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CINO DA PISTOIA

RIME

Edizione elettronica a cura del Bolero di Ravel - www.ilbolerodiravel.org -
febbraio 2002

 Edizione di riferimento: Cino da Pistoia: Rime, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960.

I

 

La dolce vista e 'l bel guardo soave

de' più begli occhi che lucesser mai,

c'ho perduto, mi fa parer sì grave

la vita mia ch'i' vo traendo guai;

e 'nvece di pensier' leggiadri e gai                                        5

ch'aver solea d'Amore,

porto disir' nel core

che son nati di morte

per la partenza, sì me ne duol forte.

 

Omè, Amor, perché nel primo passo                                   10

non m'assalisti sì ch'io fossi morto?

Perché non dipartisti da me, lasso,

lo spirito angoscioso ch'ïo porto?

Amore, al mio dolor non è conforto,

anzi, com'io più guardo,                                                     15

a sospirar più m'ardo,

trovandomi partuto

da que' begli occhi ov'io t'ho già veduto.

 

Io t'ho veduto in que' begli occhi, Amore,

talché la rimembranza me n'uccide,                                    20

e fa sì grande schiera di dolore

dentro alla mente, che l'anima stride

sol perché morte mia non la divide

da me, come diviso

m'ha dal gioioso riso                                                         25

e d'ogni stato allegro

lo gran contrario ch'è dal bianco al negro.

 

Quando per gentile atto di salute

ver' bella donna levo gli occhi alquanto,

sì tutta si disvia la mia virtute,                                           30

che dentro ritener non posso il pianto,

membrando di mia donna, a cui son tanto

lontan di veder lei:

o dolenti occhi miei,

non morrete di doglia?                                                     35

«Sì, per nostro voler, pur ch'Amor voglia».

 

Amor, la mia ventura è troppo cruda,

e ciò ch'agli occhi incontra più m'attrista:

però merzé, che la tua man gli chiuda,

poi c'ho perduta l'amorosa vista;                                       40

e, quando vita per morte s'acquista,

gioioso è 'l morire:

tu sail' ove dé gire

lo spirito mio poi,

e sai quanta piatà s'arà di lui.                                            45

 

Amor, ad esser micidial piatoso

t'invita il mio tormento:

secondo c'ho talento,

dammi di morte gioia,

che ne vada lo spirito a Pistoia.                                        50

 

 

II

 

Angel di Deo simiglia in ciascun atto

questa giovane bella

che m'ha con gli occhi suoi lo cor disfatto.

 

Di cotanta vertù si vede adorna,

che qual la vuol mirare                                                       5

sospirando convene il cor lassare.

Ogni parola sua sì dolce pare,

che là 've posa torna

lo spirito, che meco non soggiorna,

però che forza di sospir' lo storna,                                     10

sì angoscioso è fatto

quel loco de lo qual Amor l'ha tratto.

 

Io non m'accorsi, quand'io la mirai,

che mi fece Amore

l'asalto agli occhi e al corpo e al core,                                15

sì forte che 'n quel punto tratta fòre

dell'anima trovai

la mia vertù, che per forza lassai;

per che, campar non aspettando omai,

di ciò più non combatto:                                                   20

Dio mandi 'l punto di finir pur ratto.

 

Ballata, chi del tuo fattor dimanda,

dilli che tu 'l lassasti

piangendo quando tu t'acommiatasti,

e vederlo morir non aspettasti,                                          25

però ch'elli ti manda

tosto, perché lo su' stato si spanda:

a ciascun gentil cor ti raccomanda,

ch'i' per me non acatto

come più viver possa a nessun patto.                                30

 

 

III

 

Degno son io ch'io mora,

donna, quand' io vi mostro

ch'i' ho degli occhi vostri Amor furato:

ché certo sì celato

m'avenni al lato vostro,                                                     5

che non sapeste quando n'uscì fòra;

ed or, po' che davante a voi m'atento

mostrarlo 'n vista vera,

ben è ragione ch'i' pèra

solo per questo mio folle ardimento:                                   10

ch'i' dovea 'nnanzi, po' che così era,

soffrirne ogni tormento,

che farne mostramento

a voi ch'oltra natura siete altera.

 

Ben so' stato sì oso,                                                         15

ch'i' ho servito quanto

mostrar ver' me disdegno vi piacesse;

ma, se non vi calesse

di mie follie, per tanto

dé stare il vostro cor non disdegnoso:                                20

che questo Amor ch'allotta vi furai,

per se stesso m'uccide

e dentro mi conquide,

sì che sovente mi fa trarre guai:

questa preda dal cor vita divide                                        25

che dentro a lui menai.

Donna mia, unquemai

così fatto giudicio non si vide.

 

Di mi' ardir non vi caglia,

donna, ché vostr' altezza                                                  30

muover non si conven contra sì basso.

Lasciatem' andar, lasso,

ch'a finir mia gravezza

fo con la morte volontier battaglia.

Vedete ben ched i' non ho possanza.                                 35

Dunque il mio folleggiare

piacciavi perdonare,

non per ragion, ma vincavi pietanza:

ché fa ben la vendetta da laudare,

e per regnare avanza,                                                       40

segnor che perdonanza

usa nel tempo che si può vengiare.

 

 

IV

 

Sì m'hai di forza e di valor distrutto,

che più non tardo, Amor, ecco ch'i' moio;

e levo parte (lasso, a cui m'appoio?)

del mio gravoso affanno questo frutto.

