ALLO ILUSTRE MIO SIGNORE
Poi che le mie pene amorose, che per amor di V. S. porto
scritte in diverse lettere e rime, non han possuto, una per una, non
pur far pietosa V. S. verso di me, ma farla né anco cortese di
scrivermi una parola, io mi son rissoluta di ragunarle tutte in
questo libro, per vedere se tutte insieme lo potranno fare. Qui
dunque V. S. vedrà non il pelago delle passioni, delle lagrime e de’
tormenti miei, perché è mar senza fondo, ma un picciolo ruscello
solo di esse; né pensi V. S. ch’io abbia ciò fatto per farla
conoscente della sua crudeltà, perché crudeltà non si può dire, dove
non è obligo, né per contristarnela; ma per farla più tosto
conoscente della sua grandezza ed allegrarla. Perché, vedendo esser
usciti dalla durezza vostra verso di me questi frutti, congeturerà
quali saranno quelli che usciranno dalla sua pietà, se averrà mai
che i cieli me la facciano pietosa: o obietto nobile, o obietto
chiaro, o obietto divino, poi che tormentando ancora giovi e fai
frutto. Legga V. S. dunque, quando averà triegua dalle sue maggiori
e più care cure, le note delle cure amorose e gravi della sua
fidissima e infelicissima Anassilla; e da questa ombra prenda
argomento quali ella le debba provare e sentir nell’animo; ché
certo, se accaderà giamai che la mia povera e mesta casa sia fatta
degna del ricevere il suo grande oste, che è V. S., io son sicura
che i letti, le camere, le sale e tutto racconteranno i lamenti, i
singulti, i sospiri e le lagrime, che giorno e notte ho sparse,
chiamando il nome di V. S., benedicendo però sempre nel mezzo de’
miei maggior tormenti i cieli e la mia buona sorte della cagion
d’essi: percioché assai meglio è per voi, conte, morire, che gioir
per qualunque. Ma che fo io? Perché senza bisogno tengo V. S. troppo
lungamente a noia, ingiuriando anco le mie rime, quasi che esse non
sappian dir le lor ragioni, ed abbian bisogno dell’altrui aita?
Rimettendomi dunque ad esse, farò fine, pregando V. S., per ultimo
guiderdone della ia fedelissima servitù, che nel ricever questo
povero libretto mi sia cortese sol di un sospiro, il quale refreschi
così lontano la memoria della sua dimenticata e abbandonata
Anassilla. E tu, libretto mio, depositario delle mie lagrime,
appresentati nella più umil forma che saprai, dinanzi al signor
nostro, in compagnia della mia candida fede. E, se in recevendoti
vedrai rasserenar pur un poco quei miei fatali ed eterni lumi, beate
tutte le nostre fatiche e felicissime tutte le nostre speranze; e
così ti resta seco eternamente in pace.
I
RIME D’AMORE
I
Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in
questi mesti, in questi oscuri accenti
il
suon degli amorosi miei lamenti
e de
le pene mie tra l’altre prime,
ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi
che la lor cagione è sì sublime.
E spero ancor che debba dir qualcuna:
—
Felicissima lei, da che sostenne
per
sì chiara cagion danno sì chiaro!
Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per
sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?
II
Era vicino il dì che ’l Creatore,
che
ne l’altezza sua potea restarsi,
in
forma umana venne a dimostrarsi,
dal
ventre virginal uscendo fore,
quando degnò l’illustre mio signore,
per
cui ho tanti poi lamenti sparsi,
potendo in luogo più alto annidarsi,
farsi nido e ricetto del mio core.
Ond’io sì rara e sì alta ventura
accolsi lieta; e duolmi sol che tardi
mi
fe’ degna di lei l’eterna cura.
Da indi in qua pensieri e speme e sguardi
volsi a lui tutti, fuor d’ogni misura
chiaro e gentil, quanto ’l sol giri e guardi.
III
Se di rozzo pastor di gregge e folle
il
giogo ascreo fe’ diventar poeta
lui,
che poi salse a sì lodata meta,
che
quasi a tutti gli altri fama tolle,
che meraviglia fia s’alza ed estolle
me
bassa e vile a scriver tanta pièta,
quel
che può più che studio e che pianeta,
il
mio verde, pregiato ed alto colle?
La cui sacra, onorata e fatal ombra
dal
mio cor, quasi sùbita tempesta,
ogni
ignoranza, ogni bassezza sgombra.
Questa da basso luogo m’erge, e questa
mi
rinova lo stil, la vena adombra;
tanta virtù nell’alma ognor mi desta!
IV
Quando fu prima il mio signor concetto,
tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle
gli
diêr le grazie, e queste doti e quelle,
perch’ei fosse tra noi solo perfetto.
Saturno diègli altezza d’intelletto;
Giove il cercar le cose degne e belle;
Marte appo lui fece ogn’altr’uomo imbelle;
Febo
gli empì di stile e senno il petto;
Vener gli dié bellezza e leggiadria;
eloquenzia Mercurio; ma la luna
lo
fe’ gelato più ch’io non vorria.
Di queste tante e rare grazie ognuna
m’infiammò de la chiara fiamma mia,
e
per agghiacciar lui restò quell’una.
V
Io assimiglio il mio signor al cielo
meco
sovente. Il suo bel viso è ’l sole;
gli
occhi, le stelle; e ’l suon de le parole
è
l’armonia, che fa ’l signor di Delo.
Le tempeste, le piogge, i tuoni e ’l gelo
son
i suoi sdegni, quando irar si suole;
le
bonacce e ’l sereno è quando vuole
squarciar de l’ire sue benigno il velo.
La primavera e ’l germogliar de’ fiori
è
quando ei fa fiorir la mia speranza,
promettendo tenermi in questo stato.
L’orrido verno è poi, quando cangiato
minaccia di mutar pensieri e stanza,
spogliata me de’ miei più ricchi onori.
VI
Un intelletto angelico e divino,
una
real natura ed un valore,
un
disio vago di fama e d’onore,
un
parlar saggio, grave e pellegrino,
un sangue illustre, agli alti re vicino,
una
fortuna a poche altre minore,
un’età nel suo proprio e vero fiore,
un
atto onesto, mansueto e chino,
un viso più che ’l sol lucente e chiaro
ove
bellezza e grazia Amor riserra
in
non mai più vedute o udite tempre,
fûr le catene, che già mi legâro,
e mi
fan dolce ed onorata guerra.
O
pur piaccia ad Amor che stringan sempre!
VII
Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri
un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d’anni e vecchio d’intelletto,
imagin de la gloria e del valore:
di pelo biondo, e di vivo colore,
di
persona alta e spazioso petto,
e
finalmente in ogni opra perfetto,
fuor
ch’un poco (oimè lassa!) empio in amore.
E chi vuol poi conoscer me, rimiri
una
donna in effetti ed in sembiante
imagin de la morte e de’ martìri,
un albergo di fé salda e costante,
una,
che, perché pianga, arda e sospiri,
non
fa pietoso il suo crudel amante.
VIII
Se, così come sono abietta e vile
donna, posso portar sì alto foco,
perché non debbo aver almeno un poco
di
ritraggerlo al mondo e vena e stile?
S’Amor con novo, insolito focile,
ov’io non potea gir, m’alzò a tal loco,
perché non può non con usato gioco
far
la pena e la penna in me simìle?
E, se non può per forza di natura,
puollo almen per miracolo, che spesso
vince, trapassa e rompe ogni misura.
Come ciò sia non posso dir espresso;
io
provo ben che per mia gran ventura
mi
sento il cor di novo stile impresso.
IX
S’avien ch’un giorno Amor a me mi renda,
e mi
ritolga a questo empio signore;
di
che paventa, e non vorrebbe, il core,
tal
gioia del penar suo par che prenda;
voi chiamerete invan la mia stupenda
fede, e l’immenso e smisurato amore,
di
vostra crudeltà, di vostro errore
tardi pentito, ove non è chi intenda.
Ed io, cantando la mia libertade,
da
così duri lacci e crudi sciolta,
passerò lieta a la futura etade.
E, se giusto pregar in ciel s’ascolta,
vedrò forse anco in man di crudeltade
la
vita vostra a mia vendetta involta.
X
Alto colle, gradito e grazioso,
novo
Parnaso mio, novo Elicona,
ove
poggiando attendo la corona,
de
le fatiche mie dolce riposo;
quanto sei qui tra noi chiaro e famoso,
e
quanto sei a Rodano e a Garona,
a
dir in rime alto disio mi sprona,
ma
l’opra è tal, che cominciar non oso.
Anzi quanto averrà che mai ne canti,
fia
pura ombra del ver, perciò che ’l vero
va
di lungo il mio stil e l’altrui innanti.
Le tue frondi e ’l tuo giogo verdi e ’ntero
conservi ’l cielo, albergo degli amanti,
colle gentil, dignissimo d’impero.
XI
Arbor felice, aventuroso e chiaro,
onde
i duo rami sono al mondo nati,
che
vanno in alto, e son già tanto alzati,
quanto raro altri rami unqua s’alzâro;
rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
o
s’altri fûr di lor mai più lodati
(ben
lo sanno i miei occhi fortunati,
che
per bearsi in un d’essi mirâro),
a te, tronco, a voi, rami, sempre il cielo
piova rugiada, sì che non v’offenda
per
avversa stagion caldo, né gelo.
La chioma vostra e l’ombra s’apra e stenda
verde per tutto; e d’onorato zelo
odor, fior, frutti a tutt’Italia renda.
XII
Deh, perché così tardo gli occhi apersi
nel
divin, non umano amato volto,
ond’io scorgo, mirando, impresso e scolto
un
mar d’alti miracoli e diversi?
Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi
d’inutil pianto in questo viver stolto,
né
l’alma avria, com’ha, poco né molto
di
Fortuna o d’Amore onde dolersi.
E sarei forse di sì chiaro grido,
che,
mercé de lo stil, ch’indi m’è dato,
risoneria fors’Adria oggi, e ’l suo lido.
Ond’io sol piango il mio tempo passato,
mirando altrove; e forse anche mi fido
di
far in parte il foco mio lodato.
XIII
Chi darà penne d’aquila o colomba
al
mio stil basso, sì ch’ei prenda il volo
da
l’Indo al Mauro e d’uno in altro polo,
ove
arrivar non può saetta o fromba?
e, quasi chiara e risonante tromba,
la
bellezza, il valor, al mondo solo,
di
quel bel viso, ch’io sospiro e còlo,
descriva sì, che l’opra non soccomba?
Ma, poi che ciò m’è tolto, ed io poggiare
per
me stessa non posso ove conviene,
sì
che l’opra e lo stil vadan di pare,
l’udranno sol queste felici arene,
questo d’Adria beato e chiaro mare,
porto de’ miei diletti e di mie pene.
XIV
Che meraviglia fu, s’al primo assalto,
giovane e sola, io restai presa al varco,
stando Amor quindi con gli strali e l’arco,
e
ferendo per mezzo, or basso or alto,
indi ’l signor, che ’n rime orno ed essalto
quanto più posso, e ’l mio dir resta parco,
con
due occhi, anzi strai, che spesso incarco
han
fatto al sole, e con un cor di smalto?
ed essendo da lato anche imboscate,
sì
ch’a modo nessun fess’io difesa,
alla
virtute e chiara nobiltate?
Da tanti e ta’ nemici restai presa;
né
mi duol, pur che l’alma mia beltate,
or
che m’ha vinta, non faccia altra impresa.
XV
Voi, che cercando ornar d’alloro il crine
per
via di stile, al bel monte poggiate
con
quante si fe’ mai salde pedate,
anime sagge, dotte e pellegrine,
in questo mar, che non ha fondo o fine,
le
larghe vele innanzi a me spiegate,
e
gli onori e le grazie ad un cantate
del
mio signor sì rare e sì divine:
perché soggetto sì sublime e solo,
senz’altra aita di felice ingegno,
può
per se stesso al cielo alzarci a volo.
Io per me sola a dimostrar ne vegno
quanto l’amo ad ognun, quanto lo còlo;
ma
de le lode sue non giungo al segno.
XVI
Sì come provo ognor novi diletti,
ne
l’amor mio, e gioie non usate,
e
veggio in quell’angelica beltate
sempre novi miracoli ed effetti,
così vorrei aver concetti e detti
e
parole a tant’opra appropriate,
sì
che fosser da me scritte e cantate,
e
fatte cónte a mille alti intelletti.
Et udissero l’altre che verranno
con
quanta invidia lor sia gita altera
de
l’amoroso mio felice danno;
e vedesse anche la mia gloria vera
quanta i begli occhi suoi luce e forza hanno
di
far beata altrui, benché si pèra.
XVII
Io non v’invidio punto, angeli santi,
le
vostre tante glorie e tanti beni,
e
que’ disir di ciò che braman pieni,
stando voi sempre a l’alto Sire avanti;
perché i diletti miei son tali e tanti,
che
non posson capire in cor terreni,
mentr’ho davanti i lumi almi e sereni,
di
cui conven che sempre scriva e canti.
E come in ciel gran refrigerio e vita
dal
volto Suo solete voi fruire,
tal
io qua giù da la beltà infinita.
In questo sol vincete il mio gioire,
che
la vostra è eterna e stabilita,
e la
mia gloria può tosto finire.
XVIII
Quando i’ veggio apparir il mio bel raggio,
parmi veder il sol, quand’esce fòra;
quando fa meco poi dolce dimora,
assembra il sol che faccia suo viaggio.
E tanta nel cor gioia e vigor aggio,
tanta ne mostro nel sembiante allora,
quanto l’erba, che pinge il sol ancora
a
mezzo giorno nel più vago maggio.
Quando poi parte il mio sol finalmente,
parmi l’altro veder, che scolorita
lasci la terra andando in occidente.
Ma l’altro torna, e rende luce e vita;
e
del mio chiaro e lucido oriente
è ’l
tornar dubbio e certa la partita.
XIX
Come chi mira in ciel fisso le stelle,
sempre qualcuna nova ve ne scorge,
che,
non più vista pria, fra tanti sorge
chiari lumi del mondo, alme fiammelle;
mirando fisso l’alte doti e belle
vostre, signor, di qualcuna s’accorge
l’occhio mio nova, che materia porge,
onde
di lei si scriva e si favelle.
Ma, sì come non può gli occhi del cielo
tutti, perch’occhio vegga, raccontare
lingua mortal e chiusa in uman velo,
io posso ben i vostri onor mirare,
ma
la più parte d’essi ascondo e celo,
perché la lingua a l’opra non è pare.
XX
Il bel, che fuor per gli occhi appare, e ’l vago
del
mio signor e del suo dolce viso,
è
tanto e tal, che fa restar conquiso
ognun che ’l mira, di gran lunga, e pago.
Ma, se qual è un cervier occhio e mago,
potesse altri mirar intento e fiso
quel
che fuor non si mostra, un paradiso
di
meraviglie vi vedrebbe, un lago.
E le donne non pur, ma gli animali,
l’erbe, le piante, l’onde, i venti e i sassi
farian arder d’amor gli occhi fatali.
Quest’una grazia agli occhi miei sol dassi
in
guiderdon di tanti e tanti mali,
per
onde a tanto ben poggiando vassi.
XXI
— S’io, che son dio, ed ho meco tant’armi,
non
posso star col tuo signor a prova,
ed è
la sua bellezza unica e nova
pronta mai sempre a tante ingiurie farmi,
come a tuo pro poss’ora io consigliarmi,
e
darti il modo, con che tu rimova
quel
saldo ghiaccio, che nel cor si trova,
per
via di preghi, di consiglio o carmi?
Ti bisogna aspettar tempo o fortuna,
che
ti guidino a questo; ed altra via
non
ti posso mostrar, se non quest’una. —
Così mi dice, e poi si vola via;
ed
io mi resto, al sole ed a la luna,
piangendo sempre la sventura mia.
XXII
Rivolgete talor pietoso gli occhi
da
le vostre bellezze a le mie pene,
sì
che quanta alterezza indi vi viene,
tanta quindi pietate il cor vi tocchi.
Vedrete qual martìr indi mi fiocchi,
vedrete vòte le faretre e piene,
che
preste a’ danni miei sempre Amor tiene,
quando avien che ver’me l’arco suo scocchi.
E forse la pietà del mio tormento
vi
moverà, dov’or ne gite altero,
non
lo vedendo voi, qual io lo sento;
così penosa io meno, e men voi fiero
ritornerete, e cento volte e cento
benedirete i ciel, che mi vi diêro.
XXIII
Grazie, che fate mai sempre soggiorno
negli occhi ch’amo, e quei poi de le prede,
che
fan tante di noi, vostra mercede,
fanno il tempio d’Amor ricco et adorno,
quando scherzate a que’ bei rai d’intorno
co’
pargoletti Amor, che v’hanno sede,
fate
fede a colui de la mia fede,
che
’n tante carte omai celebro ed orno.
E, se di Grazie avete il nome e l’opra,
fatemi graziosi que’ due giri,
ch’a
lo splendor del sol stanno di sopra.
E, poi c’hanno adescato i miei desiri,
fate
(così mai morte non li copra)
che
non mi lascin preda de’ martìri.
XXIV
Vengan quante fûr mai lingue ed ingegni,
quanti fûr stili in prosa, e quanti in versi,
e
quanti in tempi e paesi diversi
spirti di riverenza e d’onor degni;
non fia mai che descrivan l’ire e’ sdegni,
le
noie e i danni, che ’n amor soffersi,
perché nel vero tanti e tali fêrsi,
che
passan tutti gli amorosi segni.
E non fia anche alcun, che possa dire,
anzi
adombrar la schiera de’ diletti
ch’Amor, la sua mercé, mi fa sentire.
Voi, ch’ad amar per grazia sète eletti,
non
vi dolete dunque di patire;
perché i martìr d’Amor son benedetti.
XXV
— Trâmi — dico ad Amor talora — omai
fuor
de le man di questo crudo ed empio,
che
vive del mio danno e del mio scempio,
per
chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai.
Poi che con tanti miei tormenti e guai
sua
fiera voglia ancor non pago od empio,
o di
Diana avaro e crudo tempio,
quando del sangue mio sazio sarai? —
Poi torno a me, e del mio dir mi pento:
sì
l’ira, il rimembrar pur lui, mi smorza,
che
de’ miei non vorrei meno un tormento.
Con sì nov’arte e con sì nova forza
la
bellezza ch’io amo, e ch’io pavento,
ogni
senso m’intrica, offusca e sforza.
XXVI
Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangerò, arderò, canterò sempre
(fin
che Morte o Fortuna o tempo stempre
a
l’ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)
la bellezza, il valor e ’l senno a canto,
che
’n vaghe, sagge ed onorate tempre
Amor, natura e studio par che tempre
nel
volto, petto e cor del lume santo;
che, quando viene, e quando parte il sole,
la
notte e ’l giorno ognor, la state e ’l verno,
tenebre e luce darmi e tôrmi suole,
tanto con l’occhio fuor, con l’occhio interno,
agli
atti suoi, ai modi, a le parole,
splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.
XXVII
Altri mai foco, stral, prigione o nodo
sì
vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
non
arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
quanto ’l mi’ ardente, acuto, acerba e sodo.
Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
mor’altra e nasce, e pena ed ha diletto,
per
fermo e vario e bello e crudo aspetto,
che
’n voci e ’n carte spesso accuso e lodo.
Né fûro ad altrui mai le gioie care,
quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
mirando a le mie luci or fosche or chiare.
Mi dorrà sol, se mi trarrà d’impaccio,
fin
che potrò e viver ed amare,
lo
stral e ’l foco e la prigione e ’l laccio.
XXVIII
Quando innanti ai begli occhi almi e lucenti,
per
mia rara ventura al mondo, i’ vegno,
lo
stil, la lingua, l’ardire e l’ingegno,
i
pensieri, i concetti e i sentimenti
o restan tutti oppressi o tutti spenti,
e
quasi muta e stupida divegno;
o
sia la riverenza, in che li tegno,
o
sia che sono in quel bel lume intenti.
Basta ch’io non so mai formar parola,
sì
quel fatale e mio divino aspetto
la
forza insieme e l’anima m’invola.
O mirabil d’Amore e raro effetto,
ch’una sol cosa, una bellezza sola
mi
dia la vita, e tolga l’intelletto!
XXIX
Mentr’io conto fra me minutamente
le
doti del mio conte a parte a parte,
nobiltate, bellezza, ingegno ed arte,
che
lo fan chiaro sovra l’altra gente,
tale e tanto piacer l’anima sente,
che,
sendo tutte le sue virtù sparte,
mi
meraviglio come non si parte,
volando al ciel per starci eternamente.
E certo v’anderia, se non temesse
che
restasse il suo ben da lei diviso,
e
men beato il suo stato rendesse;
perché ’l suo vero e proprio paradiso,
quello che per bearsi ella si elesse,
è ’l
mio dolce signor e ’l suo bel viso.
XXX
Fra quell’illustre e nobil compagnia
di
grazie, che vi fan, conte, immortale,
s’erge più d’altra e vaga stende l’ale
del
canto la dolcissima armonia.
Quella in noi ogni acerba cura e ria
può
render dolce, e far lieve ogni male;
quella, quand’Euro più fiero l’assale,
può
render queto il mar turbato pria.
Il giuoco, il riso, Venere e gli Amori
si
veggon l’aere far sereno intorno,
ovunque suoni il dolce accento fuori.
Ed io, potendo far con voi soggiorno,
a
l’armonia di quei celesti cori
poco
mi curerei di far ritorno.
XXXI
Chi non sa come dolce il cor si fura,
come
dolce s’oblia ogni martìre,
come
dolce s’acqueta ogni desire,
sì
che di nulla più l’alma si cura,
venga, per sua rarissima ventura,
una
sol volta voi, conte, ad udire,
quando solete cantando addolcire
la
terra e ’l cielo e ciò che fe’ natura.
Al suon vedrà degli amorosi accenti
farsi l’aere sereno ed arrestare
l’orgoglio l’acque, le tempeste e i venti.
E, visto poi quel che potete fare,
crederà ben che tigri, orsi e serpenti
arrestasse anche Orfeo col suo cantare.
XXXII
Per le saette tue, Amor, ti giuro,
e
per la tua possente e sacra face,
che,
se ben questa m’arde e ’l cor mi sface,
e
quelle mi feriscon, non mi curo;
quantunque nel passato e nel futuro
qual
l’une acute, e qual l’altra vivace,
donne amorose, e prendi qual ti piace,
che
sentisser giamai né fian, né fûro;
perché nasce virtù da questa pena,
che
’l senso del dolor vince ed abbaglia,
sì
che o non duole, o non si sente appena.
Quel, che l’anima e ’l corpo mi travaglia,
è la
temenza ch’a morir mi mena,
che
’l foco mio non sia foco di paglia.
XXXIII
Quando sarete mai sazie e satolle
del
lungo strazio mio, de le mie pene,
luci, assai più che ’l sol chiare e serene,
ch’ora illustrate il vostro amato colle?
Quando fia che non sia di pianto molle
il
petto mio, ch’a gran pena sostiene
l’anima fuggitiva, or che la spene,
ch’era sì poca, ancora Amor ne tolle?
Quando fia che vi vegga un dì pietose,
e
duri la pietà vostra, e non manchi
tosto, come le lievi e frali cose?
O non fia, lassa, mai, o saran bianchi
questi crin prima, e quei sensi amorosi,
accesi or sì, saranno freddi e stanchi.
XXXIV
Sai tu, perché ti mise in mano, Amore,
gli
stral tua madre, ed agli occhi la benda?
Perché quella saetti, impiaghi e fenda
i
cor di questo e quel fido amatore;
e con questi non possi veder fuore
de’
colpi tuoi la crudeltà stupenda,
sì
che pietoso affatto non ti renda,
o
almen non tempri l’empio tuo furore.
Che, se vedessi un dì la piaga mia,
o
non saresti dio, ma cruda fèra,
o
pietoso o men aspro ti faria.
Non vorrei già che tu vedessi in cera
i
raggi del mio sol; ché ti parria
forse a l’incontro picciola e leggera.
XXXV
Accogliete benigni, o colle, o fiume,
albergo de le Grazie alme e d’Amore,
quella ch’arde del vostro alto signore,
e
vive sol de’ raggi del suo lume;
e, se fate ch’amando si consume
men
aspramente il mio infiammato core,
pregherò che vi sieno amiche l’ôre,
ogni
ninfa silvestre ed ogni nume,
e lascerò scolpita in qualche scorza
la
memoria di tanta cortesia,
quando di lasciar voi mi sarà forza.
Ma, lassa, io sento che la fiamma mia,
che
devrebbe scemar, più si rinforza,
e
più ch’altrove qui s’ama e disia.
XXXVI
Cesare e Ciro, i vostri fidi spegli,
in
cui mai sempre, signor, vi mirate,
poi
ch’a seguir le lor chiare pedate
par
che ciascun di lor v’infiammi e svegli,
perché, sì come è stato questi e quegli
essempio di clemenzia e di pietate,
solo
in questa virtù v’allontanate
da
que’ due chiari ed onorati vegli?
Perché non sète voi mite e clemente
a me
vostra prigion, vostra fattura,
come
fûr essi a l’acquistata gente?
Anzi forse voi sète di natura
mite
con tutti, e meco solamente
d’aspra e spietata. Oh mia somma sventura!
XXXVII
Altero nido, ove ’l mio vivo sole
prese da prima il suo terreno incarco;
onde
però va più leggero e scarco
di
quel che da tutt’altri andar si suole;
i’ vorrei dir, ma non so far parole
di
tanti e tanti pregi, onde sei carco;
perché lo stil a l’alta impresa è parco,
e
via più a chi t’onora entro e ti cole.
Perciò mi taccio, e prego ’l ciel che sempre
ti
serbi in questo lieto e vago stato,
in
queste care e graziose tempre;
e renda ognor più chiaro e più lodato
il
tuo signor e mio, e ch’i’ mi stempre
sempre nel mio bel foco alto e pregiato.
XXXVIII
Qualunque dal mio petto esce sospiro,
ch’escono ad or ad or ardenti e spessi
dal
dì che per mio sole gli occhi elessi.
ch’a
prima vista a morte mi ferîro,
vanno verso il bel colle, ove pur miro,
benché lontana, e vanno anche con essi
i
miei pensieri e tutti i sensi stessi;
né
val s’io li ritengo o li ritiro,
perché la propria loro e vera stanza
son
que’ begli occhi e quella alma beltade,
che
prima mi destâr la desianza,
O pur sieno ivi accolti da pietade!
di
che non spero, poi che per usanza
vi
suol sempre aver luogo crudeltade.
XXXIX
Se con tutto il mio studio e tutta l’arte
io
non posso accennar pur quanto e quale
è ’l
foco mio dal dì che ’l primo strale
m’aventò Amor ne la sinistra parte,
come volete voi, signor, che ex parte
l’altrui voglie amorose e l’altrui male
con
questa forza stanca e così frale
i’
dica in vive voci, o scriva in carte?
Datemi o ’l ciel più stile o voi men pena,
ond’abbia o più vigor o men martìre,
sì
che la vostra voglia resti piena.
E, se ciò non si può, vostro desire
adempiete da voi, ch’avete vena,
stile ed ingegno eguale al vostro dire.
XL
Onde, che questo mar turbate spesso,
come
turba anco me la gelosia,
venite a starvi meco in compagnia,
poi
che mi sète sì care e sì presso:
così fiero Austro ed Aquilon con esso
men
importuno e men crudo vi sia;
così
triegua talor Eolo vi dia,
quel
ch’a me da l’amor non m’è concesso.
Lassa, ch’io ho da pianger tanto e tanto,
che
l’umor, che per gli occhi verso fore,
è
poco o nulla, se fosse altrettanto.
Voi mi darete voi del vostro umore
quanto mi basti a disfogar il pianto,
che
si conviene a l’alto mio dolore.
