai, vederai così esser vero, se forse hora veder no ’l puoi.


XVII

 

             Ma tornando al tuo compagno, che ha le molte feste de’ suoi amanti cotanto sopra ’l cielo tolte ne’ suoi ragionamenti, lasciamo stare che le minori di loro asseguire non si possano senza mille noie tuttavia, ma quando è che egli, nel mezzo delle sue più compiute gioie, non sospiri alcun’altra cosa più che prima disiderando? o quando aviene che quel la conformità delle voglie, quella comunanza de’ pensieri, della fortuna, quella concordia di tutta una vita in due amanti si trovi, quando si vede niuno essere che ogni giorno seco stesso alle volte non si discordi, et talhora in maniera che, se uno lasciare se medesimo potesse, come due pos sono l’uno l’altro, molti sono che si lascierebbono et un altro animo si piglierebbono et un altro corpo? Et per venire, Lavinello, etiandio a’ tuoi amori, io di certo gli loderei et passerei nella tua openione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi, et non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare et meno fallibile intesi. Perciò che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio; et la vera bellezza non è humana et mortale, che mancar possa, ma è divina et immortale, alla qual pel aventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle da noi sieno in quella maniera, che esser debbono, riguardate. Hora che si può dire in loro loda per ciò, che pure sopra il convenevole non sia? con ciò sia cosa che, del loro allettamento presi, si lascia il vivere in questa humana vita come Idij. Perciò che Idij sono quegli huomini, figliuolo, che le cose mortali sprezzano come divini et alle divine aspirano come mortali, che consigliano, che discorrono, che prevedono, che hanno alla sempiternità pensamento, che muovono et reggono et temprano il corpo, che è loro in governo dato, come de gli dati nel loro fanno et dispongono gli altri Idij. O pure che bellezza può tra noi questa tua essere, così piacevole et così piena, che proportion di parti, che in humano ricevimento si trovino, che convenenza, che harmonia, che ella empiere giamai possa et compiere alla nostra vera sodisfattione et appagamento? O Lavinello, Lavinello, non sei tu quello che cotesta forma ti dimostra, né sono gli altri huomini ciò che di fuori appare di loro altresì. Ma è l’animo di ciascuno quello che egli è, et non la figura, che col dito si può mostrare. Né sono i nostri animi di qualità, che essi con alcuna bellezza, che qua giù sia, conformare si possano et di lei appagarsi giamai. Che quando bene tu al tuo animo quante ne sono potessi por davanti et la scielta concedergli di tutte loro et riformare a tuo modo quelle, che in alcuna parte ti paressero mancanti, non lo appagheresti perciò, né men tristo ti partiresti da’ piaceri che havessi di tutte presi, che da quegli ti soglia partire che prendi hora. Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare. Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina eterna bellezza prende qualità et stato, quando di queste alcuna ne vien loro innanzi, bene piacciono esse loro et volentieri le mirano, in quanto di quella sono imagini et lumicini, ma non se ne contentano né se ne sodisfanno tuttavia, pure della eterna et divina, di cui esse sovengono loro et che a cercar di se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola, disiderosi et vaghi. Per che sì come quando alcuno, in voglia di mangiare preso dal sonno et di mangiar sognandosi, non si satolla, perciò che non è dal senso, che cerca di pascersi, la imagine del cibo voluta, ma il cibo, così noi, mentre la vera bellezza et il vero piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre, che in queste bellezze corporali terrene et in questi piaceri ci si dimostrano, aggogniando, non pasciamo l’animo, ma lo inganniamo. La qual cosa è da vedere che per noi non si faccia, acciò che con noi il nostro buon guardiano non s’adiri et in balìa ci lasci del malvagio, veggendo che per noi più amore ad una poca buccia d’un volto si porta et a queste misere et manchevoli et bugiarde vaghezze, che a quello immenso splendore, del quale questo sole è raggio, et alle sue vere et felici et sempiterne bellezze non portiamo. Et se pure questo nostro vivere è un dormire, sì come coloro i quali a gran notte addormentati con pensiero di levarsi la dimane per tempo et dal sonno sopratenuti si sognano di destarsi et di levarsi, per che tuttavia dormendo si levano et presa la guarnaccia s’incomiciano a vestire, così noi, non delle imagini et sembianze del cibo et di questi aombrati diletti et vani, ma del cibo istesso et di quella ferma et soda et pura contentezza nel sonno medesimo procacciamo et a pascere incominciancene così sogniando, acciò che poi, risvegliati, alla Reina delle Fortunate isole piacciamo. Ma tu forse di questa Reina altra volta non hai udito’’. "Non, Padre, ’‘ diss’io "che me ne paia ricordare, né intendo di qual piacimento vi parliate’’. "Dunque l’udirai tu hora’’ disse il santo huomo, et seguitò:


