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Luigi Da Porto (1485-1529)

STORIA

DI

 GIULIETTA E ROMEO

CON LA LORO PIETOSA MORTE

 Avvenuta già in Verona

 NEL TEMPO

 

DEL SIG. BARTOLOMMEO DELLA SCALA

 

SCRITTA

 

DA LUIGI DA PORTO

 

MILANO

 

PER GASPARE TRUFFI

 

1831

 ....................................................................

 

L’EDITORE

 

A CHI LEGGE

 

 

Di questa celebratissima novella di LUIGI DA PORTO, si sono fatte, forse per la tenuità del volume, così a parte, assai poche edizioni, e quelle poche nè per eleganza, nè per esattezza, degne troppo d’un componimento così gentile. Ora vedendo io come a’ dì nostri la dolorosa istoria dei due Amanti Veronesi forma il subbietto d’altre novelle e in versi e in prosa, e di teatrali trattenimenti, mi sono accinto alla presente ristampa, la quale, se non al tutto elegante come alcuni avrebbero desiderato, questo non concedendomi il prezzo mitissimo a cui ho voluto venderla per accomodarne ogni specie di lettori, sarà nondimeno, siccome io spero, purgata da tutte le false e scorrette lezioni che bruttavano le precedenti edizioni. Dall’accoglimento che verrà fatto dal Pubblico a questa novella vedrò s’io deggia pigliar animo a procacciargli co’ miei tipi altre, non men di questa, innocenti e dilettevoli letture.


 

PROLOGO

  

Siccome voi stessa vedeste, mentre il cielo verso me in tutto ogni suo sdegno rivolto non ebbe nel bel principio di mia giovinezza, al mestier dell’armi mi diedi; ed in quello molti grandi e generosi uomini seguendo, nella dilettevole vostra patria del Friuli alcun anno mi esercitai. Per la quale, secondo i casi, quando privatamente or quinci or quindi servendo, mi era bisogno di andare, aveva io per continuo uso, cavalcando, di menar meco un mio arciero, uomo di forse cinquant’anni, pratico nell’arte e piacevolissimo: e, come quasi tutti que’ di Verona (ove egli nacque) sono, parlante molto, e chiamato Peregrino.

Questi oltrechè animoso ed esperto soldato, fosse leggiadro, e forse più di quello, che agli anni suoi sì saria convenuto, innamorato sempre si ritrovava; il che al suo valore doppio valore aggiugneva, onde le più belle novelle, e con miglior ordine e grazia si dilettava di raccontare, e massimamente quelle, che d’amore parlavano, che alcun altro ch’io udissi giammai. Per la qual cosa partendo io da Gradisca, ove in alloggiamenti mi stava, e con costui e due altri miei, forse d’amore sospinto, verso Udine venendo, la quale strada molto solinga e tutta per la guerra arsa e distrutta in quel tempo era; e molto dal pensiero oppresso, e lontano dagli altri venendomi, accostatomisi il detto Peregrino, come quello che i miei pensieri indovinava, così mi disse: Volete voi sempre in trista vita vivere, perchè una bella crudele, altramente mostrando, poco vi ami? E benché contro a me spesso dica, pure perchè meglio si danno che non si ritengono i consigli, vi dirò, patron mio, che oltrechè a voi nell’esercizio che siete, lo star molto nella prigion d’Amore si disdica, sì tristi son quasi tutti i fini, a’ quali egli ci produce, ch’è uno picciolo il seguirlo. Ed in testimonianza di ciò, quando a voi piacesse, potrei una novella, nella mia città avvenuta; che la strada men solitaria, e men rincrescevole ci faria, raccontarvi; nella quale sentireste come due nobili amanti a misera e pietosa morte guidati fossero. E già avendo io fatto segno di udirlo volentieri, egli così cominciò:


 

NOVELLA

 

DI

 

GIULIETTA E ROMEO

 

 

Nel tempo che Bartolommeo dalla Scala, signore cortese ed umanissimo, il freno alla mia bella patria a sua posta e strigneva e rallentava, furono in lei, secondo che mio padre dicea aver udito, due nobilissime famiglie per contraria fazione, ovvero particolar odio; nemiche, l’una è Capelletti, l’altra è Montecchi nominata. Di una delle quali si estima certo esser questi, che in Udine dimorano, cioè messer Niccolò, e messer Giovanni, ora detti Monticoli di Verona, per istrano caso quinci venuti ad abitare, benchè poco altro di quel degli antichi seco abbiano in questo loco recato, fuori che la lor cortese gentilezza: e avvegnachè, in alcune vecchie cronache leggendo, abbia queste due famiglie trovato che unite una stessa parte sosteneano: nondimeno come io la udii, senza altrimenti mutarla, a voi la sporrò.

