DINO BUZZATI
I SETTE MESSAGGERI
1. I SETTE MESSAGGERI
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di
giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono
si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e
più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici
giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane
avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad
incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia
stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia
impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà
siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che
ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non
siamo giunti all'estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo
confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per
quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent'anni,
troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto
come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei
fedeli acconsentirono a partire.
Sebbene spensierato - ben più di quanto sia ora! -
mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i
cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da
messaggeri.
Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse
addirittura un'esagerazione. Con l'andar del tempo mi accolsi al contrario che
erano ridicolmente pochi; e si che nessuno di essi è mai caduto malato, ne è
incappato nei briganti, ne ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno
servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a
ricompensare.
Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le
iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico,
Ettore, Federico, Gregorio.
Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii
il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo giorno di viaggio, quando
avevamo percorso già un'ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la
continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi, il terzo, poi il
quarto, consecutivamente, fino all'ottava sera di viaggio, in cui partì
Gregorio. Il primo non era ancora tornato.
Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo
disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro
che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che,
procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere,
nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto
solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta
leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.
Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la
città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito
alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che
bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il
messaggero ci avrebbe ripresi.
Allontanandoci sempre più dalla capitale,
l'itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di
cammino, l'intervallo fra un arrivo e l'altro dei messaggeri cominciò a
spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni
cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia
città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza
che io ne avessi alcuna notizia.
Trascorsi che furono sei mesi - già avevamo varcato
i monti Fasani -l'intervallo fra un arrivo e l'altro dei messaggeri aumentò a
ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi
giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse
all'addiaccio da chi me le portava.
Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi
che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia
fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola
azzurra che mi sovrastava, che l'aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento,
identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l'aria, i venti, gli
uccelli apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure
mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non
posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano
già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la
mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben
venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive
comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e
in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che
non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo,
mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta,
recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.
Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo
da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a
sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per
tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie,
boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel
pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a
dormire e ripartirà domani stesso all'alba.
Ripartirà per l'ultima volta. Sul taccuino ho calcolato
che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui
il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne
avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi
coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.
Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima)
Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà
perché mai nel frattempo io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il
buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni,
cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia,
vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce,
morto.
Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta
il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame
con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto
sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è
passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno
costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo
solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.
Tu sei l'ultimo legame con loro, Domenico. Il
quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto
mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di tè
il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati
confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste
frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel
senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, ne
valli divisorie, ne montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il
limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi
dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via
della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in
antecedenza ciò che mi attende.
Un'ansia inconsueta da qualche tempo si accende in
me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei
primi tempi del viaggio; piuttosto è l'impazienza di conoscere le terre ignote
a cui mi dirigo.
Vado notando - e non l'ho confidato finora a
nessuno - vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso
l'improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa,
neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo,
sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l'aria rechi presagi
che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più
avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno
occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà
all'orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l'inutile
mio messaggio.
2. L'ASSALTO AL GRANDE CONVOGLIO
Arrestato in una via del paese e condannato
soltanto per contrabbando - poiché non lo avevano riconosciuto — Gaspare
Planetta, il capo brigante, rimase tre anni in prigione.
Ne venne fuori cambiato. La malattia lo aveva
consunto, gli era cresciuta la barba, sembrava piuttosto un vecchietto che il
famoso capo brigante, il miglior schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare
un colpo.
Allora, con le sue robe in un sacco, si mise in cammino
per Monte Fumo, che era stato il suo regno, dove erano rimasti i compagni.
Era una domenica di giugno quando si addentrò per
la valle in fondo alla quale c'era la loro casa. I sentieri del bosco non erano
mutati: qua una radice affiorante, là un caratteristico sasso ch'egli ricordava
bene. Tutto come prima.
Siccome era festa, i briganti si erano riuniti alla
casa. Avvicinandosi, Planetta udì voci e risate. Contrariamente all'uso dei
suoi tempi, la porta era chiusa.
Batté due tre volte. Dentro si fece silenzio. Poi
domandarono: Chi è? “Vengo dalla città” egli rispose “vengo da parte di
Planetta.” Voleva fare una sorpresa, ma invece quando gli aprirono e gli si
fecero incontro, Gaspare Planetta si accorse subito che non l'avevano
riconosciuto. Solo il vecchio cane della compagnia, lo scheletrico Tromba, gli
saltò addosso con guaiti di gioia.
Da principio i suoi vecchi compagni, Cosimo, Marco,
Felpa ed anche tre quattro facce nuove gli si strinsero attorno, chiedendo
notizie di Planetta. Lui raccontò di avere conosciuto il capo brigante in
prigione; disse che Planetta sarebbe stato liberato fra un mese e intanto aveva
mandato lui lassù per sapere come andavano le cose.
Dopo poco però i briganti si disinteressarono del
nuovo venuto e trovarono pretesti per lasciarlo. Solo Cosimo rimase a parlare
con lui, pur non riconoscendolo.
“E al suo ritorno cosa intende fare?” chiedeva
accennando al vecchio capo in carcere.
“Cosa intende fare?” fece Planetta “forse che non
può tornare qui?”
“Ah, sì sì, io non dico niente. Pensavo per lui,
pensavo. Le cose qui sono cambiate. E lui vorrà comandare ancora, si capisce,
ma non so...”
“Non sai che cosa?”
“Non so se Andrea sarà disposto... farà certo delle
questioni... per me torni pure, anzi, noi due siamo sempre andati d'accordo...”
Gaspare Planetta seppe così che il nuovo capo era
Andrea, uno dei suoi compagni di una volta, quello che anzi pareva allora il
più bestia.
In quel momento si spalancò la porta, lasciando
entrare proprio Andrea, che si fermò in mezzo alla stanza. Planetta ricordava
uno spilungone apatico. Adesso gli stava davanti un pezzo formidabile di
brigante, con una faccia dura e un paio di splendidi baffi.
Quando seppe del nuovo venuto, che anch'egli non
riconobbe: “Ah, così?” disse a proposito di Planetta “ma come mai non è
riuscito a fuggire? Non deve essere poi così difficile. Marco anche lui l'hanno
messo dentro, ma non ci è rimasto che sei giorni. Anche Stella ci ha messo poco
a fuggire. Proprio lui, che era il capo, proprio lui, non ha fatto una bella
figura”.
“Non è più come una volta, così per dire” fece
Planetta con un furbesco sorriso. “Ci sono molte guardie adesso, le inferriate
le hanno cambiate, non ci lasciavano mai soli. E poi lui s'è ammalato.”
Così disse; ma intanto capiva di essere rimasto
tagliato fuori, capiva che un capo brigante non può lasciarsi imprigionare,
tanto meno restar dentro tre anni come un disgraziato qualunque, capiva di
essere vecchio, che per lui non c'era più posto, che il suo tempo era
tramontato.
“Mi ha detto” riprese con voce stanca lui di solito
gioviale e sereno “Planetta mi ha detto che ha lasciato qui il suo cavallo, un
cavallo bianco, diceva, che si chiama Polàk, mi pare, e ha un gonfio sotto un
ginocchio.”
“Aveva, vuoi dire aveva” fece Andrea arrogante,
cominciando a sospettare che fosse proprio Planetta presente. “Se il cavallo è
morto la colpa non sarà nostra...”
“Mi ha detto” continuò calmo Planetta “che aveva
lasciato qui degli abiti, una lanterna, un orologio.” E sorrideva intanto
sottilmente e si avvicinava alla finestra perché tutti lo potessero veder bene.
E tutti infatti lo videro bene, riconobbero in quel
magro vecchietto ciò che rimaneva del loro capo, del famoso Gaspare Planetta,
del migliore schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo.
Eppure nessuno fiatò. Anche Cosimo non osò dir
nulla. Tutti finsero di non averlo riconosciuto, perché era presente Andrea, il
nuovo capo, di cui avevano paura. Ed Andrea aveva fatto finta di niente.
“Le sue robe nessuno le ha toccate” disse Andrea
“devono essere là m un cassetto. Degli abiti non so niente. Probabilmente li ha
adoperati qualcun altro.”
“Mi ha detto” continuò imperturbabile Planetta,
questa volta senza più sorridere “mi ha detto che ha lasciato qui il suo
fucile, il suo schioppo di precisione.”
“Il suo fucile è sempre qui” fece Andrea “e potrà
venire a riprenderselo.”