XVIII

 

             "Hanno tra le loro più secrete memorie gli antichi maestri delle sante cose, essere una Reina in quelle isole, che io dico, Fortunate, bellissima et di maraviglioso aspetto et ornata di cari et pretiosi vestiri et sempre giovane. La qual marito non vuole già et servasi vergine tutto tempo, ma bene d’essere amata et vagheggiata si contenta. Et a quegli che più l’amano ella maggior guiderdone dà de’ loro amori, et convenevole, secondo la loro affettione, a gli altri. Ma ella di tutti in questa guisa ne fa pruova. Perciò che venuto che ciascuno l’è davanti, che è secondo che essi sono da·llei fatti chiamare hor uno hor altro, essa, con una verghetta toccatigli, ne gli manda via. Et questi, incontanente che del palagio della Reina sono usciti, s’addormentano, et così dormono infino a·ttanto che essa gli fa risvegliare. Ritornano adunque costoro davanti la Reina un’altra volta risvegliati, et i sogni che hanno fatti dormendo porta ciascuno scritti nella fronte tali, quali fatti gli hanno, né più né meno, i quali essa legge prestamente. Et coloro i cui sogni ella vede essere stati solamente di cacciagioni, di pescagioni, di cavagli, di selve, di fiere, essa da sé gli scaccia et mandagli a stare così vegghiando tra quelle fiere, con le quali essi dormendo si sono di star sognati, perciò che dice che, se essi amata l’havessero, essi almeno di lei si sarebbono sognati qualche volta, il che poscia che essi non hanno fatto giamai, vuole che vadano et sì si vivano con le lor fiere. Quegli altri poi a’ quali è paruto ne’ loro sogni di mercatantare o di governare le famiglie et le comunanze o di fare somiglianti cose, tuttavvia poco della Reina ricordandosi, essa gli fa essere altresì quale mercatante, quale cittadino, quale anziano nelle sue città, di cure et di pensieri gravandogli et poco di loro curandosi parimente. Ma quelli che si sono sognati con lei, essa gli tiene nella sua corte a stare et a ragionar seco tra suoni et canti et sollazzi d’infinito contento, chi più presso di sé et chi meno, secondo che essi con lei sognando più o meno si sono dimorati ciascuno. Ma io per aventura, Lavinello, hoggimai troppo lungamente ti dimoro, il quale più voglia dei havere o forse mestiero di ritornarti alla tua compagnia, che di più udirmi. Senza che oltre a·cciò a te gravoso potrà essere lo indugiare a più alto sole la partita, che hoggimai tutto il cielo ha riscaldato et vassi tuttavia rinforzando’’. "A me voglia né mestiero fa punto che sia, Padre,’’ diss’io "anchora di ritornarmi, et dove a voi noioso non sia il ragionare, sicuramente niuna cosa mi ricorda che io facessi giamai così volentieri, come hora volentieri v’ascolto. Né di sole che sormonti vi pigliate pensiero, poscia che io altro che a scendere non ho, il che ad ogni hora far si può agevolmente’’. "Noioso a gli antichi huomini non suole già essere il ragionare,’’ disse il buon vecchio "che è più tosto un diporto della vecchiezza che altro. Né a me può noiosa esser cosa che di piacere ti sia. Per che seguasi’’. Et così seguendo, disse:


XIX

 