 

Come lusingator tu m'hai condutto,                                     5

ed or mi fai come villano e croio,

e non so la cagion per ch' io t'annoio

vogliendoti piacer sempre del tutto.

 

Perché vuo' tu, Amor, che così forte

sia lo mio stato sol più di pesanza?                                    10

forse però ch'io senta dolce Morte?

 

O me dolente, che cotal pietanza

non pensava trovar nella tua corte,

che tal v'ha gioia che v'ha men leanza!

 

 

V

 

Picciol dagli atti, – rispond' i' al Picciòlo

equivocato, se lo 'ntendi punto:

e certo sïe ch'io non fu' mai giunto

da così fatti, – di tal guisa volo.

 

Subitamente ti levasti solo,                                                5

sanza esser da me chiamato o punto,

e bel tacer perdesti entro quel punto:

ogn'uom lo dice, il pregio che n'ha', tôlo.

 

Sì grande è la vettoria come 'l vinto:

se tu se' cinto, – megli' è ch'i' non apra,                             10

ché mi' onor non potrebb' esser pinto

 

di vincer te, che da follia se' spinto

in laberinto. – Morderia la capra

s'avesse denti: però non se' infinto.

 

 

VI

A GUIDO CAVALCANTI

 

Qua' son le cose vostre ch'io vi tolgo,

Guido, che fate di me sì vil ladro?

Certo bel motto volentier ricolgo:

ma funne vostro mai nessun leggiadro?

 

Guardate ben, chéd ogni carta volgo:                                  5

se dite il vero, i' non sarò bugiadro.

Queste cosette mie, dov' io le sciolgo,

ben le sa Amor, innanzi a cui le squadro.

 

Ciò è palese, ch'io non sono artista,

né cuopro mia ignoranza con disdegno,                               10

ancor che 'l mondo guardi pur la vista;

 

ma sono un uom cotal di basso 'ngegno

che vo piangendo, tant' ho l'alma trista,

per un cor, lasso, ch'è fuor d'esto regno.

 

 

VII

 

Deh, non mi domandar perché sospiri,

ch'i' ho testé una parola udita,

che l'anima nel corpo è tramortita

e svarïati tutti miei disiri.

 

Parmi sentir ch'oma' la morte tiri                                         5

a fine, lasso, la mia greve vita:

fuor de la terra la mia donna è gita

ed ha lasciato a me pene e martiri.

 

Seco ha 'l meo core, e' miei occhi smagati

rimasi son de la lor luce scuri,                                           10

sì ch'altra donna non posson guardare;

 

ma credendoli un poco rappagare,

veder fo loro spesso li usci e' muri

de la contrata u' sono 'nnamorati.

 

 

VIII

 

Come non è con voi a questa festa,

donne gentili, lo bel viso adorno?

perché non fu staman da voi richesta

che venisse a onorar[e] questo giorno?

 

Vedete che ogn'om si mette 'n chesta                                 5

per veder lei girandosi d'intorno,

e guardan[o] quale ave adorna vesta,

po' miran me che sospirar no storno.

 

Oggi aspettava veder la mia gioia

istar tra voi, e veder lo cor meo                                        10

che a lei come a sua vita s'appoia.

 

Ëo vi prego, donne, sol per Deo,

se non volete ch'io di ciò mi moia,

fate sì che stasera la vegg' eo.

 

 

IX

 

Or dov'è, donne, quella in cui s'avista

tanto piacer ch'oltra vo fa piacenti?

Poiché non c'è, non ci corron le genti,

ché reverenza a tutte voi acquista.

 

Amor di ciò ne lo meo cor attrista,                                      5

che rafrena per lei li maldicenti:

ecco in me crescon sospiri dolenti,

sì ch'io morrò sol d'amorosa sista.

 

Chiesi per Deo e per pietà di meve

che con voi no la menaste stasera,                                     10

ch'allegrezz' a vederla ogn'om riceve;

 

ma non curaste né Dio né preghera.

Di ciò mi doglio, ed ogn'om doler deve,

che la festa è turbata 'n tal manera.

 

 

X

 

Una gentil piacevol giovanella

adorna ven d'angelica vertute,

in compagnia di sì dolce salute

che qual la sente poi d'amor favella.

 

Ella m'aparve agli occhi tanto bella,                                     5

che per entr' un penser al cor venute

son parolette, che dal cor vedut'è

abbia 'n vertù d'esta gioia novella;

 

la quale ha presa sì la mente nostra

e [l'ha] coverta di sì dolce amore,                                     10

ch'ella non può pensar se non di lei:

 

«Vedi com'è soave il su' valore!

ch'agli occhi nostri apertamente mostra

come tu déi aver gran gio' da lei».

 

 

XI

 

Signori, i' son colui che vidi Amore,

che mi ferì sì ch'io non camperòe,

e sol però così pensoso voe

tenendomi la man presso a lo core;

 

ch'i' sento in quella parte tal dolore,                                    5

che spesse volte dico: «Ora morròe»;

e li atti e li sembianti ched i' foe

son come d'om che 'n gravitate more.

 

Io moro in verità, ch'Amor m'ancide,

che m'asalisce con tanti sospiri                                         10

che l'anima ne va di fuor fuggendo;

 

e s'i' la 'ntendo ben, dice che vide

una donna apparire a' miei disiri

tanto sdegnosa che ne va piangendo.

 

 

XII

 

«Omo smarruto che pensoso vai,

or che ha' tu che se' così dolente?

e che va' ragionando con la mente,

traendo ne' sospiri spesso guai?