“Mi diceva” proseguì Planetta “mi diceva sempre:
chissà come me lo adoperano, il mio fucile, chissà che ferravecchio troverò al
mio ritorno. Ci teneva tanto al suo fucile.”
“L'ho adoperato io qualche volta” ammise Andrea con
un leggero tono di sfida “ma non credo per questo di averlo mangiato.”
Gaspare Planetta sedette su una panca. Si sentiva
addosso la sua solita febbre, non grande cosa, ma abbastanza da fare la testa
pesante.
“Dimmi” fece rivolto ad Andrea “me lo potresti far
vedere?”
“Avanti” rispose Andrea, facendo segno a uno dei
briganti nuovi che Planetta non conosceva “avanti, va di là a prenderlo.”
Fu portato a Planetta lo schioppo. Egli lo osservò
minutamente con aria preoccupata e via via parve rasserenarsi. Accarezzò con le
mani la canna.
“Bene,” disse dopo una lunga pausa “e mi ha detto
anche che aveva lasciato qui delle munizioni. Mi ricordo anzi precisamente:
polvere, sei misure, e ottantacinque palle.”
“Avanti” fece Andrea con aria seccata “avanti,
andategliele a prendere. E poi c'è qualcosa d'altro?”
“Poi c'è questo” disse Planetta con la massima
calma, alzandosi dalla panca, avvicinandosi ad Andrea e staccandogli dalla
cintura un lungo pugnale inguainato. “C'è ancora questo,” confermò “il suo
coltello da caccia.” E tornò a sedere.
Seguì un lungo pesante silenzio. Finalmente fu
Andrea che disse:
“Be', buonasera” disse, per fare capire a Planetta
che se ne poteva ormai andare.
Gaspare Planetta alzò gli occhi, misurando la
potente corporatura di Andrea. Avrebbe mai potuto sfidarlo, patito e stanco
come si sentiva? Perciò si alzò lentamente, aspettò che gli dessero anche le
altre sue cose, mise tutto nel sacco, si gettò lo schioppo sulle spalle.
“Allora buonasera, signori” disse avviandosi alla
porta.
I briganti rimasero muti, immobili per lo stupore,
perché mai avrebbero immaginato che Gaspare Planetta, il famoso capo brigante,
potesse andarsene così, lasciandosi mortificare a quel modo. Solo Cosimo trovò
un po' di voce, una voce stranamente fioca.
“Addio Planetta!” esclamò, lasciando da parte ogni
finzione. “Addio, buona fortuna!”
Planetta si allontanò per il bosco, in mezzo alle
ombre della sera, fischiettando una allegra arietta.
Così fu di Planetta, ora non più capo brigante,
bensì soltanto Gaspare Planetta fu Severino, di anni 48, senza fissa dimora. Però
una dimora l'aveva, un suo baracchino sul Monte Fumo, metà di legno e metà di
sassi, nel mezzo delle boscaglie, dove una volta si rifugiava quando c'erano
troppe guardie in giro.
Planetta raggiunse la sua baracchetta, accese il
fuoco, contò i soldi che aveva (potevano bastargli per qualche mese) e cominciò
a vivere solo.
Ma una sera, ch'era seduto al fuoco, si aprì di
colpo la porta e comparve un giovane, con un fucile. Avrà avuto diciassette
anni.
“Cosa succede?” domandò Planetta, senza neppure
alzarsi in piedi. Il giovane aveva un'aria ardita, assomigliava a lui,
Planetta, una trentina d'anni prima.
“Stanno qui quelli del Monte Fumo? Sono tre giorni
che vado in cerca.”
Il ragazzo si chiamava Pietro. Raccontò senza
esitazione che voleva mettersi coi briganti. Era sempre vissuto da vagabondo ed
erano anni che ci pensava, ma per fare il brigante occorreva almeno un fucile e
aveva dovuto aspettare un pezzo, adesso però ne aveva rubato uno, ed anche uno
schioppo discreto.
“Sei capitato bene” fece Planetta allegramente “io
sono Planetta.”
“Planetta il capo, vuoi dire?”
“Sì certo, proprio lui.”
“Ma non eri in prigione?”
“Ci sono stato, così per dire” spiegò furbescamente
Planetta. “Ci sono stato tre giorni. Non ce l'hanno fatta a tenermi di più.”
Il ragazzo lo guardò con entusiasmo.
“E allora mi vuoi prendere con tè?”
“Prenderti con me?” fece Planetta “be', per
stanotte dormi qui, poi domani vedremo.”
I due vissero insieme. Planetta non disilluse il
ragazzo, gli lasciò credere di essere sempre lui il capo, gli spiegò che
preferiva viversene solo e trovarsi con i compagni soltanto quando era
necessario. Il ragazzo lo credette potente e aspettò da lui grandi cose.
Ma passavano i giorni e Planetta non si muoveva. Tutt'al
più girava un poco per cacciare. Del resto se ne stava sempre vicino al fuoco.
“Capo” diceva Pietro “quand'è che mi conduci con tè
a far qualcosa?”
“Ah” rispondeva Planetta “uno di questi giorni
combineremo bene. Farò venire tutti i compagni, e avrai da cavarti la
soddisfazione.”
Ma i giorni continuavano a passare.
“Capo” diceva il ragazzo “ho saputo che domani, giù
nella strada della valle, domani passa in carrozza un mercante, un certo signor
Francesco, che deve avere le tasche piene.”
“Un certo Francesco?” faceva Planetta senza
dimostrare interesse. “Peccato, proprio lui, lo conosco bene da un pezzo. Una
bella volpe, ti dico, quando si mette in viaggio non si porta dietro neanche
uno scudo, è tanto se porta i vestiti, dalla paura che ha dei ladri.”
“Capo” diceva il ragazzo “ho saputo che domani
passano due carri di roba buona, tutta roba da mangiare, cosa ne dici, capo?”
“Davvero?” faceva Planetta “roba da mangiare?” e
lasciava cadere la cosa, come se non fosse degna di lui.
“Capo” diceva il ragazzo, “domani c'è la festa al
paese, c'è un mucchio di gente che gira, passeranno tante carrozze, molti
torneranno anche di notte. Non ci sarebbe da far qualcosa?”
“Quando c'è gente” rispondeva Planetta “è meglio
lasciar stare. Quando c'è la festa vanno attorno i gendarmi. Non vai la pena di
fidarsi. E proprio in quel giorno che mi hanno preso.”
“Capo” diceva dopo alcuni giorni il ragazzo “di' la
verità, tu hai qualcosa. Non hai più voglia di muoverti. Nemmeno più a caccia
vuoi venire. I compagni non li vuoi vedere. Tu devi essere malato, anche ieri
dovevi avere la febbre, stai sempre attaccato al fuoco. Perché non mi parli
chiaro?”
“Può darsi che io non stia bene” faceva Planetta
sorridendo “ma non è come tu pensi. Se vuoi proprio che tè lo dica, dopo almeno
mi lascerai tranquillo, è cretino sfacchinare per mettere insieme qualche
marengo. Se mi muovo, voglio che valga la fatica. Bene, ho deciso, così per
dire, di aspettare il Gran Convoglio.”
Voleva dire il Grande Convoglio che una volta
all'anno, precisamente il 12 settembre, portava alla Capitale un carico d'oro,
tutte le tasse delle province del sud. Avanzava tra suoni di corni, lungo la
strada maestra, tra lo scalpitare della guardia armata. Il Grande Convoglio
imperiale, con il grande carro di ferro, tutto pieno di monete, chiuse in tanti
sacchetti. I briganti lo sognavano nelle notti buone, ma da cent'anni nessuno
era riuscito impunemente ad assaltarlo. Tredici briganti erano morti, venti
ficcati in prigione. Nessuno osava pensarci più; d'anno in anno poi il provento
delle tasse cresceva e si aumentava la scorta armata. Cavalleggeri davanti e di
dietro, pattuglie a cavallo di fianco, armati i cocchieri, i cavallanti e i
servi.
Precedeva una specie di staffetta, con tromba e
bandiera. A una certa distanza seguivano 24 cavalleggeri, con schioppi, pistole
e spadoni. Poi veniva il carro di ferro, con lo stemma imperiale in rilievo,
tirato da sedici cavalli. Ventiquattro cavalleggeri, anche dietro, dodici altri
dalle due parti. Centomila ducati d'oro, mille once d'argento, riservati alla
cassa imperiale.