             "Dirai adunque a Perottino et Gismondo, figliuolo, che se essi non vogliono essere tra le fiere mandati a vegghiare, quando essi si risveglieranno, essi miglior sogno si procaccino di fare, che quello non è, che essi hora fanno. Et tu, Lavinello, credi che non sarai perciò caro alla Reina, che io dico, poscia che tu poco di lei sognandoti, tra questi tuoi vaneggiamenti consumi più tosto senza pro, che tu in alcuna vera utilità di te usi et spenda, il dormire che t’è dato. Et infine sappi che buono amore non è il tuo. Il quale, posto che non sia malvagio in ciò, che con le bestievoli voglie non si mescola, sì è egli non buono in questo, che egli ad immortale obbietto non ti tira, ma tienti nel mezzo dell’una et dell’altra qualità di disio, dove il dimorare tuttavia non è sano, con ciò sia cosa che nel pendente delle rive stando, più agevolmente nel fondo si sdrucciola, che alla vetta non si sale. Et chi è colui che a’ piaceri d’alcun senso dando fede, per molto che egli si proponga di non inchinare alle ree cose, egli non sia almeno alle volte per inganno preso, considerando che pieno d’inganni è il senso, il quale una medesima cosa quando ci fa parer buona, quando malvagia, quando bella, quando sozza, quando piacevole, quando dispettosa? Senza che come può essere alcun disio buono, che ponga ne’ diletti delle sentimenta quasi nell’acqua il suo fondamento, quando si vede che essi havuti inviliscono, et tormentano non havuti, et tutti sono brevissimi et di fugitivo momento? Né fanno le belle et segnate parole, che da cotali amanti sopra ciò si dicono, che pure così non sia. I qua’ diletti tuttavolta, se il pensiero fa continui, quanto sarebbe men male che noi la mente non havessimo celeste et immortale, che non è, havendola, di terreno pensiero ingombrarla et quasi sepellirla? Ella data non ci fu, perché noi l’andassimo di mortal veleno pascendo, ma di quella salutevole ambrosia, il cui sapore mai non tormenta, mai non invilisce, sempre è piacevole, sempre caro. Et questo altramente non si fa, che a quello dio i nostri animi rivolgendo, che ce gli ha dati. Il che farai tu, figliuolo, se me udirai; et penserai che esso tutto questo sacro tempio, che noi mondo chiamiamo, di sé empiendolo, ha fabricato con maraviglioso consiglio ritondo et in se stesso ritornante et di se medesimo bisognoso et ripieno; et cinselo di molti cieli di purissima sustanza sempre in giro moventisi et allo ’ncontro del maggiore tutti gli altri, ad uno de’ quali diede le molte stelle, che da ogni parte lucessero, et a quelli, di cui esso è contenitore, una n’assegnò per ciascuno, et tutte volle che il loro lume da quello splendore pigliassero, che è reggitore de’ loro corsi, facitore del dì et della notte, apportatore del tempo, generatore et moderatore di tutte le nascenti cose. Et questi lumi fece che s’andassero per li loro cerchi ravolgendo con certo et ordinato giro, et il loro assegnato camino fornissero et fornito rincominciassero, quale in più brieve tempo et quale in meno. Et sotto questi tutti diede al più puro elemento luogo et appresso empié d’aria tutto ciò che è infino a noi. Et nel mezzo, sì come nella più infima parte, fermò la terra, quasi aiuola di questo tempio; et d’intorno a llei sparse le acque, elemento assai men grave che essa non è, ma vie più grave dell’aria, di cui è poscia il fuoco più leggiero. Quivi diletto ti sarà estimare in che maniera per queste quattro parti le quattro guise della loro qualità si vadano mescolando, et come esse in un tempo et accordanti sieno et discordanti tra loro; mirare gli aspetti della mutabile luna; riguardare alle fatiche del sole; scorgere gli altri giri dell’erranti stelle et di quelle che non sono così erranti et, di tutti le cagioni, le operagioni considerando, portar l’animo per lo cielo et, quasi con la natura parlando, conoscere quanto brieve et poco è quello che noi qui amiamo, quando il più lungo spatio di questa nostra vita mortale due giorni appena non sono d’uno de’ veri anni di questi cieli et quando la minore delle conosciute stelle di quel tanto et così infinito numero è di tutta questa soda et ritonda circunferenza, che terra è detta, maggiore, per cui noi cotanto c’insuperbiamo, della quale anchora quello che noi habitiamo è, a rispetto dell’altro, stretta et menomissima particiuola. Senza che qua ogni cosa v’è debole et inferma: venti, piogge, ghiacci, nevi, freddi, caldi vi sono, et febbri et fianchi et stomachi et gli altri cotanti morbi, i quali nel votamento del buon vaso, male per noi dall’antica Pandora scoperchiato, ci assalirono; dove là ogni cosa v’è sana et stabile et di convenevole perfettion piena, ché né morte v’è né aggiugne, né vecchiezza vi perviene, né difetto alcuno v’ha luogo.