XLI
Ahi, se così vi distrignesse il laccio,
come, misera, me strigne ed affrena,
non
cerchereste d’una in altra pena
girmi traendo, e d’uno in altro impaccio;
ma perch’io son di foco e voi di ghiaccio,
voi
sète in libertade ed io ’n catena,
i’
son di stanca e voi di franca lena,
voi
vivete contento ed io mi sfaccio.
Voi mi ponete leggi, ch’a portarle
non
basterian le spalle di Milone,
non
ch’io debile e fral possa osservarle.
Seguite, poi che ’l ciel così dispone:
forse ch’un giorno Amor potria mutarle;
forse ch’un dì farà la mia ragione.
XLII
Tu pur mi promettesti amica pace,
Amor, il dì che tua serva divenni,
mostrandomi i begli occhi, i guardi e i cenni,
ove
tua madre alberga e si compiace.
Ed or, quasi signor empio e fallace,
poi
ch’una volta il tuo giogo sostenni,
ad
or ad or nove saette impenni,
ed
accendi una ed or un’altra face;
e mi trafigi e mi consumi il core
col
mezzo de l’orgoglio di colui,
che
tanto gode, quanto altri si more.
Così, misera me, tradita fui,
giovane incauta, sotto fé d’Amore;
e
doler mi vorrei, né so di cui.
XLIII
Dura è la stella mia, maggior durezza
è
quella del mio conte: egli mi fugge,
i’
seguo lui; altri per me si strugge,
i’
non posso mirar altra bellezza.
Odio chi m’ama, ed amo chi mi sprezza;
verso chi m’è umìle il mio cor rugge,
e
son umìl con chi mia speme adugge;
a
così stranio cibo ho l’alma avezza.
Egli ognor dà cagione a novo sdegno,
essi
mi cercan dar conforto e pace:
i’
lasso questi, ed a quell’un m’attegno.
Così ne la tua scola, Amor, si face
sempre il contrario di quel ch’egli è degno:
l’umìl si sprezza, e l’empio si compiace.
XLIV
Se tu vedessi, o madre degli Amori,
e
teco insieme il tuo figlio diletto,
l’accese e vive fiamme del mio petto,
a
quali altre fûr mai pari o maggiori;
se tu vedessi i pelaghi d’umori,
che,
dapoi che ’l mio cor ti fu soggetto,
mercé del vago e grazioso aspetto,
per
questi occhi dolenti verso fuori;
so ch’avresti pietà del mio gran pianto
e de
la fiamma mia spietata e ria,
che
per sfogar talor descrivo e canto.
Ma voi ferite, e poi fuggite via
più
che folgor veloci, ed io fra tanto
resto col pianto e con la fiamma mia.
XLV
Io vo pur descrivendo d’ora in ora
la
beltà vostra e ’l vostro raro ingegno,
e ’l
valor d’altro stil, che del mio, degno,
se
non quant’ei più d’altro mai v’onora;
né, perch’io m’affatichi, giungo ancora
di
tanti pregi vostri al minor segno,
conte, d’ogni virtù nido e sostegno,
senza cui la mia vita morte fôra.
Così, s’io prendo a scriver, il mio foco
è
tanto e tal, da ch’egli da voi nasce,
che,
s’io ne dico assai, ne dico poco.
Questo e quello il mio cor nutrisce e pasce,
e
questo e quel mi dà martìr e gioco:
così
fui destinata entro le fasce.
XLVI
Alto colle, almo fiume, ove soggiorno
fan
le virtuti e le Grazie e gli Amori,
dal
dì che dimostraste al mondo fòri
chi
fa me, chi fa lui chiaro et adorno,
asserena tu ’l fronte, alza tu ’l corno,
tu
con nove acque, e tu con novi fiori
or
che fa, colmo anch’ei di novi onori,
il
signor vostro e mio a voi ritorno.
E, poi che fia con voi, per cortesia
oprate sì ch’a me ritorni tosto;
ché
viver senza lui poco porìa.
Così stia ’l verno a voi sempre discosto,
così
Flora e Pomona in compagnia
vi
faccian sempre aprile e sempre agosto.
XLVII
Io son da l’aspettar omai sì stanca,
sì
vinta dal dolor e dal disio,
per
la sì poca fede e molto oblio
di
chi del suo tornar, lassa, mi manca,
che lei, che ’l mondo impalidisce e ’mbianca
con
la sua falce e dà l’ultimo fio,
chiamo talor per refrigerio mio,
sì
’l dolor nel mio petto si rinfranca.
Ed ella si fa sorda al mio chiamare,
schernendo i miei pensier fallaci e folli,
come
sta sordo anch’egli al suo tornare.
Così col pianto, ond’ho gli occhi miei molli,
fo
pietose quest’onde e questo mare;
ed
ei si vive lieto ne’ suoi colli.
XLVIII
Come l’augel, ch’a Febo è grato tanto,
sovra Meandro, ove suol far soggiorno,
quando s’accosta il suo ultimo giorno,
move
più dolci le querele e ’l canto,
tal io, lontana dal bel viso santo,
sovra il superbo d’Adria e ricco corno,
morte, téma ed orror avendo intorno,
affino, lassa, le querele e ’l pianto.
E sono in questo a quell’uccel minore:
che
per quella, onde venne, istessa traccia
ritorna a Febo il suo diletto olore;
ed io, perché morendo mi disfaccia,
non
pur non torno a star col mio signore,
ma
temo che di me tutto gli spiaccia.
XLIX
Qual sempre a’ miei disir contraria sorte
fra
la spiga e la man mi s’è tramessa,
sì
che la gioia, che mi fu promessa,
tarda tanto a venir per darmi morte?
Le mie due vive, due fidate scorte,
il
signor mio, anzi l’anima stessa,
l’imagin, che nel cor m’è sempre impressa,
perché non batte omai, lassa, a le porte?
L’alma allargata a questa nova speme,
che
ristretta nel duol prendea vigore,
mancherà tosto certo, se non viene.
E saran de’ miracoli d’Amore,
ch’un’ombra breve di sperato bene
tolga altrui vita, e dia vita il dolore.
L
Poi ch’Amor mi ferì di crude ponte,
vostra mercé, qual sète vivo e vero,
v’ho
scolpito nel fronte e nel pensiero,
sì
che nessun sembiante più s’affronte.
Il viso stesso, il proprio stesso fronte,
il
proprio ciglio umilemente altero,
gli
occhi stessi, i due sol de l’emispero,
le
stesse grazie e le fattezze cónte;
in questo il mio ritratto è dissimìle:
ché,
qual mi sète, vi mostra alteretto,
là
dove sète a tutti gli altri umìle.
Ora, per far ch’anch’io v’abbia perfetto,
per
far ch’anch’io pur v’abbia a voi simìle,
emendate anche meco un tal difetto.
LI
Vieni, Amor, a veder la gloria mia,
e
poi la tua; ché l’opra de’ tuoi strali
ha
fatto ambeduo noi chiari, immortali,
ovunque per Amor s’ama e disia.
Chiara fe’ me, perché non fui restia
ad
accettar i tuoi colpi mortali,
essendo gli occhi, onde fui presa, quali
natura non fe’ mai poscia, né pria;
chiaro fe’ te, perché a lodarti vegno
quanto più posso in rime ed in parole
con
quella, che m’hai dato, vena e ingegno.
Or a te si convien far che quel sole,
che
mi desti per guida e per sostegno,
non
lasci oscure queste luci e sole.
LII
Beate luci, or se mi fate guerra
voi,
donde può venir sol la mia pace;
se
’l viver mio a voi, luci alme, spiace
e la
mia vita in voi solo si serra;
mi converrà (e chi nol crede s’erra)
o
viver sempre in guerra aspra e tenace,
o
tosto tosto l’anima fugace,
lasciato il corpo, se n’andrà sotterra.
E così rimarrete senza poi
soggetto, ove possiate essercitare
la
crudeltate vostra, Amor e voi.
Io ne verrò al fine a guadagnare;
ché,
morend’un senza peccati suoi,
felicemente suol al ciel poggiare.
LIII
Se d’arder e d’amar io non mi stanco,
anzi
crescermi ognor questo e quel sento,
e di
questo e di quello io non mi pento,
come
Amor sa, che mi sta sempre al fianco,
onde avien che la speme ognor vien manco,
da
me sparendo come nebbia al vento,
la
speme, che ’l mio cor può far contento,
senza cui non si vive, e non vissi anco?
Nel mezzo del mio cor spesso mi dice
un’incognita téma: — O miserella,
non
fia ’l tuo stato gran tempo felice;
ché fra non molto porìa sparir quella
luce
degli occhi tuoi vera beatrice,
ed
ogni gioia tua sparir con ella.
LIV
Se non temprasse il foco del mio core
l’umor, che verso per gli occhi sì spesso,
io
avrei visto già di morte il messo,
e
l’alma ad ubidirla uscita fore;
perché la speme omai cede al timore,
ed
ogni cosa mia soggiace ad esso,
poi
che si vede a mille segni espresso
che
chi può farlo vuole il mio dolore.
Dunque, s’io vivo, è mercé del mio pianto;
s’io
moro, è colpa de le crude voglie
del
mio signor, in vista dolce tanto.
Ei mi legò sì ch’altri non mi scioglie,
ei
vuol aver de la mia morte il vanto.
O
poco chiare ed onorate spoglie!
LV
Voi, che ’n marmi, in colori, in bronzo, in cera
imitate e vincete la natura,
formando questa e quell’altra figura,
che
poi somigli a la sua forma vera,
venite tutti in graziosa schiera
a
formar la più bella creatura,
che
facesse giamai la prima cura,
poi
che con le sue man fe’ la primiera.
Ritraggete il mio conte, e siavi a mente
qual
è dentro ritrarlo, e qual è fore;
sì
che a tanta opra non manchi niente.
Fategli solamente doppio il core,
come
vedrete ch’egli ha veramente
il
suo e ’l mio, che gli ha donato Amore.
LVI
Ritraggete poi me da l’altra parte,
come
vedrete ch’io sono in effetto:
viva
senz’alma e senza cor nel petto
per
miracol d’Amor raro e nov’arte;
quasi nave che vada senza sarte,
senza timon, senza vele e trinchetto,
mirando sempre al lume benedetto
de
la sua tramontana, ovunque parte.
Ed avertite che sia ’l mio sembiante
da
la parte sinistra afflitto e mesto,
e da
la destra allegro e trionfante:
il mio stato felice vuol dir questo,
or
che mi trovo il mio signor davante;
quello, il timor che sarà d’altra presto.
LVII
A che, signor, affaticar invano
per
ritrarvi e scolpirvi in marmi o in carte,
o
gli altri c’hanno fama di quest’arte,
o ’l
chiaro Buonaroti, o Tiziano,
se scolpito qual sète aperto e piano
v’ho
nel petto e nel fronte a parte a parte,
sì
che l’imagin d’indi unqua non parte,
perché siate voi presso o pur lontano?
Ma forse voi volete esser ritratto
in
sembiante leale e grazioso,
qual
sète a tutti in ogn’opra, in ogn’atto;
dove, lassa, ch’a pena dirvel oso,
vi
porto impresso, qual vi provo in fatto,
un
pochetto incostante e disdegnoso.
LVIII
Deh perché non ho io l’ingegno e l’arte
di
Lisippo e d’Apelle, onde potessi
il
viso, che per sole al mondo elessi,
dipinger e scolpir in qualche parte,
poi che non posso ben ritrarr’in carte,
com’avrian con lo stile ritratto essi,
le
mie due stelle, la cui luce impressi
pria
sì nel cor, che d’indi non si parte?
Perch’io rimarrei sol con un tormento
d’amar e sospirar, e ’l cor saria
d’ogni altra cura poi pago e contento;
dov’or piango l’acerba pena mia,
e
piango ch’atta a pinger non mi sento
al
mondo il mio bel sol quanto devria.
LIX
Quelle lagrime calde e quei sospiri,
che
vedete ch’io spargo sì cocenti
da
poter arrestar il mar co’ venti,
quando avien ch’ei più frema e più s’adiri,
come potete voi coi vostri giri
rimirar non pur queti, ma contenti?
O
cor di fère tigri e di serpenti,
che
vive sol de’ duri miei martìri!
Deh prolungate almen per alcun’ore
questa vostra ostinata dipartita,
fin
che m’usi a portar tanto dolore;
perciò ch’a così sùbita sparita
io
potrei de la vita restar fuore,
sol
per servir a voi da me gradita.
LX
Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna
m’affligon sì, che non so com’io possa
riparar questa e quell’altra percossa,
che
mi dànno a vicenda or l’altro or l’una.
Aer, mar, terra, ciel, sol, stelle e luna,
con
quant’ha più ciascuna orgoglio e possa
a
danno mio, a mia ruina mossa,
lassa, mi si mostrò fin da la cuna.
E quel ch’è sol il mio fido sostegno,
per
accrescermi duol, fra sì brev’ora
partirassi da me senza ritegno.
Almen venisse acerba morte ancora,
mentr’io dolente mi lamento e sdegno,
da
le man di tant’oste a trarmi fòra!
LXI
Chi mi darà soccorso a l’ora estrema,
che
verrà morte a trarmi fuor di vita
tosto, dopo l’acerba dipartita,
onde
fin d’ora il cor paventa e trema?
Madre e sorella no, perché la téma
questa e quella a dolersi meco invita,
e
poi per prova omai la lor aita
non
giova a questa doglia alta e suprema.
E le vostre fidate amiche scorte,
che
di giovarmi avriano sole il come,
saran lontane in quella altera corte.
Dunque i’ porrò queste terrene some
senza conforto alcun, se non di morte,
sospirando e chiamando il vostro nome.
LXII
Or che torna la dolce primavera
a
tutto il mondo, a me sola si parte;
e va
da noi lontana in quella parte,
ov’è
del sol più fredda assai la sfera.
E que’ vermigli e bianchi fior, che ’n schiera
Amor
nel viso di sua man comparte
del
mio signor, del gran figlio di Marte,
daranno agli occhi miei l’ultima sera,
e fioriranno a gente, ove non fia
chi
spiri e viva sol del lor odore,
come
fa la penosa vita mia.
O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore,
a
comportar che degli amanti stia
sì
lontano l’un l’altro il corpo e ’l core
LXIII
Questo poco di tempo che m’è dato,
anzi
di vita, avanti il partir vostro,
voi
devreste, o del mondo unico mostro,
essermi pur ad or ad or a lato;
acciò che poi, essendo dilungato
dal
felice e natio terreno nostro,
prenda vigor dal vago avorio ed ostro
il
mio poi, senza voi, misero stato.
Perché, se vi partite, ed io non prenda
prima vigor da voi, converrà certo
ch’a
morte l’alma subito si renda.
E, dove al monte faticoso ed erto
d’onor poggiate, temo non offenda
questa macchia il candor del vostro merto.
LXIV
Voi che novellamente, donne, entrate
in
questo pien di tèma e pien d’errore
largo e profondo pelago d’Amore,
ove
già tante navi son spezzate,
siate accorte, e tant’oltra non passate,
che
non possiate infine uscirne fore,
né
fidate in bonacce o ’n second’ôre;
ché
come a me vi fian tosto cangiate.
Sia dal mio essempio il vostro legno scorto,
cui
ria fortuna allor diede di piglio,
che
più sperai esser vicina al porto.
Sovra tutto vi do questo consiglio:
prendete amanti nobili; e conforto
questo vi fia in ogni aspro periglio.
LXV
Deh, se vi fu giamai dolce e soave
la
vostra fidelissima Anassilla,
mentre serrata, sì che nullo aprilla,
teneste del suo cor, conte, la chiave;
leggendo in queste carte il lungo e grave
pianto, a cui Amor per voi, lassa, sortilla,
mostrar almen di pietà una scintilla,
in
premio di sua fé, non vi sia grave.
Accompagnate almen con un sospiro
la
schiera immensa de’ sospiri suoi,
che
mille volte i ciel pietosi udîro.
Così sia sempre Amor benigno a voi,
quanto a lei fu per voi spietato e diro;
così
non sia mai cosa che v’annoi.
LXVI
Ricevete cortesi i miei lamenti,
e
portateli fide al mio signore,
o di
Francia beate e felici ôre,
che
godete or de’ begli occhi lucenti.
E ditegli con tristi e mesti accenti
che,
s’ei non move a dar soccorso al core,
o
tornando o scrivendo, fra poche ore
resteran gli occhi miei di luce spenti;
perché le pene mie molte ed estreme
per
questa assenzia omai son giunte in parte,
dove
di morte sol si pensa e teme.
E, s’egli avien che ’ndarno restin sparte
dinanzi a lui le mie voci supreme,
al
mio scampo non ho più schermo od arte.
LXVII
Chi porterà le mie giuste querele
al
mio signor, al gran re franco appresso,
d’ogni rara eccellenza essempio espresso
e,
fuor ch’a me, a tutti altri fedele?
Aure de’ miei sospir, voi che le vele
de’
miei caldi disir gonfiate spesso,
sarete il mio secreto e fido messo,
onde
’l mio stato a lui sol si rivele.
E, se la lunga e faticosa via
vi
sbigottisce, venga con voi anche
la
poca e nulla omai speranza mia.
E, s’egli avien ch’ancor essa si stanche,
quando dinanzi a l’idol nostro fia,
tornate a me, ch’anch’io conven che manche.
LXVIII
Chiaro e famoso mare,
sovra ’l cui nobil dosso
si
posò ’l mio signor, mentre Amor volle;
rive
onorate e care
(con
sospir dir lo posso),
che
’l petto mio vedeste spesso molle;
soave lido e colle,
che
con fiato amoroso
udisti le mie note,
d’ira e di sdegno vòte,
colme d’ogni diletto e di riposo;
dite
tutti intenti
il
suon or degli acerbi miei lamenti.
I’ dico che dal giorno
che
fece dipartita
l’idolo, ond’avean pace i miei sospiri,
tolti mi fûr d’attorno
tutti i ben desta vita;
e
restai preda eterna de’ martìri:
e,
perch’io pur m’adiri
e
chiami Amor ingrato,
che
m’involò sì tosto
il
ben ch’or sta discosto,
non
per questo a pietade è mai tornato;
e
tien l’usate tempre,
perch’io mi sfaccia e mi lamenti sempre.
Deh fosse men lontano
almen chi move il pianto,
e
chi move le giuste mie querele!
ché
forse non invano
m’affligerei cotanto,
e
chiamerei Amor empio e crudele,
ch’amaro assenzio e fele
dopo
quel dolce cibo
mi
fe’, lassa, gustare
in
tempre aspre ed amare.
O
duro tòsco, che ’n amor delibo,
perché fai sì dogliosa
la
vita mia, che fu già sì gioiosa?
Almen, poi che m’è lunge
il
mio terrestre dio,
che
sì lontano ancor m’apporta guai,
il
duol che sì mi punge
non
mandasse in oblio,
e
l’udisse ei, per cui piansi e cantai:
men
acerbi i miei lai,
men
cruda la mia pena,
men
fiero il mio tormento,
che
giorno e notte sento,
fôra
per la sua luce alma e serena;
e
sariami ’l dispetto
dolce sovra ogni dolce alto diletto.
S’egli è pur la mia stella,
e se
s’accorda il cielo,
ch’io moia per cagion così gradita,
venga Morte, e con ella
Amor, e questo velo
tolgan, ed esca fuor l’alma smarrita;
che,
da suo albergo uscita,
volerà lieta in parte,
dove
s’avrà mercede
de
la sua viva fede,
fede
d’esser cantata in mille carte.
Ma,
lassa, a che non torna
chi
le tenebre mie con gli occhi adorna?
Se tu fossi contenta,
canzon, come sei mesta,
n’andresti chiara in quella parte e ’n questa.
LXIX
Mentre, signor, a l’alte cose intento,
v’ornate in Francia l’onorata chioma,
come
fecer i figli alti di Roma,
figli sol di valor e d’ardimento,
io qui sovr’Adria piango e mi lamento,
sì
da’ martìr, sì da’ travagli doma,
gravata sì da l’amorosa soma,
che
mi veggo morir, e lo consento.
E duolmi sol che, sì come s’intende
qui
’l suon da noi de’ vostri onor, ch’omai
per
tutta Italia sì chiaro si stende,
non s’oda in Francia il suono de’ miei lai,
che
così spesso il ciel pietoso rende,
e
voi pietoso non ha fatto mai.
LXX
O ora, o stella dispietata e cruda,
ch’io vidi dipartir la gloria mia,
lasciando di beata ch’io era pria
la
vita mia d’ogni suo bene ignuda!
Da indi in qua per me si trema e suda,
si
piagne, si dispera e si disia:
e
sarà meraviglia, se non fia
che
morte tosto queste luci chiuda.
Che, del lor fatal sol restate senza,
altra luce giamai mirar non ponno,
che
lor non sembri notte e dipartenza.
Dunque o lor tosto, Amor, rendi lor donno,
o,
per non soffrir più sì dura assenza,
tosto le chiudi in sempiterno sonno.
LXXI
Quando più tardi il sole a noi aggiorna,
e
quando avien che poi più tardi annotte,
quand’ei mostra il crin d’òr, quando la notte
mostra la luna l’argentate corna,
il mio cor lasso a’ suoi sospir ritorna,
a le
voci, a le lagrime interrotte;
sì
l’ha tutte ad un segno ricondotte
l’assenzia di colui che Francia adorna.
E sì caldo disio di rivederlo
fra
tutt’altri martìr mi preme e punge,
che
non so come omai più sostenerlo.
E duolmi più ch’egli è da me sì lunge,
ch’a
poter richiamarlo ed a poterlo
mover a pièta il mio gridar non giunge.
LXXII
La mia vita è un mar: l’acqua è ’l mio pianto,
i
venti sono l’aure de’ sospiri,
la
speranza è la nave, i miei desiri
la
vela e i remi, che la caccian tanto.
La tramontana mia è il lume santo
de’
miei duo chiari, duo stellanti giri,
a’
quai convien ch’ancor lontana i’ miri
senza timon, senza nocchier a canto.
Le perigliose e sùbite tempeste
son
le teme e le fredde gelosie,
al
dipartirsi tarde, al venir preste.
Bonacce non vi son, perché dal die
che
voi, conte, da me lontan vi feste,
partir con voi l’ore serene mie.
LXXIII
Deh foss’io certa almen ch’alcuna volta
voi
rivolgeste a me l’alto pensiero,
conte, a cui per mio danno i cieli diêro
sì
da’ lacci d’Amor l’anima sciolta.
L’acerba pena mia nel petto accolta,
l’empia mercé del dispietato arciero,
i
sospir, che ’n amor sola mi fêro,
avrian triegua talor o poca o molta.
Ma ’l sentirmi patir carca di fede,
senza mover pietade a chi mi strugge,
a
chi contento i miei tormenti vede,
sì le speranze mie tronca et adugge,
che,
se Dio di rimedio non provede,
l’alma per dipartirsi freme e rugge.
LXXIV
La gran sete amorosa che m’afflige,
la
memoria del ben onde son priva,
che
mi sta dentro al cor tenace e viva,
sì
che null’altra più forte s’affige,
sovra ogni forza mia move et addige
la
vena mia per sé muta e restiva,
e fa
che ’n queste carte adombri e scriva
quanto aspramente Amor m’arde e trafige.
Chi fa qual noi parlar la muta pica?
chi
’l nero corvo e gli altri muti uccelli?
La
brama sol di quel che li nutrica.
Però s’avien ch’io scriva e ch’io favelli,
narrando l’amorosa mia fatica,
non
son io no, son gli occhi vaghi e belli.
LXXV
Fa’ ch’io rivegga, Amor, anzi ch’io moia,
gli
occhi, che di lontan chiamo e sospiro,
fuor
de’ quai ciò ch’io veggio e ciò ch’io miro
con
questi miei mi par tenebre e noia.
Quante fiamme or vome Etna, arser già Troia
in
quell’incendio dispietato e diro,
a
petto a le mie fiamme, al mio martiro,
son
poco o nulla, anzi son pace e gioia.
E, se ’l sol de le luci mie divine,
chi
’l crederia? tornando non lo smorza,
sento che ’l mio incendio è senza fine.
Oh mirabil d’Amor e nova forza!
ché
dove avien ch’un foco l’altro affine,
qui
solo un foco l’altro vince e sforza.
LXXVI
Quando talor Amor m’assal più forte,
e ’l
desir e l’assenzia mi fan guerra,
e
questa e quel vorria pormi sotterra,
preda d’oscura e dispietata morte,
io mi rivolgo a le mie fide scorte,
onde, benché lontan, virtù si sferra
tal
che la nave mia, che dubbiosa erra,
subito par ch’al nido si riporte;
sì che quanto ho d’Amor onde mi doglia,
tanto ho onde mi lodi, poi ch’io sento
ch’una sol man mi leghi, una mi scioglia.
O gioia amara, o mio dolce tormento,
io
prego il ciel che mai non mi vi toglia,
e
sia ’l mio stato or misero, or contento.
LXXVII
O de le mie fatiche alto ritegno,
mentre ad Amor ed a Fortuna piacque,
conte gentil, a cui giamai non nacque
bellezza egual, valor, sangue ed ingegno;
se ’l vostro cor di maggior donna degno
una
volta in me sola si compiacque,
se
fin gli scogli d’Adria, i lidi e l’acque
san
che voi sète il mio solo sostegno,
perché senza mia colpa e mio difetto,
se
non d’esser più ch’altra fida stata,
m’avete tratta fuor del vostro petto?
Questa è la gioia mia da voi sperata?
è
questo quel che voi m’avete detto?
questa è la fé che voi m’avete data?
LXXVIII
Gli occhi onde mi legasti, Amor, affrena,
sì
che non veggan mai altra bellezza,
altra creanza ed altra gentilezza
di
belle donne, onde la Francia è piena;
acciò che quanto ora è dolce ed amena,
non
sia piena di lagrime e d’asprezza
la
vita mia, ch’ogn’altra cosa sprezza,
fuor
che la luce lor chiara e serena.
E, s’egli avien che sia lor mostro a sorte
obietto che sia degno esser amato,
ed
accenda quel cor tenace e forte,
ferisci lui col tuo stral impiombato,
o
con quel d’oro dona a me la morte,
perché viver non voglio in tale stato.
LXXIX
La fé, conte, il più caro e ricco pegno
che
possa aver illustre cavaliero,
come
cangiaste voi presto e leggiero,
fuor
che di lei d’ogni virtù sostegno?
A pena vide voi ’l gallico regno,
che
mutaste con lei voglia e pensiero;
ed
Anassilla e ’l suo fedele e vero
amor
sparir da voi tutti ad un segno.
E piaccia pur a lui, che mi governa,
che
non sia la cagion di questo oblio
novella fiamma nel cor vostro interna!
O, se ciò è, acerbo stato mio!
o
doglia mia sovra ogni doglia eterna!
o
fidanza d’Amor che mi tradìo!
LXXX
Prendi, Amor, de’ tuoi lacci il più possente,
che
non abbia né schermo, né difesa,
onde
Evadne e Penelope fu presa,
e
lega il mio signor novellamente.
A pena ei fu dagli occhi nostri assente,
per
gir a l’alta ed onorata impresa,
che,
noi scherniti e sua fé vilipesa,
rivolse altrove la superba mente.
E, quasi in alto pelago sommerso
d’oblivione, a la sua Anassilla
non
ha degnato mai scriver un verso.
O Nerone, o Mezenzio, o Mario, o Silla,
chi
fu di voi sì crudo e sì perverso,
d’amor gustata pur una scintilla?
LXXXI
Questo aspro conte, un cor d’orsa e di tigre,
che
’n così vago e mansueto aspetto
per
forza di valor e d’intelletto
a la
strada di gloria par che migre,
non so per qual cagion guasti e denigre,
col
mancarmi di fé, sì degno effetto,
e
l’ali di sua fama col difetto
d’infedeltà renda restive e pigre.
Almen gli foss’io presso, onde potessi
dimostrargli il suo fallo e ’l dolor mio,
sì
che fido e pietoso lo facessi!
Ma i’ son qui, lassa, colma di desio,
e i
miei lamenti a l’aure son commessi:
egli
in Francia si sta colmo d’oblio.