Dentro e fuori per le valli il favoloso convoglio
passava a galoppo serrato. Luca Toro, cent'anni prima, aveva avuto il coraggio
di assaltarlo e gli era andata miracolosamente bene. Era quella la prima volta:
la scorta aveva preso paura. Luca Toro era poi fuggito in Oriente e si era
messo a fare il signore.
A distanza di parecchi anni, anche altri briganti
avevano tentato: Giovanni Borso, per dire solo alcuni, il Tedesco, Sergio dei
Topi, il Conte e il Capo dei trentotto. Tutti, al mattino dopo, distesi al
bordo della strada, con la testa spaccata.
“Il Gran Convoglio? Vuoi rischiarti sul serio?”
domandò il ragazzo meravigliato.
“Sì certo, voglio rischiarla. Se riesce, sono a
posto per sempre.”
Così disse Gaspare Planetta, ma in cuor suo non ci
pensava nemmeno. Sarebbe stata un'assoluta follia, anche a essere una ventina,
attaccare il Grande Convoglio. Figurarsi poi da solo.
L'aveva detto così per scherzare, ma il ragazzo lo
prese sul serio e guardò Planetta con ammirazione.
“Dimmi” fece il ragazzo “e quanti sarete?”
“Una quindicina almeno, saremo.”
“E quando?”
“C'è tempo” rispose Planetta “bisogna che lo
domandi ai compagni. Non c'è mica tanto da scherzare.”
Ma i giorni, come avviene, non fecero fatica a
passare e i boschi cominciarono a diventar rossi. Il ragazzo aspettava con
impazienza. Planetta gli lasciava credere e nelle lunghe sere, passate vicino
al fuoco, discuteva del grande progetto e ci si divertiva anche lui. In qualche
momento perfino pensava che tutto potesse essere anche vero.
L' 11 settembre, alla vigilia, il ragazzo stette in
giro fino a notte. Quando tornò aveva una faccia scura.
“Cosa c'è?” domandò Planetta, seduto al solito
davanti al fuoco.
“C'è che finalmente ho incontrato i tuoi compagni.”
Ci fu un lungo silenzio e si sentirono gli
scoppiettii del fuoco. Si udì pure la voce del vento che fuori soffiava nelle
boscaglie.
“E allora” disse alla fine Planetta con una voce
che voleva sembrare scherzosa. “Ti hanno detto tutto, così per dire?”
“Sicuro” rispose il ragazzo. “Proprio tutto mi
hanno detto.”
“Bene” soggiunse Planetta, e si fece ancora
silenzio nella stanza piena di fumo, in cui c'era solo la luce del fuoco.
“Mi hanno detto di andare con loro” osò alla fine
il ragazzo. “Mi hanno detto che c'è molto da fare.”
“Si capisce” approvò Planetta “saresti stupido a
non andare.”
“Capo” domandò allora Pietro con voce vicina al
pianto “perché non dirmi la verità, perché tutte quelle storie?”
“Che storie?” ribatté Planetta che faceva ogni
sforzo per mantenere il suo solito tono allegro. “Che storie ti ho mai contato?
Ti ho lasciato credere, ecco tutto. Non ti ho voluto disingannare. Ecco tutto,
così per dire.”
“Non è vero” disse il ragazzo. “Tu mi hai tenuto
qui con delle promesse e lo facevi solo per sfottermi. Domani, lo sai bene...”
“Che cosa domani?” chiese Planetta, ritornato
nuovamente tranquillo. “Vuoi dire del Gran Convoglio?”
“Ecco, e io fesso a crederti” brontolò irritato il
ragazzo. “Del resto, lo potevo ben capire, malato come sei, non so cosa avresti
potuto...” Tacque per qualche secondo, poi concluse a bassa voce: “Domani
allora me ne vado”.
Ma all'indomani fu Planetta ad alzarsi per primo. Si
levò senza svegliare il ragazzo, si vestì in fretta e prese il fucile. Solo
quando egli fu sulla soglia, Pietro si destò e gli chiese:
“Capo,” gli domandò, chiamandolo così per
l'abitudine “dove vai a quest'ora, si può sapere?”
“Si può sapere, sissignore” rispose Pianella
sorridendo. “Vado ad aspettare il Gran Convoglio.”
Il ragazzo, senza rispondere, si voltò dall'altra
parte del letto, come per dire che di quelle stupide storie era stufo.
Eppure non erano storie. Planetta, per mantenere la
promessa, anche se fatta per scherzo, Planetta, ora che era rimasto solo, andò
ad assalire il Gran Convoglio.
I compagni l'avevano abbastanza sfottuto. Che
almeno fosse quel ragazzo a sapere chi era Gaspare Planetta. Ma no, neanche di
quel ragazzo gliene importava. Lo faceva in fondo per sé, per sentirsi quello
di prima, sia pure per l'ultima volta. Non ci sarebbe stato nessuno a vederlo,
forse nessuno a saperlo mai, se rimaneva subito ucciso; ma questo non aveva
importanza. Era una questione personale, con l'antico potente Planetta. Una
specie di scommessa, per un'impresa disperata.
Pietro lasciò che Planetta se n'andasse. Ma più
tardi gli nacque un dubbio: che Planetta andasse davvero all'assalto? Era un
dubbio debole e assurdo, eppure Pietro si alzò e uscì alla ricerca. Parecchie
volte Planetta gli aveva mostrato il posto buono per aspettare il Convoglio. Sarebbe
andato là a vedere.
Il giorno era già nato, ma lunghe nubi
temporalesche si stendevano attraverso il cielo. La luce era chiara e grigia. Ogni
tanto qualche uccello cantava. Negli intervalli si udiva il silenzio.
Pietro corse giù per le boscaglie, verso il fondo
della valle dove passava la strada maestra. Procedeva guardingo tra i cespugli
in direzione di un gruppo di castagni, dove Planetta avrebbe dovuto trovarsi.
Planetta infatti c'era, appiattato dietro a un
tronco e si era fatto un piccolo parapetto di erbe e rami, per esser sicuro che
non lo potessero vedere. Era sopra una specie di gobba che dominava una brusca
svolta della strada: un tratto in forte salita dove i cavalli erano costretti a
rallentare. Perciò si sarebbe potuto sparare bene.
Il ragazzo guardò giù in fondo la pianura del sud,
che si perdeva nell'infinito, tagliata in due dalla strada. Vide in fondo un
polverone che si muoveva.
Il polverone che si muoveva, avanzando lungo la
strada, era la polvere del Gran Convoglio.
Planetta stava collocando il fucile con la massima
flemma quando udì qualcosa agitarsi vicino a lui. Si voltò e vide il ragazzo
appiattato con il fucile proprio all'albero vicino.
“Capo,” disse ansando il ragazzo “Planetta, vieni via.
Sei diventato pazzo?”
“Zitto” rispose sorridendo Planetta “finora pazzo
non lo sono. Torna via immediatamente.”
“Sei pazzo, ti dico, Planetta, tu aspetti che
vengano i tuoi compagni, ma non verranno, me l'hanno detto, non se la sognano
neppure.”
“Verranno, perdio se verranno, è questione
d'aspettare un poco. E un po' la loro mania di arrivare sempre in ritardo.”
“Planetta” supplicò il ragazzo “fammi il piacere,
vieni via. Ieri sera scherzavo, io non ti voglio lasciare.”
“Lo so, l'avevo capito” rise bonariamente Planetta.
“Ma adesso basta, va' via, ti dico, fa presto, che questo non è un posto per
tè.”
“Planetta” insisté il ragazzo. “Non vedi che è una
pazzia? Non vedi quanti sono? Cosa vuoi fare da solo?”
“Perdio, vattene” gridò con voce repressa Planetta,
finalmente andato in bestia. “Non ti accorgi che così mi rovini?”
In quel momento si cominciavano a distinguere, in
fondo alla strada maestra, i cavalleggeri del Gran Convoglio, il carro, la
bandiera.
“Vattene, per l'ultima volta” ripeté furioso Planetta.
E il ragazzo finalmente si mosse, si ritrasse strisciando tra i cespugli, fino
a che disparve.
Planetta udì allora lo scalpitìo dei cavalli, diede
un'occhiata alle grandi nubi di piombo che stavano per crepare, vide tre
quattro corvi nel ciclo. Il Gran Convoglio ormai rallentava, iniziando la
salita.
Planetta aveva il dito al grilletto, ed ecco si
accorse che il ragazzo era tornato strisciando, appostandosi nuovamente dietro
l'albero.
“Hai visto?” sussurrò Pietro “hai visto che non
sono venuti?”