 

Ched e' non par che tu vedessi mai                                     5

di ben alcun che core in vita sente,

anzi par[e] che mori duramente

negli atti e ne' sembianti che tu fai.

 

E s'tu non ti conforti, tu cadrai

in disperanza sì malvagiamente,                                        10

che questo mondo e l'altro perderai.

 

Deh, or vuo' tu morir così vilmente?

Chiama mercede, e tu camperai».

Questo mi dice la pietosa gente.

 

 

XIII

 

Signor, e' non passò mai peregrino

o ver d'altra manera vïandante

cogli occhi sì dolenti per cammino,

né così greve di pene cotante,

 

com'i' passa' per lo mont' Appennino,                                   5

ove pianger mi fece il ben sembiante,

le trecce biond' e 'l dolce sguardo fino

ch'Amor con l'una man mi pone avante;

 

e coll'altra nella [mia] mente pinge

a simil di piacer sì bella foggia,                                             10

che l'anima guardando se n'estinge.

 

Questa dagli occhi mie' men' una pioggia

che 'l valor tutto di mia vita stringe,

s'i' non ritorno da la nostra loggia.

 

 

XIV

 

Avegna che crudel lancia 'ntraversi

nel mi' cor questa gioven donna e gente

co' suo' belli occhi, [e] molto foco versi

nell'anima che m'arde duramente,

 

no starò di mirarla fisamente,                                                5

ch'ella mi par sì bella in que' suo' persi,

ch'i' non cheggio altro che ponerla mente,

po' di trovarne rime e dolci versi.

 

E se di lei m'ha preso Amor, non poco

laudar lo deggio, quando in me si mise,                               10

ché per sì bell' ancor nessun n'uccise.

 

E se giammai alcun morendo rise,

così debb' io tener la morte a gioco,

dacché mi vèn di così alto loco.

 

 

XV

 

Ogn'allegro penser ch'alberga meco

sì come pelegrin giunge e va via,

e se ragiona de la vita mia

intendol sì con' fa 'l tedesco 'l greco.

 

Amor, così son costumato teco,                                         5

che l'allegrezza non so che si sia,

e se mi mande a lei per altra via,

più dolor sempre al cor dolente reco.

 

Ed ho'nde dentro a lui soverchio tanto,

che tutto quanto per le membra corre                                10

e si disvia in me per ogne canto.

 

Ahi doloroso me, chi mi soccorre?

Ben veggio mi convien morir del pianto,

che non si può per nulla cosa tòrre.

 

 

XVI

A DANTE

 

Dante, i' ho preso l'abito di doglia

e 'nnanzi altrui di lagrimar non curo,

ché 'l vel tinto ch'i' vidi e 'l drappo scuro

d'ogni allegrezza e d'ogni ben mi spoglia;

 

e lo cor m'arde in disïosa voglia                                           5

di pur doler mentre che 'n vita duro,

fatto di quel che dótta ogn'uom sicuro,

sol che ciascun dolor in me s'accoglia.

 

Dolente vo, pascendomi sospiri,

quanto posso 'nforzando 'l mi' lamento                                10

per quella che si duol ne' miei disiri.

 

E però, se tu sai novo tormento,

mandalo al disïoso dei martiri,

ché fie albergato di coral talento.

 

 

XVII

 

Per una merla che dintorno al volto

sovravolando di sicur mi venne,

sento ch'Amore è tutto in me raccolto,

lo quale uscìo de le sue nere penne;

 

ch'a me medesmo m'ha furato e tolto,                                  5

né d'altro mai poscia non mi sovenne,

e non mi val tra spin' essere involto

più che colui che 'l simile sostenne.

 

Io non so come ad esser mi' ritorni,

ché questa merla m'ha sì fatto suo,                                     10

che sol voler mia libertà non oso.

 

Amico, or metti qui 'l consiglio tuo,

che s'egli avien pur ch'io così soggiorni,

almen non viva tanto doloroso.

 

 

XVIII

 

Se tu sapessi ben com'io aspetto

stando gravato de lo tuo silenzo,

non potresti già più, questo sentenzo,

la regola tener di Benedetto.

 

Non sai tu, frate, quant'io son distretto                                5

di quel signore cui servir m'agenzo,

e pròvonde la pena di Lorenzo

per mia sventura e per lo tuo difetto?

 

Ahi, quant'è lo tacere amaro e forte

ed innoioso, ove 'l parlar è dolce!                                      10

Ben fai peccato tu e la mia sorte;

 

e non so come cheto 'l ti comporte,

ché di tormenti sono in tale folce

ch'altro non veggio che l'oscura morte.

 

 

XIX

 

Amico, s'egualmente mi ricange,

neente già di me sarai allegro,

ch'i' muoio per quella oscura che pur piange,

la qual velata in un amanto negro

 

vien ne la mente e lagrimando tange                                    5

lo cor ch'è su' servente tutto integro;

allor del suo dolor l'aggreva e frange

Amor, che 'n suo pensar nol trova pigro.

 

Qui non veggh' io, dolente, che mi vaglia

chiamar Pietate, ché la sua mercede                                  10

non aiuta omo che così travaglia:

 

onde s'atrista l'anima, che vede

la donna sua che non par che le caglia

se non di morte, e 'n altro non ha fede.

 

 

XX

 

Tutto ciò ch'altrui agrada a me disgrada,

ed èmmi a noia e spiace tutto 'l mondo.

Or dunque che ti piace? I' ti rispondo:

Quando l'un l'altro spessamente aghiada;

 

e piacemi veder colpi di spada                                            5

altrui nel volto, e navi andare a fondo;

e piacerebbemi un Neron secondo,

e ch'ogne bella donna fosse lada.