LXXXII
Qui, dove avien che ’l nostro mar ristagne,
conte, la vostra misera Anassilla,
quando la luna agghiaccia e ’l sol favilla,
pur
voi chiamando, si lamenta ed agne.
Voi, dove avien che l’Oceano bagne,
la
notte, il giorno, a l’alba ed a la squilla,
menando vita libera e tranquilla,
mirate lieto il mar e le campagne.
E sì l’assenzia e ’l poco amor v’invola
la
memoria di lei, la vostra fede,
che
pur non le scrivete una parola.
O fra tutt’altre mia miseria sola!
o
pena mia, ch’ogn’altra pena eccede!
Ciò
si comporta, Amor, ne la tua scola?
LXXXIII
Oimè, le notti mie colme di gioia,
i dì
tranquilli, e la serena vita,
come
mi tolse amara dipartita,
e
converse il mio stato tutto in noia!
E perché temo ancor (che più m’annoia)
che
la memoria mia sia dipartita
da
quel conte crudel, che m’ha ferita,
che
mi resta altro omai, se non ch’io moia?
E vo’ morir, ché rimirar d’altrui
quel
che fu mio quest’occhi non potranno,
perché mirar non sanno altri che lui.
Prendano essempio l’altre che verranno
a
non mandar tant’oltra i disir sui,
che
ritrar non si possan da l’inganno.
LXXXIV
O sacro, amato e grazioso aspetto,
o
più che ’l chiaro sol lucenti lumi,
o
sangue illustre, angelici costumi,
o
alto ingegno, altissimo intelletto,
o colmi di prudenzia e di diletto,
d’eloquenzia profondi e larghi fiumi,
o
finalmente, ond’io più mi consumi,
d’ogni grazia e virtù, conte, ricetto,
qual contra a’ miei disir stella empia e cruda
già
mi vi tolse, ed or vi tien discosto
contra la fé che voi mi deste pria?
O morte dunque queste luci chiuda,
od
apritele voi tornando tosto;
perché così non so quel ch’io mi sia.
LXXXV
Quando talvolta il mio soverchio ardore
m’assale e stringe oltra ogni stil umano,
userei contra me la propria mano,
per
finir tanti omai con un dolore.
Se non che dentro mi ragiona Amore,
il
qual giamai da me non è lontano:
—
Non por la falce tua ne l’altrui grano:
tu
non sei tua, tu sei del tuo signore,
perché dal dì, ch’a lui ti diedi in preda,
l’anima e ’l corpo, e la morte e la vita
divenne sua, e a lui conven che ceda.
Sì ch’a far da te stessa dipartita,
senza ch’egli tel dica o tel conceda,
è
troppo ingiusta cosa e troppo ardita.
LXXXVI
Piangete, donne, e poi che la mia morte
non
move il signor mio crudo e lontano,
voi,
che sète di cor dolce ed umano,
aprite di pietade almen le porte.
Piangete meco la mia acerba sorte,
chiamando Amor, il ciel empio, inumano,
e
lei, che mi ferì, spietata mano,
che
mi vegga morir e lo comporte.
E, poi ch’io sarò cenere e favilla,
dica
alcuna di voi mesta e pietosa,
sentita del mio foco una scintilla:
— Sotto quest’aspra pietra giace ascosa
l’infelice e fidissima Anassilla,
raro
essempio di fede alta amorosa.
LXXXVII
Prendi, Amor, i tuoi strali e la tua face,
ch’io ti rinunzio i torti e le fatiche,
le
voglie a’ propri danni sempre antiche,
la
guerra certa e la dubbiosa pace.
Trova un novo soggetto e più capace,
cui
’l tuo foco arda e la tua rete intriche,
ch’io per me non vo’ più che mi si diche:
—
Questa per altri indarno arde e si sface. —
Io son dal grave essilio tuo tornata,
e
son resa a me stessa, e non men pento,
mercé di lui che m’ha la via mostrata.
E ne’ miei danni ho pur questo contento,
ch’almen, s’io fui da te sì mal trattata,
alta
fu la cagion del mio tormento,
LXXXVIII
Lassa, chi turba la mia lunga pace?
chi
rompe il sonno e l’alta mia quiete?
chi
mi stilla nel cor novella sete
di
gir seguendo quel che più mi sface?
Tu, Amore, il cui strale e la cui face
ogni
contento uman recide e miete,
tu
ber mi desti del tuo fiume Lete,
che
più mi nòce, quanto più mi piace.
Ahi, quando fia giamai ch’un giorno possa
voler col mio voler, resa a me stessa,
del
grave giogo periglioso scossa?
Quando fia mai che la sembianza impressa
dentro a le mie midolle e dentro a l’ossa
mi
smaghi Amor, e’ miei martìr con essa?
LXXXIX
Ma che, sciocca, dich’io? perché vaneggio?
perché sì fuggo questo chiaro inganno?
perché sgravarmi da sì util danno,
pronta ne’ danni miei, ad Amor chieggio?
Come, fuor di me stessa, non m’aveggio
che
quante ebber mai gioie, e quante avranno,
quante fûr donne mai, quante saranno,
co’
miei chiari martìr passo e pareggio?
Ché l’arder per cagion alta e gentile
ogni
aspra vita fa dolce e beata
più
che gioir per cosa abietta e vile.
Ed io ringrazio Amor, che destinata
m’abbia a tal foco, che da Battro a Tile
spero anche un giorno andar chiara e lodata.
XC
Voi, che per l’amoroso, aspro sentiero,
donne care, com’io, forse passate;
ed
avete talor viste e provate
quante pene può dar quel crudo arciero;
dite per cortesia, ma dite il vero,
se
quante ne son or, quante son state,
a
l’aspre pene mie paragonate,
agguaglian un de’ miei martìr intero.
E dite se vedeste mai sembianza
più
dolce in vista e più spietata poi
del
signor mio, ne l’amorosa stanza.
Così talvolta Amor dia tregua a voi,
mentr’ei con questa dura lontananza
sfoga in me tutti ad uno i furor suoi.
XCI
Novo e raro miracol di natura,
ma
non novo né raro a quel signore,
che
’l mondo tutto va chiamando Amore,
che
’l tutto adopra fuor d’ogni misura:
il valor, che degli altri il pregio fura,
del
mio signor, che vince ogni valore,
è
vinto, lassa, sol dal mio dolore,
dolor, a petto a cui null’altro dura.
Quant’ei tutt’altri cavalieri eccede
in
esser bello, nobile ed ardito,
tanto è vinto da me, da la mia fede.
Miracol fuor d’amor mai non udito!
Dolor, che chi nol prova non lo crede!
Lassa, ch’io sola vinco l’infinito!
XCII
Quasi quercia di monte urtata e scossa
da
ogni lato e da contrari venti,
che,
sendo or questi or quelli più possenti,
per
cader mille volte e mille è mossa,
la vita mia, questa mia frale possa,
combattuta or da speme or da tormenti,
non
sa, lontani i chiari lumi ardenti,
in
qual parte piegar omai si possa.
Or m’affidan le carte del mio bene,
or
mi disperan poi l’altrui parole;
ei
mi dice: — Io pur vengo; — altri: — Non viene. —
Sia morte meco almen, più che non suole,
pietosa a trarmi fuor di tante pene,
se
non debbo veder tosto il mio sole.
XCIII
Qual fuggitiva cerva e miserella,
ch’avendo la saetta nel costato,
seguìta da duo veltri in selva e ’n prato,
fugge la morte che va pur con ella,
tal io, ferita da l’empie quadrella
del
fiero cacciator crudo ed alato,
gelosia e disio avendo a lato,
fuggo, e schivar non posso la mia stella.
La qual mi mena a miserabil morte,
se
non ritorna a noi da gente strana
il
sol degli occhi miei, che la conforte:
egli è ’l dittamo mio, egli risana
la
piaga mia; e può far la mia sorte,
d’aspra e noiosa, dilettosa e piana.
XCIV
A che, conte, assalir chi non repugna?
a
che gittar per terra chi si rende?
a
che contender con chi non contende?
con
chi avete mai sempre fra l’ugna?
Sapete che co’ morti non si pugna;
ché
lo splendor d’un cavalier offende,
e ’l
vostro più, che l’ali oggimai stende
dove
non so s’altrui chiarezza aggiugna.
Guardate che la fama de le tante
vostre vittorie poi non renda oscura,
signor, quest’una sola, e non ammante.
Io per me stimerei mia gran ventura
l’esser veduta al vostro carro innante;
ma
voi del vostro onor abiate cura.
XCV
Menami, Amor, omai, lassa! il mio sole,
che
mi solea non pur far chiaro il giorno,
ma
non men che ’l dì chiara anco la notte,
tal
ch’io sprezzava il ritornar de l’alba,
sì
di quest’occhi la sua vaga luce
disgombrava le tenebre e la nebbia.
Ed ora più non veggio altro che nebbia,
poi
che l’usato mio lucente sole,
con
la sua e del mondo altera luce
lume
facendo in altra parte e giorno
vuol
che mai non si rompa per me l’alba,
perché da me non fugga unqua la notte.
Deh discacciasse il vel di questa notte,
il
vel di tanta e sì importuna nebbia,
e a
l’apparir del suo ritorno l’alba
mi
rimenasse il mio bramato sole,
sì
che lieta vedessi ancora un giorno,
pria
che chiudessi in tutto esta mia luce!
Ben fôra chiara e graziosa luce,
che
procedesse a sì beata notte;
ben
fôra chiaro e desiato giorno,
e
disgombrato di tempeste e nebbia,
che
mostrasse a quest’occhi il lor bel sole,
spuntando tra le rose e tra i fior l’alba.
Pur ch’innanzi che ’l ciel mi renda l’alba,
morte amara non spenga la mia luce,
invidiando a lei l’amato sole;
e,
chiusi gli occhi in sempiterna notte,
ne
vada, lassa, a star fra quella nebbia,
dove
mai non si vede il chiaro giorno.
Tu dunque, Amor, che fai di notte giorno,
e
puoi condurmi in un momento l’alba,
e
via cacciar de’ miei martìr la nebbia,
e di
tenebre oscure trar la luce,
rompi omai ’l vel di questa lunga notte,
et
adduci a quest’occhi il mio bel sole.
Vivo sol, che solei far chiaro il giorno,
mentre la luce mia non vide nebbia,
perché non meni a la mia notte l’alba?
XCVI
Deh perché, com’io son con voi col core,
non
vi son, conte, ancor con la persona,
com’io vorrei, tanto ’l disio mi sprona,
tanto mi stringe il signor nostro Amore?
Ché, mirando talor l’aspro furore
sovra di voi, quando arde più Bellona,
di
qualche cavalier, che la corona
cercasse porsi di sì alto onore,
vedendo scender qualche colpo crudo,
o
pregherei Amor che lo schifassi,
o io
del corpo mio li farei scudo.
Ma ’l ciel pur fiero a le mie voglie stassi,
né
m’ode, benché ’l duol, che dentro chiudo,
rompa per la pietate i duri sassi.
XCVII
O gran valor d’un cavalier cortese
d’aver portato fin in Francia il core
d’una giovane incauta, ch’Amore
a lo
splendor de’ suoi begli occhi prese!
Almen m’aveste le promesse attese
di
temprar con due versi il mio dolore,
mentre, Signor, a procacciarvi onore
tutte le voglie avete ad una intese.
I’ ho pur letto ne l’antiche carte
che
non ebber a sdegno i grandi eroi
parimente seguir Venere e Marte.
E del re, che seguite, udito ho poi
che
queste cure altamente comparte,
ond’è chiar dagli espèri ai lidi eoi.
XCVIII
Conte, il vostro valor ben è infinito,
sì
che vince qualunque alto valore,
ma
verissimamente è via minore
del
duol, ch’amando io ho per voi patito.
E, se non s’è fin qui letto et udito
de
l’infinito cosa unqua maggiore,
questi sono i miracoli d’Amore,
che
vince ciò che ’n cielo è stabilito.
Tempo già fu, che l’alta gioia mia
di
gran lunga avanzava anco il mio duolo,
mentre dolce la speme entro fioria:
or ella è gita, ed ei rimaso è solo,
dal
dì che per mia stella acerba e ria
prendeste, ahi lassa! verso Francia il volo.
XCIX
Io pur aspetto, e non veggo che giunga
il
mio signor o ’l suo fidato messo
al
termin che da lui mi fu promesso:
lassa! ché ’l mio piacer troppo s’allunga.
Ond’avien che temenza il cor mi punga,
che
qualche intoppo non gli sia successo;
o
ch’ei sol pensi in me quanto m’è presso,
e
l’assenzia il suo cor da me disgiunga.
Il che se fosse, io prego morte avara
che
venga in vece sua, poi ch’ei non viene,
a
trarmi fuor di téma e vita amara.
Ma, se giusta cagion me lo ritiene,
io
prego Amor, ch’ogni fosco rischiara,
ch’apra la via, ond’io vegga il mio bene.
C
O beata e dolcissima novella,
o
caro annunzio, che mi promettete
che
tosto rivedrò le care e liete
luci
e la faccia graziosa e bella;
o mia ventura, o mia propizia stella,
ch’a
tanto ben serbata ancor m’avete,
o
fede, o speme, ch’a me sempre sète
state compagne in dura, aspra procella;
o cangiato in un punto viver mio
di
mesto in lieto; o queto, almo e sereno
fatto or di verno tenebroso e rio;
quando potrò giamai lodarvi a pieno?
come
dir qual nel cor aggio disio?
di
che letizia io l’abbia ingombro e pieno?
CI
Con quai degne accoglienze o quai parole
raccorrò io il mio gradito amante,
che
torna a me con tante glorie e tante,
quante in un sol non vide forse il sole?
Qual color or di rose, or di viole
fia
’l mio? qual cor or saldo ed or tremante,
condotta innanzi a quel divin sembiante,
ch’ardir e téma insieme dar mi suole?
Osarò io con queste fide braccia
cingerli il caro collo, ed accostare
la
mia tremante a la sua viva faccia?
Lassa, che pur a tanto ben penare
temo
che ’l cor di gioia non si sfaccia:
chi
l’ha provato se lo può pensare.
CII
Via da me le tenebre e la nebbia,
che
mi son sempre state agli occhi intorno
sei
lune e più, che ’n Francia fe’ soggiorno
lui,
che ’l mio cor, come gli piace, trebbia
È ben ragion ch’asserenarmi io debbia,
or
che ’l mio sol m’ha rimenato il giorno;
or
c’han pace le guerre, che d’attorno
mi
fûr, qual vide Trasimeno e Trebbia.
Sia ogni cosa in me di riso piena,
poi
che seco una schiera di diletti
a
star meco il mio sol almo rimena.
Sia la mia vita in mille dolci, eletti
piaceri involta, e tutta alma e serena,
e se
stessa gioendo ognor diletti.
CIII
Io benedico, Amor, tutti gli affanni,
tutte l’ingiurie e tutte le fatiche,
tutte le noie novelle ed antiche,
che
m’hai fatto provar tante e tanti anni;
benedico le frodi e i tanti inganni,
con
che convien che i tuoi seguaci intriche;
poi
che tornando le due stelle amiche
m’hanno in un tratto ristorati i danni.
Tutto il passato mal porre in oblio
m’ha
fatto la lor viva e nova luce,
ove
sol trova pace il mio disio.
Questa per dritta strada mi conduce
su a
contemplar le belle cose e Dio,
ferma guida, alta scorta e fida luce.
CIV
O notte, a me più chiara e più beata
che
i più beati giorni ed i più chiari,
notte degna da’ primi e da’ più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;
tu de le gioie mie sola sei stata
fida
ministra; tu tutti gli amari
de
la mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m’ha legata.
Sol mi mancò che non divenni allora
la
fortunata Alcmena, a cui sté tanto
più
de l’usato a ritornar l’aurora.
Pur così bene io non potrò mai tanto
dir
di te, notte candida, ch’ancora
da
la materia non sia vinto il canto.
CV
Son pur questi i begli occhi e quelle, c’hanno
vinto il sol tante volte, alme bellezze;
son
pur queste le grazie e le vaghezze
che
luce e vita a la mia morte dànno.
E tuttavia son sì pronte a l’affanno
le
voglie mie ed a’ tormenti avezze
di
tanta assenzia omai, che l’allegrezze
ritornar a star meco più non sanno;
quasi ’l gran re, che di sospetto pieno,
fuggendo il crudo zio, per lunga usanza
si
fece natural cibo il veleno.
Qui fa bisogno, Amor, la tua possanza,
che
del primo dolor mi sgombri il seno,
sì
che tanta mia gioia or v’abbia stanza.
CVI
O diletti d’amor dubbi e fugaci,
o
speranza che s’alza e cade spesso,
e
nasce e more in un momento istesso;
o
poca fede, o poco lunghe paci!
Quegli, a cui dissi: — Tu solo mi piaci, —
è
pur tornato, io l’ho pur sempre presso,
io
pur mi specchio e mi compiaccio in esso,
e
ne’ begli occhi suoi chiari e vivaci;
e tuttavia nel cor mi rode un verme
di
fredda gelosia, freddo timore
di
tosto tosto senza lui vederme.
Rendi tu vana la mia tèma, Amore,
tu,
che beata e lieta pòi tenerme,
conservandomi fido il mio signore.
CVII
Or che ritorna e si rinova l’anno,
passato il verno e la stagion più fresca,
l’amoroso disir mio si rinfresca,
e la
mia dolce pena, e ’l dolce affanno.
E qual i novi umor gravidi fanno
gli
arbori, onde lor frutto a suo tempo esca,
tal
umor nel mio petto par che cresca,
ad
qual poi pensier dolci a dietro vanno.
Ed è ben degno che gioia ed umore,
or
ch’egli è meco la mia primavera,
mi
rinovelli e mi ridesti Amore.
Oh pur non giunga a sì bel giorno sera!
oh
pur non cangi il bel tempo in orrore,
dipartendo da me l’alma mia sfera!
CVIII
Poi che m’ha reso Amor le vive stelle,
che
mi guidano al ciel per dritta via,
e ne
le molte mie gravi tempeste
m’hanno mai sempre ricondotta in porto
di
questo chiaro e fortunato mare,
ch’indarno turban le procelle e i venti;
udite, benigne aure, amici venti,
e
voi, occhi del cielo, ardenti stelle,
mentre qui sovra questo altero mare,
da
la mia lunga e faticosa via,
la
mercede d’Amor, tornata in porto,
lodo
di lui gli strazi e le tempeste.
Voi, voce, voi, sospir, voi le tempeste
sète, voi sète i graziosi venti,
che
dimostrate poi sì dolce il porto,
quando il sol arde e quando ardon le stelle;
voi
sète la sicura e dritta via,
che
ci guidate de’ diletti al mare.
Qual d’eloquenzia fia sì largo mare,
e sì
scarco di nubi e di tempeste,
che
possa dir senza arrestar fra via,
mentre stan quete le procelle e i venti,
la
gioia che mi dan le mie due stelle,
or
c’hanno il mio signor ridotto in porto?
Dolce, sicuro e grazioso porto,
che
del mio pianto l’infinito mare
m’hai acquetato al raggio de le stelle,
ch’ovunque splendon fugan le tempeste,
sì
ch’io non posso più temer ch’i venti
turbin sì cara e dilettosa via!
Menami, Amor, omai per questa via,
fin
che quest’alma giunga a l’altro porto,
ch’io non vo’ navigar con altri venti,
né
di questo cercar più largo mare,
né
nel viaggio mio vo’ ch’altre stelle
mi
sieno scorte, e sgombrin le tempeste.
Aspre tempeste ed importuni venti
non
n’impediran più del mar la via,
or
che le stelle mie m’han mostro il porto.
CIX
Gioia somma, infinito, alto diletto,
or
che l’amato mio tesoro ho presso,
or
che parlo con lui, che ’l miro spesso,
m’ingombrerebbe certamente il petto,
se ’l cor non mi turbasse un sol sospetto
di
tosto tosto rimaner senz’esso,
per
quel ch’io veggo a qualche segno espresso,
ché
sol apre Amor gli occhi a l’intelletto.
E, se ciò è, io vo’ certo finire
questa misera vita in un momento,
anzi
ch’io provi un tanto aspro martìre;
perché conosco chiaramente e sento
che
senza lui mi converria morire,
ch’è
l’appoggio, a cui ’l viver mio sostento.
CX
Chi può contar il mio felice stato.
l’alta mia gioia e gli alti miei diletti?
O un
di que’ del ciel angeli eletti,
o
altro amante, che l’abbia provato.
Io mi sto sempre al mio signor a lato,
godo
il lampo degli occhi e ’l suon dei detti,
vivomi de’ divini alti concetti,
ch’escon da tanto ingegno e sì pregiato.
Io mi miro sovente il suo bel viso,
e
mirando mi par veder insieme
tutta la gloria e ’l ben del paradiso.
Quel che sol turba in parte la mia speme,
è ’l
timor che da me non sia diviso;
ché
’l vorrei meco fin a l’ore estreme.
CXI
Pommi ove ’l mar irato geme e frange,
ov’ha l’acqua più queta e più tranquilla;
pommi ove ’l sol più arde e più sfavilla,
o
dove il ghiaccio altrui trafige ed ange;
pommi al Tanai gelato, al freddo Gange,
ove
dolce rugiada e manna stilla,
ove
per l’aria empio velen scintilla,
o
dove per amor si ride e piange;
pommi ove ’l crudo Scita ed empio fere,
o
dove è queta gente e riposata,
o
dove tosto o tardi uom vive e père:
vivrò qual vissi, e sarò qual son stata,
pur
che le fide mie due stelle vere
non
rivolgan da me la luce usata.
CXII
Se voi poteste, o sol degli occhi miei,
qual
sète dentro donno del mio core,
veder coi vostri apertamente fuore,
oh
me beata quattro volte e sei!
Voi più sicuro, e queta io più sarei:
voi
senza gelosia, senza timore;
io
di due sarei scema d’un dolore,
e
più felicemente ardendo andrei.
Anzi aperto per voi, lassa, si vede,
più
che ’l lume del sol lucido e chiaro,
che
dentro e fuori io spiro amor e fede.
Ma vi mostrate di credenza avaro,
per
tôrmi ogni speranza di mercede,
e
far il dolce mio viver amaro.
CXIII
Deh foss’io almen sicura che lo stato,
dov’or mi trovo, non mancasse presto,
perché, sì come or è lieto ed or mesto,
sarebbe il più felice che sia stato.
I’ ho Amore e ’l mio signor a lato,
e mi
consolo or con quello, or con questo;
e,
sempre che di loro un m’è molesto,
ricorro a l’altro, che m’è poi pacato.
S’Amor m’assale con la gelosia,
mi
volgo al viso, che ’n sé dentro serra
virtù ch’ogni tormento scaccia via:
se ’l mio signor mi fa con ira guerra,
viene Amor poi con l’altra compagnia,
vera
umiltà ch’ogni alto sdegno atterra.
CXIV
Mille volte, signor, movo la penna
per
mostrar fuor, qual chiudo entro il pensiero,
il
valor vostro e ’l bel sembiante altero,
ove
Amor e la gloria l’ale impenna;
ma perché chi cantò Sorga e Gebenna,
e
seco il gran Virgilio e ’l grande Omero
non
basteriano a raccontarne il vero,
ragion ch’io taccia a la memoria accenna.
Però mi volgo a scriver solamente
l’istoria de le mie gioiose pene,
che
mi fan singolar fra l’altra gente:
e come Amor ne’ be’ vostr’occhi tiene
il
seggio suo, e come indi sovente
sì
dolce l’alma a tormentar mi viene.
CXV
Quelle rime onorate e quell’ingegno,
pari
a la beltà vostra e al gran valore,
rivolgete a voi stesso in far onore,
conte, come di lor soggetto degno;
o trovate di me più altero pegno,
se
pur uscir da voi volete fore,
perché a sì larga vena, a tanto umore
son
per me troppo frale e secco legno,
e non ho parte in me d’esser cantata,
se
non perch’amo e riverisco voi
oltra ogni umana, oltra ogni forma usata.
Sì chiara fiamma merta i pregi suoi;
in
questa parte io deggio esser cantata
fin
ch’io sia viva, eternamente, e poi.
CXVI
Lodate i chiari lumi, ove mirando
perdei me stessa, e quel bel viso umano,
da
cui vibrò lo stral, mosse la mano
Amor, quando da me mi pose in bando.
Lodate il valor vostro alto e mirando,
ch’al valor d’Alessandro è prossimano:
sallo il gran re, sallo il paese strano,
che
di voi e di lui vanno parlando.
Lodate il senno, a cui non è simìle
nel
bel verde degli anni; e, quel che ’n carte
vedrò famoso, il vostro ingegno e stile.
In me, signor, non è pur una parte,
che
non sia tutta indegna e tutta vile,
per
cui sì vaghe rime sieno sparte.
CXVII
A che vergar, signor, carte ed inchiostro
in
lodar me, se non ho cosa degna,
onde
tant’alto onor mi si convegna;
e,
se ho pur niente, è tutto vostro?
Entro i begli occhi, entro l’avorio e l’ostro,
ove
Amor tien sua gloriosa insegna,
ove
per me trionfa e per voi regna,
quanto scrivo e ragiono mi fu mostro.
Perché ciò che s’onora e ’n me si prezza,
anzi
s’io vivo e spiro, è vostro il vanto,
a
voi convien, non a la mia bassezza.
Ma voi cercate con sì dolce canto,
lassa, oltra quel che fa vostra bellezza,
d’accrescermi più foco e maggior pianto.
CXVIII
Bastavan, conte, que’ bei lumi, quelli,
ch’al sol raggi, a Ciprigna alma beltate,
ad
Amor arme, a me la libertate
furâr da prima che mirai in elli,
a far ch’arda per voi sempre e favelli,
sì
che l’intenda la futura etate,
senza cercar con pure rime ornate
d’aggiunger nove al cor piaghe e flagelli.
Ché col vostr’alto procacciarmi onore
si
strigneria, se si potesse, il laccio,
s’accresceria, se si potesse, ardore.
Ma di questo e di quel son fuor d’impaccio,
ché
quanto arder e strigner puote Amore,
io
son stretta per voi, conte, e mi sfaccio.
CXIX
Io non mi voglio più doler d’Amore,
poi
che, quant’ei mi dà doglia e tormento,
tanto il signor, ch’io amo e ch’io pavento,
cerca scrivendo procacciarmi onore.
O di tutte bellezze e grazie il fiore,
nido
di cortesia e d’ardimento,
come
posso bramar che resti spento
così
famoso e così chiaro ardore?
Anzi prego che ’l ciel mi doni vita,
sì
che, dovunque il sol nasca e tramonte,
sia
la mia fiamma entro tai versi udita;
e dica alcuna, ove d’amor si conte:
—
Ben fu la sorte di costei gradita,
scritta e cantata da sì alto conte.
CXX
Se qualche téma talor non turbasse,
o
qualche sdegno, il mio felice stato,
sarebbe il più tranquillo, il più beato
di
qualunque altra donna altr’uomo amasse.
Ché, s’avien pur che ’l mio signor mi lasse,
talor a qualche degna opra chiamato,
dentro il mio core e bello ed onorato,
qual
egli è meco, il suo sembiante stasse;
sì che avendo mai sempre in compagnia
tutto quel che più amo e più mi piace,
turbarmi Amor o sorte non poria,
s’egli, che nel mio pianto si compiace,
con
qualche nova e strana fantasia
non
turbasse o rompesse la mia pace.
CXXI
Chi vuol veder l’imagin del valore,
l’albergo de la vera cortesia,
il
nido di bellezza e leggiadra,
la
stanza de la gloria alta e d’onore,
venga a veder l’illustre mio signore,
dove
si trova ciò che si disia,
fino
il mio cor e fino l’alma mia,
che
gli dié già, né poi mi rese, Amore.
Ma, s’ella è donna, non s’affissi molto,
ché
resterà subitamente presa
fra
mille meraviglie del bel volto.