“Canaglia” mormorò Planetta, con un represso
sorriso, senza muovere neppure la testa. “Canaglia, adesso sta' fermo, è troppo
tardi per muoversi, attento che incomincia il bello.”
Trecento, duecento metri, il Gran Convoglio si
avvicinava. Già si distingueva il grande stemma in rilievo sui fianchi del
prezioso carro, si udivano le voci dei cavalleggeri che discorrevano tra loro.
Ma qui il ragazzo ebbe finalmente paura. Capì che
era una impresa pazza, da cui era impossibile venir fuori.
“Hai visto che non sono venuti?” sussurrò con
accento disperato. “Per carità, non sparare.”
Ma Planetta non si commosse.
“Attento” mormorò allegramente, come se non avesse
sentito. “Signori, qui si incomincia.”
Planetta aggiustò la mira, la sua formidabile mira,
che non poteva sbagliare. Ma in quell'istante, dal fianco opposto della valle,
risuonò secca una fucilata.
“Cacciatori!” commentò Planetta scherzoso, mentre
si allargava una terribile eco “cacciatori! niente paura. Anzi, meglio, farà
confusione.”
Ma non erano cacciatori. Gaspare Planetta sentì di
fianco a sé un gemito. Voltò la faccia e vide il ragazzo che aveva lasciato il
fucile e si abbandonava riverso per terra.
“Mi hanno beccato!” si lamentò “oh mamma!”
Non erano stati cacciatori a sparare, ma i
cavalleggeri di scorta al Convoglio, incaricati di precedere il carriaggio,
disperdendosi lungo i fianchi della valle, per sventare insidie. Erano tutti
tiratori scelti, selezionati nelle gare. Avevano fucili di precisione.
Mentre scrutava il bosco, uno dei cavalleggeri
aveva visto il ragazzo muoversi tra le piante. L'aveva visto poi stendersi a
terra, aveva finalmente scorto anche il vecchio brigante.
Pianella lasciò andare una bestemmia. Si alzò con
precauzione in ginocchio, per soccorrere il compagno. Crepitò una seconda
fucilata.
La palla partì diritta, attraverso la piccola
valle, sotto alle nubi tempestose, poi cominciò ad abbassarsi, secondo le leggi
della traiettoria. Era stata spedita alla testa; entrò invece dentro al petto,
passando vicino al cuore.
Planetta cadde di colpo. Si fece un grande
silenzio, come egli non aveva mai udito. Il Gran Convoglio si era fermato. Il
temporale non si decideva a venire. I corvi erano là nel cielo. Tutti stavano
in attesa.
Il ragazzo voltò la testa e sorrise: “Avevi
ragione” balbettò “sono venuti, i compagni. Li hai visti, capo?”.
Planetta non riuscì a rispondere ma con un supremo
sforzo volse lo sguardo dalla parte indicata.
Dietro a loro, in una radura del bosco, erano
apparsi una trentina di cavalieri, con il fucile a tracolla. Sembravano diafani
come una nube, eppure spiccavano nettamente sul fondo scuro della foresta. Si
sarebbero detti briganti, dall'assurdità delle divise e dalle loro facce
spavalde.
Planetta infatti li riconobbe. Erano proprio gli
antichi compagni, erano i briganti morti, che venivano a prenderlo. Facce
spaccate dal sole, lunghe cicatrici di traverso, orribili baffoni da generale,
barbe strappate dal vento, occhi duri e chiarissimi, 'e mani sui fianchi,
inverosimili speroni, grandi bottoni dorati, facce oneste e simpatiche,
impolverate dalle battaglie.
Ecco là il buon Paolo, lento di comprendonio,
ucciso all'assalto del Mulino. Ecco Pietro del Ferro, che non aveva mai saputo
cavalcare, ecco Giorgio Pertica, ecco Frediano, crepato di freddo, tutti i
buoni vecchi compagni, visti ad uno ad uno morire. E quell'omaccione coi grandi
baffi e il fucile lungo come lui, su per quel magro cavallo bianco, non era il
Conte, il famigerato capo, pure lui caduto per il Gran Convoglio? Sì, era
proprio lui. Il Conte, col volto luminoso di cordialità e straordinaria
soddisfazione. E si sbagliava Planetta oppure l'ultimo a sinistra, che se ne
stava diritto e superbo, si sbagliava Planetta o non era Marco Grande in
persona, 'il più famoso degli antichi capi? Marco Grande impiccato nella
Capitale, alla presenza dell'imperatore e di quattro reggimenti in armi? Marco
Grande che cinquant'anni dopo nominavano ancora a bassa voce? Precisamente lui
era, anch'egli presente per onorare Planetta, l'ultimo capo sfortunato e prode.
I briganti morti se ne stavano silenziosi,
evidentemente commossi, ma pieni di una comune letizia. Aspettavano che
Planetta si movesse.
Infatti Planetta, così come il ragazzo, si levò
ritto da terra, non più in carne ed ossa come prima, ma diafano al pari degli
altri e pure identico a se stesso.
Gettato uno sguardo al suo povero corpo, che
giaceva raggomitolato al suolo, Gaspare Planetta fece un'alzata di spalle come
per dire a se stesso che se ne fregava e uscì nella radura, ormai indifferente
alle possibili schioppettate. Si avanzò verso gli antichi compagni e si sentì
invadere da contentezza.
Stava per cominciare i saluti individualmente,
quando notò che proprio in prima fila c'era un cavallo perfettamente sellato ma
senza cavaliere. Istintivamente si avanzò sorridendo.
“Così per dire” esclamò, meravigliandosi per il
tono stranissimo della sua nuova voce. “Così per dire non sarebbe questo il mio
Polàk, più in gamba che mai?”
Era davvero Polàk, il suo caro cavallo, e
riconoscendo il padrone mandò una specie di nitrito, bisogna dire così perché
quella dei cavalli morti è una voce più dolce di quella che noi conosciamo.
Planetta gli diede due tre manate affettuose e già
pregustò la bellezza della prossima cavalcata, insieme ai fedeli amici, via
verso il regno dei briganti morti ch'egli non conosceva ma ch'era legittimo
immaginare pieno di sole, dentro a una aria di primavera, con lunghe strade
bianche senza polvere che conducevano a miracolose avventure.
Appoggiata la sinistra al colmo della sella, come
accingendosi a balzare in groppa, Gaspare Planetta disse:
“Grazie, ragazzi miei” disse, stentando a non
lasciarsi vincere dalla commozione. “Vi giuro che...”
Qui s'interruppe perché si era ricordato del
ragazzo, il quale, pure lui in forma di ombra, se ne stava in disparte, in
atteggiamento d'attesa, con l'imbarazzo che si ha in compagnia di persone
appena conosciute.
“Ah, scusa” disse Planetta. “Ecco qua un bravo
compagno” aggiunse rivolto ai briganti morti. “Aveva appena diciassett'anni,
sarebbe stato un uomo in gamba.”
I briganti, tutti chi più chi meno sorridendo,
abbassarono leggermente la testa, come per dare il benvenuto.
Planetta tacque e si guardò attorno indeciso. Cosa
doveva fare? Cavalcare via coi compagni, piantando il ragazzo solo? Planetta
diede altre due tre manate al cavallo, tossicchiò furbescamente, poi disse al
ragazzo:
“Be' avanti, salta su tè. È giusto che sia tu a
divertirti. Avanti, avanti, poche storie” aggiunse poi con finta severità
vedendo che il ragazzo non osava accettare.
“Se proprio vuoi...” esclamò infine il ragazzo,
evidentemente lusingato. E con un'agilità che egli stesso non avrebbe mai
preveduto, poco pratico come era stato fino allora di equitazione, il ragazzo
fu di colpo in sella.
I briganti agitarono i cappelli, salutando Gaspare
Planetta, qualcuno strizzò benevolmente un occhio, come per dire arrivederci. Tutti
diedero di sprone ai cavalli e partirono al galoppo.
Partirono come schioppettate, allontanandosi tra le
piante. Era meraviglioso come essi si gettassero negli intrichi del bosco e li
attraversassero senza rallentare. I cavalli tenevano un galoppo soffice e bello
a vedere. Anche da lontano, qualcuno dei briganti e il ragazzo agitarono ancora
il cappello.
Planetta, rimasto solo, diede un'occhiata circolare
alla valle. Sogguardò, ma appena con la coda dell'occhio, l'ormai inutile corpo
di Planetta che giaceva ai piedi dell'albero. Diresse quindi gli sguardi alla
strada.