 

Molto mi spiace allegrezza e sollazzo,

e la malenconia m'agrada forte,                                         10

e tutto 'l dì vorrei seguire un pazzo.

 

E far mi piaceria di pianto corte,

e tutti quelli amazzar ch'io amazzo

nel fèr pensier, là dov'io trovo Morte.

 

 

XXI

 

Meuccio, i' feci una vista d'amante

ad una fante – ch'è piacente in ciera,

e 'ncontenente lo suo cor, ched era

come di cera, – si fece diamante.

 

Ed ancor più, che 'n ogni su' sembiante                                5

passa avante – d'orgoglio ogn'altra fera:

aguila o falcone o casa altera

a sua manera – non è simigliante.

 

Per che si può veder nel mio distino

ch'ognuna d'umiltà ver' me si spoglia,                                 10

alza ed orgoglia – quant' io più m'inchino,

 

e sì tosto mi dà di capolino

com'io fo mostra d'una coral voglia:

per che m'è doglia – ch'i' testé non fino.

 

 

XXII

MESSER ONESTO A MESSER CINO

 

Siete voi, messer Cin, se ben v'adocchio,

sì che la verità par che lo sparga,

che stretta via a vo' sì sembra larga?

Spesso vi fate dimostrare ad occhio.

 

Tal frutto è buono che di quello il nocchio,                            5

chi l'asapora, molt' amaror larga,

e ben lo manifesta vostra farga,

che l'erba buona è tal come il finocchio.

 

Più per figura non vi parlo avante,

ma posso dire, e ben me ne ricorda,                                   10

ch'a trarre un baldovin vuol lunga corda.

 

Ah cielo, e chi folli' a dir s'accorda?

Alor non par che la lingua si morda,

né ciò mai vi mostrò Guido né Dante.

 

 

XXIIb

RISPUOSE MESSER CINO A MESSER ONESTO

 

Io son colui che spesso m'inginocchio,

pregando Amor che d'ogni mal mi targa:

e' mi risponde come quel da Barga,

e voi, messer, lo mi gittate in occhio.

 

E veggiovi goder come 'l monocchio,                                    5

che gli altri del maggior difetto varga;

tale che muta, in peggio non si starga,

con' fece del signor suo lo ranocchio.

 

In figura vi parlo, ed in sembiante

siete dell'animale che si lorda:                                           10

ben è talvolta far l'orecchia sorda;

 

e non crediate che 'l tambur mi storda,

ché sì credeste a chi li amici scorda;

chi mostra 'l vero intendo, e so'gli amante.

 

 

XXIII

 

Ora che rise lo spirito mio,

doneava il pensero entro lo core,

e con mia donna parlando d'amore,

sotto pietate si covria 'l disio:

 

perché là il chiama la follia ched io                                      5

vo i[n]seguendo, e mostrone dolore,

e par ch'i' sogni, e sia com'om ch'è fòre

tutto del senno e se stesso ha 'n oblio.

 

Per questo donear che fa 'l pensero,

fra me medesmo vo parlando, e dico                                  10

che 'l suo sembiante non mi dice vero

 

quando si mostra di pietà nemico,

ch'a forza par ched el si faccia fero:

per ch'io pur di speranza mi nutrico.

 

 

XXIV

 

Ciò ch'i' veggio di qua m'è mortal duolo,

perch' i' so' lunge e fra selvaggia gente,

la qual i' fuggo, e sto celatamente

perché mi trovi Amor col penser solo;

 

ch'allor passo li monti, e ratto volo                                      5

al loco ove ritrova il cor la mente,

e imaginando intelligibilmente

me conforta 'l penser che testé imbolo.

 

Così non morragg' io, se fie tostano

lo mio reddire a star sì ch'ïo miri                                        10

la bella gioia da cui son lontano:

 

quella ch'i' chiamo basso ne' sospiri,

perch' udito non sia da cor villano,

d'Amor nemico e de li soi disiri.

 

 

XXV

 

Tutto mi salva il dolce salutare

che ven da quella ch'è somma salute,

in cui le grazie son tutte compiute:

con lei va Amor che con lei nato pare.

 

E fa rinovellar la terra e l'âre                                              5

e rallegrar lo ciel la sua vertute:

giammai non fuor tai novità vedute

quali ci face Dio per lei mostrare.

 

Quando va fuor adorna, par che 'l mondo

sia tutto pien di spiriti d'amore,                                         10

sì ch'ogni gentil cor deven giocondo.

 

E lo villan domanda: «Ove m'ascondo?»;

per tema di morir vòl fuggir fòre;

ch'abassi gli occhi l'omo allor, rispondo.

 

 

XXVI

 

Quando potrò io dir: «Dolce mio dio,

per tua grande vertute

or m'hai tu posto d'ogni guerra in pace,

però che gli occhi miei, com'io disio,

veggion quella salute                                                        5

che dopo affanno riposar mi face»?

Quando potrò io dir: «Signor verace,

or m'hai tu tratto d'ogni oscuritate,

or liberato son d'ogni martiro,

però ch'io veggio e miro                                                   10

quella ch'è dëa d'ogni gran biltate,

che m'empie tutto di soavitate»?

 

Increscati di me, signor possente

che l'alto ciel distringi,

della battaglia de' sospir' ch'io porto.                                  15

Increscati la guerra della mente,

là dove tu dipingi

quel che rimira l'intelletto accorto.