Furono adunque, come dico, in Verona sotto il già detto signore le sopraddette nobilissime famiglie di valorosi uomini, e di ricchezza ugualmente dal cielo, dalla natura, e dalla fortuna dotate. Tra le quali, come il più delle volte tra le gran case si vede, checchè la cagion si fosse, crudelissima nimistà regnava; per la qual già più uomini erano, così dall’una come dall’altra parte, morti; in guisa che sì per istanchezza, conforme spesso per questi casi addiviene, come anco per le minacce del signore, che con ispiacere grandissimo le vedea nemiche, s’eran ritratte di più farsi dispiacere, e senz’altra pace col tempo in modo dimenticate, che gran parte de’ loro uomini insieme parlavano. Essendo così costoro pacificati, addivenne un carnevale, che in casa di messer Antonio Capelletti, uomo festoso e giocondissimo, il quale primo della famiglia era, molte feste si fecero e di giorno e di notte, ove quasi tutta la città concorreva, ad una delle quali una notte, com’è degli amanti costume, che le lor donne, siccome col cuore così anco col corpo, purchè possano, ovunque vanno seguono, un giovane dei Montecchi, la sua donna seguendo, si condusse. Era costui giovane molto, bellissimo, grande della persona, leggiadro e accostumato assai: perchè trattasi la maschera, come ogni altro facea, e in abito di Ninfa trovandosi, non fu occhio che a rimirarlo non volgesse, sì per la sua bellezza, che quella d’ogni più bella donna avanzava che ivi fosse, come per maraviglia, che in quella casa, massimamente la notte, fosse venuto. Ma con più efficacia che ad alcun altro, ad una figliuola del detto messer Antonio venne veduto, ch’egli sola avea, la quale di soprannaturale bellezza, e baldanzosa, e leggiadrissima era. Questa, veduto il giovane, con tanta forza nell’anima la sua bellezza ricevette, che al primo incontro dei loro occhi di più non essere di lei stessa le parve. Stavasi costui in riposta parte della festa con poca baldanza tutto solo, e rade volte in ballo, o in parlamento alcuno si tramettea; come quegli che d’amore ivi guidato con molto sospetto vi stava. Il che alla giovane forte dolea, perciocché piacevolissimo udiva ch’egli era e giocoso. E passando la mezza notte, ed il fine del festeggiare venendo, il ballo del torchio o del cappello, come dire lo vogliamo, e che ancora nel fine delle feste veggiamo usarsi, s’incominciò: nel quale in cerchio standosi, l’uomo la donna, e la donna l’uomo a sua voglia permutandosi piglia. In questa danza d’alcuna donna fu il giovane levato, ed a caso appresso la già innamorata fanciulla posto. Era dall’altro canto di lei un nobile giovane Marcuccio Guertio nominato, il quale per natura così il luglio, come il gennaio, le mani sempre freddissime avea. Perchè giunto Romeo Montecchi, che così era il giovane chiamato, al manco lato della donna, e come in tal ballo si usa la bella sua mano in mano presa, disse a lui quasi subito la giovane forse vaga d’udirlo favellare: benedetta sia la vostra venuta qui presso me, messer Romeo. Alla quale il giovane, che già del suo mirare accorto s’era, maravigliato del parlar di costei disse: come benedetta la mia venuta? Ed ella rispose: sì, benedetto il vostro venire qui appo me, perciocché voi almeno questa stanca mano calda mi terrete, onde Marcuccio la destra m’agghiaccia. Costui preso alquanto d’ardire seguì: se io a voi con la mia mano la vostra riscaldo, voi co’ begli occhi il mio cuore accendete. La donna dopo un sorriso schifando di essere con lui veduta, o udita ragionare, ancora gli disse: io vi giuro, Romeo, per mia fede, che non è qui donna, la quale, come voi siete agli occhi miei, bella paja. Alla quale il giovane già tutto di lei acceso rispose: qual io mi sia sarò alla vostra beltade, se a quella non ispiacerà, fedel servo. Lasciato poco dopo il festeggiare, e tornato Romeo alla sua casa, considerata la crudeltà della prima sua donna, che di molto languire poca mercede gli dava, deliberò, quando a lei fosse a grado, a costei, quantunque de’ suoi nemici fosse, tutto donarsi. Dall’altro canto la giovane poco ad altro, che a lui solo pensando, dopo molti sospiri tra sè stimò lei dover sempre esser felice, se costui per isposo avere potesse: ma per la nimistà, che tra l’una e l’altra casa era, con molto timore poca speme di giungere a sì lieto grado tenea. Onde fra due pensieri di continuo vivendo a sè stessa più volte disse: o sciocca me! a quale vaghezza mi lascio io in così strano labirinto guidare? ove senza scorta restando, uscire a mia posta non ne potrò, giacchè Romeo Montecchi non m’ama: perciocchè per la nimistà che ha co’ miei, altro che la mia vergogna non può cercare; e posto che per isposa egli mi volesse, il mio padre di darmegli non consentirebbe giammai. Dappoi nell’altro pensiero venendo dicea: chi sa forse, che per meglio pacificarsi insieme queste due case, che già stanche e sazie sono di far tra lor guerra, mi potria ancor venir fatto d’averlo in quella guisa, ch’io lo disio! Ed in questo fermatasi cominciò essergli di alcun sguardo cortese. Accesi dunque i due amanti di ugual fuoco, l’uno dell’altro il bel nome e l’effigie nel petto scolpita portando, dier principio quando in chiesa, quando a qualche finestra a vagheggiarsi; in tanto che mai bene nè l’uno, né l’altra avea, se non quanto si vedeano. Ed egli massimamente sì dei vaghi costumi di lei acceso si trovava, che quasi tutta la notte con grandissimo pericolo della sua vita d’innanzi alla casa dell’amata donna solo si stava, ed ora sopra la finestra della sua camera per forza tiratosi, ivi senza ch’ella, od altri lo sapesse, ad udire il suo bel parlare si sedea, ed ora giacea sulla strada. Avvenne una notte, come amor volle, la luna più del solito rilucendo, che mentre Romeo era per salire sopra il detto balcone, la giovane, o che ciò a caso fosse, o che l’altre sere udito l’avesse, ad aprire quella finestra venne, e fattasi fuori lo vide. Il quale credendo, che non ella, ma qualche altra il balcone aprisse, nell’ombra di alcun muro fuggir volea. Onde conosciutolo, e per nome chiamatolo gli disse: che fate qui a quest’otta così solo? Ed egli già conosciutala rispose: quello che Amor vuole. E se voi foste colto, disse la donna, non potreste voi morire di leggieri? Madonna, rispose Romeo, sì bene che io vi potrei agevolmente morire; e morirovvici di certo una notte, se non mi aiutate. Ma perché son anco in ogni altro luogo così presso alla morte come qui, procaccio di morire più vicino alla persona vostra, ch’io mi possa, con la quale di vivere sempre bramerei, quando al cielo, ed a voi sola piacesse. Alle quali parole la giovane rispose: da me non rimarrà mai che voi meco onestamente non viviate: non restasse più da voi, o dalla nimistà, che tra la vostra, e la mia casa veggio! A cui il giovane disse: voi potete credere che più non si possa bramar cosa di quel ch’io voi di continuo bramo: e perciò quando a voi sola piaccia d’essere così mia, com’io di esser vostro disio, lo farò volentieri; nè temo che alcuno mi vi tolga giammai. E detto questo, messo ordine di parlarsi un’altra notte con più riposo, ciascun dal luogo, ov’era si dipartì.

Dappoi andato il giovane più volte per parlarle, una sera, che molta neve cadea, al disiato luogo la ritrovò, e dissele: deh! perchè mi fate così languire? non vi stringe pietà di me, che tutte le notti in così fatti tempi sopra questa strada vi aspetto? Al qual la donna disse: certo sì che mi fate pietà: ma che vorreste che facessi, se non pregare che voi ve ne andaste? Alla quale fu dai giovane risposto: che voi mi lasciaste nella camera vostra entrare, ove potremo insieme più agiatamente parlarci. Allora la bella giovane quasi sdegnando disse: Romeo, io tanto vi amo quanto si possa persona lecitamente amare, e più vi concedo di quello, che alla mia onestà si converria: e ciò faccio d’amore col valor vostro vinta. Ma se voi pensaste o pel lungo vagheggiarmi, o per altro modo più oltra come innamorato dell’amor mio godere, questo pensier lasciate da parte che alla fine in tutto vano lo troverete. E per non tenervi più ne’ pericoli, ne’quali veggio essere la vita vostra venendo ogni notte per queste contrade, vi dico, che quando a voi piaccia di accettarmi per vostra donna, io son pronta a darmivi tutta, e con voi in ogni luogo, che vi sia in piacere, senza alcun rispetto venire. Questo solo bramo io, disse il giovane: facciasi ora. Facciasi, rispose la donna, ma reintegrisi poi nella presenza di Frate Lorenzo da S. Francesco mio confessore, se volete, che io in tutto, e contenta mi vi dia. Oh! disse a lei Romeo: dunque frate Lorenzo da Reggio è quello che ogni secreto del cuor vostro sa? Sì, diss’ella, e serbisi per mia satisfazione a far ogni nostra cosa d’innanzi a lui. E qui posto discreto modo alle loro cose l’uno dall’altro si dipartì.