XX

 

             Ma vie maggior diletto ti sarà et più senza fine maraviglioso, se tu da questi cieli che si veggono a quelli che non si veggono passerai, et le vere cose che ivi sono contempierai, d’uno ad altro sormontando, et in questo modo a quella bellezza, che sopra essi et sopra ogni bellezza è, inalzerai, Lavinello, i tuoi disij. Perciò che certa cosa è tra coloro, che usati sono di mirare non meno con gli occhi dell’animo che del corpo, oltra questo sensibile et material mondo, di cui et io hora t’ho ragionato et ciascuno ne ragiona più spesso, perciò che si mira, essere un altro mondo anchora né materiale né sensibile, ma fuori d’ogni maniera di questo separato et puro, che intorno il sopragira et che è da·llui cercato sempre et sempre ritrovato parimente, diviso da esso tutto, et tutto in ciascuna sua parte dimorante, divinissimo, intendentissimo, illuminatissimo et esso stesso di se stesso et migliore et maggiore tanto più, quanto egli più si fa alla sua cagione ultima prossimano; nel qual cielo bene ha etiandio tutto quello che ha in questo, ma tanto sono quelle cose di più eccellente stato, che non son queste, quanto tra queste sono le celesti a miglior conditione, che le terrene. Perciò che ha esso la sua terra, come si vede questo havere, che verdeggia, che manda fuori sue piante, che sostiene suoi animali; ha il mare, che per lei si mescola; ha l’aria, che li cigne; ha il fuoco; ha la luna; ha il sole; ha le stelle; ha gli altri cieli. Ma quivi né seccano le herbe, né invecchiano le piante, né muoiono gli animali, né si turba il mare, né s’oscura l’aere, né riarde il fuoco, né sono a continui rivolgimenti i suoi lumi necessitati o i suoi cieli. Non ha quel mondo d’alcun mutamento mestiero, perciò che né state, né verno, né hieri, né dimane, né vicinanza, né lontananza, né ampiezza, né strettezza lo circonscrive, ma del suo stato si contenta, sì come quello che è della somma et per se stessa bastevole felicità pieno; della quale gravido egli partorisce, et il suo parto è questo mondo medesimo che tu miri. Fuori del quale, se per aventura non ci pare che altro possa essere, a noi adivien quello che adiverrebbe ad uno, il quale, ne’ cupi fondi del mare nato et cresciuto, quivi sempre dimorato si fosse, perciò che egli non potrebbe da sé istimare che sopra l’acque v’havesse altre cose, né crederebbe che frondi più belle che alga, o campi più vaghi che di rena, o fiere più gaie che pesci, o habitationi d’altra maniera che di cavernose pietre, o altre elementa che terra et acqua fossero et vedessersi in alcun luogo. Ma se esso a noi passasse et al nostro cielo, veduto de’ prati et delle selve et de’ colli la dipintissima verdura et la varietà de gli animali, quali per nodrirci et quali per agevolarci nati, veduto le città, le case, i templi che vi sono, le molte arti, la maniera del vivere, la purità dell’aria, la chiarezza del sole, che spargendo la sua luce per lo cielo fa il giorno, et gli splendori della notte, che nella sua oscura ombra et dipinta la rendono et meravigliosa, et le altre così diverse vaghezze del mondo et così infinite, esso s’avedrebbe quanto egli falsamente credea et non vorrebbe per niente alla sua primiera vita ritornare. Così noi miseri, d’intorno a questa bassa et fecciosa palla di terra mandati a vivere, bene miriamo l’aere et gli uccelli che ’l volano con quella maraviglia medesima, con la quale colui farebbe il mare et i pesci che lo natano parimente, et per le bellezze etiandio discorriamo di questi cieli che in parte vediamo; ma che oltre a questi altre cose sieno vie più da dovere a noi essere, che le nostre a quel marino huomo non sarebbono, et maravigliose et care, o in che modo ciò sia, nella nostra povera stimativa non cape. Ma se alcuno Idio vi eci portasse, Lavinello, et mostrasseleci, quelle cose solamente vere cose ci parrebbono, et la vita, che ivi si vivesse, vera vita, et tutto ciò che qui è, ombra et imagine di loro essere et non altro; et giù in queste tenebre riguardando da quel sereno, gli altri huomini, che qui fossero, chiameremmo noi miseri et di loro ci prenderebbe pietà, non che noi più a così fatto vivere tornassimo di nostra volontà giamai.