Increscati del cor che giace morto

del colpo della tua dolce saetta,                                       20

che fabricata fu di quel piacere,

nel qual certo vedere

tu mi facesti quella vita eletta,

per cui agli angiol' d'ubidir diletta.

Muoviti omai, signor cui sempre adoro,                               25

signor cui tanto chiamo,

signor mio solo a cui mi raccomando;

muoviti a pïetà, vedi ch'io moro,

vedi per te quant' amo,

vedi per te quante lagrime spando.                                    30

Signor mïo, non sofferir ch'amando

da me si parta l'anima mia trista,

che fu sì lieta della tua sentita.

Vedi che poca vita

rimasa m'è se non mi si racquista                                       35

per grazïa della beata vista.

 

 

XXVII

 

Oïmè lasso, quelle trezze bionde

da le quai riluciéno

d'aureo color li poggi d'ogni intorno;

oimè, la bella ciera e le dolci onde,

che nel cor mi fediéno,                                                      5

di quei begli occhi al ben segnato giorno;

oimè, 'l fresco ed adorno

e rilucente viso,

oimè, lo dolce riso

per lo qual si vedea la bianca neve                                    10

fra le rose vermiglie d'ogni tempo,

oïmè, senza meve,

Morte, perché togliesti sì per tempo?

 

Oimè, caro diporto e bel contegno,

oimè, dolce accoglienza                                                   15

ed accorto intelletto e cor pensato;

oïmè, bell' umìle e bel disdegno,

che mi crescea la intenza

d'odiar lo vile ed amar l'alto stato;

oimè, lo disio nato                                                          20

de sì bella abondanza,

oïmè, la speranza

ch'ogn' altra mi facea vedere a dietro

e lieve mi rendea d'amor lo peso,

spezzat' hai come vetro,                                                  25

Morte, che vivo m'hai morto ed impeso.

 

Oïmè, donna d'ogni vertù donna,

dea per cui d'ogni dea,

sì come volse Amor, feci rifiuto;

oïmè, di che pietra qual colonna                                        30

in tutto il mondo avea

che fosse degna in aire farti aiuto?

E tu, vasel compiuto

di ben sopra natura,

per volta di ventura                                                        35

condutta fosti suso gli aspri monti,

dove t'ha chiusa, oimè, fra duri sassi

la morte, che due fonti

fatt' ha di lagrimar gli occhi miei lassi.

Oïmè, Morte, fin che non ti scolpa                                     40

di me, almen per li tristi occhi miei,

se tua man non mi colpa,

finir non deggio di chiamar omei.

 

 

XXVIII

 

Se conceduto mi fosse da Giove,

i' no[n] potrei vestir quel[l]a figura

che questa bel[l]a don[n]a fred[d]a e dura

mutar facesse de l'usate prove.

 

Adunque 'l pianto che dagl[i] occhi piove                              5

e 'l continuo sospiro e la rancura,

con la pietà de la mia vita oscura,

nïent' è da mirar se lei no[n] move.

 

Ma s'i' potesse far come quel dio,

'sta donna muterei in bella faggia,                                     10

e vi farei un'el[l]era d'intorno;

 

ed un ch'i' taccio, per simil desio,

muterei in uccel ched onni giorno

cantereb[b]e su l'el[l]era selvaggia.

 

 

XXIX

 

Voi che per simiglianza amate' cani,

tanto ch'altrui non ne fareste un dono,

[o] cari amici m[i]ei, eo vi perdono

s'un non ve [ne] potei trar da le mani;

 

e non è meraviglia se fôr vani                                             5

i preg[h]i m[i]ei, ché sventurati sono,

ch'io non [ne] sep[p]i mai far un sì bono,

che quel ch'eo voglio più non si lontani.

 

Forse mi fece mia chesta fal[l]are

vostro difet[t]o, o ver la mia s[ci]agura,                             10

che più mi piaceria per voi scusare.

 

Sempre mi possa mia don[n]a star scura

(ché maggior sacramento non so fare),

se cotal fallo non vi va ad usura.

 

 

XXX

 

A vano sguardo e a falsi sembianti

celo colei che nella mente ho pinta,

e covro lo desio di tale infinta,

ch'altri non sa di qual donna eo mi canti.

 

E spesse volte li anderia dinanti;                                         5

lasso per gli occhi ond' è la vertù vinta,

sì che direbber: «Questi ha l'alma tinta

del piacer di costei», li malparlanti.

 

Amor celato fa sì come 'l foco,

lo qual procede senza alcun riparo,                                    10

arde e consuma ciò che trova in loco,

 

e non si pò sentir se non amaro:

ond' eo so ben che 'l mi' viver si è poco,

ma più che 'l viver m'è lo morir caro.

 

 

XXXI

 

Disio pur di vederla, e s'eo m'apresso,

[i]sbigottito conver[r]à ch'eo incespi:

così mi fere la sua luce adesso

e 'l bel color de' biondi capei crespi.

 

E ciò ch'eo celo converrà che s'espî                                    5

per lo sospiro che del core ho messo,

dolente lasso, ché sì come vespi

mi pungon li sospir' cotanto spesso.

 

Giròlli pur dinanti, e s'eo vi caggio

a lo splendor di sua nova beltate,                                      10

forse che m'aiterà levar Pietate:

 

ché 'n segno di merzede e d'umiltate

odo si muove lo gentil coraggio.

Dunque per sua fidanza moveraggio.