Era questo Frate dell’Ordine Minore di Osservanza, filosofo grande, e sperimentatore di molte cose, così naturali, come magiche; ed in tanta stretta amistà con Romeo si trovava che la più forse in que’ tempi tra due in molti luoghi non si saria trovata. Perciocchè volendo il Frate ad un tratto ed in buona opinione del suo volgo restare, e di qualche suo diletto godere, gli era convenuto per forza d’alcun gentiluomo della città fidarsi; tra’ quali questo Romeo, giovane temuto, animoso e prudente avea eletto; ed a lui il suo cuore, che a tutti gli altri fingendo tenea celato, nudo avea scoperto. Perchè trovato da Romeo liberamente gli fu detto, come disiava d’avere l’amata giovane per donna, e che insieme aveano constituito lui solo dover essere secreto testimonio del loro sposalizio, e poscia mezzano a dover fare, che il padre di lei a questo accordo consentisse. Il Frate di ciò contento fu, sì perchè a Romeo niuna cosa avria potuto negare, sì anco perchè pensava, che forse ancora per mezzo suo saria questa cosa succeduta in bene; il che di molto onore gli saria stato presso il signore, ed ogni altro che avesse disiato queste due case veder in pace. Ed essendo la quadragesima, la giovane fingendo di volersi confessare, al monasterio di santo Francesco andata, ed in uno di que’ confessorj, che tali Frati usano, entrata, fece Frate Lorenzo dimandare. Il quale ivi sentendola, per di dentro al convento insieme con Romeo nel medesimo confessorio entrato, e l’uscio, una lama di ferro tutta forata, che tra la giovane, ed essi era, levata via, disse a lei: io vi soglio sempre veder volentieri; ma ora piucchè mai qui cara mi siete. Se è così, che il mio messer Romeo per vostro marito vogliate! Al qual ella rispose: niun’altra cosa maggiormente disio, che d’essere legittimamente sua; e perciò son io qui d’innanzi al cospetto vostro venuta, del quale molto mi fido; acciocchè voi insieme con Iddio a quello, che d’Amore astretta vengo a fare, testimonio siate. Allora in presenza del Frate, che il tutto in confessione diceva accettare, per parole di presente Romeo la bella giovane sposò. E dato tra loro ordine di essere la seguente notte insieme, baciatisi una sola volta, dal Frate si dipartirono. Il quale rimessa nel muro la sua grata si restò ad altre donne confessare.

Divenuti i due amanti nella guisa che udito avete secretamente marito e moglie, più notti del loro amore felicemente goderono, aspettando col tempo di trovar modo, per lo quale il padre della donna, che a’ lor disii esser contrario sapeano, si potesse placare. E così stando intervenne, che la fortuna d’ogni mondano diletto nimica, non so qual malvagio seme spargendo, fece tra le loro case la già quasi morta nimistà riverdire, in modo che le cose sotto sopra andando, nè Montecchi a Capelletti, nè Capelletti a Montecchi ceder volendo, nella via del corso si attaccarono una volta insieme, ove combattendo Romeo, e alla sua donna rispetto avendo, di percuotere alcuno della sua casa si guardava: pur alla fine sendo molti de’ suoi feriti, e quasi tutti della strada cacciati, vinto dall’ira sopra Tebaldo Capelletti corso, che il più fiero de’ suoi nemici parea, di un colpo in terra morto lo distese; e gli altri, che già per la morte di costui erano smarriti, in grandissima fuga rivolse. Era già stato Romeo veduto ferire Tebaldo in modo, che l’omicidio celare non si potea. Onde data la querela d’innanzi al Signore, ciascuno de’ Capelletti solamente sopra Romeo gridava, perchè dalla giustizia in perpetuo di Verona bandito fu.

Or di qual cuore queste cose vedendo la misera giovane divenisse, ciascuno, che ben ami, nel suo caso ponendosi, il può di leggieri considerare. Ella di continuo sì forte piagnea che niuno la potea racconsolare; e tanto era più acerbo il suo dolore, quanto meno con persona alcuna il suo male scoprire osava. Dall’altra parte al giovane per lei sola abbandonare il partirsi dalla sua patria dolea; nè volendosene per cosa alcuna partire senza torre da lei lagrimevole commiato, ed in casa sua andare non potendo, al Frate ricorse. Al quale, ch’ella venire dovesse, per uno servo del suo padre molto amico di Romeo, fu fatto sapere. Ed ella vi si ridusse. Ed andati amendue nel confessorio, assai la loro sciagura insieme piansero. Pure alla fine diss’ella a lui: che farò io senza di voi? di più vivere non mi dà il cuore; meglio fora ch’io con voi, ovunque ve ne andaste, mi venissi. Io m’accorcerò queste chiome, e come servo vi verrò dietro, nè d’altri meglio, o più fedelmente che da me non potrete esser servito. Non piaccia o Dio, anima mia cara, che quando meco venire doveste, in altra guisa che in luogo di mia signora vi menassi, disse a lei Romeo. Ma perciocchè sono certo che le cose non possono lungamente in questo modo stare, o che la pace tra nostri abbia a seguire, onde ancor io la grazia del signore di leggieri impetrerei, intendo che voi senza il mio corpo per alcun giorno vi restiate; chè l’anima mia con voi dimora sempre. E posto che le cose, secondo che io diviso, non succedano, altro partito al viver nostro si prenderà. E questo deliberato tra loro, abbracciatisi mille volte, ciascuno di loro piagnendo si dipartì: la donna pregandolo assai, che più vicino, ch’egli potesse, le volesse stare, e non a Roma, e Firenze, come detto aveva, andarsene. Indi a pochi giorni Romeo, che nel monasterio di Frate Lorenzo era fin allora stato nascosto, si partì, ed a Mantova come morto si ridusse: avendo prima detto al servo della donna, che ciò che di lui intorno al fatto di lei in casa udisse, al Frate facesse di subito intendere, ed ogni cosa operasse di quello, che la giovane gli comandava fedelmente, se il rimanente del guiderdone promessogli disiava di avere.