Ivi Amor ha la rete sempre tesa,
indi
saetta, ed ivi giace occolto,
quando vuol far qualche maggior impresa.
CXXII
Quando io movo a mirar fissa ed intenta
le
ricchezze e i tesor, ch’Amore e ’l cielo
dentro ne l’alma e fuor nel mortal velo
poser di lui, ch’ogn’altra luce ha spenta,
resto del mio martìr tanto contenta,
sì
paga del mio vivo, ardente zelo,
che
la ferita e ’l despietato telo,
che
mi trafige il cor, non par che senta.
Sol mi struggo e mi doglio, quando penso
che
da me tosto debba allontanarse
questo d’ogni mia gloria abisso immenso.
A questo l’alma sol non può quetarse,
a
ciò grida ed esclama ogni mio senso:
— O
tante indarno mie fatiche sparse!
CXXIII
O tante indarno mie fatiche sparse,
o
tanti indarno miei sparsi sospiri,
o
vivo foco, o fé, che, se ben miri,
di
tal null’altra mai non alse ed arse,
o carte invan vergate e da vergarse
per
lodar quegli ardenti amati giri,
o
speranze ministre de’ disiri,
a
cui premio più degno dovea darse,
tutte ad un tratto ve ne porta il vento,
poi
che da l’empio mio signore stesso
con
queste proprie orecchie dir mi sento
che tanto pensa a me, quanto m’è presso,
e,
partendo, si parte in un momento
ogni
membranza del mio amor da esso.
CXXIV
Signor, io so che ’n me non son più viva,
e
veggo omai ch’ancor in voi son morta,
e
l’alma, ch’io vi diedi, non sopporta
che
stia più meco vostra voglia schiva.
E questo pianto, che da me deriva,
non
so chi ’l mova per l’usata porta,
né
chi mova la mano e le sia scorta,
quando avien che di voi talvolta scriva.
Strano e fiero miracol veramente,
che
altri sia viva, e non sia viva, e pèra,
e
senta tutto e non senta niente;
sì che può dirsi la mia forma vera,
da
chi ben mira a sì vario accidente,
un’imagine d’Eco e di Chimera.
CXXV
— Vorrei che mi dicessi un poco, Amore,
c’ho
da far io con queste tue sorelle
Temenza e Gelosia? ed ond’è ch’elle
non
sanno star se non dentro il mio core?
Tu hai mille altre donne, che l’ardore
provan, com’io, de l’empie tue facelle:
or
manda dunque queste a star con quelle,
fa’
ch’un dì n’escan dal mio petto fore.
— Io ho ben — mi dic’ei — mille persone
a
chi mandarle; ma nessuna d’esse
ha,
qual tu, da temer alta cagione.
Le luci ch’ami son le luci stesse,
che,
per dar gelosia e passione
a
tutto il mondo, la mia madre elesse.
CXXVI
Così m’acqueto di temer contenta,
e di
viver d’amara gelosia,
pur
che l’amato lume lo consenta,
pur
che non spiaccia a lui la pena mia.
Perch’è più dolce se per lui si stenta,
che
gioir per ogn’altro non saria;
ed
io per me non fia mai che mi penta
di
sì gradita e nobil prigionia;
perché capir un’alma tanto bene,
senza provarvi qualche cosa aversa,
questa terrena vita non sostiene.
Ed io, che sono in tante pene immersa,
quando avanti il suo raggio almo mi viene,
resto da quel ch’esser solea diversa.
CXXVII
Su, speranza, su, fé, prendete l’armi
contra questa crudel nemica mia,
importuna e spietata gelosia,
che
cerca quanto può di vita trarmi:
diasi uscita a’ sospir, verghinsi carmi,
sì
che si sfoghi tanta pena ria;
trovisi dolce e grata compagnia,
sì
che possa il dolor men danno farmi.
E, se questo non basta, un altro amore
si
prenda, e lassi questo onde ora avampo,
e
così vinca l’un l’altro dolore.
Perch’ogni fèra in selva, in prato, in campo
cerca per natural forza e vigore
di
tentar ogni via per lo suo scampo.
CXXVIII
S’io ’l dissi mai, signor, che mi sia tolto
l’arder per voi, com’ardo in fiamma viva;
s’io
’l dissi mai, ch’io resti d’amar priva,
e
resti il cor del suo bel laccio sciolto.
S’io ’l dissi mai, che ’l lume del bel volto,
di
cui convien ch’ognor ragioni e scriva,
a la
mia luce di tutt’altro schiva
non
si mostri giamai poco né molto.
S’io ’l dissi mai, che gli uomini a vicenda
tutti, e li dèi, fortuna disdegnosa
a
mio danno, a ruina ultima accenda.
Ma s’io nol dissi, e non feci mai cosa
degna del vostro sdegno, omai si renda
la
vita mia, qual fu, lieta e gioiosa.
CXXIX
O mia sventura, o mio perverso fato,
o
sentenzia nemica del mio bene,
poi
che senza mia colpa mi conviene
portar la pena de l’altrui peccato.
Quando si vide mai reo condannato
a la
morte, a l’essilio, a le catene
per
l’altrui fallo e, per maggior sue pene,
senza esser dal suo giudice ascoltato?
Io griderò, signor, tanto e sì forte,
che,
se non li vorrete ascoltar voi,
udranno i gridi miei Amore o Morte;
e forse alcun pietoso dirà poi:
—
Questa locò per sua contraria sorte
in
troppo crudo luogo i pensier suoi.
CXXX
Qual fu di me giamai sotto la luna
donna più sventurata e più confusa,
poi
che ’l mio sole, il mio signor m’accusa
di
cosa, ov’io non ho già colpa alcuna?
E, per farmi dolente a via più d’una
guisa, non vuol ch’io possa far mia scusa;
vuol
ch’io tenga lo stil, la bocca chiusa,
come
muto, o fanciul picciolo in cuna.
A qual più sventurato e tristo reo
di
non poter usar la sua difesa
sì
dura legge al mondo unqua si dèo?
Tal è la fiamma, ond’hai me, Amor, accesa,
tal
è il mio fato dispietato e reo,
tal
è ’l laccio crudel, con che m’hai presa.
CXXXI
Poi che da voi, signor, m’è pur vietato
che
dir le vere mie ragion non possa,
per
consumarmi le midolle e l’ossa
con
questo novo strazio e non usato,
fin che spirto avrò in corpo ed alma e fiato,
fin
che questa mia lingua averà possa,
griderò sola in qualche speco o fossa
la
mia innocenzia e più l’altrui peccato.
E forse ch’averrà quello ch’avenne
de
la zampogna di chi vide Mida,
che
sonò poi quel ch’egli ascoso tenne.
L’innocenzia, signor, troppo in sé fida,
troppo è veloce a metter ale e penne,
e,
quanto più la chiude altri, più grida.
CXXXII
Quando io dimando nel mio pianto Amore,
che
così male il mio parlar ascolta,
mille fiate il dì, non una volta,
ché
mi fere e trafigge a tutte l’ore:
— Come esser può, s’io diedi l’alma e ’l core
al
mio signor dal dì ch’a me l’ho tolta,
e se
ogni cosa dentro a lui raccolta
è
riso e gioia, è scema di dolore,
ch’io senta gelosia fredda e temenza,
e
d’allegrezza e gioia resti priva,
s’io
vivo in lui, e in me di me son senza?
— Vo’ che tu mora al bene ed al mal viva —
mi
risponde egli in ultima sentenza; —
questo ti basti, e questo fa’ che scriva.
CXXXIII
Così, senza aver vita, vivo in pene,
e,
vivendo ov’è gioia, non son lieta;
così
fra viva e morta Amor mi tiene,
e
vita e morte ad un tempo mi vieta.
Tal la sua sorte a ognun nascendo viene,
tal
fu il mio aspro e mio crudo pianeta;
di
sì rio frutto in sitibonde arene,
senza mai sparger seme, avien ch’io mieta.
E s’io voglio per me stessa finire
con
la vita i tormenti, non m’è dato,
ché
senza vita un uom non può colpire.
Qual fine Amore e ’l ciel m’abbia serbato
io
non so, lassa, e non posso ridire;
so
ben ch’io sono in un misero stato.
CXXXIV
Queste rive ch’amai sì caldamente,
rive
sovra tutt’altre alme e beate,
fido
albergo di cara libertate,
nido
d’illustre e riposata gente,
chi ’l crederia? mi son novellamente
sì
fattamente fuor del cor andate,
che
di passar con lor le mie giornate
mi
doglio meco e mi pento sovente.
E tutti i miei disiri e i miei pensieri
mirano a quel bel colle, ove ora stanza
il
mio signor e i suoi due lumi alteri.
Quivi, per acquetar la desianza,
spenderei tutta seco volentieri
questa vita penosa che m’avanza.
CXXXV
Quanto è questo fatto ora aspro e selvaggio
di
dolce, ch’esser suole, e lieto mare!
Dopo
il vostro da noi allontanare
quanta compassion a me propria aggio,
tanto ho invidia al bel colle, al pino, al faggio,
che
gli fanno ombra, al fiume, che bagnare
gli
suole il piede ed a me nome dare,
che
godono or del vostro vivo raggio.
E, se non che egli è pur quell’il bel nido,
dove
nasceste, io pregherei che fesse
il
ciel lui ermo, lor secchi e quel torbo:
per questo io resto, e prego voi, o fido
del
mio cor speglio, ove mi tergo e forbo,
a
tornar tosto e serbar le promesse.
CXXXVI
Chi mi darà di lagrime un gran fonte,
ch’io sfoghi a pieno il mio dolor immenso,
che
m’assale e trafige, quando io penso
al
poco amor del mio spietato conte?
Tosto che ’l sol degli occhi suoi tramonte
agli
occhi miei, a’ quali è raro accenso,
tanto ha di me non più memoria o senso,
quanto una tigre del più aspro monte.
Ben è ’l mio stato e ’l destìn crudo e fero,
ché
tosto che da me vi dipartite,
voi
cangiate, signor, luogo e pensiero.
— Io ti scriverò subito — mi dite —
ch’io sarò giunto al loco ove andar chero; —
e
poi la vostra fede a me tradite.
CXXXVII
Prendete il volo tutti in quella parte,
ove
sta chi può dar fine a’ miei mali
col
raggio sol de’ lumi suoi fatali,
o
sospir, o querele al vento sparte.
E con quanta eloquenzia e con quant’arte
vi
detterà colui c’ha face e strali,
dite
a la vita mia pietose quali
dì
provo, quando egli da noi si parte.
E se con vostri umili modi adorni
potrete far pietoso il vago aspetto,
sì
ch’a star oggimai con noi ritorni,
non tornate più voi, ch’io non v’aspetto:
rimanetevi pur in que’ soggiorni,
e
venga a me con lui gioia e diletto.
CXXXVIII
Sacro fiume beato, a le cui sponde
scorgi l’antico, vago ed alto colle,
ove
nacque la pianta ch’oggi estolle
al
ciel i rami e le famose fronde,
ben fûr le stelle ai tuoi desir seconde,
ché
’l sì spesso veder non ti si tolle
e ’l
far talor la bella pianta molle,
ch’a
me, lassa, sì spesso si nasconde.
Tu mi dài nome, ed io vedrò se ’n carte
posso con le virtù che la mi rende,
al
secol, che verrà, famoso farte.
Oh pur non turbi il ciel, cui sempre offende
la
gioia mia, i miei disegni in parte!
Altri ch’ella so ben che non m’intende.
CXXXIX
Fiume, che dal mio nome nome prendi,
e
bagni i piedi a l’alto colle e vago,
ove
nacque il famoso ed alto fago,
de
le cui fronde alto disio m’accendi,
tu vedi spesso lui, spesso l’intendi,
e
talor rendi la sua bella imago;
ed a
me che d’altr’ombra non m’appago,
così
sovente, lassa, lo contendi.
Pur, non ostante che la nobil fronde,
ond’io piansi e cantai con più d’un verso,
la
tua mercé, sì spesso lo nasconde,
prego ’l ciel ch’altra pioggia o nembo avverso
non
turbi, Anasso, mai le tue chiar’onde,
se
non quel sol che da quest’occhi verso.
CXL
O rive, o lidi, che già foste porto
de
le dolci amorose mie fatiche,
mentre stavan con noi le luci amiche,
che
sempre accese ne l’interno porto,
quanta mi deste già gioia e conforto,
tanto mi sète ad or ad or nemiche,
poi
che ’l mio sol (lassa, convien che ’l diche!)
voi
e me ha lasciato a sì gran torto.
Io cangerei con voi campagne e boschi
e
colli e fiumi, là dove dimora
chi
partendo lasciò gli occhi miei foschi,
e di tornar non fa pensier ancora,
non
ostante, crudel, che ben conoschi
che,
se sta molto, converrà ch’io mora.
CXLI
Sovente Amor, che mi sta sempre a lato,
mi
dice: — Miserella, quale or fia
la
vita tua, poi che da te si svia
lui
che soleva far lieto il tuo stato? —
Io gli rispondo: — E tu perché mostrato
l’hai a questi occhi, quando ’l vidi pria,
se
ne dovea seguir la morte mia,
subito visto e subito rubbato? —
Ond’ei si tace, avvisto del suo fallo,
ed
io mi resto preda del mio male:
quanto mesta e dogliosa, il mio cor sallo!
E, perch’io preghi, il mio pregar non vale,
per
ciò che a chi devrebbe, ed a chi fàllo,
o
poco o nulla del mio danno cale.
CXLII
Rimandatemi il cor, empio tiranno,
ch’a
sì gran torto avete ed istraziate,
e di
lui e di me quel proprio fate,
che
le tigri e i leon di cerva fanno.
Son passati otto giorni, a me un anno,
ch’io non ho vostre lettre od imbasciate,
contra le fé che voi m’avete date,
o
fonte di valor, conte, e d’inganno.
Credete ch’io sia Ercol o Sansone
a
poter sostener tanto dolore,
giovane e donna e fuor d’ogni ragione,
massime essendo qui senza ’l mio core
e
senza voi a mia difensione,
onde
mi suol venir forza e vigore?
CXLIII
Quando fia mai ch’io vegga un dì pietosi
gli
occhi, che per mio mal da prima vidi
in
queste rive d’Adria, in questi lidi
dov’Amor mille lacci aveva ascosi?
Quando fia mai che libera dir osi,
dato
bando a’ miei pianti ed a’ miei gridi:
— Or
ti conforta, anima cara, or ridi,
or
tempo è ben che godi e che riposi? —
Lassa, non so; so ben che ad ora ad ora
ho
cercato placar o lui o morte,
e né
questa né quello ho mosso ancora.
Tal è, misera, il fin, tal è la sorte
di
chi troppo altamente s’innamora:
donne mie, siate a l’invescarvi accorte.
CXLIV
Ricorro a voi, luci beate e dive,
a
voi che sète le mie fide scorte,
da
poi che ’l cielo, Amor, fortuna e sorte
sono
ai soccorsi miei sì tardi e schive.
Se per me in voi si spera e ’n voi si vive,
come
avien che per voi pur si comporte
a
star lunge da me quest’ore corte,
che
’l mio ben la pietà vostra prescrive?
Deh non state oggimai da me più lunge!
Fate
che questo breve spazio sia
concesso a me d’avervi sempre presso;
ché l’ardente disio tanto mi punge,
che
certo finirà la vita mia,
se
non m’è ’l vagheggiarvi ognor concesso.
CXLV
Liete campagne, dolci colli ameni,
verdi prati, alte selve, erbose rive,
serrata valle, ov’or soggiorna e vive
chi
può far i miei dì foschi e sereni,
antri d’ombre amorose e fresche pieni,
ove
raggio di sol non è ch’arrive,
vaghi augei, chiari fiumi ed aure estive,
vezzose ninfe, Pan, fauni e sileni,
o rendetemi tosto il mio signore,
voi
che l’avete, o fategli almen cónta
la
mia pena e l’acerbo aspro dolore:
ditegli che la vita mia tramonta,
s’omai fra pochi giorni, anzi poch’ore
il
suo raggio a quest’occhi non sormonta.
CXLVI
Come posso far pace col desio,
o
farvi tregua, poi ch’egli pur vuole,
non
essendo qui nosco il suo bel sole,
tranquillo porto e sole al viver mio?
Egli fa giorno al suo colle natio,
come
a chi nulla o poco incresce e duole
o ’l
morir nostro o ’l pianto o le parole:
lassa, ch’io nacqui sotto destìn rio!
Là dove converrà che tosto ceda
a
morte l’alma, o tosto a noi ritorni
la
beltà ch’al mio mal non par che creda.
Tal qui, fra questi d’Adria almi soggiorni,
io
misera Anassilla, d’Amor preda,
notte e dì chiamo i miei due lumi adorni.
CXLVII
— Or sopra il forte e veloce destriero —
io
dico meco — segue lepre o cerva
il
mio bel sole, or rapida caterva
d’uccelli con falconi o con sparviero.
Or assal con lo spiedo il cignal fiero,
quando animoso il suo venir osserva;
or a
l’opre di Marte, or di Minerva
rivolge l’alto e saggio suo pensiero.
Or mangia, or dorme, or leva ed or ragiona,
or
vagheggia il suo colle, or con l’umana
sua
maniera trattiene ogni persona. —
Così, signor, bench’io vi sia lontana,
sì
fattamente Amor mi punge e sprona,
ch’ogni vostr’opra m’è presente e piana.
CXLVIII
Se ’l cielo ha qui di noi perpetua cura,
e
partisce ad ognun, come conviene,
che
maraviglia è, s’a me dié pene,
e mi
dié vita dispietata e dura?
e se ’l mio sol di me poco si cura?
se
mi vede morir e lo sostiene?
Ei
vince il sol con sue luci serene,
illustre e bel per studio e per natura.
A lui convien regnare, a me servire,
vil
donna e bassa; e parmi ancora troppo
ch’egli non sdegni il mio per lui patire.
Queste ragioni ed altre insieme aggroppo
meco
talor, per dar tregua al martìre
col
desir sempre presto e ’l poter zoppo.
CXLIX
Sì come tu m’insegni a sospirare,
arder di fiamma tal, che Etna pareggia,
pianger di pianto tal, che se n’aveggia
omai
quest’onda e cresca questo mare,
insegnami anche, Amor, tu che ’l puoi fare,
come
men duro il mio signor far deggia,
come, quando adivien che pietà chieggia,
possa placarlo al suon del mio pregare.
Ch’io ti perdono e danni e strazi e torti,
che
tu m’hai fatto e fai, tanti e sì gravi,
ch’io non so come il ciel te lo comporti;
perché non fia più pena che m’aggravi,
pur
ch’io faccia pietosi e faccia accorti
gli
occhi che del mio cor hanno le chiavi,
CL
Larghe vene d’umor, vive scintille,
che
m’ardete e bagnate in acqua e ’n fiamma,
sì
che di me omai non resta dramma,
che
non sia tutta pelaghi e faville,
fate che senta almeno una di mille
aspre mie pene chi mi lava e ’nfiamma,
né
di foco che m’arda sente squamma,
né
d’umor goccia che dagli occhi stille.
— Non son — mi dice Amor — le ragion pari;
egli
è nobile e bel, tu brutta e vile;
egli
larghi, tu hai li cieli avari.
Gioia e tormento al merto tuo simìle
convien ch’io doni. — In questi stati vari
io
peno, ei gode; Amor segue suo stile.
CLI
Piangete, donne, e con voi pianga Amore,
poi
che non piange lui, che m’ha ferita
sì,
che l’alma farà tosto partita
da
questo corpo tormentato fuore.
E, se mai da pietoso e gentil core
l’estrema voce altrui fu essaudita,
dapoi ch’io sarò morta e sepelita,
scrivete la cagion del mio dolore:
«Per amar molto ed esser poco amata
visse e morì infelice, ed or qui giace
la
più fidel amante che sia stata.
Pregale, viator, riposo e pace,
ed
impara da lei, sì mal trattata
a
non seguir un cor crudo e fugace».
CLII
Io vorrei pur ch’Amor dicesse come
debbo seguirlo, e con qual arte e stile
possa sperar di far chi m’arde umìle,
o
diporr’io queste amorose some.
Io ho le forze omai sì fiacche e dome,
sì
paventosa son tornata e vile,
che,
quasi ad Eco imagine simìle,
di
donna serbo sol la voce e ’l nome;
né, perché le vestigia del mio sole
io
segua sempre, come fece anch’ella,
e
risponda a l’estreme sue parole,
posso indur la mia fiera e dura stella
ad
oprar sì ch’ei, crudo come suole,
s’arresti al suon di mia stanca favella.
CLIII
Se poteste, signor, con l’occhio interno
penetrar i segreti del mio core,
come
vedete queste ombre di fuore
apertamente con questo occhio esterno,
vi vedreste le pene de l’inferno,
un
abisso infinito di dolore,
quanta mai gelosia, quanto timore
Amor
ha dato o può dar in eterno.
E vedreste voi stesso seder donno
in
mezzo a l’alma, cui tanti tormenti
non
han potuto mai cavarvi, o ponno;
e tutti altri disir vedreste spenti,
od
oppressi da grave ed alto sonno,
e
sol quei d’aver voi desti ed ardenti.
CLIV
Straziami, Amor, se sai, dammi tormento,
tommi pur lui, che vorrei sempre presso,
tommi pur, crudo e disleal, con esso
ogni
mia pace ed ogni mio contento,
fammi pur mesta e lieta in un momento,
dammi più morti con un colpo stesso,
fammi essempio infelice del mio sesso,
che
per ciò di seguirti non mi pento.
Perché, volgendo a quei lumi il pensiero,
che
vicini e lontani mi son scorta
per
l’aspro, periglioso tuo sentiero,
move da lor virtù, che ’l cor conforta
sì
che, quanto più sei crudele e fiero,
tanto più facilmente ei ti comporta.
CLV
Due anni e più ha già voltato il cielo,
ch’io restai presa a l’amoroso visco
per
una beltà tal, che, dirlo ardisco,
simil mai non si vide in mortal velo:
per questo io la divolgo, e non la celo,
e
non mi pento, anzi glorio e gioisco;
e,
se donna giamai gradì, gradisco
questa fiamma amorosa e questo gelo;
e duolmi sol, se sarà mai quell’ora,
che
da me si disciolga e leghi altronde
la
beltà ch’ogni cosa arde e inamora.
E, se Morte a chi prega unqua risponde,
la
prego che permetta, anzi ch’io mora,
che
non vegga d’altrui l’amata fronde.
CLVI
Mentr’io penso dolente a l’ora breve,
che
del suo lume fien mie luci prive,
questi lidi lo sanno e queste rive,
io
mi disfaccio com’al sol la neve;
e quel che par che più m’annoi e aggreve,
è
che ’l termine mio tant’oltra arrive,
e
che prima di vita non mi prive
morte, a tutt’altri grave, a me sol lieve.
Ché, s’io morissi innanzi a tanta doglia,
l’anima andrebbe altrove consolata,
lasciando qui la sua terrena spoglia;
ma fortuna ed Amor m’hanno lasciata,
perché morend’ognora più mi doglia,
questa vita penosa che m’è data.
CLVII
A che pur dir, o mio dolce signore,
ch’esca frutto da me di lode degno,
a
che alzarmi a sì gradito segno,
a
che scrivendo procacciarmi onore,
se da quel dì, ch’entrar mi fece Amore
con
l’arme de’ vostr’occhi entro ’l suo regno,
voi
movete lo stil, l’arte, l’ingegno,
sensi, spirti, pensier, voglie, alma e core?
Se da me dunque nasce cosa buona,
è
vostra, non è mia: voi mi guidate,
a
voi si deve il pregio e la corona.
Voi, non me, da qui indietro omai lodate
di
quanto per me s’opra e si ragiona;
ché
l’ingegno e lo stil, signor, mi date.
CLVIII
Deh lasciate, signor, le maggior cure
d’ir
procacciando in questa età fiorita
con
fatiche e periglio de la vita
alti
pregi, alti onori, alte venture;
e in questi colli, in queste alme e sicure
valli e campagne, dove Amor n’invita,
viviamo insieme vita alma e gradita,
fin
che ’l sol de’ nostr’occhi alfin s’oscure.
Perché tante fatiche e tanti stenti
fan
la vita più dura, e tanti onori
restan per morte poi subito spenti.
Qui coglieremo a tempo e rose e fiori,
ed
erbe e frutti, e con dolci concenti
canterem con gli uccelli i nostri amori.
CLIX
Quella febre amorosa, che m’atterra
due
anni e più, e quel gravoso incarco
ch’io sento, poi ch’Amor mi prese al varco
di
duo begli occhi, onde l’uscir mi serra,
potea bastare a farmi andar sotterra,
lasciar lo spirto del suo corpo scarco,
senza voler ch’oltra i suoi strali e l’arco,
altra febre, altro mal mi desse guerra.
Padre del ciel, tu vedi in quante pene
questo misero spirto e questa scorza
a
tormentare Amor e febre viene.
Di queste febri o l’una o l’altra smorza,
ché
due tanti nemici non sostiene
donna sì frale e di sì poca forza.
CLX
Care stelle, che tutte insieme insieme
con
Cupido e Ciprigna vaghe e pronte
deste il mio cor a quell’altero conte,
che
per premio m’ha poi tolto la speme,
poi che vedete ch’ei, che nulla teme,
contra voi, contra me alza la fronte,
vendicate le vostre e le mie onte
con
vendette più crude e più supreme.
E questo sia non che ’l mio cor mi renda,
ma
mi dia il suo, e rendami la spene,
e
così si dia otta per vicenda.
Fate che ’n quelle ond’io son or catene
presa e legata, il conte i’ leghi e prenda:
questo strazio al superbo si convene.
CLXI
Verso il bel nido, ove restai partendo,
ove
vive di me la miglior parte,
quando il sol faticoso torna e parte,
mai
sempre l’ale del disir io stendo.
E me ad or ad or biasmo e riprendo,
ch’a
star con voi non usai forza ed arte,
sapendo che, da voi stando in disparte,
ben
mille volte al dì moro vivendo.
La speme mosse il mio dubbioso piede,
che
deveste venir tosto a vedermi,
per
arrestar questa fugace vita.
Osservate, signor, la data fede:
fate, venendo, questi lidi, or ermi,
cari
e gioiosi, e me lieta e gradita.
CLXII
Se ’l fin degli occhi miei e del pensiero
è ’l
vedervi e di voi pensar, mia vita,
poi
l’un mi tolse l’empia dipartita
ch’io fei da voi per non dritto sentiero,
l’imagin del sembiante vostro vero
mi
sta sempre nel cor fissa e scolpita,
qual
donna in parte, ove sia più gradita
che
gemme oriental, oro od impero.
Ma, perché l’alma disiosa e vaga,
troppo aggravata d’amorosa sete,
di
questo sol rimedio mal s’appaga,
fate le luci mie gioiose e liete,
signor, di vostra vista, e questa piaga
saldate, che voi sol saldar potete.
CLXIII
Quando mostra a quest’occhi Amor le porte
de
l’immensa bellezza ed infinita
de
l’unico mio sol, l’alma invaghita
de
le sue glorie par che si conforte.
Quando poi mostra a la memoria a sorte
quelle di crudeltà mai non udita,
tutta a l’incontro afflitta e sbigottita
resta preda ed imagine di morte.
E così vita e morte, e gioie e pene,
e
temenza e fidanza, e guerra e pace
per
le tue mani, Amor, d’un luogo viene.
Né questo vario stato mi dispiace,
sì
son dolci i martìri e le catene;
ma
temo che sarà breve e fugace.
CLXIV
Occhi miei lassi, non lasciate il pianto,
come
non lascian me téma e spavento
di
veder tosto a noi rubato e spento
il
lume ch’amo e riverisco tanto.
Pregate morte, se si può, fra tanto
che
mi venga essa a cavar fuor di stento;
perché morir a un tratto è men tormento,
che
viver sempre a mille morti a canto.
Io direi che pregaste prima Amore
che
facesse cangiar voglia e pensiero
al
nostro crudo e disleal signore;
ma so che saria invan, perché sì fiero,
così
indurato ed ostinato core
non
ebbe mai illustre cavaliero.