 

 

XXXII

 

Chi a falsi sembianti il cor arisca,

credendo esser amato, e s'in[n]amora,

tanto diletto non sente in quel[l]'ora

ch'apresso più di pena non lang[u]isca,

 

quando per lume di vertà chiarisca                                      5

ch'el no[n] è dentro quel che par di fòra;

e se di ciò seguir più si rancora,

co[n]ven che finalmente ne perisca.

 

Onde non chiamo già donna, ma morte,

quella ch'altrui per servitor acogl[i]e                                  10

e poi gab[b]ando e sdegnando l'uccide,

 

a poco a poco la vita gli togl[i]e,

e quanto più tormenta più ne ride:

caduta vegg' eo lei in simil sorte.

 

 

XXXIII

 

Poi che saziar non posso gli occhi miei

di guardare a madonna suo bel viso,

mireròl tanto fiso,

che diverrò beato lei guardando.

 

A guisa d'angel che di sua natura,                                       5

stando su in altura,

diven beato sol vedendo Dio,

così, essendo umana creatura,

guardando la figura

di quella donna che tene 'l cor mio,                                    10

porria beato divenir qui io:

tant' è la sua vertù che spande e porge,

avegna non la scorge

se non chi lei onora desïando.

 

 

XXXIV

 

Io sento pianger l'anima nel core,

sì che fa pianger gli occhi li soi guai,

e dice: «O lassa me, ch'io non pensai

che questa fosse di tanto valore!

 

Ché per lei veggio la faccia d'Amore                                     5

vie più crudel che non vidi già mai,

e quasi irato mi dice: – Che fai

dentro a questa persona che si more? –

 

Dinanzi agli occhi mei un libro mostra,

nel qual io leggo tutti que' martiri                                      10

che posson far vedere altrui la morte.

 

Poscia mi dice: – Misera, tu miri

là dove è scritta la sentenza nostra

ditratta del piacer di costei forte –».

 

 

XXXV

 

Una ricca rocca e forte manto

volesse Dio che monte ricco avesse,

che di gente nemica non temesse,

avendo un'alta torre ad ogni canto;

 

e fosse d'ogni ben compita quanto                                      5

core pensare e lingua dir potesse,

e quine poi lo dio d'amore stesse

con li amorosi cori in gioia e canto.

 

E poi vorrei che nel mezzo surgesse

un'acqua vertudiosa d'amor tanto,                                     10

che lor bagnando dolce vita desse;

 

e perché più fedele il meo cor vanto,

vorrei che 'l gonfalon fra quei tenesse

che potran di soffrir pietoso manto.

 

 

XXXVI

 

Deh, quando rivedrò 'l dolce paese

di Toscana gentile,

dove 'l bel fior si mostra d'ogni mese,

e partiròmmi del regno servile

ch'anticamente prese                                                       5

per ragion nome d'animal sì vile?

ove a bon grado nullo ben si face,

ove ogni senso fallace – e bugiardo

senza riguardo – di virtù si trova,

però ch'è cosa nova,                                                      10

straniera e peregrina

di così fatta gene baldüina.

 

O sommo vate, quanto mal facesti

(non t'era me' morire

a Piettola, colà dove nascesti?)                                        15

quando la mosca, per l'altre fuggire,

in tal loco ponesti

ove ogni vespa deveria venire

a punger que' che su ne' tocchi stanno

come simie in iscranno, – senza lingua                                20

la qual distingua – pregio o ben alcuno.

Riguarda ciascheduno:

tutti compar' li vedi,

degni de li antichi viri eredi.

 

O gente senza alcuna cortesia,                                         25

la cu' 'nvidïa punge

l'altrui valor, ed ogni ben s'oblia;

o vil malizia, a te, perché t'allunge

di bella leggiadria,

la penna e l'orinal teco s'aggiunge.                                    30

O sòlo solo voto di vertute,

perché trasforme e mute – la natura

già bella e pura – del gran sangue altero?

A te converria Nero

o Totila flagello,                                                             35

però che 'n te non nasce bon né bello.

 

Vera satira mia, va' per lo mondo,

e de Napoli conta

che riten quel che 'l mar non vòle a fondo.

 

 

XXXVII

 

Non che 'n presenza de la vista umana

fosse, madonna, la biltà ch'è 'n voi,

già mai non venne solo a l'audïenza,

e quanto possa mostr' a conoscenza:

così meravigliando tragge altrui,                                          5

ch'ogni altra cosa vi rassembra vana.

Queste bellezze nove e sì piacenti

vi tengon gli occhi pien' di signoria,

onde conven che sia

ogni vertù degli altri a lor suggetta:                                   10

sì sono sopra l'anima possenti

per uno spiritel che se 'nde cria,

lo qual fedìo la mia

guardando, in guisa di mortal saetta.

 

Tutta vi fece loda vera Iddio,                                           15

benigno consiglier de la Natura,

donandovi in quell' or la Sua vertute

quando compose di tanta salute

la vostra gentilissima figura,

sì com'i' credo, per un Suo desio,                                      20

ch'altra ragion non se ne pote avere,

ché voi fuggite 'nanzi allo 'ntelletto.

Ahi gioioso diletto!

Quel sol, che degno n'è, vede lo cielo,

noi degnamente nol possiam vedere.                                  25

Però, madonna, io che ne son distretto,

lo mio corale affetto

a voi medesma per vergogna celo.

 

La mia forte e corale inamoranza

vi celo, com'uom tanto vergognoso                                    30

ch'anzi che dica suo difetto more.