Il Convoglio era ancora fermo, al di là della curva
e perciò non era visibile. Sulla strada c'erano soltanto sei o sette
cavalleggeri della scorta; erano fermi e guardavano verso Planetta. Benché
possa apparire incredibile, essi avevano potuto vedere la scena: l'ombra dei
briganti morti, i saluti, la cavalcata. In certi giorni di settembre, sotto
alle nuvole temporalesche, non è poi detto che certe cose non possano avvenire.
Quando Planetta, rimasto solo, si voltò, il capo di
quel drappello si accorse di essere guardato. Allora drizzò il busto e salutò
militarmente, come si saluta tra soldati.
Planetta si toccò la falda del cappello, con un
gesto molto confidenziale ma pieno di bonomia increspando le labbra a un
sorriso.
Poi diede un'altra alzata di spalle, la seconda
della giornata. Fece perno sulla gamba sinistra, voltò le spalle ai
cavalleggeri, sprofondò le mani nelle tasche e se n'andò fischiettando,
fischiettando, sissignori, una marcetta militare. Se n'andò nella direzione in
cui erano spariti i compagni, verso il regno dei briganti morti ch'egli non
conosceva ma ch'era lecito supporre migliore di questo.
I cavalleggeri lo videro farsi sempre più piccolo e
diafano; aveva un passo leggero e veloce che contrastava con la sua sagoma
ormai di vecchietto, un'andatura da festa quale hanno solo gli uomini sui
vent'anni quando sono felici.
3. SETTE PIANI
Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte
arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. Egli
aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la
stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta.
Benché avesse soltanto una leggerissima forma
incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre
sanatorio, in cui non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva
un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale sistemazione
d'impianti.
Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per
averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria, - Giuseppe Corte
ebbe una ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da
regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d'albergo. Tutt'attorno
era una cinta di alti alberi.
Al termine di una sommaria visita medica, in attesa
di un esame più accurato e completo, Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera
del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria,
le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di stoffe policrome. La vista
spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo,
ospitale e rassicurante.
Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la
lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con
sé. Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa.
Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise
volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di
cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I malati erano
distribuiti piano per piano a seconda della gravita. Al settimo, cioè
all'ultimo, erano ospitate le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai
malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni
serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati
gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire
grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato
dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera
omogenea. D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto e
con i risultati migliori.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette
progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue
particolari regole, con le sue speciali tradizioni che negli altri piani non
avevano alcun valore. E siccome ogni settore era affidato alla direzione di un
medico diverso, si erano formate, sia pure assolutamente minime, precise
differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso
all'istituto un unico fondamentale indirizzo.
Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte,
sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò
fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuova per lui,
ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani
inferiori. La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale
genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione
sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime e che si scorgevano
solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza
erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.
Il Corte si accorse che a una finestra di fianco
alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente
simpatia, ma non sapevano come rompere quel silenzio. Finalmente Giuseppe Corte
si fece coraggio e disse: “Anche voi state qui da poco?”.
“Oh no” fece l'altro “sono qui già da due mesi...”
tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione
aggiunse:
“Guardavo giù mio fratello.”
“Vostro fratello?”
“Sì,” spiegò lo sconosciuto. “Siamo entrati
insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensate che
adesso è già al quarto.”
“Al quarto che cosa?”
“Al quarto piano,” spiegò l'individuo e pronunciò
le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che
Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
“Ma son così gravi al quarto piano?” domandò
cautamente.
“Oh Dio” fece l'altro scuotendo lentamente la testa
“non sono ancora casi disperati, ma c'è comunque poco da stare allegri.”
“Ma allora” chiese ancora il Corte, con una
scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo
riguardano “allora, se al quarto sono già così gravi, al primo chi mettono
allora?”
“Oh” disse l'altro “al primo sono proprio i
moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che
lavora. E naturalmente...”
“Ma ce n'è pochi al primo piano,” interruppe
Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma “quasi tutte le
stanze sono chiuse laggiù.”
“Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano
parecchi” rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. “Dove le persiane sono
abbassate, là qualcuno è morto da poco. Non vedete, del resto, che negli altri
piani tutte le imposte sono aperte? Ma scusatemi” aggiunse ritraendosi
lentamente “mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri,
auguri...”
L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne
chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se
ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del
primo piano. Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i
funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano
confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene così lontano. Sulla
città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre
del sanatorio si illuminavano; da lontano si sarebbe potuto pensare a un
palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e
decine di finestre rimanevano cieche e buie.
Il risultato della visita medica generale rasserenò
Giuseppe Corte. Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in
cuor suo preparato a un verdetto severo e non sarebbe rimasto sorpreso se il
medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre
infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si
mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e
incoraggianti. Un principio di male c'era - gli disse - ma leggerissimo; in due
o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.
“E allora resto al settimo piano?” aveva domandato
ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto.
“Ma è naturale!” aveva risposto il medico battendogli
amichevolmente una mano su una spalla “E dove pensavate di dover andare? Al
quarto forse?” chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda e
peggiore.
Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli
era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei compagni di
ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi. Seguì con
scrupolo la cura, e mise tutto il suo possibile impegno a guarire rapidamente;
tuttavia le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie.
Erano passati circa dieci giorni quando a Giuseppe
Corte si presentò il capo -infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un
favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale
una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla
sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi
in un'altra camera, altrettanto confortevole?
: Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna
difficoltà; una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi
toccata forse una nuova e più graziosa infermiera.
“Vi ringrazio di cuore” fece allora il capo -
infermiere con un leggero inchino; “da una persona come voi confesso non mi
stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un'ora se non avete nulla in
contrario, procederemo al trasloco. Guardate che bisogna scendere al piano di
sotto” aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare
assolutamente trascurabile. “Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere
libere. Ma è una sistemazione provvisoria” si affrettò a specificare vedendo
che Corte, rialzatesi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di
protesta “una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una
stanza e credo che sarà fra due o tre giorni, potrete tornare di sopra.”
“Vi confesso” disse Giuseppe Corte sorridendo, per
dimostrare di non essere un bambino “vi confesso che un trasloco di questo
genere non mi piace affatto.”
“Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco;
capisco benissimo quello che intendete dire; si tratta unicamente di una
cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi
bambini... Per carità” aggiunse ridendo apertamente “non vi venga neppure in
mente che ci siano altre ragioni!”
“Sarà” disse Giuseppe Corte “ma mi sembra di
cattivo augurio.”
Il Corte così passò al sesto piano, e sebbene
convinto che questo trasloco non corrispondesse affatto a un peggioramento del
male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e '1 mondo normale, della
gente sana, già si frapponesse un ostacolo. Al settimo piano, porto d'arrivo,
si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esse
si poteva anzi considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al
sesto già si entrava nel corpo autentico dell'ospedale; già la mentalità dei
medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. Già
si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia
pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con
il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse infatti come in quel
reparto il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad
ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così
dire, si cominciava davvero.
Comunque Giuseppe Corte capì che per tornare di
sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe
certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo piano egli
doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per uno sforzo minimo;
non c'era dubbio che se egli non avesse fiatato,
nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei
"quasi-sani".
Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere
sui suoi diritti e di non lasciarsi invischiare dall'abitudine. Ai compagni di
reparto teneva molto a specificare di trovarsi con coloro soltanto per pochi
giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un piano per fare un piacere a una
signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra.
Gli altri annuivano con scarsa persuasione.
Il convincimento di Giuseppe Corte trovò piena
conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe
Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era
as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra — e scandiva tale definizione per darle importanza
- ma in fondo riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere
meglio curato.
' “Non cominciamo con queste storie” interveniva a
questo punto il malato con decisione “mi avete detto che il settimo piano è il
mio posto; e voglio ritornarci.”
“Nessuno ha detto il contrario” ribatteva il
dottore “il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da
au-ten-ti-co a-mi-co! La vostra forma, vi ripeto, è leggerissima; (non sarebbe
esagerato dire che non siete nemmeno ammalato), ma secondo me si distingue da
forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: l'intensità del
male è minima, ma considerevole l'ampiezza; il processo distruttivo delle
cellule” era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella
sinistra espressione “il processo distruttivo delle cellule è assolutamente
agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a
colpire contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo, secondo
me, potete essere curato più efficacemente qui, al sesto piano dove i metodi
terapeutici sono più tipici ed intensi.”