CLXV
S’una vera e rarissima umiltate,
una
fé più che marmo e scoglio salda,
una
fiamma ch’abbrucia, non pur scalda,
un
non curar de la sua libertate,
un, per piacere a le due luci amate,
aver
l’alma al morir ardita e balda,
un
liquefarsi come neve in falda
mertan per tempo omai trovar pietate,
io devrei pur sperar d’aprir lo scoglio,
ch’intorno al core ha il mio signor sì sodo,
ch’altrui pregare o strazio anco non franse.
Ed io ne prego ardente, come soglio,
Amor
e lui, che m’hanno stretto il nodo,
e
san quanto per me si piange e pianse.
CLXVI
Io accuso talora Amor e lui
ch’io amo: Amor, che mi legò sì forte;
lui,
che mi può dar vita e dammi morte,
cercando tôrsi a me per darsi altrui;
ma, meglio avista, poi scuso ambedui,
ed
accuso me sol de la mia sorte,
e le
mie voglie al voler poco accorte,
ch’io de le pene mie ministra fui.
Perché, vedendo la mia indegnitade,
devea mirar in men gradito loco,
per
poterne sperar maggior pietade.
Fetonte, Icaro ed io, per poter poco
ed
osar molto, in questa e quella etade
restiamo estinti da troppo alto foco.
CLXVII
Poi che disia cangiar pensiero e voglia
l’empio signor, ch’onoro ed amo tanto,
senza curar de’ fiumi del mio pianto,
e
del mancar de la mia frale spoglia,
io prego morte, che di qua mi toglia,
perché non abbia questo crudo il vanto;
o
prego Amor, che mi rallenti alquanto,
poi
che de’ doni suoi tutta mi spoglia;
sì che o morta non vegga tanto danno,
o
viva e sciolta non lo stimi molto,
allor che gli occhi altro mirar sapranno.
Dunque o sia falso il mio temere e stolto,
o
resti sciolta al rinovar de l’anno,
o
queti il corpo in bel marmo sepolto.
CLXVIII
Che bella lode, Amor, che ricche spoglie
avrai d’una infiammata giovenetta,
che
t’è stata sì fida e sì soggetta,
seguendo più le tue che le sue voglie,
se per te così tosto si discioglie
da
la catena, che l’aveva stretta,
la
qual le piace sì, sì le diletta,
ch’a
penar dolcemente par l’invoglie?
Non conviene ad un dio l’essere sì lieve,
massimamente quando il cangiar stato
non
è diletto altrui, ma doglia greve.
Ma tu pur segui il tuo costume usato,
e
fai la gioia mia fugace e breve,
ritogliendomi il ben che m’hai donato.
CLXIX
A che più saettarmi, arcier spietato?
Se
tu lo fai per mostrar la tua forza,
io
ho già tutto dentro e ne la scorza
questo misero corpo arso e ’mpiagato.
Se tu lo fai per farmi un dì placato
chi
la mia libertà mi lega e smorza
tu
speri invan, perché tua poggia ed orza
nulla rileva il suo legno ostinato.
Egli si pasce del mio crudo strazio,
quanto è maggior, e de l’aspre mie pene,
non
pur che mai ne sia pentito e sazio;
ed in una gran téma mi mantiene
che,
fatto d’altra donna, in breve spazio
mi
torrà le sue luci alme e serene.
CLXX
Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia
tempo, fortuna, invidia o crudeltade
la
mia viva ed angelica beltade,
quella ch’appaga e queta ogni mia voglia;
e dammi quanto sai tormento e doglia:
che
tutto mi sarà gioia e pietade;
tommi riposo, tommi libertade
e,
se ti par, tommi anco questa spoglia:
che per certo io morrò lieta e contenta,
morendo sua, pur che non vegga io
ch’ella sia fatta d’altra donna, o senta.
Questa sol tèma turba il piacer mio,
questa fa ch’a’ miei danni non consenta,
e fa
la speme ritrosa al desio.
CLXXI
Voi potete, signor, ben tôrmi voi
con
quel cor d’indurato diamante,
e
farvi d’altra donna novo amante:
di
che cosa non è, che più m’annoi;
ma non potete già ritôrmi poi
l’imagin vostra, il vostro almo sembiante,
che
giorno e notte mi sta sempre innante,
poi
che mi fece Amor de’ servi suoi;
non potete ritôrmi quei desiri,
che
m’acceser di voi sì caldamente,
il
foco, il pianto, che per gli occhi verso.
Questi mi fien ne’ miei gravi martìri
dolce sostegno, e la memoria ardente
del
diletto provato, c’han disperso.
CLXXII
S’una candida fede, un cor sincero,
una
gran riverenza, una infinita
voglia a servir altrui pronta ed ardita,
un
servo grato al suo signor mai fêro,
devrebbe pur, signor, l’affetto vero
e la
mia fede esser da voi gradita,
se i
vostri onor più cari che la vita
mi
fûr mai sempre, e più ch’oro ed impero.
Ma poi che mia fortuna mi contende
mercé sì giusta, poi che a sì gran torto
a
schivo il servir mio da voi si prende,
ciò ch’a voi piace paziente porto,
sperando pur che Dio, che tutto intende,
vi
faccia un dì de la mia fede accorto.
CLXXIII
Cantate meco, Progne e Filomena,
anzi
piangete il mio grave martìre,
or
che la primavera e ’l suo fiorire
i
miei lamenti e voi, tornando, mena.
A voi rinova la memoria e pena
de
l’onta di Tereo e le giust’ire;
a me
l’acerbo e crudo dipartire
del
mio signore morte empia rimena.
Dunque, essendo più fresco il mio dolore,
aitatemi amiche a disfogarlo,
ch’io per me non ho tanto entro vigore.
E, se piace ad Amor mai di scemarlo,
io
piangerò poi ’l vostro a tutte l’ore
con
quanto stile ed arte potrò farlo.
CLXXIV
Una inaudita e nova crudeltate,
un
esser al fuggir pronto e leggiero,
un
andar troppo di sue doti altero,
un
tôrre ad altri la sua libertate,
un vedermi penar senza pietate,
un
aver sempre a’ miei danni il pensiero,
un
rider di mia morte quando pèro,
un
aver voglie ognor fredde e gelate,
un eterno timor di lontananza,
un
verno eterno senza primavera,
un
non dar giamai cibo a la speranza
m’han fatto divenir una Chimera,
uno
abisso confuso, un mar, ch’avanza
d’onde e tempeste una marina vera.
CLXXV
Quasi uom che rimaner de’ tosto senza
il
cibo, onde nudrir suol la sua vita,
più
dell’usato a prenderne s’aita,
fin
che gli è presso posto in sua presenza;
convien ch’innanzi a l’aspra dipartenza
ch’a
sì crudi digiuni l’alma invita,
ella
più de l’usato sia nodrita,
per
poter poi soffrir sì dura assenza.
Però, vaghi occhi miei, mirate fiso
più
de l’usato, anzi bevete il bene
e ’l
bel del vostro amato e caro viso.
E voi, orecchie, oltra l’usato piene
restate del parlar, ché ’l paradiso
certo armonia più dolce non contiene.
CLXXVI
Se voi vedete a mille chiari segni
che
tanto ho cara, e non più, questa vita,
quant’è con voi, quant’è da voi gradita,
ultimo fin de tutti i miei disegni,
a che pur con nov’arte e novi ingegni
darmi qualche novella aspra ferita,
tramando or questa, or quella dipartita,
quasi ogni pace mia da voi si sdegni?
Se volete ch’io mora, un colpo solo
m’uccida, sì ch’omai si ponga fine
al
dispiacervi, al vivere ed al duolo;
perché così sta sempre sul confine
di
morte l’alma, e mai non prende il volo
pensando pur a voi, luci divine.
CLXXVII
Poi che tu mandi a far tanta dimora,
empia Fortuna, in sì lontan paese
il
chiaro e vivo raggio che m’accese,
empia ed aversa a’ miei disiri ognora,
conveniente e giusto e degno fôra
che
tu mi fossi almen tanto cortese,
che
quest’ore sì brevi avesse spese
qui
meco tutte lui che m’innamora;
sì che ’l cor e gli orecchi e gli occhi insieme
prendesser cibo a sostenermi in vita
quel
lungo tempo poi ch’ei fia lontano.
Ma tu stai dura, ed io mi doglio invano,
dal
ciel, da te e poi d’Amor tradita:
però
l’alma di ciò sospira e geme.
CLXXVIII
Perché mi sii, signor, crudo e selvaggio,
disdegnoso, inumano ed inclemente,
perché abbi vòlto altrove ultimamente
spirto, pensieri, cor, anima e raggio,
non per questo adivien che ’l foco, ch’aggio
nel
petto acceso, si spenga o s’allente;
anzi
si fa più vivo e più cocente,
quant’ha da te più strazi e fiero oltraggio.
Ché, s’io t’amassi come l’altre fanno,
t’amerei solo e seguirei fin tanto
ch’io ne sentissi utile, e non danno;
ma per ciò ch’amo te, amo quel santo
lume, che gli occhi miei visto prima hanno,
convien ch’io t’ami a l’allegrezza e al pianto.
CLXXIX
Meraviglia non è, se ’n uno istante
ritraeste da me pensieri e voglie,
ché
vi venne cagion di prender moglie,
e
divenir marito, ov’eri amante.
Nodo e fé, che non è stretto e costante,
per
picciola cagion si rompe e scioglie:
la
mia fede e ’l mio nodo il vanto toglie
al
nodo gordiano ed al diamante.
Però non fia giamai che scioglia questo
e
rompa quella, se non cruda morte,
la
qual prego, signor, che venga presto;
sì ch’io non vegga con le luci scorte
quello ch’or col pensier atro e funesto
mi
fa veder la mia spietata sorte.
CLXXX
Certo fate gran torto a la mia fede,
conte, sovra ogni fé candida e pura,
a
dir che ’n Francia è più salda e più dura
la
fé di quelle donne a chi lor crede.
Se, come Amor ch’i pensier dentro vede,
e
passa ov’occhio uman non s’assicura,
penetraste anco voi per mia ventura
ove
l’imagin vostra altera siede,
voi la vedreste salda come scoglio,
immobilmente appresso del mio core,
e
diporreste meco il vostro orgoglio.
Ma voi vedete sol quel ch’appar fuore:
per
questo io resto, misera, uno scoglio,
e
voi credete poco al mio dolore.
CLXXXI
Diversi effetti Amor mi fe’ vedere
poco
anzi: or mi pascea di gelosia,
dimostrandomi quanto lieve sia
creder suo quel ch’a molte può piacere;
or mi pascea di speme e di piacere,
mostrandomi la fé mai sempre pria
salda e costante de la gloria mia,
e le
promesse sue secure e vere.
Per questo or fra tempeste, or fra bonaccia
guidai la barca mia dubbia e sicura,
vedendo Amor or fosco, or chiaro in faccia.
Or la speranza più non m’assicura,
e la
temenza vuol ch’io mi disfaccia.
Dir
più non oso, e sallo chi n’ha cura.
CLXXXII
La vita fugge, ed io pur sospirando
trapasso, lassa, il più degli anni miei,
né
di passarli ardendo mi dorrei,
a la
cagion de’ miei sospir mirando;
se non che non so punto il come o ’l quando
den
le mie gioie dar luogo agli omei;
ché
forse a poco a poco m’userei
ad
andar le mie pene sopportando.
Anzi, misera, io so che sarà tosto,
ché
per partenza o per cangiar volere
il
fin de’ miei piacer non è discosto.
E, perch’Amor mel faccia prevedere,
non
è per questo il mio petto disposto
a
poter tanta doglia sostenere.
CLXXXIII
Deh consolate il cor co’ vostri rai
questo almen poco spazio, che m’avanza
de
la vostra vicina lontananza,
ch’io non vedrò con gli occhi asciutti mai.
Lasciate i vostri amati colli e gai,
a
voi sì cara e a me nemica stanza,
colli, c’hanno imparato per usanza
a
farmi oltraggio sì sovente omai.
Già senza voi non fia manco fiorita
la
chioma de’ bei colli, dov’io forsi
resterò, senza voi, senza la vita.
Che cosa è, conte, a la pietate opporsi,
se
non negare a chi dimanda aita
i
suoi pietosi, i suoi dolci soccorsi?
CLXXXIV
Io non trovo più rime, onde più possa
lodar vostra beltà, vostro valore,
e
contare i tormenti del mio core;
sì
cresce a quelli e a me manca la possa.
E, quasi fiamma che sia dentro mossa,
e
non possa sfogar l’incendio fore,
questo interno disio cresce ’l dolore,
e mi
consuma le midolle e l’ossa;
sì che fra tutti i beni e tutti i mali,
ch’Amor suol dar, io ho questo vantaggio,
che
quanti sien ridir non posso, e quali.
Dunque, o tu, vivo mio lucente raggio,
dammi vigore, o tu dammi, Amor, l’ali,
ch’io saglia a mostrar fuor quel che ’n cor aggio.
CLXXXV
Io penso talor meco quanto amaro
fôra
il mio stato, se per qualche sdegno,
o
per stimarsi il mio signor più degno,
mi
ritogliesse il suo bel lume e chiaro;
e mi risolvo che ’l vero riparo,
quando ad essaminar ben tutto vegno,
per
finire i miei mal tutti ad un segno,
saria di morte il colpo aspro ed avaro.
Ché, s’io restassi in vita, gli occhi e ’l core
la
speranza, il disio mi farian guerra,
che
prendon sol da lui ésca e vigore;
dove, s’io fossi morta e posta in terra,
si
porria fin ad un tratto al dolore,
ch’è
vita morte che più morti atterra.
CLXXXVI
— Che fia di me — dico ad Amor talora, —
poi
che del mio signor gli occhi sereni
lasseran questi miei di pianto pieni,
fatto esso d’altri infin a l’ultim’ora?
— Che fia di me — mi rispond’egli allora, —
ch’arco e saette e faci e teme e speni
tengo in quegli occhi, e tutti altri miei beni,
né
mai ritrarli io ho potuto ancora?
D’indi soglio infiammar, d’indi ferire;
or,
se come tu di’, ce li ritoglie,
caduta è la mia gloria e ’l nostro ardire. —
In queste amare e dispietate voglie
restiam noi due, ed ei segue di gire
carco e superbo de le nostre spoglie.
CLXXXVII
Se gran temenza non tenesse a freno
la
mia lingua bramosa e ’l mio disio,
sì
ch’io potessi dire al signor mio
come
amando e temendo io vengo meno,
io spererei che quel di grazie pieno
viso
leggiadro, onde tutt’altro oblio,
quant’è ’l mio stato travagliato e rio,
tanto lo fesse un dì chiaro e sereno;
e quello, onde m’avinse e strinse, nodo
non
cercherebbe, lassa, di slegarlo,
allor che più credea che fosse sodo.
Ma per troppo timor non oso farlo:
così
dentro al mio cor mi struggo e rodo,
e
sol con meco e con Amor ne parlo.
CLXXXVIII
Quasi vago e purpureo giacinto,
che
’n verde prato, in piaggia aprica e lieta,
crescendo ai raggi del più bel pianeta,
che
lo mantien degli onor suoi dipinto,
subito torna languidetto e vinto,
sì
che mai non si vide tanta pièta,
se
di veder gli usati rai gli vieta
nube, che ’l sol abbia coperto e cinto;
tal la mia speme, ch’ognor s’erge e cresce,
dinanzi a’ rai de la beltà infinita,
onde
ogni sua virtute e vigor esce.
Ma la ritorna poi fiacca e smarrita
oscura téma, che con lei si mesce,
che
la sua luce tosto fia sparita.
CLXXXIX
Lassa, in questo fiorito e verde prato
de
le delizie mie, fra sì fresca erba,
onde, la tua mercé, vo sì superba,
Amor, poi che ’l mio sol m’hai ritornato,
per quel ch’a certi segni m’è mostrato,
un
empio e venenoso aspe si serba,
per
far la vita mia di dolce acerba
e
avelenarmi il mio felice stato.
Il che se de’ seguir, prego che priva
mi
faccia morte e di vita e di senso,
prima che questa téma giunga a riva;
perch’a dover provar dolor sì immenso,
assai meglio è morir che restar viva,
se
le provate mie doglie compenso.
CXC
Acconciatevi, spirti stanchi e frali,
a
sostener la perigliosa guerra
e ’l
colpo, che fortuna empia disserra,
da
noi partendo i lumi miei fatali.
Quanti avete fin qui tormenti e quali
sofferti, poi che crudo Amor n’atterra,
son
sogni ed ombre, a lato a quei che serra
questa seconda assenzia strazi e mali.
Perché contra il dolor mi fece ardita
un
poco di virtù, che aveva allora
che
fece il mio signor l’altra partita;
or, essendo mancata quella ancora,
ed
essendo cresciuta la ferita,
altro schermo non ho, se non ch’io mora.
CXCI
Comincia, alma infelice, a poco a poco
a
ricever di fiera sorte il colpo,
a
cui pensando sol mi snervo e spolpo,
ed
in guai si converte ogni mio gioco.
L’alta cagion del nostro chiaro foco
partirà tosto; di che, lassa, io scolpo
Amore, e ’l crudo mio signor incolpo,
sì
veloce a cangiar pensier e loco.
Sì che, quando si parte e torna il sole,
non
vegga l’occhio tuo di pianto asciutto,
poi
che, dove si può, così si vuole;
ch’un cor saldo e costante vince il tutto,
e
morte alfine, o ’l tempo, come suole,
ti
trarran fuor di vita e fuor di lutto.
CXCII
Amor, lo stato tuo è proprio quale
è
una ruota, che mai sempre gira,
e
chi v’è suso or canta ed or sospira,
e
senza mai fermarsi or scende or sale.
Or ti chiama fedele, or disleale;
or
fa pace con teco, ed or s’adira;
ora
ti si dà in preda, or si ritira;
or
nel ben teme, ed or spera nel male;
or s’alza al cielo, or cade ne l’inferno;
or è
lunge dal lido, or giunge in porto;
or
trema a mezza state, or suda il verno.
Io, lassa me, nel mio maggior conforto
sono
assalita d’un sospetto interno,
che
mi tien sempre il cor fra vivo e morto.
CXCIII
Se quel grave martìr che ’l cor m’afflige,
non
temprasse talor cortese Amore,
già
mi sarei di vita uscita fuore,
e
varcato averei Cocito e Stige;
ma, perché quant’ei più m’ange e trafige,
tanto la gioia poi tempra l’ardore,
tenendo sempre fra due, lassa, il core,
né
al sì, né al no l’alma s’affige.
Così d’ambrosia vivo e di veleno,
né
di vita o di morte sta sicura
l’anima, ch’or s’aviva ed or vien meno.
O strana, o nova, o insolita ventura,
o
petto di dolor e noia pieno,
o
diletto, o martìr, che poco dura!
CXCIV
— Chi darà lena a la tua stanca vita —
talor dentro nel cor mi dice Amore, —
or
che chi ti suol dar lena e vigore
s’apparecchia di far da te partita? —
Pensando a ciò, sì a lagrimar m’invita
questo vero e giustissimo dolore,
che
sarei già di vita uscita fore,
se
non che ’l raggio di chi può m’aita.
E rimango pregando o lui o Morte:
lui,
che non parta, o lei, che a me ne vegna,
sì
ch’ei vegga presente tanta pièta.
Ma al mio gridare e al mio pregar sì forte
di
risponder né questa né quel degna,
e la
sua aita ognun di lor mi vieta.
CXCV
Voi vi partite, conte, ed io, qual soglio,
mi
rimango di duol preda e di morte,
e
questa o quello ingiurioso e forte
userà contra me l’usato orgoglio.
Né potrò farmi a’ colpi loro scoglio,
non
avendo con me chi mi conforte,
il
vostro viso e le due fide scorte,
che
ne’ perigli per iscudo toglio.
Deh, foss’io certa almen che di due cose
seguisse l’una: o voi tornaste presto,
o
fossero anche in voi fiamme amorose!
Ché mi sarebbe schermo e quello e questo
in
far meno l’assenzie mie penose,
e ’l
vostro dipartir meno molesto.
CXCVI
Ecco, Amor, io morrò, perché la vita
si
partirà da me, e senza lei
tu
sei certo ch’io viver non potrei,
ché
saria cosa nova ed inaudita.
Quanto a me, ne sarò poco pentita,
perché la lunga istoria degli omei,
de’
sospir, de’ martìr, de’ dolor miei
sarà
per questo mezzo almen finita:
mi dorrà sol per conto tuo, che poi
non
avrai cor sì saldo e sì costante,
dove
possi aventar gli strali tuoi;
e le vittorie tue, le tante e tante
tue
glorie perderanno i pregi suoi,
al
cader di sì fida e salda amante.
CXCVII
Chi ’l crederia? Felice era il mio stato,
quando a vicenda or doglia ed or diletto,
or
téma, or speme m’ingombrava il petto,
e
m’era il cielo or chiaro ed or turbato;
perché questo d’Amor fiorito prato
non
è a mio giudicio a pien perfetto,
se
non è misto di contrario effetto,
quando la noia fa il piacer più grato.
Ma or l’ha pieno sì di spine e sterpi
chi
lo può fare, e svelti i fiori e l’erba,
che
sol v’albergan venenosi serpi.
O fé cangiata, o mia fortuna acerba!
Tu
le speranze mie recidi e sterpi:
la
cagion dentro al petto mio si serba.
CXCVIII
Se soffrir il dolore è l’esser forte,
e
l’esser forte è virtù bella e rara,
ne
la tua corte, Amor, certo s’impara
questa virtù più ch’in ogn’altra corte,
perché non è chi teco non sopporte
de’
dolori e di téme le migliara
per
una luce in apparenza chiara,
che
poi scure ombre e tenebre n’apporte
La continenzia vi s’impara ancora,
perché da quello, onde s’ha più disio,
per
riverenza altrui s’astien talora.
Queste virtuti ed altre ho imparate io
sotto questo signor, che sì s’onora,
e
sotto il dolce ed empio signor mio.
CXCIX
Signor, ite felice ove ’l disio
ad
or ad or più chiaro vi richiama
a
far volar al ciel la vostra fama,
secura da la morte e da l’oblio;
ricordatevi sol come rest’io,
solinga tortorella in secca rama,
che
senza lui, che sol sospira e brama,
fugge ogni verde pianta e chiaro rio.
Al mio cor fate cara compagnia,
il
vostro ad altra donna non donate,
poi
che a me sì fedel nol deste pria.
Sopra tutto tornar vi ricordate,
e,
s’avien che fia quando estinta io sia,
de
la mia rara fé non vi scordate.
CC
Al partir vostro s’è con voi partita
ogni
mia gioia ed ogni mia speranza,
l’ardir, la forza, il core e la baldanza,
e
poco men che l’anima e la vita:
e restò sol, più che mai fosse ardita,
l’importuna ed ardente disianza,
la
quale in questa vostra lontananza
mi
dà, misera me! doglia infinita.
E, se da voi non vien qualche conforto
o di
lettra o di messo o di venire,
certo, signor, il viver mio fia corto;
perché in amor non è altro il morire,
per
quel ch’a mille e mille prove ho scorto,
che
aver poca speranza e gran disire.
CCI
— È questa quella viva e salda fede,
che
promettevi a la tua pastorella,
quando, partendo a la stagion novella,
n’andasti ove ’l gran re gallico siede?
O di quanto il sol scalda e quanto vede
perfido, ingrato in atto ed in favella;
misera me, che ti divenni ancella
per
riportarne sì scarsa mercede! —
Così l’afflitta e misera Anassilla
lungo i bei lidi d’Adria iva chiamando
il
suo pastor, da cui ’l ciel dipartilla;
e l’acque e l’aure, dolce risonando,
allor che ’l sol più arde e più sfavilla,
i
suoi sospir al ciel givan portando.
CCII
Poi che per mio destin volgeste in parte
piedi e voler, onde perdei la spene
di
riveder più mai quelle serene
luci, c’ho già lodate in tante carte,
io mi volsi al gran Sole, e con quell’arte
e
quella luce, che da lui sol viene,
trassi fuor da le sirti e da l’arene
il
legno mio per via di remi e sarte.
La ragion fu le sarte, e i remi fûro
la
volontà, che a l’ira ed a l’orgoglio
d’Amor si fece poi argine e muro.
Così, senza temer di dar in scoglio,
mi
vivo in porto omai queto e sicuro;
d’un
sol mi lodo, e di nessun mi doglio.
CCIII
Ardente mio disir, a che, pur vago
de’
nostri danni, in parte stendi l’ale,
ov’è
cui de’ miei strazi poco cale,
e
del mio trar fuor di quest’occhi un lago?
Ben si può del mio stato esser presago
il
partir de la speme fiacca e frale,
e la
memoria, che sì poco assale
quel
de le voglie mie tiranno e mago.
Egli a novi diletti aperto ha ’l seno,
e di
me sì fedele ha quella cura,
che
di chi non si vede e’ si può meno.
Dunque tu di tornar a me procura,
ché
’l turbar la mia pace e ’l mio sereno
è
troppo intempestiva cosa e dura.
CCIV
Virtuti eccelse e doti illustri e chiare,
ch’alzate al cielo il mio real signore,
sol
co’ passi di gloria e d’alto onore
già
giunto in parte, ove non ha più pare;
voi, voi sol voglio volgermi ad amare
temprando il mio focoso e cieco amore,
guidato sol da tenebre ed errore,
ove
ambedue potrà forse annoiare.
Or, racquistato alquanto del mio lume,
potrò specchiarmi in quel bel raggio ardente,
che
da prima m’elessi per mio nume;
e di cibo miglior pascer la mente,
dove
io pasceva i sensi per costume
di
cosa, che si fugge via repente.
CCV
Quel disir, che fu già caldo ed ardente
a
bellezza seguir fugace e frale,
l’alta mercé di Dio, prese già l’ale,
ed è
rivolto a più fido oriente,
seguendo del mio conte solamente
quella interna bellezza e senza eguale,
che
con fortuna non scende e non sale,
e
del tempo e d’altrui cura niente.
Da qui indietro il suo sommo valore
la
cortesia e ’l saggio alto intelletto,
d’alte opre vago e di perpetuo onore,
saran più degna fiamma del mio petto,
e
più degno ricetto del mio core,
e de
le rime mie più degno oggetto.
CCVI
Canta tu, musa mia, non più quel volto,
non
più quegli occhi e quell’alme bellezze,
che
’l senso mal accorto par che prezze,
in
quest’ombre terrene impresso e involto;
ma l’alto senno in saggio petto accolto,
mille tesori e mille altre vaghezze
del
conte mio, e tante sue grandezze,
ond’oggi il pregio a tutti gli altri ha tolto.
Or sarà il tuo Castalio e ’l tuo Parnaso
non
fumo ed ombra, ma leggiadra schiera
di
virtù vere, chiuse in nobil vaso.
Quest’è via da salir a gloria vera,
questo può farti da l’orto a l’occaso
e di
verace onor chiara ed altera.
CCVII
Poi che m’hai resa, Amor, la libertade,
mantiemmi in questo dolce e lieto stato,
sì
che ’l mio cor sia mio, sì come è stato
ne
la mia prima giovenil etade;
o, se pur vuoi che dietro a le tue strade,
amando, segua il mio costume usato,
fa’
ch’io arda di foco più temprato,
e
che, s’io ardo, altrui n’abbia pietade;
perché mi par veder, a certi segni,
che
ordisci novi lacci e nove faci,
e di
ritrarmi al giogo tuo t’ingegni.
Serbami, Amor, in queste brevi paci,
Amor, che contra me superbo regni,
Amor, che nel mio mal sol ti compiaci.
CCVIII
Amor m’ha fatto tal ch’io vivo in foco,
qual
nova salamandra al mondo, e quale
l’altro di lei non men stranio animale,
che
vive e spira nel medesmo loco.