Partito di molti giorni Romeo, e la giovane sempre lagrimosa mostrandosi, il che la sua gran bellezza faceva mancare, le fu più fiate dalla madre che teneramente l’amava con lusinghevoli parole addimandato, onde questo suo pianto derivasse. Dicendo: o figliuola mia, da me al pari della mia vita amata, qual doglia da poco io qua ti tormenta? ond’è, che tu un breve spazio senza pianto non stai? se forse alcuna cosa brami, falla a me sola nota, che di tutto, che lecito sia, ti farò consolata. Nondimeno sempre deboli ragioni di tal pianto rendute le furono. Onde pensando la madre, che in lei vivesse disio d’aver marito, il quale per vergogna, o per tema tenuto celato, il pianto generasse, un giorno, credendo la salute della figliuola cercare, e la morte procacciandole, col marito disse: messer Antonio, io veggio già molti giorni questa nostra fanciulla sempre piagnere in modo, ch’elli, come voi potete vedere, quella ch’esser suole, più non pare. Ed avvegnachè io molto l’abbia della cagione del suo pianto esaminata, ond’egli venga da lei perciò ritrarre non posso: nè da che proceda sapre’ io stessa dire, se forse per voglia di maritarsi, la quale come sai è fanciulla, non osasse far palese, ciò avvenisse. Onde prima che più si consumi, diria che fosse buono di darle marito, ch’a ogni modo ella diciotto anni questa santa Eufemia fornì. E le donne, come questi di molto trapassano, perdono piuttosto che avanzino della loro bellezza: oltrechè elle non sono mercatanzia da tenere molto in casa, quantunque io la nostra in verun atto veramente non conoscessi mai altro che onestissima. La dote so già che avete di più preparata: veggiamo dunque di darle condecevole marito.

Messer Antonio rispose, che saria bene il maritarla, e commendò molto la figliuola, che avendo questo disio volesse prima tra sè stessa affliggersene, che a lui, o alla madre, richiesta farne. E fra pochi dì cominciò con uno de’ Conti di Lodrone trattare le nozze. E già quasi per conchiuderle essendo, la madre credendo alla figliuola grandissimo piacer fare, le disse: rallegrati, oggimai, figliuola mia, che fra pochi giorni sarai ad un gran gentiluomo degnamente maritata, e cesserà la cagione del tuo gran pianto, la quale avvegnachè tu non mi abbi voluto dire, pure per grazia di Dio l’ho compresa, e sì col tuo padre operato, che sarai compiaciuta. Alle quali parole la bella giovane non potè ritenere il pianto. Onde la madre a lei disse: credi che io ti dica bugia? non passeranno otto giorni, che tu sarai d’un bel donzello della casa di Lodrone moglie. La giovane a queste parole più forte raddoppiava il pianto; per lo che la madre lusingandola disse: dunque, figliuola mia, non ne sarai tu contenta? Alla quale, ella rispose: mai no, madre, che io non lo sarò. A questo soggiunse la madre: che vorresti adunque? dillo a me, che ad ogni cosa per te disposta sono. Disse allora la giovane: morir vorrei; non altro.

In questo, madonna Giovanna, che tal nome avea la madre, la qual savia donna era, comprese la figliuola d’amore essere accesa; e rispostole non so che, da lei si separò. E la sera venuto il marito, gli narrò ciò che la figliuola piangendo risposto le avea. Il che molto gli spiacque, e pensò che fosse ben fatto prima che più innanzi le nozze di lei si trattassero, acciocché in qualche vergogna non si cadesse, d’intendere d’intorno a questo qual fosse l’opinione sua. E fattalasi un giorno venire innanzi le disse: Giulietta, che così era della giovane il nome, io sono per nobilmente maritarti: non ne sarai contenta, figliuola? Al quale la giovane alquanto dopo il dire di lui taciutasi, rispose: padre mio, no, che io non sarò contenta. Come! vuoi dunque nelle Monache entrare? disse il padre. Ed ella: messere non so: e con le parole le lacrime a un tempo mandò fuori. Alla quale il padre disse: questo so, che non vuoi. Donati dunque pace, ch’io intendo d’averti in un de’ Conti di Lodrone maritata. Al quale la giovane forte piangendo rispose: questo non fia mai.

Allora messer Antonio, molto turbato, sopra la persona assai la minacciò, se al suo volere ardisse mai più di contraddire, ed oltra questo se la cagione del suo pianto non facea manifesta. E non potendo da lei altro che lacrime ritrarre, oltre modo scontento, con madonna Giovanna la lasciò, nè dove la figliuola l’animo avesse accorger si poteo.

Avea la giovane al servo, che con suo padre stava, il quale del suo amore consapevole era, e Pietro avea nome, ciò, che la madre le disse, tutto ridetto, ed in presenza di lui giurato, ch’ella anzi il veleno volontariamente berrìa, che prender mai, ancor ch’ella potesse, altri che Romeo per marito. Di che Pietro particolarmente, secondo l’ordine, per via del frate n’avea Romeo avvisato, ed egli a Giulietta scritto, che per cosa niuna al suo maritare non consentisse, e meno il loro amore facesse aperto, che senza alcun dubbio fra otto, o dieci giorni, egli prenderia modo di levarla di casa del padre. Ma non potendo messer Antonio, o madonna Giovanna insieme per lusinghe, nè per minacce dalla loro figliuola la ragione, perchè non si volesse maritare, intendere, nè per altro sentiero trovando di cui ella innamorata fosse, ed avendole più fiate madonna Giovanna detto: vedi, figliuola mia dolcissima, non piangere ora mai più, che marito a tua posta ti si darà, se quasi uno de’ Montecchi volessi, il che sono certa che non vorrai; e la Giulietta mai altro che sospiri, e pianto non le rispondendo, in maggiore sospetto entrati, diliberarono di conchiudere più tosto che si potesse le nozze, che tra lei, e il conte di Lodrone trattate avea.