Se non ch'i' chiamo fra me stesso Amore,

che 'n vostra altezza ponga 'l cor pietoso

e facciali veder la mia pesanza:

sì che ver' me, quando Pietate chiama,                               35

vostra umiltà risplenda e non mi sdegni,

perché poi non convegni

esser gioioso onde mia vita dole,

a simiglianza del Signor che v'ama,

lo qual pur vòl ch'umilitate regni,                                       40

che, sì come a li degni,

a tutti gli altri fa nascere 'l sole.

 

 

XXXVIII

PER LA MORTE DE LO IMPERATORE

HENRICO DA LUCIMBURGO

 

Da poi che la Natura ha fine posto

al viver di colui in cui Virtute

come 'n su' proprio loco dimorava,

i' prego lei che 'l mio finir sia tosto,

poi che vedovo son d'ogni salute:                                       5

ché mort' è quel per cui allegro andava,

e la cui fama il mondo alluminava

in ogni parte del suo dolce lume.

Rïaverassi mai? Non veggio come.

 

In uno è morto 'l senno e la prodezza,                                10

iustizia tutta e temperanza intera.

E' non è morto (lasso, c'ho io detto?),

anzi vive beato in gran dolcezza;

e la sua fama al mondo s'è com'era,

e 'l nome suo regnerà 'n saggio petto,                                15

ched e' notricherà il gran diletto

de la sua chiara e bona nominanza,

sì ch'ogni età n'avrà testimonianza.

 

Ma que' son morti e' qua' vivono ancora,

ch'avean tutta lor fé in lui fermata                                     20

con ogni amor, sì come 'n cosa degna;

e malvagia fortuna 'n subit' ora

ogni alegrezza del cor ci ha tagliata:

però ciascun come smarrito regna.

O somma Maiestà giusta e benegna,                                  25

poi che Ti fu 'n piacer tôrci costui,

danne qualche conforto per altrui.

 

«Chi è questo somm' uom», potresti dire,

o tu che leggi, «il qual tu ne raconte

che la Natura ha tolto al breve mondo,                               30

ed hal mandato in quel senza finire,

là dove l'allegrezza ha larga fonte?»

Arrigo imperador, che del profondo

del vile esser qua giù su nel giocondo

l'ha Dio chiamato, perché 'l vide degno                               35

d'essere cogli altri nel beato regno.

 

Canzon piena d'affanni e di sospiri,

nata di pianto e di molto dolore,

movi piangendo e va' disconsolata,

e guarda che persona non te miri                                      40

che non fosse fedele a quel signore

che tanta gente vedova ha lassata.

Tu te n'andrai così chiusa e celata

là dove troverai gente pensosa

de la singular morte dolorosa.                                           45

 

 

XXXIX

 

Lasso, pensando a la distrutta valle,

spesse fïate, del mio natio suole,

cotanto me ne 'ncendo e me ne dole,

che 'l pianto dal cor fin agli occhi salle;

 

e rimembrando de le nove talle                                           5

ch'ivi son de le piante di Vergiole,

più meco l'alma dimorar non vole,

sì la speranza del tornar mi falle.

 

E senza aver lo frutto creder mai,

sol di veder lo fior era 'l diletto,                                         10

che mentre ch'altro vidi non pensai.

 

Oh, credere' per lor nel Macometto!

Dunque, parte crudel, perché mi fai

pena sentir del mal ch'io non commetto?

 

 

XL

A MAESTRO CECCO D'ASCOLI

 

Cecco, i' ti prego, per virtù di quella

ch'è de la mente tua pennello e guida,

che tu corri per me di stella 'n stella

del cielo, di cui sai ciascuna rida.

 

E di' chi m'assicura e chi mi sfida,                                        5

e qual per me è laida e qual è bella,

poi che rimedio la mia scampa grida,

per qual da loro iudicïo s'appella;

 

e se m'è buono di gire a quella petra

ov'è fondato 'l gran tempio di Giove,                                  10

o star lungo 'l bel fiore, o gire altrove;

 

o se cessar dé la tempesta tetra

che sovra 'l genital mio terren piove.

Dimmelo, o Ptolomeo, che 'l vero trove.

 

 

XLI

 

Io fu' 'n su l'alto e 'n sul beato monte,

ch'i' adorai baciando 'l santo sasso,

e caddi 'n su quella petra, di lasso,

ove l'onesta pose la sua fronte,

 

e ch'ella chiuse d'ogni vertù il fonte                                     5

quel giorno che di morte acerbo passo

fece la donna de lo mio cor, lasso,

già piena tutta d'adornezze conte.

 

Quivi chiamai a questa guisa Amore:

«Dolce mio iddio, fa' che qui mi traggia                               10

la morte a sé, ché qui giace 'l mio core».

 

Ma poi che non m'intese 'l mio signore,

mi diparti' pur chiamando Selvaggia;

l'alpe passai con voce di dolore.

 

 

XLII

 

Come li saggi di Neron crudele

ingravidar lo fecer d'una rana,

così ha fatto Amor per vista vana

la mente tua, onde tu ardi e gele.

 

Falso, che ne la bocca porti 'l mèle                                      5

e dentro tòsco, onde 'l tuo amor non grana,

or come vuoi fa' l'andatura piana

per prender la colomba senza fele:

 

quella per cui lo spirito d'amore

in me discende da lo suo pianeto                                       10

quand' è con atto di bel guardo lieto.

 

Però, dovunque i' vo, le lasso 'l core,

cui raccomando [a]l suo dolc' e discreto:

non temo d'uom ch'a amar vada col geto.

 

 

XLIII

 

Sì m'ha conquiso la selvaggia gente

con li su' atti nuovi,

ch'è bisogno ch'io pruovi

tal pena, che morir chieggio sovente.