Le mie delizie son tutte e ’l mio gioco
viver ardendo e non sentire il male,
e
non curar ch’ei che m’induce a tale
abbia di me pietà molto né poco.
A pena era anche estinto il primo ardore,
che
accese l’altro Amore, a quel ch’io sento
fin
qui per prova, più vivo e maggiore.
Ed io d’arder amando non mi pento,
pur
che chi m’ha di novo tolto il core
resti de l’arder mio pago e contento.
CCIX
Io non veggio giamai giunger quel giorno,
ove
nacque Colui che carne prese,
essendo Dio, per scancellar l’offese
del
nostro padre al suo Fattor ritorno,
che non mi risovenga il modo adorno,
col
quale, avendo Amor le reti tese
fra
due begli occhi ed un riso, mi prese:
occhi, ch’or fan da me lunge soggiorno;
e de l’antico amor qualche puntura
io
non senta al desire ed al cor darmi,
sì
fu la piaga mia profonda e dura.
E, se non che ragion pur prende l’armi
e
vince il senso, questa acerba cura
sarebbe or tal che non potrebbe aitarmi.
CCX
Veggio Amor tender l’arco, e novo strale
por
ne la corda e saettarmi il core,
e,
non ben saldo ancor l’altro dolore,
nova
piaga rifarmi e novo male;
e sì il suo foco m’è proprio e fatale,
sì
son preda e mancipio ognor d’Amore,
che,
perché l’alma vegga il suo migliore,
ripararsi da lui né vuol né vale.
Ben è ver che la tela, che m’ordisce,
sempre è di ricco stame; e quindi aviene
che
ne’ suoi danni il cor père e gioisce;
e ’l ferro è tale, onde a ferirmi or viene,
che
si può dir che chi per lui perisce
prova sol una vita e sommo bene.
CCXI
Qual sagittario, che sia sempre avezzo
trarre ad un segno, e mai colpo non falla,
o da
propria vaghezza tratto o dalla
spene c’ha da ritrarne onore e prezzo,
Amor, che nel mio mal mai non è sezzo,
torna a ferirmi il cor, né mai si stalla,
e la
piaga or risalda apre e rifalla;
né
mi val s’io ’l temo o s’io lo sprezzo.
Tanto di me ferir diletto prende,
e
tal n’attende e merca onor, ch’omai,
per
quel ch’io provo, ad altro non intende.
Il vivo foco, ond’io arsi e cantai
molti anni, a pena è spento, che raccende
d’un
altro il cor, che tregua non ha mai.
CCXII
Che farai, alma? ove volgerai il piede?
qual
sentier prenderai, che più ti vaglia?
Tornerai a seguir Amor, che smaglia
ogni
lorica, quando irato fiede?
o, stanca e sazia de le tante prede
fatte di te ne l’aspra sua battaglia,
t’armerai sì che, perch’ei pur t’assaglia,
non
ti vincerà più qual suole e crede?
Il ritrarsi è sicuro, e ’l contrastare
è
glorioso; e l’ésca, che ci mostra,
è
tal, che può nocendo anco giovare.
Non perde e non vince anco uom che non giostra:
in
queste imprese perigliose e rare
si
potria far maggior la gloria nostra.
CCXIII
Un veder tôrsi a poco a poco il core,
misera, e non dolersi de l’offesa;
un
veder chiaro la sua fiamma accesa
negli altrui lumi e non fuggir l’ardore;
un cercar volontario d’uscir fore
de
la sua libertà poco anzi resa;
un
aver sempre a l’altrui voglia intesa
l’alma vaga e ministra al suo dolore;
un parer tutto grazia e leggiadria
ciò
che si vede in un aspetto umano,
se
parli o taccia, o se si mova o stia,
son le cagion ch’io temo non pian piano
cada
nel mar del pianto, ov’era pria,
la
vita mia; e prego Dio che ’nvano.
CCXIV
La piaga, ch’io credea che fosse salda
per
la omai molta assenzia e poco amore
di
quell’alpestro ed indurato core,
freddo più che di neve fredda falda,
si desta ad or ad ora e si riscalda,
e
gitta ad or ad or sangue ed umore;
sì
che l’alma si vive anco in timore,
ch’esser devrebbe omai sicura e balda.
Né, perché cerchi agiunger novi lacci
al
collo mio, so far che molto o poco
quell’antico mio nodo non m’impacci.
Si suol pur dir che foco scaccia foco;
ma
tu, Amor, che ’l mio martìr procacci,
fai
che questo in me, lassa, or non ha loco.
CCXV
Qual darai fine, Amor, a le mie pene,
se
dal cenere estinto d’un ardore
rinasce l’altro, tua mercé, maggiore,
e sì
vivace a consumar mi viene?
Qual ne le più felici e calde arene,
nel
nido acceso sol di vario odore,
d’una fenice estinta esce poi fore
un
verme, che fenice altra diviene.
In questo io debbo a’ tuoi cortesi strali,
che
sempre è degno ed onorato oggetto
quello, onde mi ferisci, onde m’assali.
Ed ora è tale e tanto e sì perfetto,
ha
tante doti a la bellezza eguali,
che
arder per lui m’è sommo, alto diletto.
CCXVI
D’esser sempre ésca al tuo cocente foco
e
sempre segno a’ tuoi pungenti strali,
d’esser sempre ministra de’ miei mali
ed
aver sempre i miei tormenti a gioco,
io non mi doglio, Amor, molto né poco,
poi
che dal dì, che ’l desir prese l’ali,
mi
son fatti i martìr propri e fatali,
e
libertade in me non ha più loco.
Pur che tu mi conservi in questo stato,
dov’or m’hai posta, e sotto quel signore,
onde
il cor novamente m’hai legato,
o mi fia dolce, o tornerà minore
quanto son per provar, quanto ho provato
la
sua rara bellezza e ’l suo valore.
CCXVII
A che bramar, signor, che venga manco
quel
che avete di me disire e speme,
s’Amor, poi che per lui si spera e teme,
i
più giusti di lor non vide unquanco?
Che vuol dir ch’ogni dì divien più franco
quel
che di voi desir m’ingombra e preme?
La
speme no, che par ch’ognor si sceme,
vostra mercede, ond’io mi snervo e ’mbianco.
— Ama chi t’odia — grida da lontano, —
non
pur chi t’ama, — il Signor, che la via
ci
aperse in croce da salire al cielo.
Riverite la sua possente mano,
non
cercate, signor, la morte mia,
ché
questo è ’l vero et a Dio caro zelo.
CCXVIII
Dove volete voi ed in qual parte
voltar speme e disio che più convegna,
se
volete, signor, far cosa degna
di
quell’amor, ch’io vo spiegando in carte?
Forse a Dio? Già da Dio non si diparte
chi
d’Amor segue la felice insegna:
Ei
di sua bocca propria pur c’insegna
ad
amar lui e ’l prossimo in disparte.
Or, se devete amar, non è via meglio
amar
me, che v’adoro e che ho fatto
del
vostro vago viso tempio e speglio?
Dunque amate, e servate, amando, il patto
c’ha
fatto Cristo; ed amando io vi sveglio
che
amiate cor, che ad amar voi sia atto.
CCXIX
Ben si convien, signor, che l’aureo dardo
Amor
v’abbia aventato in mezzo il petto,
rotto quel duro e quel gelato affetto,
tanto a le fiamme sue ritroso e tardo,
avendo a me col vostro dolce sguardo,
onde
piove disir, gioia e diletto,
l’alma impiagata e ’l cor legato e stretto
oltra misura, onde mi struggo ed ardo.
Men dunque acerbo de’ parer a vui
esser nel laccio aviluppato e preso,
ov’io sì stretta ancor legata fui.
Zelo d’ardente caritate acceso
esser conviene eguale omai fra nui
nel
nostro dolce ed amoroso peso.
CCXX
Signor, poi che m’avete il collo avinto
di
sì tenace nodo e così forte,
poi
che a me piace, ed Amor vuol ch’io porte
nel
cor voi solo e nullo altro dipinto,
a voi convien per quel gentil instinto,
che
natura e virtù v’han dato in sorte,
volger pietoso le due fide scorte
verso chi di suo grado avete vinto.
Carità, pace, fede ed umiltate
sian
le nostr’armi, onde si meni vita
rado
o non mai menata in altra etate.
E sia chi dica: — O coppia alma e gradita,
ben
avesti le stelle amiche e grate,
sì
dolcemente in un voler unita!
CCXXI
A mezzo il mare, ch’io varcai tre anni
fra
dubbi venti, ed era quasi in porto,
m’ha
ricondotta Amor, che a sì gran torto
è
ne’ travagli miei pronto e ne’ danni;
e per doppiare a’ miei disiri i vanni
un
sì chiaro oriente agli occhi ha pòrto,
che,
rimirando lui, prendo conforto,
e
par che manco il travagliar m’affanni.
Un foco eguale al primo foco io sento,
e,
se in sì poco spazio questo è tale,
che
de l’altro non sia maggior, pavento.
Ma che poss’io, se m’è l’arder fatale,
se
volontariamente andar consento
d’un
foco in altro, e d’un in altro male?
CCXXII
— Dimmi per la tua face,
Amor, e per gli strali,
per
questi, che mi dan colpi mortali,
e
quella, che mi sface,
onde
avien che non osi
ferir il mio signore,
altero de’ tuoi strazi e del mio core,
in
sembianti pietosi?
—
Ove anniderò poi —
mi
risponde ei, — s’io perdo gli occhi suoi?
CCXXIII
Così m’impresse al core
la
beltà vostra Amor co’ raggi suoi,
che
di me fuor mi trasse e pose in voi;
or
che son voi fatt’io,
voi
meco una medesma cosa sète,
onde
al ben, al mal mio,
come
al vostro, pensar sempre devete;
ma
pur, se al fin volete
che
’l vostro orgoglio la mia vita uccida,
pensate che di voi sète omicida.
CCXXIV
L’empio tuo strale, Amore,
è
più crudo e più forte
assai che quel di Morte;
ché
per Morte una volta sol si more,
e tu
col tuo colpire
uccidi mille, e non si può morire.
Dunque, Amore, è men male
la
morte che ’l tuo strale.
CCXXV
Io veggio spesso Amore
girarsi intorno agli occhi chiari e vaghi,
dolci del mio cor maghi,
de
l’amato e gradito mio signore.
Quinci par che saetti,
e
sian gli strali suoi gioie e diletti:
queste son armi, che dànno altrui vita
in
luogo di ferita.
CCXXVI
Sapete voi perché ognun non accende,
e
non empie d’amore,
l’infinita beltà del mio signore?
Però
ch’ognun, com’io, non la comprende,
a
cui per sorte è dato
vedervi quel, ch’a tant’altri è vietato;
ché,
se non fosse ciò, le pietre e l’erbe
spirerebbeno ardore,
e
girian di tal fiamma alte e superbe.
CCXXVII
Se tu credi piacere al mio signore,
come
si vede chiaro,
Amor
empio ed avaro,
poi
che non gli hai pur tócco l’alma e ’l core;
e,
come è anche degno,
poi
che con gli occhi suoi mantieni ’l regno;
perché vuoi pur ch’io moia?
Per
dargli biasmo e noia?
biasmo d’esser crudele,
avendo uccisa donna sì fedele;
noia, perché, se vive del mio strazio,
chi
lo farà poi sazio?
CCXXVIII
Il cor verrebbe teco,
nel
tuo partir, signore,
s’egli fosse più meco,
poi
che con gli occhi tuoi mi prese Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
che
sol mi son restati
fidi
compagni e grati,
e le
voci e gli omei;
e,
se vedi mancarti la lor scorta,
pensa ch’io sarò morta.
CCXXIX
Qual fosse il mio martìre
nel
vostro dipartire,
voi
’l potete di qui, signor, stimare,
che
mi fu tolto infin il lagrimare.
E
l’umor, che, per gli occhi uscendo fore,
suol
sfogarmi ’l dolore,
in
quell’amara e cruda dipartita
mi
negò la sua aita.
O
mio misero stato,
d’altra donna non mai visto o provato,
poi
che quello, ond’Amor è sì cortese,
nel
maggior uopo a me sola contese!
CCXXX
Signor, per cortesia,
non
mi dite che, quand’andaste via,
Amor
mi negò ’l pianto
perché, vedendo in me già spento il foco,
l’acqua non v’avea loco
per
temperarlo alquanto;
anzi
dite più tosto che fu tanto
in
quel punto l’ardore,
che
diseccò l’umore;
e
non potei mostrare
l’acerba pena mia col lagrimare,
per
ciò che ’l corpo mio, d’ogni umor casso,
o
restò tutto foco, o tutto sasso.
CCXXXI
Le pene de l’inferno insieme insieme,
appresso il mio gran foco,
tutte son nulla o poco;
perch’ove non è speme
l’anima risoluta al patir sempre
s’avezza al duol, che mai non cangia tempre.
La
mia è maggior noia,
perché gusto talor ombra di gioia
mercé de la speranza;
e
questa varia usanza
di
gioir e patire
fa
maggior il martìre.
CCXXXII
Se ’l cibo, onde i suoi servi nutre Amore,
è ’l
dolore e ’l martìre,
come
poss’io morire
nodrita dal dolore?
Il
semplicetto pesce,
che
solo ne l’umor vive e respira,
in
un momento spira
tosto che de l’acqua esce;
e
l’animal, che vive in fiamma e ’n foco,
muor, come cangia loco.
Or,
se tu vòi ch’io moia,
Amor, trammi di guai e pommi in gioia;
perché col pianto, mio cibo vitale,
tu
non mi puoi far male.
CCXXXIII
Beato insogno e caro,
che
sotto oscuro velo m’hai mostrato
il
mio felice stato,
qual
potrà ingegno chiaro,
quant’io debbo e vorrei, giamai lodarte
in
vive voci o ’n carte?
Io
per me farò fede,
dovunque esser potrà mia voce udita,
che,
sol la tua mercede,
io
son restata in vita.
CCXXXIV
Deh, farà mai ritorno agli occhi miei
quel
vivo e chiaro lume,
ond’io vivo e quei veggon per costume?
Potran mai le mie lagrime e gli omei
far
molle chi di lor si pasce e vive,
che
sta da me lontano, e non mi scrive?
Aspro e selvaggio core,
quest’è la fé d’Amore?
CCXXXV
Conte, dov’è andata
la
fé sì tosto, che m’avete data?
Che
vuol dir che la mia
è
più costante, che non era pria?
Che
vuol dir che, da poi
che
voi partiste, io son sempre con voi?
Sapete voi quel che dirà la gente,
dove
forza d’Amor punto si sente?
— O
che conte crudele!
o
che donna fedele!
CCXXXVI
Spesso ch’Amor con le sue tempre usate
assai la vostra misera Anassilla,
vi
prenderia di lei, conte, pietate
in
vederla et udilla;
perché le pene sue, i suoi cordogli
rompono i duri scogli;
ma
voi state lontano,
ed
ella piange invano.
Veggano Amore e ’l ciel, che ’l tutto vede,
la
vostra rotta e la sua salda fede.
CCXXXVII
S’io credessi por fine al mio martìre,
certo vorrei morire;
perché una morte sola
non
occide, consola.
Ma
temo, lassa me, che dopo morte
l’amoroso martìr prema più forte;
e
questo posso dirlo, perché io
moro
più volte, e pur cresce il disio.
Dunque per men tormento
di
vivere e penar, lassa, consento.
CCXXXVIII
Con quai segni, signor, volete ch’io
vi
mostri l’amor mio,
se,
amando e morendo ad ora ad ora,
non
si crede per voi, lassa, ch’io mora?
Aprite lo mio cor, ch’avete in mano,
e,
se l’imagin vostra non v’è impressa,
dite
ch’io non sia dessa;
e,
s’ella v’è, a che pungermi invano
l’alma di sì crudi ami
con
dir pur ch’io non v’ami?
Io
v’amo ed amerò fin che le ruote
girin del sol, e più, se più si puote;
e,
se voi nol credete,
è
perché crudo sète.
CCXXXIX
Dal mio vivace foco
nasce un effetto raro,
che
non ha forse in altra donna paro:
che,
quando allenta un poco,
egli
par che m’incresca,
sì
chiaro è chi l’accende e dolce l’ésca.
E,
dove per costume
par
che ’l foco consume,
me
nutre il foco e consuma il pensare
che
’l foco abbia a mancare.
CCXL
Deh, perché soffri, Amor, che disiando
la
mia vivace fede
resti senza mercede,
anzi
di vita e di me stessa in bando?
S’io
amo ed ardo fuor d’ogni misura,
perché si prende a gioco
l’amor mio e ’l mio foco
chi
mi vede morir e non ha cura?
Gli
orsi, i leoni e le più crude fère
move
talor pietade
di
chi con umiltade
nel
maggior uopo suo mercé lor chiere;
e
quella cruda voglia,
che
vive di martìre,
allor suol più gioire,
quand’avien ch’io più sfaccia e più m’addoglia.
CCXLI
Donne, voi che fin qui libere e sciolte
degli amorosi lacci vi trovate,
onde
son io e son tant’altre avolte,
se di saper che cosa sia bramate
quest’Amor, che signor ha fatto e dio
non
pur la nostra, ma l’antica etate,
è un affetto ardente, un van disio
d’ombre fallaci, un volontario inganno,
un
por se stesso e ’l suo bene in oblio,
un cercar suo malgrado con affanno
quel
che o mai non si trova, o, se pur viene,
avuto, arreca penitenzia e danno,
un nutrir la sua vita sol di spene,
un
aver sempre mai pensieri e voglie
di
fredda gelosia, di dubbi piene,
un laccio che s’allaccia e non si scioglie,
quando altrui piace, un gir spargendo seme,
di
cui buon frutto mai non si ricoglie,
una cura mordace, che ’l cor preme,
un
la sua libertate e la sua gioia
e la
sua pace andar perdendo insieme,
un morir, né sentir perché si moia,
un
arder dentro d’un vivace ardore,
un
esser mesta e non sentir la noia,
un mostrar quel ch’uom chiude dentr’e fore,
un
esser sempre pallido e tremante,
un
errar sempre e non veder l’errore,
un avilirsi al viso amato innante,
un
esser fuor di lui franca ed ardita,
un
non saper tener ferme le piante,
un aver spesso in odio la sua vita
ed
amar più l’altrui, un esser spesso
or
mesta e fosca, or lieta e colorita,
un ogni studio in non cale aver messo,
un
fugir il comerzio de le genti,
un
esser da sé lunge ed altrui presso,
un far seco ragioni ed argomenti
e
disegni ed imagini, che poi
tutti qual polve via portano i venti,
un non dormire a pieno i sonni suoi,
un
destarsi sdegnosa ed un sognarsi
sempre cosa contraria a quel che vuoi,
un aver doglia e non voler lagnarsi
di
chi n’offende, anzi rivolger l’ira
contra se stesso e sol seco sdegnarsi,
un veder sol un viso ove si mira,
un
in esso affissarsi, benché lunge,
un
gioir l’alma, quando si sospira,
e finalmente un mal che unge e punge.
CCXLII
Da più lati fra noi, conte, risuona,
che
voi sèt’ito, ove disio d’onore
sotto Bologna vi sospinge e sprona,
per mostrar ivi il vostr’alto valore:
valor degno di tanto cavaliero,
ma
non degno però di tant’amore.
Io, quando a la ragion volgo il pensiero,
godo
meco, e gioisco, e vo lodando
che
così prode amante i ciel mi diêro.
Ma quando poi ritorno al senso, quando
penso ai perigli, onde la guerra è piena,
che
Marte a’ figli suoi va procacciando,
di timor in timor, di pena in pena
meno
questa noiosa e mesta vita
(mentre voi foste qui, dolce e serena),
me accusando ch’io non fossi ardita
di
finir con un colpo i dolor miei,
anzi
che voi da me féste partita.
Felice è quella donna, a cui li dèi
han
dato amante men illustre in sorte,
e
men vago di spoglie e di trofei;
col qual le sue dimore lunghe e corte
trapassa lieta, avendol sempre a lato,
fido, costante, valoroso e forte.
Felice il tempo antico e fortunato,
quando era il mondo semplice e innocente,
poco
a le guerre, a le rapine usato!
Allor quella beata e queta gente,
sotto una amica e cara povertate,
menava i giorni suoi sicuramente.
Allor le pastorelle innamorate
avean mai sempre seco i lor pastori,
dai
quai non eran mai abbandonate.
Con lor dai primi matutini albori
scherzavan fin al dipartir del sole,
lietamente cogliendo e frutti e fiori.
Ed or di vaghe rose e di viole
tessevan vaghe ghirlandette e care,
come
chi sacri altari onora e cole.
Né la quiete lor potea turbare
l’émpito de le guerre amaro ed empio,
che
l’umane allegrezze suol cangiare:
guerre che fan di noi sì crudo scempio,
guerre che turban sì l’umano stato,
guerre suggetto d’ogni crudo essempio.
Ben fu fiero colui, per cui trovato
fu
prima il ferro, causa a tanti mali,
quanti il mondo prova ora ed ha provato.
Le guerre e le battaglie de’ mortali
erano tutte in quella età novella
contra i semplici e poveri animali;
contra’ quali il pastor, la pastorella
con
rete in spalla e con lacci e con cani
givan cingendo questa selva e quella.
Ma poi quegli appetiti ingordi, insani
di
posseder l’altrui robe e l’avere
da
l’antica pietà si fêr lontani.
Quindi si cominciâr prima a vedere
le
crude guerre e strepiti de l’armi,
che
fan, misere noi, tanto temere.
Allor sonare i bellicosi carmi
s’udiro per citade e per campagne,
contra’ quai ogni stil convien che s’armi.
Di lor convien ch’io mi lamenti e lagne:
la
lor mercede, il mio signor m’è lunge;
per
lor non è chi, lassa, m’accompagne.
Voi, se zelo d’Amor pur poco punge,
cavalier onorati, se si trova
alcun, cui Marte dal suo ben disgiunge,
dimostrate in altrui la vostra prova,
perdonate cortesi al signor mio,
in
cui morir e viver sol mi giova.
L’aspetto suo devria sol far restio
l’émpito d’ogni cruda ed empia mano,
senza che lo chiedessi umilment’io;
la qual con quanto posso affetto umano,
con
quanta posso estrema cortesia
(e
giunga il prego mio presso e lontano)
prego ch’ardito alcun di voi non sia
d’offender pur un poco un signor tale,
e
turbar seco ancor la vita mia.
E voi, conte, voi, animo reale,
provato e riprovato in ogni impresa,
deh,
se di me pur poco ancor vi cale,
quando sarà l’aspra battaglia accesa,
andate cauto, ed abbiate rispetto
a
me, tutta per voi dubbia e sospesa.
E pensate che sia nel vostro petto
l’anima mia con la vostr’alma unita,
quasi in suo proprio e suo alto ricetto.
E sì come pensaste a la partita,
pensate, conte, omai anco al ritorno,
se
voi cercate di tenermi in vita;
ch’io vi vo richiamando notte e giorno.
CCXLIII
Dettata dal dolor cieco ed insano,
vattene al mio signor, lettera amica,
baciando a lui la generosa mano.
E digli che dal dì, che la nimica
mia
stella me lo tolse, il cibo mio
è
sol noia, dolor, pianto e fatica.
Ben fu ’l ciel al mio ben contrario e rio,
ch’a
pena mi mostrò l’amato obietto,
che,
misera, da me lo dipartìo.
O brevi gioie, o fral uman diletto!
o
nel regno d’Amor tesor fugace,
subito mostro e subito intercetto!
Il bel paese, che superbo giace
fra
’l Rodano e la Mosa, or mi contende
la
suprema cagion d’ogni mia pace.
Mentre ivi il mio signor gradito intende
a
l’onorate giostre, a’ pregi, a’ ludi,
di
cui sì chiara a noi fama s’estende,
io, misera, che ’n lui tutti i miei studi,
tutte le voglie ho poste, essendo lunge,
conven che disiando agghiacci e sudi.
E sì fiero il martìr m’assale e punge,
ch’io mi vivo sol d’esso e vivrommi anco
fin
che ’l ciel, conte, a me vi ricongiunge.
Voi, qual guerrier vittorioso e franco,
ferite altrui con l’onorata lancia;
io
son ferita qui dal lato manco.
O per me poco aventurosa Francia!
o
bel paese, avverso a’ miei disiri,
che
’mpallidir mi fai spesso la guancia!
Dovunque avien che gli occhi volga e giri,
non
vi trovando voi, conte, mi resto
senza speranza, preda de’ sospiri.
Voi prometteste ben di scriver presto,
non
possendo tornar, per porger ésca
fra
tanto al mio disir atro e funesto:
e, poi che non lo fate, temo ch’esca
da
la memoria vostra la mia fede,
e
che del mio dolor poco v’incresca.
È questa de l’amor mio la mercede?
e de
la vostra fede è questo il pegno?
Misera donna ch’ad amante crede!
Credetti amar un cavalier più degno
e ’l
più bel che mai fosse, ed or m’aveggio
che
la credenza mia non giunge al segno.
Empia fortuna, or che mi pòi far peggio,
rottemi le promesse di colui,
senza cui, d’ogni mal preda, vaneggio?
Io non spero giamai che, come fui
vostra, conte, una volta, non sia sempre;
così
non foste voi, conte, d’altrui!
Non so perché la vita non si stempre,
non
so com’or con voi ragioni e scriva,
afflitta sì de l’amorose tempre.
Ma, lassa, che dich’io? perché mi priva
sì
’l duol del vero mio conoscimento,
ch’io tema d’una fé tenace e viva?
Non sète voi quel pieno d’ardimento,
di
senno e di valor, ch’a mille prove
trovato ho fido cento volte e cento?
Perché debb’io temer ch’essendo altrove,
da
me partito a pena, in voi sì tosto
novo
amor a’ miei danni si rinove?
Deh, dolce conte mio, per quelle e queste
fra
noi ore lietissime passate,
ond’io mi piacqui e voi vi compiaceste,
più lungamente omai non indugiate
a
scrivermi due versi solamente,
se
’l mio diletto e la mia vita amate.
Ché, non potendo veder voi presente,
il
veder vostre carte darà certo
qualche soccorso a l’affannata mente.
Questo al mio grand’amor è picciol merto
ma
sarà nondimeno ampio ristoro
al
faticoso mio poggiar ed erto.
Ben felice è lo stato di coloro,
che
per buona fortuna e destro fato
han
sempre presso il lor caro tesoro!
Misera me, che m’è ’l mio ben vietato,
allor che più bramava e più devea
essergli caramente ognor a lato!
La mia fortuna instabilmente rea
mi
vi dié tosto e tosto mi vi tolse,
che
maggior danno far non mi potea.
Ma voi, se dentro il vostro cor s’accolse
giamai vera pietà di chi v’adora,
di
chi più voi, che la sua vita, volse,
non fate, com’ho detto, più dimora
di
scrivermi e poi far tosto ritorno,
se
non volete comportar ch’io mora,
come sto per morir di giorno in giorno.
CCXLIV
De le ricche, beate e chiare rive
d’Adria, di cortesia nido e d’Amore,
ove
sì dolce si soggiorna e vive,
donna, avendo lontano il suo signore,
quando il sol si diparte, e quando poi
a
noi rimena il matutino albore,
per isfogar gli ardenti disir suoi,
con
queste voci lo sospira e chiama;
voi,
rive, che l’udite, ditel voi.
Tu, che volando vai di rama in rama,
consorte amata e fida tortorella,
e
sai quanto si tema e quanto s’ama,
quando, volando in questa parte e ’n quella,
sei
vicina al mio ben, mostragli aperto
in
note, ch’abbian voce di favella:
digli quant’è ’l mio stato aspro ed incerto,
or
che, lassa, da lui mi trovo lunge
per
ria fortuna mia e non per merto.
E tu, rosignuolin, quando ti punge
giusto disio di disfogar tuoi lai
con
voce ove cantando non s’aggiunge,
digli, dolente quanto fossi mai,
che
la mia vita è tutta oscura notte,
essendo priva di quei dolci rai.