Il che intendendo la giovane, dolorosissima sopra modo ne divenne; e non sapendo che si fare, la morte mille volte al giorno disiava: pur di far intendere il dolor suo a frate Lorenzo fra sè stessa deliberò, come a persona, nella quale, dopo Romeo, più che in altri sperava, e che dal suo amante avea udito, che molte gran cose sapea fare. Onde a madonna Giovanna un giorno disse: mia madre, non voglio, che voi maraviglia prendiate, se io la cagione del mio pianto non vi dico, perciocchè io stessa non la so: ma solamente di continuo in me sento una siffatta malinconia, che non che l’altrui, ma la propria vita nojosa mi rende; nè onde ciò avvenga so tra me pensare, nè che a voi, al padre mio dirlo; se da qualche peccato commesso, ch’io non mi ricordassi, questo non mi avvenisse. E perchè la passata confessione molto mi giovò, io vorrei, piacendo a voi, racconfessarmi, acciocché questa Pasqua di maggio, ch’è vicina, potessi in rimedio de’ miei dolori ricevere la soave medicina del sacrato corpo del nostro Signore. A cui madonna Giovanna disse, ch’era contenta. Ed indi in due giorni menatala a San Francesco, d’innanzi a Frate Lorenzo la pose, il quale prima molto pregato avea che la cagione del suo pianto nella confessione cercasse d’intendere. La giovane, come la madre da sè allargata vide, così di subito con mesta voce al Frate tutto il suo affanno raccontò; e per l’amore e la carissima amistà che tra lui e Romeo ella sapea ch’era, lo pregò che a questo suo maggior bisogno aìta porgere le volesse. Alla quale il Frate disse: che posso io fare, figliuola mia, in questo caso? tanta nimistà tra la tua casa, e quella del tuo marito essendo. Disse a lui la mesta giovane: padre, io so che sapete assai cose rare, ed a mille guise me potete aitare se vi piace. Ma se altro bene fare non mi volete, concedetemi almeno questo. Io sento preparare le mie nozze ad un palagio di mio padre, il quale fuori di questa terra da due miglia verso Mantova è, ove menare mi debbono, acciocchè io men baldezza di rifiutare il nuovo marito abbia; e là dove non prima sarò, che colui, che sposare mi deve, giugnerà: datemi tanto veleno che in un punto possa me da tal doglia e Romeo da tanta vergogna liberare: se no, con maggior mio incarico e suo dolore, un coltello in me stessa insanguinerò. Frate Lorenzo udendo l’animo di costei tale essere, e pensando egli quanto nelle mani di Romeo ancor fosse, il quale senza dubbio nemico gli diverria, se a questo caso non provvedesse, alla giovane così disse; vedi, Giulietta, io confesso, come sai, la metà di questa terra, ed in buon nome sono appo ciascuno, nè testamento, o pace veruna si fa, ch’io non c’intravvenga: per la qual cosa non vorrei in qualche scandolo incorrere, o che s’intendesse ch’io fossi intervenuto in questa cosa giammai per tutto l’oro del mondo. Pure, perchè io amo te e Romeo insieme, mi disporrò a far cosa, che mai per alcun altro non farei, sì veramente, che tu mi prometta di tenermene sempre celato. Al quale la giovane rispose: Padre, datemi pure questo veleno sicuramente, che mai alcun altro che io nol saprà. Ed egli a lei: veleno non ti darò io, figliuola, chè troppo gran peccato saria che tu così giovanetta e bella morissi; ma quando ti dia il cuore di fare una cosa, che io ti dirò, io mi vanto di guidarti sicuramente d’innanzi al tuo Romeo. Tu sai, che l’arca de’ tuoi Capelletti fuori di questo chiesa al nostro cimiterio è posta: io ti darò una polvere, la quale tu bevendola, per quarantotto ore, ovver poco più, o meno, ti farà in guisa dormire che ogni uomo, per gran medico ch’egli sia, non ti giudicherà mai altro che morta. Tu sarai senza alcun dubbio, come fossi di questa vita passata, nella detta arca seppellita, ed io, quando tempo fia, ti verrò a cavar fuori e terrotti nella mia cella, finchè al capitolo, che noi facciamo in Mantova, io vada, che sia tosto, ove travestita nel nostro abito al tuo marito ti menerò. Ma dimmi, non temerai del corpo di Tebaldo tuo cugino, che poco è, ch’ivi entro fu seppellito? La giovane già tutta lieta disse: Padre, se per tal via pervenir dovessi a Romeo, senza tema ardirei di passar per l’inferno. Orsù dunque, diss’egli, poichè così sei disposta, son contento di aitarti: ma prima che cosa alcuna si facesse, mi parrìa che di tua mano a Romeo la cosa tutta intera tu scrivessi, acciò ch’egli morta credendoti, in qualche strano caso per disperazione non incorresse; perché io so ch’egli sopra modo ti ama. Io ho sempre frati che vanno a Mantova, ov’egli, come sai, si ritrova. Fa ch’io aggia la lettera, chè per fidato messo a lui la manderò. E detto questo il buon Frate, senza il mezzo de’ quali niuna gran cosa a perfetto fine condursi veggiamo, la giovane nel confessorio lasciata, alla sua cella ricorse, e subito a lei con un piccolo vasetto di polvere ritornò: e disse: togli questa polvere, e quando ti parrà, nelle tre, o nelle quattr’ore di notte, insieme con acqua cruda senza tema la berrai; che d’intorno le sei comincierà operare, e senza fallo il nostro disegno ci riuscirà. Ma non iscordare perciò di mandarmi la lettera, che a Romeo dêi scrivere, chè importa assai.

La Giulietta, presa la polvere, alla madre tutta lieta ritornò, e dissele: veramente, madonna, Frate Lorenzo è il miglior confessor del mondo. Egli m’ha sì racconfortata, che la passata tristizia più non mi ricordo. Madonna Giovanna per l’allegrezza della figliuola men trista divenuta, rispose: in buon’ora, figliuola mia, farai, che ancora racconsoli lui alle volte con la nostra limosina, chè poveri frati sono. E così parlando se ne vennero a casa loro.

Già era dopo questa confessione fatta tutta allegra la Giulietta, in modo, che messer Antonio e madonna Giovanna ogni sospetto, che ella fosse innamorata, aveano lasciato, e credevano ch’ella per istrano, e maninconioso accidente avesse i pianti fatti, e volentieri l’aveano lasciata così stare per allora senza più dire di darle marito. Ma tanto dentro in questo fatto erano andati, che più tornare addietro senza incarico non se ne potevano. Onde volendo il Conte di Lodrone, che alcun suo la donna vedesse, sendo madonna Giovanna alquanto cagionevole della persona, fu ordinato, che la giovane accompagnata da due zie di lei a quel luogo del padre, che avemo nominato, poco fuori della città andar dovesse, al che ella niuna resistenza fece, ed andovvi. Ove, credendo che il padre così all’improvviso l’avesse fatta andare per darla di subito in mano al secondo sposo, ed avendo seco portata la polvere, che il Frate le diede, la notte, vicino alle quattr’ore, chiamata una sua fante, che seco allevata s’era, e che quasi come sorella tenea, e fattasi dare una coppa d’acqua fredda, dicendo, che per gli cibi della sera avanti sete sostenea, e postole dentro la virtuosissima polvere, tutta la si bebbe, e dappoi in presenza della fante, e d’una sua zia, che con esso lei svegliata s’era, disse: mio padre per certo contra mio volere non mi darà marito, s’io potrò. Le donne, che di grossa pasta erano, ancora che veduta l’avessero bere la polvere, la quale per rinfrescarsi ella dicea porre nell’acqua, ed udite queste parole, non perciò le intesero, o sospicarono alcuna cosa, e tornarono a dormire. La Giulietta spento il lume, e partita la fante, fingendo alcuna opportunità naturale, del letto si levò, e tutta de’ suoi panni si rivestì, e tornata nel letto come se avesse creduto morire, così compose sopra quello il corpo suo meglio ch’ella seppe, e le mani sopra il suo bel petto poste in croce aspettava che il beveraggio operasse; il quale poco oltra a due ore stette a renderla come morta. Venuta la mattina, e il sole gran pezza salito essendo, fu la giovane nella guisa, che detto v’ho, sopra il letto ritrovata: ed essendo voluta svegliare, mai non si potendo, e già quasi tutta fredda trovatala, ricordandosi la zia e la fante dell’acqua e della polvere che la notte bevuta avea, e delle parole da lei ragionate; e più vedendola essersi vestita e da sè stessa a quel modo racconcia, la polvere veleno, e lei morta senza alcun dubbio giudicarono. Il rumore tra le donne si levò grandissimo ed il pianto, massimamente per la sua fante, la quale spesso per nome chiamandola dicea: o madonna, questo è quello, che dicevate: mio padre contra mia voglia non mi mariterà! voi mi dimandaste con inganno la fredd’acqua, la quale la vostra dura morte a me trista apparecchiava. O misera me! di cui prima mi dolerò? della morte, o di me stessa? Deh! perché sprezzaste morendo la compagnia d’una vostra serva, la quale vivendo così cara mostraste d’avere, che così com’io sempre con voi volentieri vivuta sono, così anco volentieri morta sarei! O madonna, io con le mani l’acqua vi portai, acciò, ch’io, misera me! fossi in questa guisa da voi abbandonata? Io sola e voi, e me, il vostro padre e la madre vostra ad un tratto averò morto. E così dicendo, salita sopra il letto, la come morta giovane stretta abbracciava.