XXI

 

             Ma che ti posso io, Lavinello, qui dire? Tu sei giovane et, non so come, quasi per lo continuo pare che nella giovanezza non appiglino questi pensieri o, se appigliano, sì come pianta in aduggiato terreno essi poco allignano le più volte. Ma se pure nel tuo giovane animo utilmente andassero innanzi, dove tu al fosco lume di due occhi, pieni già di morte, qua giù t’invaghi, che si può istimare che tu a gli splendori di quelle eterne bellezze facessi, così vere, così pure, così gentili? Et se la voce d’una lingua, la quale poco avanti non sapea fare altro che piagnere et di qui a poco starà muta sempre, ti suole essere dilettevole et cara, quanto si dee credere che ti sarebbe caro il ragionare et l’harmonia che fanno i chori delle divine cose tra loro? Et quando, a gli atti d’una semplice donnicciuola, che qui empie il numero dell’altre, ripensando, prendi et ricevi sodisfaccimento, quale sodisfaccimento pensi tu che riceverebbe il tuo animo, se egli da queste caliggini col pensiero levandosi et puro et innocente a quelli candori passando, le grandi opere del Signore, che là su regge, mirasse et rimirasse intentamente et ad esso con casto affetto offeresse i suoi disij? O figliuolo, questo piacere è tanto, quanto comprendere non si può da chi no ’l pruova, et provar non si può, mentre di quest’altri si fa caso. Perciò che con occhi di talpa, sì come i nostri animi sono di queste voglie fasciati, non si può sofferire il sole. Quantunque anchora con purissimo animo compiutamente non vi s’aggiugne. Ma, sì come quando alcuno strano passando dinanzi al palagio d’un re, come che egli no ’l veda, né altramente sappia che egli re sia, pensa fra se stesso quello dovere essere grande huomo che quivi sta, veggendo pieno di sergenti ciò che v’è, et tanto maggiore anchora lo stima, quanto egli vede essere quegli medesimi sergenti più horrevoli et più ornati, così tutto che noi quel gran Signore con veruno occhio non vediamo, pure possiam dire che egli gran Signore dee essere, poscia che ad esso gli elementi tutti et tutti i cieli servono et sono della sua maestà fanti. Per che gran senno faranno i tuoi compagni, se essi questo Prence corteggieranno per lo innanzi, sì come essi fatto hanno le loro donne per lo adietro, et ricordandosi che essi sono in un tempio, ad adorare hoggimai si disporranno, ché vaneggiato hanno eglino assai, et, il falso et terrestre et mortale amore spogliandosi, si vestiranno il vero et celeste et immortale: et tu, se ciò farai, altresì. Perciò che ogni bene sta con questo disio et da·llui ogni male è lontano. Quivi non sono emulationi, quivi non sono sospetti, quivi non sono gielosie, con ciò sia cosa che quello che s’ama, per molti che lo a[min]o, non si toglie che altri molti non lo possano amare et insieme goderne, non altramente che se un solo amandolo ne godesse. Perciò che quella infinita deità tutti ci può di sé contentare, et essa tuttavia quella medesima riman sempre. Quivi a niuno si cerca inganno, a niuno si fa ingiuria, a niuno si rompe fede. Nulla fuori del convenevole né si procaccia, né si conciede, né si disidera. Et al corpo quello che è bastevole si dà, quasi un’offa a Cerbero, perché non latri, et all’animo quello che più è lui richiesto si mette innanzi. Né ad alcuno s’interdice il cercar di quello che egli ama, né ad alcun si toglie il potere a quel diletto aggiugnere, a cui egli amando s’invia. Né per acqua, né per terra vi si va; né muro, né tetto si sale. Né d’armati fa bisogno, né di scorta, né di messaggiero. Idio è tutto quello, che ciascun vede, che il disidera. Non ire, non scorni, non pentimenti, non mutationi, non false allegrezze, non vane speranze, non dolori, non paure v’hanno luogo. Né la fortuna v’ha potere, né il caso. Tutto di sicurezza, tutto di contentezza, tutto di tranquillità, tutto di felicità v’è pieno.