Un giorno gli fu riferito che il direttore generale
della casa, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva
deciso di cambiare la suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi -
per così dire - veniva ribassato di un mezzo punto. Ammesso che in ogni piano
gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravita, in due categorie
(questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi medici, ma ad
uso esclusivamente interno), l'inferiore di queste due metà veniva d'ufficio
traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati del sesto
piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al quinto; e
i meno leggeri del settimo passare al sesto. La notizia fece piacere a Giuseppe
Corte perché, in un così complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al
settimo piano sarebbe riuscito più facile.
Quando accennò a questa sua speranza con
l'infermiera egli ebbe però un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe
stato traslocato, ma non al settimo bensì al piano di sotto. Per motivi che
l'infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più
"grave" degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al
quinto.
Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in
furore; gridò che truffavano ignobilmente, che non voleva sentir parlare di
altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano
diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva trascurare così
apertamente le diagnosi dei sanitari.
Mentre egli ancora gridava arrivò trafelato il
medico per tranquillizzarlo. Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse
voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno
parziale. Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo
giusto postò se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul
suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo. In fondo la
sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche considerata di
sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non
riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore
del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio
quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di
Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. O meglio la direzione aveva
di proposito leggermente "peggiorato" il suo giudizio, essendo egli
ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente.
1l dottore infine consigliava il Corte di non
inquietarsi, di subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era
la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato.
Per quanto si riferiva alla cura, - aggiunse ancora
il sanitario - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico
del piano di sotto aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che
l'abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man
mano che si scendeva. La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista
ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tolta dagli
alberi della cinta.
Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale,
ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni del dottore con una
progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e
soprattutto la voglia di reagire ancora all'ingiusto trasloco. E si lasciò
portare al piano di sotto.
L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe
Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio
concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il meno
grave di tutti. Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di
gran lunga il più fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che
oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale.
Procedendo la primavera, l'aria intanto si faceva
più tiepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi
alla finestra; benché un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si
sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del
primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più
vicine.
Il suo male appariva stazionario. Dopo tre giorni
di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba destra
un'espulsione cutanea che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era
un'affezione - gli disse il medico - assolutamente indipendente dal male
principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci
sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi
digamma.
“E non si possono avere qui i raggi digamma?”
chiese Giuseppe Corte.
“Certamente” rispose compiaciuto il medico “il
nostro ospedale dispone di tutto. C'è un solo inconveniente...”
“Che cosa?” fece il Corte con un vago
presentimento.
“Inconveniente per modo di dire” si corresse il
dottore, “volevo dire che l'installazione per i raggi si trova soltanto al
quarto piano e io vi sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile
tragitto.”
“E allora niente?”
“Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione
non sia passata aveste la compiacenza di scendere al quarto.”
“Basta!” urlò allora Giuseppe Corte. “Ne ho già
abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!”
“Come credete” fece conciliante l'altro per non
irritarlo, “ma quale medico curante, badate che vi proibisco di andar da basso
tre volte al giorno.”
Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi
andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e
continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a
che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli fare la cura dei
raggi e di essere trasferito perciò al piano inferiore.
Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di
rappresentare un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in
condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. Egli
invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la
sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere.
Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua
posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo
piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli
intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova
scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo.
“Al settimo, al settimo!” esclamò sorridendo il
medico che finiva proprio allora di visitarlo. “Sempre esagerati voi ammalati! Sono
il primo io a dire che potete essere contento del vostro stato; a quanto vedo
dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a
parlare di settimo piano - scusatemi la brutale sincerità - c'è una certa
differenza! Voi siete uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo, ma siete pur
sempre un ammalato!”
“E allora, allora” fece Giuseppe Corte accendendosi
tutto nel volto “voi a che piano mi mettereste?”
; “Oh Dio, non è facile dire, non vi ho fatto che
una breve visita, per .poter pronunciarmi dovrei seguirvi per almeno una
settimana.”
“Va bene” insistette Corte “ma pressapoco saprete.”
Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di
concentrarsi un momento in meditazione; poi annuì con il capo a se stesso e
lentamente disse: “Oh Dio! proprio per accontentarvi, ecco, potremmo in fondo
mettervi al sesto! Sì sì,” aggiunse come per persuadere se stesso. “Il sesto
potrebbe andar bene.”
Il dottore credeva di far lieto il malato. Invece
sul volto di Giuseppe Corte si diffondeva lo sgomento: ora si accorgeva che i
medici l'avevano ingannato; ecco qui questo nuovo sanitario, evidentemente più
abile e più onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al
settimo, ma al sesto piano, e forse al quinto inferiore! Quella sera la febbre
fu alta.
La permanenza al quarto piano segnò per Giuseppe
Corte il periodo più tranquillo dopo l'entrata all'ospedale. Il medico era
persona simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per
delle ore intere a chiacchierare degli argomenti più vari. E anche Giuseppe
Corte discorreva volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita
vita d'avvocato e d'uomo di mondo. Cercava di persuadersi di appartenere ancora
al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari,
di interessarsi dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi. Invariabilmente il
discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.
Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era
divenuto intanto per lui un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma se erano
riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati
ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si
sforzava di mostrarsi forte, anzi ironico, senza riuscirvi.
“Ditemi, dottore” chiese un giorno “come va il
processo distruttivo delle mie cellule?”
“Oh, ma che brutte parole!” lo rimproverò
scherzosamente il dottore. “Dove mai le avete imparate? Non sta bene, non sta
bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da voi discorsi
simili.”
“Va bene” obiettò il Corte “ma così non mi avete
risposto.”
“Oh, vi rispondo subito” fece il dottore cortese. “Il
processo distruttivo delle cellule, per ripetere la vostra orribile
espressione, è, nel vostro caso, minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato
di definirlo ostinato.”
“Ostinato, cronico vuoi dire?”
“Non fatemi dire quello che non ho detto.“Io voglio
dire soltanto ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni
anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe.”
“Ma ditemi, dottore, quando potrò sperare in un
miglioramento?”
“Quando? Le predizioni in questi casi sono
piuttosto difficili... Ma sentite” aggiunse dopo una pausa meditativa “vedo che
avete una vera e propria smania di guarire... se non temessi di farvi
arrabbiare, vi darei un consiglio...”
“Ma dite, dite pure, dottore...”
“Ebbene, vi pongo la questione in termini molto
chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in
questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare
spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal primo giorno, capite? a uno dei
piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al...”
“Al primo?” suggerì con uno sforzato sorriso il
Corte.
“Oh no! al primo no!” rispose ironico il medico
“questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la
cura è fatta molto meglio, vi garantisco, gli impianti sono più completi e
potenti, il personale è più abile. Voi sapete poi chi è l'anima di questo
ospedale?”
“Non è il professore Dati?”
“Già, il professore Dati. E lui l'inventore della
cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui,
il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia
la sua forza direttiva. Ma, ve lo garantisco io, il suo influsso non arriva
oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si
sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore dell'ospedale è in basso
e in basso bisogna stare per avere le cure migliori.”
“Ma insomma” fece Giuseppe Corte con voce tremante
“allora mi consigliate...”
“Aggiungete una cosa” continuò imperterrito il
dottore “aggiungete che nel vostro caso particolare ci sarebbe da badare anche
all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza, ne convengo, ma piuttosto
noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il "morale"; e voi
sapete quanto sia importante per la guarigione la serenità di spirito. Le
applicazioni di raggi che io vi ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il
perché? Può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non
siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono
molto più potenti. Le probabilità di guarire l'eczema sarebbero molto maggiori.
Poi, vedete? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando
si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando vi
sentirete davvero meglio, allora nulla vi impedirà di risalire qui da noi o
anche più in su, secondo i vostri "meriti", anche al quinto, al
sesto, persino al settimo oso dire...”
“E credete che questo potrà accelerare la cura?” “Ma
non ci può essere dubbio! Vi ho già detto che cosa farei io nei vostri panni.”
Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni
giorno. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per
l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a scendere nel regno dei casi
sempre più gravi, decise di seguire il consiglio e si trasferì al piano di
sotto.
Notò subito al terzo piano che nel reparto regnava
una speciale gaiezza, sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù
fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Rilevò anzi che di giorno in
giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un
po' di confidenza con l'infermiera, domandò come mai in quel piano fossero
tutti così allegri.
“Ah, non lo sapete?” rispose l'infermiera “fra tre
giorni andiamo in vacanza.”
“Come: andiamo in vacanza?”
“Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si
chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari
piani.”