 

Questa gente selvaggia                                                     5

è fatta sì per farmi penar forte,

che tropp' affanno sosterrà mia vita;

però chieggio la morte,

ch'io voglio innanzi che faccia partita

l'anima dallo cor, che tal pen' aggia:                                  10

ch'ogni partenza di quel loco è saggia,

che è pien di tormento;

ed io, per quel ch'io sento,

non deggio mai se non viver dolente.

 

Non mi fôra pesanza                                                       15

lo viver tanto, se gaia ed allegra

vedesse questa gente d'un cor piano;

ma ell' è bianca e negra

e di tal condizion, che ogni strano

che del suo stato intende n'ha pesanza;                             20

e chi l'ama non sente riposanza,

tanto n'ha coral duolo:

dunque io, che son quel solo

che l'amo più, languisco maggiormente.

 

Cotal gente già mai                                                         25

non fu veduta, lasso, qual è questa,

ch'è crudel di se stessa e dispietata,

che in nulla guisa resta

gravar sua vita come disperata,

ché non si cura d'altra cosa omai.                                     30

Però quanto di lei piatosi lai

muovo col mio signore,

tanto parlo dolore

per abbondanza che 'l mio cor ne sente.

 

Altro già che tu, Morte, al me' parvente,                             35

non credo che mi giovi.

Adunque ora ti muovi:

deh, vieni a me, che mi se' sì piacente.

 

 

XLIV

 

Io guardo per li prati ogni fior bianco

per rimembranza di quel che mi face

sì vago di sospir' ch'io ne chieggio anco.

E' mi rimembra della bianca parte

che fa col verdebrun la bella taglia,                                     5

la qual vestìo Amore

nel tempo che, guardando Vener Marte,

con quella sua saetta che più taglia

mi die' per mezzo il core.

E quando l'aura move il bianco fiore,                                  10

rimembro de' begli occhi il dolce bianco,

per cui lo mio desir mai non fie stanco.

 

 

XLV

 

Quando pur veggio che si volta il sole

ed apparisce l'ombra,

per cui non spero più la dolce vista,

né ricevuto ha l'alma, come suole,

quel raggio che la sgombra                                                5

d'ogni martiro che lontano acquista,

tanto forte si attrista – e si travaglia

la mente, ove si chiude lo disio,

che 'l dolente cor mio

piangendo ha di sospiri una battaglia                                  10

che comincia la sera

e dura insino a la seconda spera.

 

Allor ch'io mi ritorno a la speranza,

e lo disio si leva

col giorno che riscuote lo mio core,                                    15

mi movo e cerco di trovar pietanza

tanto ch'ïo riceva

dagli occhi 'l don che fa contento Amore:

ch'egli ha già per dolore – e per gravezza

del perduto veder più amanti morti.                                    20

Dunque, ch'io mi conforti

sol con la vista, e prendane allegrezza

sovente in questo stato,

non mi par esser con ragion biasmato.

 

Amor con quel principio onde si cria                                   25

sempre il disio conduce,

e quel per gli occhi innamorati viene:

per lor si porge quella fede in pria

da l'una a l'altra luce,

che nel cor passa e poi diventa spene.                               30

Di tutto questo ben – son gli occhi scorta:

chi gli occhi, quando amanz' ha dentro chiusa,

riguardando non usa,

fa come quei che dentro arde e la porta

contra 'l soccorso chiude;                                                35

però degli occhi usar vòl la virtude.

 

Vanne via, mia canzon, di gente in gente,

tanto che la più gentil donna trovi;

e prega che suoi novi

e begli occhi amorosi dolcemente                                      40

amici sian de' miei,

quando per aver vita guardan lei.

 

 

XLVI

 

Su per la costa, Amor, de l'alto monte,

drieto a lo stil del nostro ragionare

or chi potrà montare,

poi che son rotte l'ale d'ogni ingegno?

I' penso ch'egli è secca quella fonte                                    5

ne la cui acqua si potea specchiare

ciascun del suo errare,

se ben volén guardar nel dritto segno.

Ah vero Dio, ch'a perdonar benegno

sei a ciascun che col pentir si colca,                                  10

quest'anima bivolca,

sempre stata d'amor coltivatrice,

ricovera nel grembo di Beatrice.

 

Qual oggimai dagli amorosi dubî

sarà a' nostri intelletti secur passo,                                   15

poi che caduto, ahi lasso,

è 'l ponte ov' e' passava i peregrini?

Nol vegg[end]o [di] sotto [da le] nubi,

del suo aspetto si copre ognun basso,

sì come 'l duro sasso                                                       20

si copre d'erba e talora di spini.

Ah dolce lingua, che con t[u]oi latini

facéi contento ciascun che t'udia,

quanto doler si dia

ciascun che verso Amor la mente ha volta,                         25

poi che Fortuna del mondo t'ha tolta!

 

Canzone mia, a la nuda Firenza

oggima' di speranza te n'andrai:

di' che ben pò trar guai,

ch'omai ha ben di lungi al becco l'erba.                               30

Ecco, la profezia che ciò sentenza,

or è compiuta, Firenza, e tu 'l sai:

se tu conoscerai

il tuo gran danno, piangi che t'acerba;

e quella savia Ravenna che serba                                      35

il tuo tesoro, allegra se ne goda,

ch'è degna per gran loda.

Così volesse Iddio che per vendetta

fosse deserta l'iniqua tua saetta.

 

© Belpaese2000С.В.Логиш 09.10.2005

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