Messer Antonio, il quale non lontano il rumore udito avea, tutto tremante nella camera della figliuola corse, e vedutala sopra il letto stare, ed inteso ciò che la notte bevuto e detto avea, quantunque morta la stimasse, pure a sua satisfazione prestamente per un suo medico, che molto dotto e pratico reputava, a Verona mandò. Il quale venuto, e veduta, ed alquanto tocca la giovane, disse lei essere già sei ore per lo bevuto veleno di questa vita passata: il che vedendo il tristo padre in dirottissimo pianto entrò. La mesta novella all’infelice madre in poco spazio di bocca in bocca pervenne. La quale da ogni calore abbandonata, come morta cadde, e risentita con un femminil grido, quasi fuori di senno divenuta, tutta percuotendosi, chiamando per nome l’amata figliuola, empìa di lamenti il cielo dicendo: io ti veggio, o mia figliuola, sola requie della mia vecchiezza; e come me hai sì crudele potuto lasciare senza dar modo alla tua misera madre di udire le ultime tue parole? Almen foss’io stata a serrare i tuoi begli occhi, e lavare il prezioso tuo corpo! come poi farmi intendere questo di te? O carissime donne, che a me presenti siete, ajutatemi morire; e se in voi alcuna pietà vive, le vostre mani, se tal officio vi si conviene, pria che il mio dolore, mi spegnano. E tu, gran Padre del Cielo, perché sì tosto, come vorrei, non posso morire, con la tua saetta togli me a me stessa odiosa! Così essendo d’alcuna donna sollevata, e sopra il suo letto posta, e da altre con assai parole confortata, non restava di piangere, e dolersi. Dappoi tolta la giovane dal luogo, ov’ella era, ed a Verona portata, con esequie grandi ed orrevolissime da tutti i suoi parenti ed amici pianta, nella detta arca nel cimiterio di santo Francesco per morta fu sepolta.

Avea frate Lorenzo, il quale per alcune bisogne del monasterio poco fuori della città era andato, la lettera della Giulietta, che a Romeo dovea mandare, data ad un frate, che a Mantova andava, il quale giunto nella città, ed essendo due o tre volte alla casa di Romeo stato, nè per sua gran sciagura trovatolo mai in casa, e non volendo la lettera ad altri, che a lui proprio dare, ancora in mano l’avea, quando Pietro credendo morta la sua madonna, quasi disperato, non trovando Frate Lorenzo in Verona, diliberò di portare egli stesso a Romeo così fatta novella, quanto la morte della sua donna pensava ch’essergli dovesse. Perché tornato la sera fuori della terra al luogo del suo padrone, la notte seguente sì verso Mantova camminò, che la mattina per tempo vi giunse. E trovato Romeo, che ancora dal Frate la lettera della donna ricevuta non avea, piangendo gli raccontò come la Giulietta morta avea veduto seppellire, e ciò che per lo addietro ella avea e fatto e detto tutto gli espose. Il quale questo udendo pallido, e come morto divenuto, tirata fuori la spada si volle ferire per uccidersi; pure da molti ritenuto disse: la vita mia in ogni modo più molto lunga essere non puote, poscia che la propria vita è morta. O Giulietta mia! io solo sono stato della tua morte cagione, perchè a levarti dal padre non venni: tu per non abbandonarmi morire volesti, ed io per tema della morte viverò solo? questo non fia mai. Ed a Pietro rivolto, donatogli un bruno vestimento, ch’indosso avea, disse: vattene, Pietro mio. Quindi partito, e Romeo solo serratosi, ogni altra cosa men trista che la vita parendogli, quello che di lui stesso fare dovesse, molto pensò. Ed alla fine come contadino vestitosi, ed una guastadetta di acqua di serpe, che di buon tempo in una sua cassa per qualche bisogno suo serbato avea, tolta, e nella manica messalasi, a venir verso Verona si pose, tra sè pensando: ovver per mano della giustizia, se trovato fosse, rimaner della vita privato, ovvero nell’arca, la quale ben sapea dove era, con la sua donna rinchiudersi ed ivi morire. A questo ultimo pensiero sì gli fu la fortuna favorevole, che la sera del dì seguente, che la donna era stata seppellita, in Verona senza essere da persona conosciuto entrò; ed aspettata la notte, e già sentendo ogni parte di silenzio piena, verso il luogo de’ Frati Minori, ove l’arca era, si ridusse. Era questa chiesa nella cittadella, ove questi frati in quel tempo stavano: ed avvegnachè dappoi, non so come lasciandola, venissero a stare nei borgo di santo Zeno, nel luogo, che ora santo Bernardino si noma, pure fu ella dal proprio santo Francesco già abitata; presso le mura della quale dal canto di fuori erano appoggiati allora certi avelli di pietra, come in molti luoghi fuori delle chiese veggiamo: uno de’ quali antica sepoltura di tutti i Capelletti era, e nel quale la bella giovane si stava. A questo accostatosi Romeo, chè forse verso le quattr’ore potea essere, e come uomo di gran nerbo ch’egli era, per forza il coperchio levatogli, e con certi legni, che seco portati avea, in modo puntellato avendolo che contra sua voglia chiuder non si potea, dentro vi entrò, e lo rinchiuse. Avea seco lo sventurato giovane recato un lume orbo per la sua donna alquanto vedere, il quale rinchiuso nell’arca di subito tirò fuori ed aperse. Ed ivi la sua bella Giulietta tra ossa e stracci di molti morti, come morta vide giacere, immantinente forte piangendo così cominciò: occhi, che agli occhi miei foste, mentre piacque al cielo, chiare luci, o bocca da me mille volte sì dolcemente baciata: o bel petto, che il mio cuore in tanta letizia albergasti, ove ciechi, muti, e freddi vi ritrovo? Come senza di voi veggio, parlo, o vivo? o misera mia donna, ove sei da Amore condotta? il quale vuole, che poco spazio due tristi amanti e spenga ed alberghi! Oimè! questo non promise la speranza, e quel disio che del tuo amore prima m’accesero! O sventurata mia vita, a che più ti reggi? E così dicendo gli occhi, la bocca, e il petto le baciava ognora in maggior pianto abbondando; nel qual diceva: o mura, che sopra me state, perchè addosso di me cadendo non fate ancor più breve la mia vita? Ma perciò che la morte in libertate di ognuno si vede, vilissima cosa per certo è disporla, e non prenderla. E così l’ampolla, che con l’acqua velenosissima nella manica avea, tirata fuori, parlando seguì: io non so qual destino sopra i miei nemici e da me morti nel sepolcro a morire mi conduca; ma poscia che, o anima mia, presso alla donna nostra così giova il morire, ora moriamo. E postasi a bocca la cruda acqua, nel suo ventre tutta la ricevette. Dappoi presa l’amata giovane nelle braccia, e forte stringendola così dicea: o bel corpo, ultimo termine di ogni mio disio, se alcun sentimento dopo il partir dell’anima ti è restato, o se ella il mio crudo morire vede, prego, che non ti dispiaccia, che non avendo io teco potuto lieto e palese vivere, almen secreto e mesto io muoja. E molto stretta tenendola la morte aspettava.