“E i malati? come fate?”
“Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani
se ne fa uno solo.”
“Come? riunite gli ammalati del terzo e del
quarto?”
“No, no” corresse l'infermiera “del terzo e del
secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso.”
“Discendere al secondo?” fece Giuseppe Corte,
pallido come un morto. “Io dovrei così scendere al secondo?”
“Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando
torniamo, fra quindici giorni, ritornerete in questa stanza. Non mi pare che ci
sia da spaventarsi.”
Invece Giuseppe Corte - misterioso istinto lo
avvertiva - fu invaso dalla paura. Ma visto che non poteva impedire al
personale di andare in vacanza, convinto che la nuova cura di raggi gli facesse
bene (l'eczema si era quasi completamente riassorbito) non osò opporsi al nuovo
trasferimento. Pretese però, nonostante i motteggi delle infermiere, che sulla
porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto:
"Giuseppe Corte, del terzo piano, di
passaggio". Ciò non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i
medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte
anche piccole contrarietà potessero provocare una scossa.
Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni,
ne uno di più, ne uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità
ostinata, restando per ore intere immobile sul letto, gli occhi fissi sui
mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti
superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E
di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire al piano di
sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi
rantoli di agonie
Tutto questo naturalmente contribuiva a
intristirlo. E la minore serenità sembrava fomentare la malattia, la febbre
tendeva ad aumentare, la debolezza si faceva più fonda. Dalla finestra - si era
ormai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti - non si
scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia
verde degli alberi che circondavano l'ospedale.
Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due,
entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano
un lettuccio a rotelle. “Siamo pronti per il trasloco?” domandò in tono di
bonaria celia il capo-infermiere.
“Che trasloco?” domandò con voce stentata Giuseppe
Corte “che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del
terzo piano?”
“Che terzo piano?” disse il capo-infermiere come se
non capisse “io ho avuto l'ordine di condurvi al primo, guardate qua” e fece
vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato
nientemeno che dallo stesso professore Dati.
Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte
esplosero in lunghe grida che riecheggiarono per tutto il reparto. “Adagio,
adagio per carità” supplicarono le infermiere “ci sono dei malati che non
stanno bene!” Ma ci voleva altro per calmarlo.
Finalmente accorse il medico che dirigeva il
reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il
modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al
capo-infermiere, dichiarando che C'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato
alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c'era una insopportabile
confusione, lui veniva tenuto all'oscuro di tutto... Infine, detto il fatto suo
al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi
profondamente.
“Purtroppo però” aggiunse il medico “purtroppo il
professor Dati proprio un'ora fa è partito per una breve licenza, non tornerà
che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono
essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, ve lo garantisco... un
errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!”
Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere
Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il
terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano per
la stanza.
Giunse così, per quell'esecrabile errore,
all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la
gravita del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di
essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente
grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di
sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio
d'estate passava lentamente sulla città, egli guardava il verde degli alberi
attraverso la finestra, con l'impressione di essere giunto in un mondo irreale,
fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari,
di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche
gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero
veri:
finì anzi per convincersene, notando che le foglie
non si muovevano affatto.
Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò
col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in
letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto
delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia
pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento.
Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora
di, completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un
errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In
quanti anni, - sì, bisognava pensare proprio ad anni, - in quanti anni egli
sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente
così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe
Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul
comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra
parte e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando,
scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.
4. OMBRA DEL SUD
Tra le case pencolanti, le balconate a traforo
marce di polvere, gli anditi fetidi, le pareti calcinate, gli aliti della
sozzura annidata in ogni interstizio, sola in mezzo a una via io vidi a Porto
Said una figura strana. Ai lati, lungo i piedi delle case, si muoveva la gente
miserabile del quartiere; e benché a pensarci bene non fosse molta, pareva che
la strada ne formicolasse, tanto il brulichìo era uniforme e continuo. Attraverso
i veli della polvere e i riverberi abbacinanti del sole, non riuscivo a fermare
l'attenzione su alcuna cosa, come succede nei sogni. Ma poi, proprio nel mezzo
della via (una strada quasi identica alle mille altre, che si perdeva a vista
d'occhio in una prospettiva di baracche fastose e crollanti) proprio nel mezzo,
immerso completamente nel sole, scorsi un uomo, un arabo forse, vestito di una
larga palandrana bianca, in testa una specie di cappuccio - o così mi parve -
ugualmente bianco. Camminava lentamente in mezzo alla strada, come dondolando,
quasi stesse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno. Si
andava allontanando tra le buche polverose sempre con quel suo passo d'orso,
senza che nessuno gli badasse e l'insieme suo, in quella strada e in quell'ora,
pareva concentrare in sé con straordinaria intensità tutto il mondo che lo
contornava.
Furono pochi istanti. Solo dopo che ne ebbi tratto
via gli sguardi mi accorsi che l'uomo, e specialmente il suo passo inconsueto,
mi erano di colpo entrati nell'animo senza che sapessi spiegarmene la ragione. “Guarda
che buffo quello là in fondo!”*dissi al compagno, e speravo da lui una parola
banale che riportasse tutto alla normalità (perché sentivo essere nata in me
certa inquietudine). Ciò dicendo diressi ancora gli sguardi in fondo alla
strada per osservarlo.
“Chi buffo?” fece il mio compagno. Io risposi: “Ma
sì, quell'uomo che traballa in mezzo alla strada”.
Mentre dicevo così l'uomo disparve. Non so se fosse
entrato in una casa, o in un vicolo, o inghiottito dal brulichìo che strisciava
lungo le case, o addirittura fosse svanito nel nulla, bruciato dai riverberi
meridiani. “Dove? dove?” disse il mio compagno e io risposi: “Era là, ma adesso
è scomparso”.
Poi risalimmo in macchina e si andò in giro benché
fossero appena le due e facesse caldo. L'inquietudine non c'era più e si rideva
facilmente per stupidaggini qualsiasi, fino a che si giunse ai confini del
borgo indigeno dove i falansteri polverosi cessavano, cominciava la sabbia e al
sole resistevano alcune baracche luride, che per pietà speravo fossero
disabitate. Invece, guardando meglio, mi accorsi che un filo di fumo, quasi
invisibile tra le vampate del sole, saliva su da uno di quei tuguri, alzandosi
con fatica al cielo. Uomini dunque vivevano là dentro, pensai con rimorso,
mentre rimuovevo un pezzette di paglia da una manica del mio vestito bianco.
Stavo così gingillandomi con queste filantropie da
turista quando mi mancò il respiro. “Che gente!” stavo dicendo al mio compagno.
“Guarda quel ragazzetto con una terrina in mano, per esempio, che cosa spera
di...” Non terminai perché gli sguardi, non potendo sostare per la luce su
alcuna cosa e vagando irrequieti, si posarono su di un uomo vestito di una
palandrana bianca, che se n'andava dondolando al di là dei tuguri, in mezzo
alla sabbia, verso la sponda di una laguna.
“Che ridicolo” dissi ad alta voce per
tranquillizzarmi. “E mezz'ora che giriamo e siamo capitati nello stesso posto
di prima! Guarda quel tipo, quello che ti dicevo!” Era lui infatti, non c'era
dubbio, con il suo passo vacillante, come se andasse cercando qualcosa, o
titubasse, o fosse anche un poco storno. E anche adesso voltava le spalle e si
andava allontanando adagio, chiudendo — mi pareva - una fatalità paziente e
ostinata.
Era lui; e l'inquietudine rinacque più forte perché
sapevo bene che quello non era il posto di prima e che l'auto, pur facendo giri
viziosi, si era allontanata di qualche chilometro, la qual cosa un uomo a piedi
non avrebbe potuto. Eppure l'arabo indecifrabile era là, in cammino verso la
sponda della laguna, dove non capivo che cosa potesse cercare. No, egli non
cercava nulla, lo sapevo perfettamente. Di carne ed ossa o miraggio, egli era
comparso per me, miracolosamente si era spostato da un capo all'altro della
città indigena per ritrovarmi e fui consapevole (per una voce che mi parlava
dal fondo) di una oscura complicità che mi legava a quell'essere.
“Che tipo?” rispose il compagno spensierato. “Quel
ragazzo col piatto, dici?”
“Ma no!” feci con ira. “Ma non lo vedi là in fondo?
Non c'è che lui, quello lì che... che...”