E tu, che ’n cave e solitarie grotte,
Eco,
soggiorni, il suon de’ miei lamenti
rendi a l’orecchie sue con voci rotte.
E voi, dolci aure ed amorosi venti,
miei sospir accolti in lunga schiera
deh
fate al signor mio tutti presenti.
E voi, che lunga e dolce primavera
serbate, ombrose selve, e sète spesso
fido
soggiorno a questa e a quella fèra,
mostrate tutte al mio signore espresso
che
non pur i diletti mi son noia,
ma
la vita m’è morte anco senz’esso.
Ei si portò, partendo, ogni mia gioia,
e,
se, tornando omai, non la rimena,
per
forza converrà tosto ch’io moia.
La speme sola al viver mio dà lena,
la
qual, non tornand’ei, non può durare,
da
soverchio disio vinta e da pena.
Quell’ore, ch’io solea tutte passare
liete e tranquille, mentre er’ei presente,
or
ch’egli è lunge son tornate amare.
Ma, lassa, a torto del suo mal si pente,
a
torto chiama il suo destin crudele,
chi
volontario al suo morir consente.
Lassa, io devea con mie giuste querele
o
far che non andasse, o far ch’andando
non
desse al vento senza me le vele;
ch’or non m’andrei dolente lamentando,
né
temenza d’oblio, né gelosia
non
m’avrebber di me mandata in bando.
Emendate, signor, la colpa mia
voi,
ritornando ove ’l vostro ritorno
più
che la propria vita si disia.
E, se rimena il sole un dì quel giorno,
non
pensate mai più da me partire,
ch’io non vi sia da presso notte e giorno,
poi ch’io mi veggo senza voi morire.
CCXLV
Musa mia, che sì pronta e sì cortese
a
pianger fosti meco ed a cantare
le
mie gioie d’amor tutte, e l’offese,
in tempre oltra l’usato aspre ed amare
movi
meco dolente e sbigottita
con
le sorelle a pianger e a gridare
in questa aspra ed amara dipartita,
che
per far me da me stessa partire
hanno Fortuna e ’l mio signor ordita.
E, perché forse non potrem supplire
noi
soli a tanta doglia, in parte al pianto
queste rive e quest’onde fa’ venire:
onde, che meco si compiacquer tanto
de
la cara presenza di colui,
ch’or lunge sospirando io chiamo e canto.
Questi, Amor, son gli usati frutti tui,
brevissimi diletti e lunghe doglie,
ch’io provo, che tua serva sono e fui.
Ché, come toglie agli arbori le foglie
tosto l’autunno, così di tua mano,
se
si dona alcun ben, tosto si toglie.
Tu mi donasti, ed or mi tien lontano
quanto ben tu puoi darmi, e quanto vede
di
caro il sol, tornando a l’oceàno.
E, bench’io sia sicura di sua fede,
bench’io riposi in quanto m’ha promesso,
ne
le dolci parole che mi diede,
quando ’l disio m’assale, ch’è sì spesso,
non
essendo qui meco chi l’appaga,
la
vita mia è un morir espresso.
Donne, cui punge l’amorosa piaga,
di
lassar dipartir l’amato bene
non
sia alcuna di voi che sia vaga;
perché son poi maggior assai le pene
di
quel ch’altri si crede o che s’aspetta,
qualor l’amara disianza viene.
Niuna cosa a noi piace o diletta,
se
non v’è quel che ne la fa piacere,
quel
ch’ogni nostra gioia fa perfetta.
Io quel che voglio non posso volere,
se
quel ch’amo non ho presso o dintorno,
quel
che le noie mie torna in piacere.
Tu, che fai ora a Lendenara giorno,
almo
mio sole, ed a me notte oscura,
sole, a cui sempre col pensier ritorno,
de l’alta fede mia sincera e pura
tien’almen la memoria che si deve,
che
durerà fin che mia vita dura.
E, se degna pietà ti move, in breve
o
scrivi o vieni o manda, sì ch’io sia
scema di cura dispietata e greve.
Ché tanto durerà la vita mia,
quand’io sarò sicura d’esser cara
e
d’esser presso a chi ’l mio cor desia,
il mio cor, ch’ora alberga in Lendenara.
II
RIME VARIE
CCXLVI
Sacro re, che gli antichi e novi regi,
quanti sono o fûr mai eccelsi e degni,
per
forza di valor propria e d’ingegni
vinci, e te stesso e tutto ’l mondo fregi,
ed
a’ più chiari spirti ed a’ più egregi,
a’
più felici e più sublimi ingegni
la
via d’alzarsi al ciel, scrivendo, insegni
con
la materia de’ tuoi tanti pregi,
volgi dal tron de la tua maestade
sereno il ciglio, onde queti e governi
popoli e regni, a la mia umiltade;
ché, se tu aspiri a’ miei disiri interni,
spero, vil donna, a la futura etade
far
con tant’altri i tuoi gran fatti eterni.
CCXLVII
Alma reina, eterno e vivo sole,
prodotta ad illustrar imperi e regni,
e
congiunta al maggior re, ch’oggi regni,
cara
sì che con voi vuole e non vuole,
date a l’ingegno mio rime e parole,
onde
possa adombrar con quai può segni
quanto la vostra altezza e i pregi degni
il
mondo tutto riverisce e cole.
Lasciate ch’a la fama e agli scrittori,
che
parleran di voi sì chiaramente,
io
donna da lontan possa andar dietro;
lasciate ch’io di sì famosi allori
m’adorni il crin a la futura gente.
Oh
qual grazia mi fia, se questo impetro!
CCXLVIII
Tu, che traesti dal natio paese
le
nostre muse tutte ed Elicona
là
dove regge il Rodano e la Sona
il
maggior re che viva e ’l più cortese,
ed or con voi son tutte ad una intese
insieme col gran figlio di Latona
a
celebrar quella real corona,
e le
sue tante e gloriose imprese,
chiaro Alamanni, io vorrei ben anch’io
venir in parte di cotanto onore,
e
lodar lui con voi e poi voi anco;
ma s’oppone a l’immenso mio disio
l’esser io, donna e vil, preda d’Amore.
Lo
spirto è pronto, ma lo stil è stanco.
CCXLIX
Alma fenice, che con l’auree piume
prendi fra l’altre donne un sì bel volo,
ch’Adria ed Italia e l’uno e l’altro polo
tutto di meraviglia empi e di lume,
bellezza eterna, angelico costume,
petto d’oneste voglie albergo solo,
deh,
perché non poss’io, come vi còlo,
versar, scrivendo, d’eloquenzia un fiume?
Ché spererei de la più sacra fronde,
così
donna qual sono, ornarmi il crine,
e
star con Saffo e con Corinna a lato.
Poi che lo stil al desir non risponde,
fate
voi co’ be’ rai, luci divine,
chiare voi stesse e questo mar beato.
CCL
Voi n’andaste, signor, senza me dove
il
gran troian fermò le schiere erranti,
ov’io nacqui, ove luce vidi innanti
dolce sì, che lo star mi spiace altrove.
Ivi vedrete vaghe feste e nove,
schiere di donne e di cortesi amanti,
tanti, che ad onorar vengono, e tanti,
un
de li dèi più cari al vero Giove.
Ed io, rimasa qui dov’Adria regna,
seguo pur voi e ’l mio nato paese
col
pensier, ché non è chi lo ritegna.
Venir col resto il mio signor contese;
ché,
senza ordine suo, ch’io vada o vegna
non
vuole Amor, poi che di lui m’accese.
CCLI
Mentre, chiaro signor, per voi s’attende
a
poggiar nel camin ch’al ciel vi mena
per
via di lingue e di scienzie e vena,
che
’l vostro nome in tutto il mondo stende,
io, donna e vil, cui desir egual prende,
e
l’acque di Castalia ho viste a pena,
vorrei venirvi dietro, e non ho lena,
ché
la bassezza mia tant’opra offende.
Però mi resto, e di lontan sospiro
i
nobil frutti de l’ingegno vostro,
che
con tant’altri già tant’anni ammiro.
Quei son la vera porpora e ’l ver’ostro,
gli
archi e le statue, se ben dritto miro,
che
rendon chiaro e caro il secol nostro.
CCLII
Se voi non foste a maggior cose vòlto,
onde
’l vostro splendor, Venier, sormonte,
avendo sì gran stil, rime sì pronte,
e
de’ lacci d’Amore essendo sciolto,
vi pregherei che ’l valor e ’l bel volto
e
l’altre grazie del mio chiaro conte
a la
futura età faceste cónte,
poi
che ’l poterlo fare a me è tolto;
e faceste ancor cónto il foco mio
e la
mia fede oltra ogni fede ardente,
degna d’eterna vita, e non d’oblio.
Ma, poi degno rispetto nol consente,
vedrò, tal qual io sono, adombrarn’io
una
minima parte solamente.
CCLIII
Speron, ch’a l’opre chiare ed onorate
spronate ognun col vostro vivo essempio,
mentre d’ogni atto vile illustre scempio
con
l’arme del valor vincendo fate,
poi che di seguir io vostre pedate
per
me l’ardente mio desir non empio,
voi,
d’ogni cortesia ricetto e tempio,
a
venir dopo voi la man mi date;
sì che, come ambedue produsse un nido,
ambedue alzi un vol, vostra mercede,
e
venga in parte anch’io del vostro grido.
Così d’Antenor quell’antica sede
e
questo d’Adria fortunato lido
faccian de’ vostri onor mai sempre fede.
CCLIV
Zanni, quel chiaro e quel felice ingegno,
che
splende in voi, e quel sommo valore,
di
cui non ha, per quel che s’ode fuore,
Adria più ricco e più leggiadro pegno,
io quanto posso umìle a inchinar vegno,
serva di cortesia, serva d’Amore,
dogliosa sol che in così santo ardore
non
van le forze del disir al segno;
perché, a ridir per via di rime a pieno
quanto io v’onoro e quanto è ’l vostro merto,
ogn’altro stil, che ’l vostro, verria meno.
Voi sol col passo saldo e passo certo
in
questo d’Adria e fortunato seno
salite al monte faticoso ed erto.
CCLV
Conte, quel vivo ed onorato raggio,
che
splende fuor del vostro chiaro ingegno
per
via di rime, ed è già giunto a segno,
che
o l’ha con pochi, o non ha alcun paraggio,
è frutto sol del vostro santo e saggio
petto, d’ogni virtù nido e sostegno;
ch’io per me propria, se a stimarmi vegno,
non
pur per darne altrui, lume non aggio.
E, se talvolta vo spiegando in carte
oscure e basse qualche mio martìre,
Amor, che me lo dà, dammi anche l’arte.
Voi per voi sol potete al ciel salire,
cigno gentil, sì ch’altri non v’ha parte:
così
potess’io il vostro vol seguire!
CCLVI
Quel lume, che ’l mar d’Adria empie ed avampa
di
sì bei frutti e di sì degni effetti,
per
via di prose e versi alti ed eletti,
che
natura ed Amor, conte, in voi stampa,
è lume proprio de la vostra lampa,
e
frutti de’ vostr’alti e bei concetti,
e
non reflesso degli oscuri obietti
di
me misera, afflitta e lassa Stampa.
E, se vostra infinita caritade
me
bassa e grave di terreno peso
di
così rare lode empie ed ingombra,
alfin ritorna in voi la chiaritade,
che,
di nessuna indegnità ripreso,
fate
sparir la lode altrui qual ombra.
CCLVII
O inaudita e rara cortesia,
donar i pregi del suo proprio onore
ad
una donna umìl, che ’l proprio core,
non
pur altro, non ha che di lei sia!
Ben v’avea fra tutti altri alzato pria
a
chiaro segno il vostro alto valore,
senza nova cercar gloria e splendore
per
questa disusata e rara via;
sì che non resti modo alcuno in terra,
ond’uom possa poggiar per farsi chiaro,
non
cerco da l’illustre Vinciguerra.
O spirto, in mille guise eccelso e raro,
qual
vena d’eloquenzia petto serra,
che
possa gir a le tue lodi a paro?
CCLVIII
Signor, da poi che l’acqua del mio pianto,
che
sì larga e sì spessa versar soglio,
non
può rompere il saldo e duro scoglio
del
cor del fratel vostro tanto o quanto,
vedete voi, cui so ch’egli ama tanto,
se,
scrivendogli umìle un mezzo foglio,
per
vincer l’ostinato e fiero orgoglio
di
quel petto poteste aver il vanto.
Illustre Vinciguerra, io non disio
da
lui, se non che mi dica in due versi:
—
Pena, spera ed aspetta il tornar mio. —
Se ciò m’aviene, i miei sensi dispersi,
come
pianta piantata appresso il rio,
voi
vedrete in un punto riaversi.
CCLIX
Se quanta acqua ha Castalia ed Elicona
beveste tutta e sì felicemente
chiaro signor, che poi le vene spente
restasser secche ad ogn’altra persona,
come poss’io, quando desio mi sprona.
a
dir di voi sì caldo e sì sovente,
sperar di pur adombrar solamente
quanto di voi si stima e si ragiona?
Anzi, perché non pur i versi miei
non
posson dir quant’io v’onoro e còlo,
ma
mille Lini meco e mille Orfei,
o voi dite di voi, o di me solo
sappia il mondo ch’io vòlsi e non potei
alzarmi pigra a sì gradito volo.
CCLX
Io vorrei ben, Molin (ma non ho l’ale
da
prender tanto e sì gradito volo),
portar, scrivendo, a l’uno e l’altro polo
l’alta cagion del mio foco immortale;
ché l’opra e la materia è tanta e tale,
ed
io son sì dal mal vinta e dal duolo,
che
a ciò non basto, e voi bastate solo,
od
altrui stile al vostro stile eguale.
Voi far fiorir potete eternamente
il
colle ch’amo; voi farlo, lodando,
novo
Parnaso a la futura gente.
Io vo ben ciò talor meco provando,
quanto mi detta il mio desir ardente;
ma
forse scemo sue lode cantando.
CCLXI
Tu, ch’agli antichi spirti vai di paro,
e
con le dotte ed onorate rime
rischiari l’acque e fai fiorir le cime
del
colle, ove si sale oggi sì raro,
movi il canto, Molin, canoro e chiaro,
se
mai movesti; e ’l mio colle sublime
fa’
fiorir fra le cose al mondo prime,
poi
ch’a me il ciel di farlo è stato avaro.
A me dié solo amarlo, e l’amo quanto
si
puote amar; ma ’l celebrarlo poi
è
d’altro stil incarco, che di donna.
Qui convien sol la tua cetra e ’l tuo canto,
chiaro signor; tu sol descriver puoi
questa del viver mio salda colonna.
CCLXII
Voi, che fate sonar da Battro a Tile,
onde
il sol viene a noi, onde si parte,
quel
chiaro stil, che ’l cielo vi comparte,
che
può d’orrido verno far aprile,
o a soggetto men basso e men vile
le
vostre rime, in tutto ’l mondo sparte,
rivolgete, o pregate Amor ex parte
che
faccia me a voi non dissimìle;
sì che, qual sono i vostri versi gai,
sia
egual la materia, e regni e viva
quanto il sol gira, e quanto ne sperai.
Ché, s’ella è di valor in tutto priva
e
quei sì chiari, indegna opra dirai,
d’Adria felice ed onorata riva.
CCLXIII
Dotto, saggio, gentil, chiaro Bonetto,
la
cui bontà il bel nome ancor pareggia,
e
l’alta cortesia, che signoreggia
il
nobil cor, ch’a ogniun vi rende accetto,
saper bramo io dal vostro almo intelletto,
che
le cose segrete in Dio vagheggia
quale è più, il danno o l’util che si veggia
il
mondo trar da l’amoroso affetto.
Ditemi ancor perché fu Amor dipinto
già
dagli antichi, e da’ moderni ancora
si
pinge faretrato, ignudo e cieco.
Questo dubbio da voi mi sia distinto,
che
nel mio cor gran tempo già dimora,
mercé de l’ignoranzia ch’è ognor meco.
CCLXIV
È sì gradito e sì dolce l’obietto
del
mio foco, signor, e tanto e tale,
che
di soffrir ardendo non mi cale
ogni
acerbo martìr, ogni dispetto.
Duolmi sol ch’io non sia degno ricetto
di
tanto bene e a tanta fiamma eguale,
e
che ’l mio stil sia infermo, stanco e frale
a
portar l’opra, ove giunge il concetto.
E sopra tutto duolmi che la ria
mia
fortuna s’ingegna sì sovente
a
dilungar da me la gloria mia.
Che mi giova, signor, che fra la gente,
illustre, come dite, e chiara io sia,
se
dentro l’alma mia gioia non sente?
CCLXV
Il gran terror de le nimiche squadre,
che
sotto il più felice imperadore
frenò sì spesso il tedesco furore,
fatto ribelle a la sua santa madre,
come hai potuto tu, celeste Padre,
veder degli anni suoi nel più bel fiore,
fra
donne imbelli, empia mercé d’Amore,
cader per man servili, indegne et adre?
Marte il suo bellicoso orrido carme
cangi in sospiri omai, e con lui chiuda
sotterra i suoi trofei, l’insegne e l’arme;
o d’esse almen la bella amica ignuda,
Venere sua, come più degna, n’arme,
poi
ch’ella è più di lui sanguigna e cruda.
CCLXVI
Se da’ vostr’occhi, da l’avorio ed ostro,
ond’Amor manda fuor faci e quadrella,
se
dai tesor de l’anima, ch’ancella
nacque d’alto valor nel divin chiostro,
ciò ch’io scrissi e cantai mi fu dimostro,
per
lor d’ogn’atto vil tornai rubella,
e,
se mercé di quelle e mercé d’ella,
col
tempo avaro e con gl’ingegni giostro,
a voi deve ogni lingua dotta e chiara
rendervi lode, poi che ’n voi s’accoglie
virtù, che ’l fosco mio sgombra e rischiara.
A voi de’ morte, che tutt’apre e scioglie,
non
esser come agli altri empia ed amara,
e ’l
mondo ornarvi il crin di doppie foglie.
CCLXVII
— Grazie, che fate il ciel fresco e sereno,
quando v’aggrada, e tu, che l’innamori,
sacratissima madre degli Amori,
al
cui bel raggio ogn’altra ombra vien meno,
spargete con cortese e largo seno
nembo odorato di grazie e di fiori
sopra questi chiarissimi pastori,
che
me di gioia et Adria han d’onor pieno;
sì che non turbi il lor felice stato
fortuna avversa o torbida procella,
e
sia sempre, come or, dolce e beato. —
Tal pregando Anassilla, pastorella
d’ardente zelo e ’l cor caldo e ’nfiammato
le
Grazie udîrla e la più chiara stella.
CCLXVIII
A voi sian Febo e le sorelle amiche,
schiera gentil, che col vivace ingegno,
con
l’arte e con lo stil giungete a segno,
ove
non giunser le memorie antiche.
Voi le più gravi cure e le nimiche
voglie acquetate, voi l’ira e lo sdegno;
voi
sète dolce altrui triegua e ritegno
ne
le lunghe, penose, aspre fatiche.
Io de la interna mia cura e vivace,
fin
ch’è durato il vostro dolce dire,
ho,
la vostra mercé, trovato pace.
Così piaccia ad Amor di stabilire
questa mia breve gioia; e chi mi sface
tenga mai sempre queto il mio disire.
CCLXIX
Amica, dolce ed onorata schiera,
schiera di cortesia e d’onestade,
soggiorno di valore e di beltade,
di
diporti e di grazie madre vera,
io prego Amor e ’l ciel ch’unita, intera
ti
conservi in felice e lunga etade,
e
questi giochi e questa libertade
veggan tardi, o non mai, l’ultima sera.
Cosa non possa mai perversa e ria
turbar per tempo alcun o disunire
così
dolce e gradita compagnia.
A me si dia per grazia di gioire
con
lei molt’anni e con la fiamma mia,
che
sovra il ciel mi fa superba gire.
CCLXX
Rivolgete la lingua e le parole
a
dir di cosa più degna e più chiara,
che
non son io, schiera onorata e cara,
onde
tanto Elicona s’orna e cole.
Come la luna il lume suo dal sole
prende, onde poi la notte apre e rischiara,
io,
cui natura è stata in tutto avara,
splendo quanto il mio sol permette e vuole.
A lui dunque si de’ tutta la lode,
perché, s’ei non mi dà del suo vigore,
non
è chi mova la mia lingua o snode.
La mia vita in lui vive ed in me more,
di
lui sol parla, pensa, scrive et ode.
Oh
pur mi serbi in questo stato Amore!
CCLXXI
Voi, ch’a le muse ed al signor di Delo
caro
più ch’altri, quasi unico mostro,
la
via d’andar a lor m’avete mostro,
pensier cangiati innanzi tempo e pelo;
e, di Morte schernendo il crudo telo,
chiaro poggiate a quel celeste chiostro,
ov’io con voi d’alzarmi indarno giostro,
ché
pur m’atterra il peso grave e ’l gelo;
fate col vostro stil palese e note
le
vostre lode a tutto ’l mondo e ’l saggio
senno e valor, ch’ogn’altro par ch’adombre,
perch’io per me, Michiel, cosa non aggio
d’esser cantata da le vostre note,
che
tempo e morte tosto non la sgombre.
CCLXXII
Deh, perché non poss’io, qual debbo e quale
voi
m’imponeste, al mio stil porre i vanni,
sì
che ’l vostro bel nome, dagli inganni
del
tempo tolto, al ciel spiegasse l’ale,
coppia onorata, a cui null’altra eguale
si
vede, o vedrà mai dopo mill’anni,
per
virtute e valor salita a’ scanni,
ove
raro o non mai si salse o sale?
Felice Serravalle, a cui per sorte
si
diede l’esser retta e governata
da
sì gran donna e sì degno consorte!
Felicissima me, se fosse nata
o
con voi prima, o con voi fin a morte
vivesse questa vita che m’è data!
CCLXXIII
Perché Fortuna, avversa a’ miei disiri,
quasi smarrita e stanca navicella
da
lunga combattuta e ria procella,
come
a lei piace mi rivolva e giri,
e meco più ad or ad or s’adiri,
e mi
percuota in questa parte e ’n quella,
né
lassi l’empia e di pietà rubella
che
da’ suoi colpi il cor punto respiri,
io pur, Balbi, nel mal mi riconforto,
poi
che ho le vostre ornate rime amiche,
onde
malgrado suo vivrò mill’anni.
Queste a la speme mia mostrano il porto,
queste contra de l’aure aspre e nemiche
saran dolce ristoro de’ miei danni.
CCLXXIV
Anima, che secura sei passata
per
questo procelloso mar, per questa
vita
mortal senza provar tempesta,
dagli onori e dal volgo allontanata,
ed or con quella angelica brigata
ti
vivi vita eterna in gioia e ’n festa,
lassata qui tutta confusa e mesta
la
gioventù da te retta e guidata,
pianga il tuo dipartir, la lontananza
del
buon Socrate suo celeste e santo
tutta Italia e tutta Adria in ogni stanza;
ed io per me, se non che mi fa tanto
pianger Amor per lui, che non m’avanza,
colmerei l’urna tua col mio gran pianto.
CCLXXV
Qual a pieno potrà mai prosa o rima
la
vostra cortesia lodar e l’arte,
quella, ch’a me di lode dà tal parte,
questa, ch’orna ed illustra il nostro clima?
Voi sète sol, signor, se ’l ver si stima,
cui
altri non pareggia; in voi ha sparte
le
grazie il ciel, ch’altrove non comparte
in
questa nostra etade o ne la prima.
Voi sète il Sol, ch’ogn’altra luce avanza;
da
voi si prende qualitate e lume
e
tutto quel di ben, che splende in nui.
Felice me, poi c’ho trovato stanza
ne
la vostra memoria, per costume
usa
a far viver dopo morte altrui.
CCLXXVI
Ben posso gir de l’altre donne in cima
fin
dove il sole a noi nasce e diparte,
poi
ch’io son scritta da le vostre carte,
Emo,
e polita da la vostra lima.
Il chiaro Achille ebbe la spoglia opima
d’onor fra gli altri gran figli di Marte,
non
perché fusse tale egli in gran parte,
ma
perché Omero lui alza e sublima.
In me è sol amor, e disianza
di
ber de l’acque del Castalio fiume,
ove
voi spesso ed io ancor non fui.
Se questo onesto mio disir s’avanza,
se
un dì m’infonde Apollo del suo nume,
andrò lodando queste rive e vui.
CCLXXVII
Porgi man, Febo, a l’erbe, e con quell’arte,
che
suol render altrui salute e vita,
il
mio buon Emo e ’l Tiepol nostro aita,
due
che tengon di noi la miglior parte;
e l’empia febre e le reliquie sparte,
onde
han la faccia pallida e smarrita,
sia
da lor, tua mercé, tosto bandita,
se
disii presso noi famoso farte.
Sì vedrai poi d’incensi e d’odor vari
e di
votive tavole e di segni
carco il tuo tempio e’ tuoi sacrati altari;
et udrai mille e mille chiari ingegni
dir
le tue lode e i fatti egregi e chiari,
onde
fra gli altri dèi lodato regni.
CCLXXVIII
Ninfe, che d’Adria i più riposti guadi
sacre abitate, e tu, dea degli Amori,
che
da quest’acque prima uscisti fuori,
care
sì che ’l tuo Cipro men t’aggradi,
a’ modi adorni a meraviglia e radi,
a la
maggior beltà ch’oggi s’onori,
al
soggetto più degno di scrittori,
pur
che sia stil ch’a sì gran segno vadi,
a la Barozza, a cui nulla è seconda,
dei
più ricchi tesor, che ’l mar vostro aggia,
ornate il crin e l’aurea treccia bionda.
E lungo questa erbosa e chiara spiaggia
canti l’una di voi, l’altra risponda,
la
vostra donna bella, onesta e saggia.
CCLXXIX
Felice cavalier e fortunato,
a
cui toccò fra tutti gli altri in sorte,
aver
sì bella e sì nobil consorte,
e di
sì chiaro ingegno e sì pregiato,
voi potete obliar, standole a lato,
i
gravi assalti di fortuna e morte,
perch’ella può con le due fide scorte
render tranquillo il ciel fosco e turbato.
Coppia gentil, dopo mill’anni e mille
de’
vostri veri pregi e vero onore
splenderanno fra noi chiare faville.
Ed ancor fia chi dica pien d’ardore:
—
Alme felici, poi che ’l ciel sortille
a sì
bel nodo ed a sì santo ardore!
CCLXXX
Le virtù vostre e quel cortese affetto,
che
mostrate, Guiscardo, avermi a parte,
e
quel vergar de l’onorate carte
in
lode mia sì chiaro e sì perfetto,
hanno tanto poter dentro al mio petto,
che
con quanto si può mai studio od arte
io
son vòlta ad amarte ed onorarte,
quasi di vero onor nido e ricetto.
Ma con quel sol e non altro disio,
che
prescrive onestate, e che conviensi
al
voler vostro ed a lo stato mio;
perché l’amar con questi frali sensi
è
amor breve; e spesse volte è rio,
ché
n’ancide la strada, ond’al ciel viensi.
CCLXXXI
Quel, che con tanta e sì larga misura
felice ingegno il nostro alto Fattore
vi
dié, Guiscardo, e quel raro valore,
che
de’ più chiari il vivo raggio oscura,
quel vago stil, quella cortese cura,
che
di lodarmi sì v’infiamma il core,
non
per mio merto, a tanta opra minore,
ma
per mia rara e mia sola ventura,
e sopra tutto quello amor, che tanto
mostrate avermi, che l’amato move,
e fa
uno il voler quando è diviso,
son cagion che v’onori ed ami, quanto
può
donna chiaro ingegno, stile e viso;
però
quanto onestà detti ed approve.
CCLXXXII
Quel gentil seme di virtute ardente,
che
germogliar nel vostro ingegno intende
fin
da’ primi anni, ed or tal frutto rende,
che
n’è pieno Adria omai tutto, e lo sente,
con quel disio, che sì fervidamente
spiegate in carte, che di me vi prende,
sì
viva fiamma nel mio cor accende,
ch’a
la vostra è minor o poco o niente.