Già era giunta l’ora che il calor della giovane la fredda e potente virtù della polvere dovesse aver estinta, ed ella svegliarsi. Perché stretta, e dimenata da Romeo nelle sue braccia si destò, e risentita dopo un gran sospiro disse: oimè! ove sono? chi mi stringe? misera me, chi mi bacia? E credendo che questo Frate Lorenzo fosse, gridò: a questo modo, Frate, serbate la fede a Romeo? a questo modo mi conducete sicura? Romeo la donna viva sentendo, si maravigliò forte, e disse: non mi conoscete, o dolce donna mia? non vedete che io il tristo sposo vostro sono per morire appo voi da Mantova qui solo e secreto venuto? La Giulietta nel monimento vedendosi, ed in braccio ad uno, che dicea essere Romeo, sentendosi, quasi fuori di sè stessa era, e da sè alquanto sospintolo e nel viso guatandolo, mille baci gli donò e disse: qual sciocchezza vi fece qua entro e con tanto pericolo entrare? Non vi bastava per le mie lettere avere inteso, com’io con lo ajuto di Frate Lorenzo fingere morta mi dovea, e che di breve sarei stata con voi? Allora il tristo giovane accorto del suo gran fallo, incominciò: o miserissima mia sorte! o sfortunato Romeo! o via più di altri amanti dolorosissimo! lo di ciò vostre lettere non ebbi. E qui le raccontò come Pietro la sua non vera morte per vera gli disse, onde credendola morta avea per farle compagnia ivi presso lei tolto il veleno, il quale come acutissimo sentia, per tutte le membra la morte gli cominciava mandare. La sventurata fanciulla questo udendo sì dal dolore vinta restò, che altro che le belle sue chiome, e lo innocente petto battersi, e strapparsi fare non sapea; ed a Romeo, che già resupino giacea, baciandolo spesso, un mare delle sue lacrime gli spargea sopra: ed essendo più pallida che la cenere divenuta, tutta tremante disse: dunque nella mia presenza, e per mia cagione dovete, signor mio, morire? ed il cielo concederà, che dopo voi, benchè poco, io viva? Misera me! almeno a voi la mia vita potessi donare, e sola morire! Alla quale il giovane con voce languida rispose: se la mia fede, e il mio amore mai caro vi fu, viva mia speme, per quello vi prego che dopo me non vi spiaccia la vita, se non per altra ragione, almeno per poter pensare di lui che della vostra bellezza tutto ardente d’innanzi ai bei occhi vostri si muore. A questo rispose la donna: se voi per la mia finta morte morite, che debbo io per la vostra non finta fare? Dogliomi solo, che d’innanzi a voi non abbia il modo di morire, ed a me stessa, perciocchè tanto vivo, odio porto. Ma io spero bene, che non passerà molto, che come sono stata cagione, cosi sarò della vostra morte compagna. E con gran fatica queste parole finite, tramortita cadde, e risentitasi andava dappoi colla bella bocca gli estremi spirti del suo caro amante raccogliendo, il quale verso al suo fine a gran passi camminava.

In questo tempo Frate Lorenzo, inteso come e quando la giovane la polvere bevuta avesse, e che per morta era stata seppellita, e sapendo il termine esser giunto nel quale la detta polvere sua virtù finiva, preso un suo fidato compagno, forse un’ora innanzi giorno all’arca venne. Alla quale giungendo, per lo fesso del coperchio mirando, ed un lume dentro vedendovi, maravigliatosi forte pensò, che la giovane a qualche guisa la lucerna con essolei ivi entro portata avesse, e che svegliata per tema di alcun morto, e forse di non istar sempre in quel luogo rinchiusa, si rimaricasse, e piangesse in tal modo; e coll’aita del compagno prestamente aperta la sepoltura vide la Giulietta, la quale tutta scapigliata e dolente s’era in sedere levata, e il quasi morto amante nel suo grembo recato s’avea. Alla quale egli disse: dunque temevi, figliuola mia, che io qui dentro ti lasciassi morire? Ed ella il Frate udendo, e raddoppiando il pianto, rispose: anzi temo io, che voi con la mia vita me ne traggiate. Deh! per la pietà di Dio, rinserrate il sepolcro, ed andatevene in guisa che io muoja! ovvero porgetemi un coltello, ch’io nel mio petto ferendo di doglia mi tragga! O Padre mio! o Padre mio! ben mandaste la lettera! ben sarò io maritata! ben mi guiderete a Romeo! Vedetelo qui nel mio grembo già morto. E raccontandogli tutto il fatto a lui il mostrò.

Frate Lorenzo queste cose sentendo, come insensato si stava; e mirando il giovane, il quale per passare da questa all’altra vita era, così disse: o Romeo! quale sciagura mi ti ha tolto? parlami alquanto: drizza a me un poco gli occhi tuoi. O Romeo! vedi la tua carissima Giulietta, che ti prega, che la miri! perché non rispondi? Almen conosci nel cui grembo ti giacia! Romeo al caro nome della sua donna alzò alquanto i languidi occhi dalla vicina morte gravati, e vedutala li rinchiuse; e poco dappoi per le sue membra la morte discorrendo, tutto torcendosi, fatto un breve sospiro si morì.

Morto nella guisa, che divisato vi ho, il misero amante, dopo molto pianto già avvicinandosi il giorno, disse il Frate alla giovane: e tu, Giulietta, che farai? La quale tostamente rispose: morrommi qui entro. Come? figlia mia, diss’egli, non dire questo. Esci pur fuori, che quantunque io non sappia che farmi, o dire, pur non ti mancherà il racchiuderti in qualche santo monasterio, ed ivi pregar sempre Dio per te, o per lo morto tuo sposo, se bisogno ei n’abbia. Al quale disse la donna: Padre, altro non vi domando, che questa grazia, la quale per lo amore che voi alla felice memoria di costui portaste, e mostrògli Romeo, mi farete volentieri; e questo fia di non far mai palese la nostra morte, acciò, che li nostri corpi possano insieme sempre in questo sepolcro stare: e se per caso il morir nostro si risapesse, per lo già detto amore vi prego, che i nostri miseri padri in nome di ambo noi vogliate pregare, che quelli, i quali Amore in uno stesso fuoco e ad una stessa morte arse e guidò, non sia loro grave in uno stesso sepolcro lasciare. E voltatasi al giacente corpo di Romeo, il cui capo sopra un origliere, che con lei nell’arca era stato lasciato, posto avea, gli occhi meglio rinchiusi avendogli, e di lacrime il freddo volto bagnando, gli disse: che debb’io senza te in vita più fare, signor mio? e che altro mi resta verso te, se non con la mia morte seguirti? niente altro al certo, acciocché da te, dal qual solo la morte mi potea separare, essa morte separare non mi possa. E detto questo, la sua grande sciagura nell’animo recatasi, e la perdita del caro amante ricordandosi, diliberando di più non vivere, raccolto a sè il fiato, ed alquanto tenutolo, e poscia con un gran grido fuori mandandolo, sopra il morto corpo morta si rese.