XXII

 

             Et queste cose di qua giù, che gli altri huomini cotanto amano, per lo asseguimento delle quali si vede andare così spesso tutto ’l mondo sottosopra et i fiumi stessi correre rossi d’humano sangue et il mare medesimo alcuna fiata, il che questo nostro misero secolo ha veduto molte volte et hora vede tuttavia, gl’imperij dico et le corone et le signorie, esse non si cercano per chi là su ama più di quello che si cerchi, da chi può in gran sete l’acqua d’un puro fonte havere, quella d’un torbido et paludoso rigagno. Là dove allo ’ncontro la povertà, gli esilij, le presure se sopravengono, il che tutto dì vede avenire chi ci vive, esso con ridente volto riceve, ricordandosi che, quale panno cuopra o quale terra sostenga o qual muro chiuda questo corpo, non è da curare, pure che all’animo la sua ricchezza, la sua patria, la sua libertà, per poco amore che egli loro porti, non sia negata. Et in brieve, né esso [a]i dolci stati con soverchio diletto si fa incontro, né dispettosamente rifiuta il vivere ne gli amari; ma sta nell’una et nell’altra maniera temperato tanto tempo, quanto al Signor, che l’ha qui mandato, piace che egli ci stia. Et dove gli altri amanti et vivendo sempre temono del morire, sì come di cosa di tutte le feste loro discipatrice, et, poscia che a quel varco giunti sono, il passano sforzatamente et maninconosi, egli, quando v’è chiamato, lieto et volentieri vi va et pargli uscire d’un misero et lamentoso albergo alla sua lieta et festevole casa. Et di vero che altro si può dire questa vita, la quale più tosto morte è, che noi qui peregrinando viviamo, a tante noie, che ci assalgono da ogni parte così spesso, a tante dipartenze, che si fanno ogni giorno dalle cose che più amiamo, a tante morti, che si vedono di coloro dì per dì che ci sono per aventura più cari, a tante altre cose, che ad ogni hora nuova cagione ci recano di dolerci, et quelle più molte volte, che noi più di festa et più di sollazzo doverci essere riputavamo? Il che quanto in te si faccia vero, tu il sai. A me certo pare mill’anni che io, dallo invoglio delle membra sviluppandomi et di questo carcere volando fuora, possa, da così fallace albergo partendomi, là onde io mi mossi ritornare et, aperti quegli occhi che in questo camino si chiudono, mirar con essi quella ineffabile bellezza, di cui sono amante, sua dolce mercé, già buon tempo; et hora, perché io vecchio sia, come tu mi vedi, ella non m’ha perciò meno che in altra età caro, né mi rifiuterà perché io di così grosso panno vestito le vada innanzi. Quantunque né io con questo panno v’andrò, né tu con quello v’andrai, né altro di questi luoghi si porta alcun seco dipartendosi che i suoi amori. I quali se sono di queste bellezze stati, che qua giù sono, perciò che elle colà su non salgono, ma rimangono alla terra di cui elle sono figliuole, elle ci tormentano, sì come hora ci sogliono quelli disij tormentare, de’ quali godere non si può né molto né poco. Se sono di quelle di là su stati, essi maravigliosamente ci trastullano, poscia che ad esse pervenuti pienamente ne godiamo. Ma perciò che quella dimora è sempiterna, si dee credere, Lavinello, che buono amore sia quello, del quale goder si può eternamente, et reo quell’altro, che eternamente ci condanna a dolere’’. Queste cose ragionatemi dal santo huomo, perciò che tempo era che io mi dipartissi, egli a me rimise il venirmene.

             Il che poscia che hebbe detto Lavinello, a’ suoi ragionamenti pose fine.



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