È ben ver che ’l disio, con ch’amo voi,
è
tutto d’onestà pieno e d’amore,
perch’altramente non convien tra noi.
Appagate di questo il vostro core,
spirto gentil, e fate noto poi
ne’
vostri versi questo santo ardore.
CCLXXXIII
S’io non avessi al cor già fatto un callo
e
patteggiato dentro col pensiero
non
dar più luogo al despietato arciero,
mal
trattata da lui quanto egli sallo;
di farmi entrar ne l’amoroso ballo
novamente, e più crudo che ’l primiero,
per
farmi uscir dal mio preso sentiero
e
commetter del primo un maggior fallo,
avrian forza i vostr’occhi e quel cortese
atto
e tante altre grazie e la beltade,
onde
natura a farsi onor intese.
Ma, per aver di me giusta pietade,
tanto ho di voi, non più, le voglie accese,
quanto permette onor ed onestade.
CCLXXXIV
— Pastor, che d’Adria il fortunato seno
di
tanti onori e tanti pregi ornate,
e de
le rive sue chiare e pregiate
avete omai, cantando, il mondo pieno;
pastor, ch’alto saper chiudete in seno
ne
la più verde e più fiorita etate,
e,
da radici uscendo alte e lodate,
fate
col canto il ciel fosco e sereno,
deh potess’io del vostro almo splendore
venir in parte e di quei chiari effetti,
ché
non temerei morte o tempo oscuro. —
Così, lodando il suo saggio pastore,
Anassilla dicea, di dolci aspetti
ripieno il cielo, a l’aer chiaro e puro.
CCLXXXV
Mentre al cielo il pastor d’alma beltate
Coridon alza l’una e l’altra Stampa,
e
mentre l’una e l’altra arde ed avampa
di
far lui chiaro a questa nostra etate,
in note di vivace amor formate,
d’amor, che solo in gentil cor s’accampa,
dice
Anassilla al sol volta, che scampa
le
forze avendo a più poter legate:
— Deh, perché stil, vaghezza ed armonia
d’alzar lui non ho io, rime e concento,
a
segno ove pastor mai non è stato?
Perché a voglia sì santa e così pia
non
risponde il poter, che in un momento
faria lo stato mio chiaro e beato?
CCLXXXVI
Qual è fresc’aura, a l’estiv’ora ardente,
a la
stanca e sudata pastorella,
qual
è a chi dorme in riva erbosa e bella
il
mormorar d’un bel cristal corrente,
qual di sol raggio in bel prato ridente
a
fior che langue a la stagion novella,
qual
certo porto a dubbia navicella,
ch’esce fuor di tempesta aspra e repente;
tal fu il vostro apparir gradito tanto,
Priuli nostro, a nostre luci meste,
e le
rime ch’agli altri han tolto il vanto.
Quell’a noi stesse ne fu caro, e queste,
dopo
il dipor del terren vostro manto,
ne
faran chiare ovunque amor si deste.
CCLXXXVII
Chiunque a fama gloriosa intende
per
via di chiaro stil, d’alto intelletto,
talor basso e vilissimo soggetto,
per
essaltarlo poetando, prende.
Omero, che per tutto fama stende,
alzò
cantando un animal negletto;
e
Virgilio, la lingua saggio e ’l petto,
de
la zanzala, al ciel, scrivendo, ascende.
Tal di noi, basso tema, fate vui,
che
’l nostro nome, indegno ch’uom riguardi,
alzate sì che non fia mai che moia.
A voi, Priuli saggio, ceda lui,
che
Mantov’orna e i bei campi lombardi,
e
chi cantò Micena insieme e Troia.
CCLXXXVIII
Cercando novi versi e nove rime
per
poter far le lodi vostre cónte,
Apollo, sceso giù dal sacro monte,
l’orecchie mi tirò ne l’ore prime.
— Altro ingegno, altro stile ed altre lime,
— mi
disse — o d’eloquenzia un maggior fonte
ti
converrebbe a poter stare a fronte
con
soggetto sì degno e sì sublime.
Un mar, che non ha fine e non ha fondo,
cerchi solcar, cercando di lodare
il
riverendo a null’altro secondo.
A tutt’altri le stelle fûro avare,
quando mandâr sì chiaro spirto al mondo,
a
cui han dato ciò che si può dare.
CCLXXXIX
Soranzo, de l’immenso valor vostro
e de
l’alte virtù tante e sì nove
raggio sì vivo e sì possente move
e di
sì chiaro lume il secol nostro,
che, volend’io vergar carta ed inchiostro,
sì
come son or qui, sien note altrove,
la
grandezza de l’opra mi rimove,
e
ritarda lo stil quel che m’è mostro.
Io vinco ben tutt’altre di disio
in
amarvi e onorarvi come deggio;
ma
l’opra è tal, che vince il poter mio.
Onde maggior virtute a chi può chieggio
da
pagar tanto e sì devuto fio,
o
vo’ tacer di voi per non far peggio.
CCXC
Questo felice e glorioso tempio
de
la più chiara dea ch’oggi s’onori,
poi
ch’io non ho condegni incensi e fiori,
(colpa del duro mio destino ed empio)
dietro a voi, che di morte fate scempio,
fra
i più famosi e più saggi scrittori,
dotti figli d’Esperia, almi pastori,
di
queste basse rime adorno ed empio.
Ché, se m’avesse il cielo alzata dove
alzato ha lei, alzato ha ’l vostro stile,
o me
lodata, o paghi e’ disir miei!
Voi dunque in rime disusate e nove
fate
udir il suo nome a Battro e Tile,
e
tutto quel ch’io vòlsi e non potei.
CCXCI
Signor, s’a quei lodati e chiari segni
il
vostro ingegno, i vostri studi e l’arte
v’hanno alzato, e ’l vergar di tante carte,
a’
quai s’alzâro i più chiari e più degni,
come poss’io, come i maggiori ingegni,
entrando in tanto mar con poche sarte,
quanto si vuol, quanto si de’ lodarte,
sì
che di nostro dir tu non ti sdegni?
Certo il disire e debito mi sprona,
e
via più la vostr’alta cortesia,
che
talvolta di me pensa e ragiona.
Ma l’opra è tal, tal è la penna mia,
tal
di voi parla e sente ogni persona,
che,
credend’io d’alzar, v’abbasseria.
CCXCII
Voi, che di vari campi e prati vari
con
la penna metendo biade e fiori,
mostrate ognor fra i più saggi scrittori,
ond’uomo si diletti ed onde impari;
o degli ingegni al mondo eletti e rari,
di
mille edere degno e mille allori,
il
cui splendor non fia che discolori
l’invido oblio o gli anni empi ed avari,
quante grazie vi rendo, Ortensio, poi
che
senza merto mio, per vostri scritti,
n’andrò famosa dagl’Indi agli Eoi
con tant’altre lodate e chiari invitti,
che
per la vostra penna e pregi suoi
di
morte o tempo non temon despitti.
CCXCIII
S’una sola eccellenzia suol far chiaro
chi
la possede, e voi n’avete mille,
gradito cavalier, quai voci o squille
potran mai gire a’ vostri merti a paro?
Voi ne l’età più verde con quel raro
giudicio restingueste le faville
d’Inghilterra e di Francia, ove sopille
non
puoté alcun di quanti unqua provâro.
Voi di grandezza, voi di cortesia,
voi
di presenzia, voi di nobiltate
v’alzate a segno, ov’altri non fu pria.
Cantin di voi le penne più lodate;
che
io, quanto potrà la penna mia,
vi
farò chiaro a la futura etate.
CCXCIV
Mille fiate a voi volgo la mente,
per
lodarvi, Fortunio, quanto deggio,
quanto lodarvi e riverirvi io veggio
da
la più dotta e la più chiara gente;
ma da l’opra lo stil vinto si sente,
con
cui sì male i vostri onor pareggio;
onde
muta rimango, ed al ciel chieggio
o
maggior vena o desir meno ardente.
Io dirò ben che, qualunque io mi sia
per
via di stile, io son vostra mercede,
che
mi mostraste sì spesso la via;
perché ’l far poi del valor vostro fede
è
opra d’altra penna che la mia,
e ’l
mondo per se stesso se lo vede.
CCXCV
Signor, che per sì rara cortesia
con
rime degne di futura etate
sì
dolcemente cantate e lodate
l’alto mio colle, l’alta fiamma mia,
io priego Amor che, se spietata e ria
vi
fu giamai la donna che ora amate,
ferendo lei di quadrella indorate,
la
renda a’ desir vostri molle e pia.
E prego voi che ’l vostro chiaro stile,
lasciato me suggetto senza frutto,
si
volga al signor mio chiaro e gentile:
io per me son quasi un terreno asciutto,
sono
una pianta abbandonata e vile,
colta da lui, e suo è ’l pregio in tutto.
CCXCVI
Non aspettò giamai focoso amante
la
disiata e la bramata vista
di
quel, per cui versò lagrime tante;
non aspettò giamai anima trista,
e
distinata nel profondo abisso,
la
faccia del Signor di gloria mista;
non aspettò giamai servo, ch’affisso
fosse a dura ed acerba servitute,
a la
sua libertà ’l termin prefisso;
non disiò giamai la giovintute
cara
e gioiosa un uom già carco d’anni,
in
cui tutte le forze son perdute;
non disiò giamai d’uscir d’affanni
un,
cui fortuna aversa afflige e preme,
carco e gravato d’infiniti danni;
non aspettò giamai un uom, che teme
vicin a morte, la sua sanitate,
di
cui era già giunto a l’ore estreme;
non aspettò giamai le luci amate
di
dilettoso caro e dolce figlio
benigna madre e carca di pietate;
non aspettò giamai di gran periglio
sì
disiosa uscir nave, a cui l’onde
e
nemica tempesta diêr di piglio;
quant’io le carte tue care e gioconde,
Mirtilla mia, Mirtilla, a le cui voglie
ogni
mia voglia, ogni disir risponde;
Mirtilla mia, con la qual mi si toglie
ogni
mia gioia ed ogni mio diletto,
restando preda di perpetue doglie;
col cui leggiadro e grazioso aspetto
mi
si rende ogni bene, ogni piacere
dolce, amoroso, caro, alto ed eletto.
Ché, non potendo te propria vedere,
veder i frutti del tuo vago ingegno
è
quanto di conforto io posso avere.
Però, tosto ch’io vidi il caro pegno
de
l’amor tuo ver’me, l’amiche carte,
de
la memoria tua perpetuo segno,
quel piacer, che può dar a parte a parte
cosa
dolce e gradita, ho sentit’io,
sì
ch’a gran pena io lo potrei contarte.
Quel c’ha turbato alquanto il gioir mio,
è
stato entr’esse il legger e ’l vedere
cosa
tutta contraria al mio disio,
che la Mirtilla mia, degna d’avere
prospero corso e vera e dolce pace,
sia
stata astretta per febre a giacere.
Questo però fra ’l mezzo mal mi piace,
che
la mercé di Dio vi sète presto
convaluta del mal aspro e tenace.
Or attendete a conservar il resto
del
tempo, che da me sarete lunge,
sì
ch’anco a me non sia ’l viver molesto.
Perch’un sol duol due corpi insieme punge,
sì
come un solo amor ed una fede
ed
una voluntà due cor congiunge.
E, se talor di voi cerca far prede
qualche cura noiosa, adoperate
quell’estrema virtù, che ’l ciel vi diede,
e fra tanto di me vi ricordate.
CCXCVII
— Di chi ti lagni, o mio diletto e fido,
sovra questo famoso e chiaro lido,
ove
fan nido tante onorat’alme
felici ed alme?
— Io mi lagno, signor, di due begli occhi,
onde
eterna dolcezza avien che fiocchi,
né
par che tocchi a lor, né dia lor noia,
perch’io mi moia.
— Per le saette mie, per la mia face
che
’l tuo languir a gran torto mi spiace;
ma,
s’egli piace a chi vuol che ti sfaccia,
che
vòi ch’io faccia?
— Vo’ che tu, che sol pòi soccorso darmi,
tu,
che sei nostro dio, tu, c’hai fort’armi,
onde
aitarmi, o tempri il duro core
o ’l
mio dolore.
— Mille fiate e mille mi son messo
per
saettar quegli occhi e gir lor presso;
ma
’l lume stesso sì m’ingombra, ch’io
non
son più dio.
— Or se tanto essi, e tu sì poco vali,
perché non cedi lor l’arco e gli strali
e
faci ed ali e ’l tuo carro e ’l tuo regno,
come
a più degno?
— Io cederei di grado, pur che loco
mi
desser que’ begli occhi, e strali e foco,
ond’apro e cuoco; ma lor non aggrada
che
seco vada.
— Com’esser può ch’Amor voglia legarse
e
farsi servo altrui, né possa farse,
e
son sì scarse quelle vive stelle,
che
stii con elle?
— Elle hanno a schivo che di lor vittoria
abbia io, stando con lor, parte di gloria,
perché d’istoria è men degno colui
ch’è
con altrui.
— Dunque senza speranza e senza aita,
poi
ch’è la deitade tua finita,
sarà
mia vita il tempo che m’avanza
in
disianza?
— Così fia, lasso! ed io la face e l’arco
e le
saette mie gitto ad un varco,
poi
che son scarco, mercé di quel lume,
d’ogni mio nume.
— Piangiamo insieme, l’un la deitate,
l’altro la sua perduta libertate,
senza pietate di colei, che sola
tutto n’invola.
— Io volo al cielo. — Io resto fra quest’onde.
— Io
Giove. — Io chiamerò chi non risponde.
Aure
seconde, fate al mondo chiara
cosa
sì rara.
CCXCVIII
Felice in questa e più ne l’altra vita
chi
fugge, come voi, prima che provi,
la
miseria del secolo infinita;
prima che dentr’al cor si turbi e movi
per
tanti inaspettati uman cordogli,
e
poi d’uscirne al fin loco non trovi.
Felice anima, tu, che qui ti spogli
di
questi affetti miseri e terreni,
e de
le nostre pene non ti dogli!
Tutti i tuoi dì saran lieti e sereni,
senz’ira, senza guerra e senza danni,
di
pace, di riposo e d’amor pieni.
Felice chi si fa, sotto umil panni,
di
Cristo, signor suo, devot’ancella,
né
prova i nostri maritali affanni!
E, gli occhi alzando a la divina stella,
lascia quest’aspro e periglioso mare,
ch’aura giamai non ha senza procella!
Felice chi non ha tant’ore amare,
né
sente tutto ’l dì pianti e lamenti
o di
troppo volere, o poco fare!
Qui s’odon sol al fin con gran tormenti
o
querele di figli o di consorte,
e
mai de l’esser tuo non ti contenti.
Infelice colei, ch’a questa sorte
chiama la trista sua disaventura,
ch’in vita sa che cosa è inferno e morte!
Questa è una valle lagrimosa e scura,
piena d’ortiche e di pungenti spine,
dove
il tuo falso ben passa e non dura.
Infelici noi povere e meschine,
serve di vanità, figlie del mondo,
lontane, aimè, da l’opre alte e divine!
Altre per far il crin più crespo e biondo
provan ogn’arte e trovan mille ingegni,
onde
van de l’abisso l’alme al fondo.
Infelice quell’altra move a’ sdegni
il
marito o l’amante, e s’affatica
di
tornar grata e far che lei non sdegni.
Ad altri più che a se medesma amica,
quella con acque forti il viso offende,
de
la salute sua propria nimica.
Infelice colei, che sol attende
da
mezzo dì, da vespro e da mattina,
e
tutto ’l giorno a la vaghezza spende;
per parer fresca, bianca e pellegrina
dorme senza pensar de la famiglia,
e
negli empiastri notte e dì s’affina!
Infelice quest’altra de la figlia
grande, che per voler darle marito,
senza quietar giamai, cura si piglia!
E, perché al mondo ha perso l’appetito,
non
fa se non gridar, teme e sospetta
de
l’onor suo che non gli sia rapito.
Infelice qualunque il frutto aspetta
de’
cari figli, e sta con questa speme,
lagrimando così sempre soletta!
Questo l’annoia poi, l’aggrava e preme,
che
misera da lor vien disprezzata,
e di
continuo ne sospira e geme.
Infelice chi sta sempre arrabbiata,
e
col consorte suo non ha mai posa,
mesta del tutto, afflitta e sconsolata!
Tropp’accorta al suo mal, vive gelosa,
e
col figliuolo suo spesso s’adira,
non
gusta cibo mai, mai non riposa.
Infelice quell’altra, che sospira,
ché
sa che ’l suo marito poco l’ama,
e di
mal occhio per mal far la mira!
Alcuna in testimonio il cielo chiama,
che
sa di non aver commesso errore,
e
pur talor si duol de la sua fama.
Infelice via più chi porta amore,
e di
vane speranze e van desiri
si
va pascendo il tormentato core!
Altre pene infinite, altri martìri,
che
narrar non si sanno, il mondo apporta,
mill’altre angosce e mill’altri sospiri.
Felice per seguir più fida scorta
chi
elegge di Maria la miglior parte,
e si
fa viva a Cristo, al mondo morta!
Felice chi sue voglie ha vòlte e sparte
al
sommo Sole, al ben del paradiso,
e
qui con umiltà pon cura ed arte!
A voi convien, che ’l bel leggiadro viso
celate sotto puro e bianco velo,
avere il cor da uman pensier diviso.
Felice voi, che, d’amoroso zelo
accesa, v’aggirate al vero Sole,
che
luce eternamente in terra e ’n cielo!
Voi correte qua giù rose e viole,
sarà
del viver vostro il fin beato,
ch’altro non è di chi tal vita vuole.
Felice voi, che avete consacrato
i
vaghi occhi divini, il bel crin d’oro
a
chi sì bella al mondo v’ha creato!
È questo il ricco, il caro e bel tesoro,
quest’è la preziosa margherita,
onde, di palme al fin cinta e d’alloro,
vittoria porterete a Cristo unita.
CCXCIX
Alma celeste e pura,
che,
casta e verginella
stata tanto fra noi, sei gita al cielo,
dov’or sovra misura
ti
stai lucente e bella,
di
più perfetto accesa e maggior zelo,
perché nel mortal velo
rade
volte altrui lice
unir
perfettamente
al
suo Fattor la mente,
sì
trista è del nostro arbor la radice,
e sì
forte n’atterra
questa del senso perigliosa guerra;
tu vagheggi or beata
quell’infinito Sole,
di
cui quest’altro sole è picciol raggio;
e la
voglia appagata
hai
sì, ch’altro non vuole,
giunta a l’ultimo fin di suo viaggio;
e la
noia e l’oltraggio
e
l’ombra di quel male,
che
sostenesti in vita,
è
per sempre sbandita,
salita in parte, ove dolor non sale,
ove
si vive sempre
col
primo Amor in dilettose tempre.
Ben può gradirsi altero
il
nostro sesso omai
per
tanta donna e tanto a Cristo amica,
che,
mancato il primiero
valor, spenti que’ rai,
ch’illustrar già la santa schiera antica,
in
questa età nemica,
dove
’l vizio governa,
sia
stata una di noi,
che
tutti i pensier suoi
abbia rivolto a quella luce eterna,
e
qui fra queste rive
sia
vissa sempre come in ciel si vive.
Adria si lagna parte
del
tuo da lei partire,
parte s’allegra, poi ch’al ciel sei gita;
ché,
s’udirte e parlarte
le
ha tolto il tuo morire,
or
che sei sempre al sommo Ben unita,
potrai chiedergli aita,
quando il bisogno fia;
certo soccorso e fido
per
lo tuo chiaro nido,
sì
che sicuro e glorioso sia,
e
fin quanto il sol giri
ciascun lo tema, riverisca e ammiri.
Da que’ superni chiostri,
ov’or sicura siedi,
tutta raccolta in chi di sé ti prese,
gli
ardenti sospir nostri
a
temprar talor riedi
con
le voglie d’amor più vive e accese.
Mira, madre cortese,
i
tuoi diletti figli
e la
lor mesta casa,
or
senza te rimasa
a le
terrene noie ed a’ perigli;
e
siale, ancor lontana,
scorta e più che mai fida tramontana.
Se ’n te, quant’è disio, fosse valore,
potresti leggiermente
alzarti al ciel fra quella santa gente.
CCC
Alma onorata e saggia, che tornando,
dopo
sì lungo corso, onde venisti,
vergine e pura qual dal ventre uscisti,
lasciato hai noi piangendo e disiando,
ed or davanti al tuo principio stando,
a
cui vivendo ancor qua giù t’unisti,
de
le degne opre tue mercede acquisti,
e
d’esser gita lui mai sempre amando,
mira dal cielo i tuoi diletti figli
qual
del tuo dipartir cordoglio prema,
et
Adria, che con lor t’onora ed ama.
Quelli non è chi più guidi o consigli
senza il tuo senno, e questa resta scema
di
chi le mostri ognor come Dio s’ama.
CCCI
Casta, cara e di Dio diletta ancella,
che,
vivuta fra noi tanti e tant’anni,
ti
sei sempre schermita dagli inganni
di
questa vita neghittosa e fella,
ed or semplice e pura verginella
sei
gita a volo a quei superni scanni,
vero
porto ed eterno degli affanni,
d’ogni nostr’atra e torbida procella,
Adria ha visto e veder spera ancor segno
de
la tua santa e gloriosa vita,
e
fiorir frutti del tuo santo ingegno;
e de’ tuoi dolci figli insieme unita
la
schiera, che ti fu sì caro pegno,
pur
te sospira mesta e sbigottita.
CCCII
Quelle lagrime spesse e sospir molti,
che
mandan fuor i tuoi figli diletti,
poi
che salisti al regno degli eletti,
alma
felice, che dal ciel n’ascolti,
sien da la vera tua pietate accolti
qual
si conviene a’ lor ardenti affetti;
e
quei pensier or casti e benedetti
sieno a la cura lor, se mai fûr, vòlti.
E, sì come qua giù fosti lor guida
e
madre e scorta, così su dal cielo
sii
lor la vera tramontana e fida;
sì che tutti infiammati di quel zelo,
che
per dritto sentier a te ne guida,
di
quest’ombre qua giù squarciamo il velo.
CCCIII
Quando quell’ama, i cui disiri ardenti
sempre resse virtute ed onestate,
finito il corso di sua lunga etate,
salì
al cielo, i mortai lumi spenti,
l’eterno Re de le ben nate genti
raccolse lei ne la sua maestate,
e
quelle squadre angeliche e beate
empiêro il ciel di non usati accenti.
— Vieni, diletta virginella e pura
—
s’udia dolce cantare, — a côrre il frutto
de
la tua castità, lieta e sicura.
Vieni, fedel, ché disdiceva in tutto
star
sì raro miracol di natura,
sì
gentil pianta, in un terreno asciutto.
CCCIV
Di queste tenebrose e fiere voglie,
ch’io drizzai ad amar cosa mortale,
seguendo il van disio fallace e frale,
che
sì rio frutto di sue opre coglie,
s’avien che la tua grazia non mi spoglie,
poi
che per me la mia forza non vale,
temo
che l’aversario empio infernale
non
riporti di me l’amate spoglie.
Dolce Signor, che sei venuto in terra,
ed
hai presa per me terrena vesta
per
combatter e vincer questa guerra,
dammi lo scudo di tua grazia, e desta
in
me virtù, sì ch’io getti per terra
ogni
affetto terren, che mi molesta.
CCCV
Quelle piaghe profonde e l’acqua e ’l sangue,
che
nel tuo corpo glorioso io veggio,
Signor, che, sceso dal celeste seggio,
per
vita al mondo dar restasti essangue,
che nel mio cor, che del fallir suo langue,
vogli imprimer omai per grazia chieggio,
sì
ch’al fin del viaggio, che far deggio,
non
trionfi di me l’inimico angue.
Scancella queste piaghe d’amor vano,
che
m’hanno quasi già condotta a morte,
pur
rimirando un bel sembiante umano.
Aprimi omai del regno tuo le porte,
e
per salir a lui dammi la mano;
perché a ciò far non giovano altre scorte.
CCCVI
Signor, che doni il paradiso e tolli,
doni
e tolli a la molta e poca fede
(per
opre no, ch’a sì larga mercede
sono
i nostri operar deboli e folli),
da’ tuoi alti, celesti e sacri colli,
ov’è
’l soggiorno tuo proprio e la sede,
china gli occhi al mio cor, che mercé chiede
del
suo fallir co’ miei umidi e molli.
E, perché suol la tua grazia sovente
abuondare, ove il fallo è via maggiore,
per
mostrar la tua gloria maggiormente,
nel petto mio, ricetto d’ogni errore,
entra col foco tuo vivo ed ardente,
e,
spento ogn’altro, accendivi il tu’ amore.
CCCVII
— Volgi a me, peccatrice empia, la vista —
mi
grida il mio Signor che ’n croce pende;
e
dal mio cieco senso non s’intende
la
voce sua di vera pietà mista,
sì mi trasforma Amor empio e contrista,
e
d’altro foco il cor arde ed accende;
sì
l’alma al proprio e vero ben contende,
che
non si perde mai, poi che s’acquista.
La ragion saria ben facile e pronta
a
seguire il suo meglio; ma la svia
questa fral carne, che con lei s’affronta.
Dunque apparir non può la luce mia,
se
’l sol de la tua grazia non sormonta
a
squarciar questa nebbia fosca e ria.
CCCVIII
Purga, Signor, omai l’interno affetto
de
la mia coscienzia, sì ch’io miri
solo
in te, te solo ami, te sospiri,
mio
glorioso, eterno e vero obietto.
Sgombra con la tua grazia dal mio petto
tutt’altre voglie e tutt’altri disiri;
e le
cure d’amor tante e i sospiri,
che
m’accompagnan dietro al van diletto.
La bellezza ch’io amo è de le rare
che
mai facesti; ma, poi ch’è terrena,
a
quella del tuo regno non è pare.
Tu per dritto sentier là su mi mena,
ove
per tempo non si può cangiare
l’eterna vita in torbida, e serena.
CCCIX
Volgi, Padre del cielo, a miglior calle
i
passi miei, onde ho già cominciato
dietro al folle disio, ch’avea voltato
a
te, mio primo e vero ben, le spalle;
e con la grazia tua, che mai non falle,
a
porgermi il tuo lume or sei pregato:
trâmi, onde uscir per me sol m’è vietato,
da
questa di miserie oscura valle.
E donami destrezza e virtù tale,
che,
posti i miei disir tutti ad un segno,
saglia ove, amando il nome tuo, si sale,
a fruire i tesori del tuo regno;
sì
ch’inutil per me non resti e frale
la
preziosa tua morte e ’l tuo legno.
CCCX
Dunque io potrò, fattura empia ed ingrata,
amar
bellezza umana e fral qual vetro,
e
l’eterna e celeste lasciar dietro
de
la somma Bontà, che m’ha creata,
e poi m’ha da la morte liberata
e da
l’inferno tenebroso e tetro,
se
del fallir mi pento qual fe’ Pietro,
poi
che tre volte già l’ebbe negata?
Dunque io potrò veder di piaghe pieno
il
mio Fattor, per me sospeso in croce,
e
d’amor e di zel non venir meno?
Dunque non drizzerò pensieri e voce,
ogn’altro affetto uman spento e terreno,
solo
a’ suoi strazi, a la sua pena atroce?
CCCXI
Mesta e pentita de’ miei gravi errori
e
del mio vaneggiar tanto e sì lieve,
e
d’aver speso questo tempo breve
de
la vita fugace in vani amori,
a te, Signor, ch’intenerisci i cori,
e
rendi calda la gelata neve,
e
fai soave ogn’aspro peso e greve
a
chiunque accendi di tuoi santi ardori,
ricorro; e prego che mi porghi mano
a
trarmi fuor del pelago, onde uscire,
s’io
tentassi da me, sarebbe vano.
Tu volesti per noi, Signor, morire,
tu
ricomprasti tutto il seme umano;
dolce Signor, non mi lasciar perire!