Frate Lorento dappoi che la giovane morta conobbe, per molta pietà tutto stordito non sapea egli stesso consigliarsi, ed insieme col compagno dal dolor fino nel cuore passato sopra i morti amanti piangea. Quand’ecco la famiglia del Podestà, che dietro alcun ladro correa, vi sopraggiunse, e trovatili piangere sopra questo avello, nel quale una lucerna vedevano, quasi tutti là corsono, e tolti fra lor gli frati, dissero che fate qui, domini, a quest’ora? Fareste forse qualche malìa sopra questo sepolcro? Frate Lorenzo, veduti gli ufficiali, ed uditili, e riconosciutili, avria voluto essere stato morto. Pur disse loro: nessuno di voi s’accosti, perciocchè io vostro uomo non sono, e se alcuna cosa volete, chiedetela di lontano. Allora disse il capo: noi vogliamo sapere perchè così la sepoltura de’ Capelletti aperta abbiate, ove pur l’altro ieri si seppellì una giovane loro; e se non ch’io conosco voi, Frate Lorenzo, uomo di buona condizione, io direi, che a spogliare i morti foste qui venuti. I frati, spento il lume, risposero: quel che noi facciamo nol saprai, ché a te di saperlo non appartiene. Rispose colui: vero è: ma dirollo al Signore. Al quale Frate Lorenzo per disperazione fatto sicuro soggiunse: di’ a tua posta, e serrata la sepoltura entrò nella chiesa.

Il giorno quasi chiaro si mostrava, quando i Frati dalla sbirraglia si sbrigarono: onde di loro fu chi subito ad alcuno de’ Capelletti la novella di questi Frati rapportò. I quali sapendo forse anco Frate Lorenzo amico di Romeo, furono presto innanzi al Signore, pregandolo: che per forza, se non altrimente, volesse dal Frate sapere quello che nella sepoltura cercava. Il Signore poste le guardie, che il Frate partire non si potesse, mandò per lui. Il quale per forza venutogli innanzi, disse il Signore: che cercavate sta mane nella sepoltura de’ Capelletti? diteloci, chè noi in ogni guisa lo vogliamo sapere. Al quale rispose il Frate: Signor mio, io il dirò a vostra signoria molto volontieri. Io confessai già, vivendo, la figliuola di messer Antonio Capelletti, che l’altro giorno così stranamente morì; e perciò che molto come figliola di spirito l’amai, non alle sue esequie essendomi potuto ritrovare, era andato a dirle sopra certe sorta di orazioni, le quali nove volte sopra il corpo morto dette, liberano l’anima dalle pene del Purgatorio; e perciò che pochi le sanno, o queste cose intendono, dicono gli sciocchi, che io per ispogliar morti era ivi andato. Non so se io sia qualche masnadiero da far queste cose. A me basta questa poca tonaca e questo cordone: né darei di quanti panni hanno i vivi un niente, non che de’ panni di due morti: e male assai fanno chi mi biasimano in questa guisa.

Il Signore avria per poco questo creduto, se non che molti Frati, i quali mal gli voleano, intendendo come Frate Lorenzo era stato trovato sopra quella sepoltura, la vollero aprire, ed apertala, ed il corpo del morto amante dentro trovatole, di subito con grandissimo rumore al Signore, che ancora col Frate parlava, fu detto, come nella sepoltura dei Capelletti, sopra la quale il Frate la notte fu colto, giacea morto Romeo Montecchi. Questo parve a ciascuno quasi impossibile, e somma maraviglia a tutti apportò. Il che udendo Frate Lorenzo, e conoscendo non poter più nascondere quello, che disiava di celare, inginocchioni innanzi al Signore postosi, disse:

Perdonatemi, Signor mio, se a vostra signoria la bugia di quello, ch’ella m’ha richiesto, dissi: chè ciò non fu per malizia, nè per guadagno alcuno, ma per servare la promessa fede a due miseri e morti amanti. E così tutta la passata istoria fa astretto, presenti molti, a raccontargli.

Bartolommeo dalla Scala questo udendo, da gran pietà quasi mosso a piangere, volle i morti corpi egli stesso vedere, e con grandissima quantità di popolo al sepolcro se n’andò; e tratto i due amanti nella chiesa di santo Francesco, sopra due tappeti li fe’ porre.

In questo tempo i padri loro nella detta chiesa vennero, e sopra i loro morti figli piangendo, da doppia pietà vinti, avvegnachè inimici fossero, s’abbracciarono in modo che la lunga nimistà tra essi, e tra le loro case stata, e che né preghi d’amici, nè minacce del Signore, nè danni ricevuti, nè il tempo avea potuto estinguere, per la misera, e pietosa morte di questi amanti ebbe fine. Ed ordinato un bel monimento, sopra il quale la cagione della lor morte in pochi giorni scolpita era, i due amanti con pompa grandissima e solenne dal Signore, parenti, e da tutta la città pianti, ed accompagnati, sepolti furono.

Tal misero fine ebbe l’amor di Romeo; e di Giulietta, come udito avete, e come a me Peregrino da Verona raccontò.

O fedel pietà, che nelle donne anticamente regnavi, ove ora se’ ita? in qual petto oggi t’alberghi? Qual donna sarebbe al presente, come la fedel Giulietta fece, sopra il suo amante morta? Quando fia mai, che di questa il bel nome dalle più pronte lingue celebrato non sia? Quante ne sariano ora, che non prima l’amante morto veduto avrebbono, che trovarne un altro si avriano pensato, non che elle gli fossero morte allato? Che s’io veggio contr’ogni debito di ragione ogni fede, ed ogni ben servire obbliando, alcune donne, quegli amanti che già più cari ebbono, non morti, ma alquanto dalla fortuna percossi, abbandonare, che si dee credere, che facessero dopo la loro morte? Miseri gli amanti di questa età! i quali non possono sperare né per lunga prova di fedel servire, nè la morte per le loro donne acquistando, ch’elle con essoloro muoiano giammai: anzi certi sono di più oltra a quelle essere cari, se non quanto alle loro bisogne li possono gagliardamente operare.

 

 FINE

 
© Belpaese2000.  Created  21/02/2007

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