Era un effetto di luce, forse, un'illusione banale
degli occhi, ma l'uomo si era ancora dissolto nel nulla, sinistro inganno. In
realtà le parole mi si ingorgavano in bocca. Io balbettavo, smarrito, fissando
le sabbie vuote. “Tu non stai bene” mi disse il compagno. “Torniamo al
piroscafo.” Allora cercai di ridere e dissi: “Ma non capisci che scherzavo?”.
Alla sera partimmo, la nave scese per il canale
verso il Mar Rosso, in direzione del Tropico e nella notte l'immagine
dell'arabo mi restava fissa nell'animo, mentre inutilmente tentavo di pensare
alle cose di tutti i giorni. Mi pareva anzi oscuramente di seguire in un certo
modo determinazioni non mie, mi mettevo addirittura in mente che l'uomo di
Porto Said non fosse estraneo alla cosa, quasi che ci fosse stato in lui il
desiderio di indicarmi le strade del sud, che il suo barcollare, i suoi
tentennamenti d'orso fossero ingenue lusinghe, sul tipo di certi stregoni.
Andò la nave e a poco a poco mi convinsi di essere
stato in errore: gli arabi si vestono pressapoco tutti uguali, mi ero
evidentemente confuso, complice la fantasia sospettosa. Tuttavia sentii
ritornare vaga eco di disagio il mattino che approdammo a Massaua. Quel giorno
me ne andai girando solo, nelle ore più calde, e mi fermavo agli incroci per
esplorare attorno. Mi sembrava di fare una specie di collaudo, come
attraversare un ponticello per vedere se tenga. Sarebbe ricomparso l'individuo
di Porto Said, uomo o fantasma che fosse?
Girai per un'ora e mezza e il sole non mi dava pena
(il sole celebre di Massaua) perché la prova sembrava riuscire secondo le mie
speranze. Mi spinsi a piedi attraverso Taulud, mi fermai a perlustrare la diga,
vidi arabi, eritrei, sudanesi, volti puri od abbietti, ma lui non vidi. Lietamente
mi lasciavo cuocere dal caldo, come liberato da una persecuzione.
Poi venne la sera e si ripartì per il meridione. I
compagni di viaggio erano sbarcati, la nave era quasi vuota, mi sentivo solo ed
estraneo, un intruso in un mondo di altri. Gli ormeggi erano stati tolti, la
nave cominciò a scostarsi lentamente dalla banchina deserta, nessuno c'era a
salutare e d'un tratto mi passò per la mente che in fondo il fantasma di Porto
Said in qualche modo si era occupato di me, sia pure per angustiarmi, meglio
che niente. Sì, egli mi aveva fatto paura con le sue sparizioni magiche, ma
nello stesso tempo però c'era un motivo di orgoglio. L'uomo infatti era venuto
per me (il mio compagno di passeggiata non lo aveva neppure notato). Considerato
a distanza, quell'essere mi risultava adesso come una personificazione,
racchiudente il segreto stesso dell'Africa. Tra me e questa terra c'era dunque,
prima che lo sospettassi, un legame. Era venuto a me un messaggero, dai regni
favolosi del sud, a indicarmi la via?
La nave era già a duecento metri dalla banchina ed
ecco una piccola figura bianca muoversi sull'estremità del molo. Solissimo
sulla striscia grigia di cemento, si allontanava lentamente - mi parve -
barcollando come se titubasse, o andasse cercando qualcosa, o fosse anche un
poco storno. Il cuore mi cominciò a battere. Era lui, ne fui sicuro, chissà se
uomo o fantasma, probabilmente (ma non potevo distinguere a motivo della
distanza) mi voltava le spalle, se n'andava in direzione del sud, assurdo
ambasciatore di un mondo che sarebbe potuto essere anche mio.
Ed oggi, ad Harar, finalmente l'ho incontrato di
nuovo. Io sono qui che scrivo, nella casa di un amico piuttosto isolata, il
ronzìo del Petromax mi ha riempito la testa, i pensieri vanno su e giù come le
onde, forse la stanchezza, forse l'aria presa in macchina. No, non è più paura,
come avvenne presso la laguna di Porto Said, è invece come sentirsi deboli,
inferiori a ciò che ci aspetta.
L'ho rivisto oggi, mentre perlustravo i labirinti
della città indigena. Già camminavo da mezz'ora per quei budelli, tutti uguali
e diversi, e c'era luce bellissima dopo un temporale. Mi divertivo a gettare
un'occhiata nei rari pertugi, dove si aprono cortiletti da fiaba, chiusi come
in minuscoli fortilizi tra muri rossi di sassi e di fango. I viottoli erano per
lo più deserti, le case (per così dire) silenziose, alle volte veniva in mente
che fosse una città morta, sterminata dalla peste, e che non ci fosse più via
d'uscita; la notte ci avrebbe colti alla ricerca affannosa della liberazione.
Facevo questi pensieri quando lui mi riapparve. Per
una combinazione la stradicciola ripida per dove scendevo non era tortuosa come
le altre ma abbastanza diritta, cosicché se ne poteva scorgere un'ottantina di
metri. Lui camminava tra i sassi, barcollando più che mai come un orso e
volgendo la schiena si allontanava, estremamente significativo: non proprio
tragico e nemmeno grottesco, non saprei proprio come dire. Ma era lui, sempre
l'uomo di Porto Said, il messaggero di favolosi regni, che non mi potrà più
lasciare.
Corsi giù tra i sassi scoscesi, con la maggiore
lestezza possibile. Questa volta finalmente non mi sarebbe sfuggito, due muri
rossi e uniformi rinserravano la stradicciola e non vi erano porte. Corsi fino
a che il vicolo faceva un'ansa e mi aspettavo, alla svolta, di trovarmi l'uomo
a non più di tre metri. Invece non c'era. Come le altre volte egli era svanito
nel nulla.
L'ho rivisto più tardi, sempre uguale, che si
allontanava ancora per uno di quei budelli, non verso il mare ma verso
l'interno. Non gli sono più corso dietro. Sono rimasto fermo a guardarlo, con
una vaga tristezza, finché è sparito in un vicolo laterale. Che cosa voleva da
me? Dove voleva condurmi? Non so chi tu sia, se uomo, fantasma, o miraggio, ma
temo che ti sia sbagliato. Non sono, ho paura, colui che tu cerchi. La faccenda
<non è molto chiara ma mi pare di avere capito che tu vorresti condurmi più
in là, ogni volta più in là, sempre più nel centro, fino alle frontiere del tuo
incognito regno.
Lo capisco e sarebbe anche bello, tu sei paziente,
tu mi aspetti ai bivi solitari per insegnarmi la strada, tu se meramente
discreto, tu fai perfino mostra di fuggirmi, con diplomazia tutta orientale, e
non osi neppure rivelare il tuo volto. Tu vuoi soltanto farmi capire mi sembra
- che il tuo monarca mi aspetta in mezzo al deserto r”l palazzo bianco e
meraviglioso vigilato da leoni dove cantano fontane incantate. Sarebbe bello,
lo so, lo vorrei proprio. Ma la mia anima è deprecabilmente timida, invano la
redarguisco, le sue ali tremano, i suoi dentini diafani battono appena la si
conduce verso la soglia delle grandi avventure. Così sono fatto, purtroppo, e
ho davvero paura che il tuo rè sprechi il suo tempo ad aspettarmi nel palazzo
bianco in mezzo al deserto, dove probabilmente sarei felice.
No, no, in nome del Cielo. Sia come sia, o
messaggero, porta la notizia che io vengo, non occorre neanche che tu ti faccia
vedere ancora. Questa sera mi sento veramente bene, sebbene i pensieri
ondeggino un poco, e ho preso la decisione di partire (Ma sarò poi capace? Non
farà storie poi la mia anima al momento buono non si metterà a tremare, non
nasconderà la testa tra le pavide ali dicendo di non andare più avanti?).
5. EPPURE
BATTONO ALLA PORTA
La
signora Maria Gron entrò nella sala al pianterreno della villa col cestino del
lavoro. Diede uno sguardo attorno, per constatare che tutto procedesse secondo
le norme familiari, depose il cestino su un tavolo, si avvicinò a un vaso pieno
di rose, annusando gentilmente. Nella sala c'erano suo marito Stefano, il
figlio Federico detto Fedri, entrambi seduti al caminetto, la figlia Giorgina
che leggeva, il vecchio amico di casa Eugenio Martora, medico, intento a fumare
un sigaro.
“Sono
tutte fanées, tutte andate” mormorò parlando a se stessa e passò una
mano, accarezzando, sui fiori. Parecchi petali si staccarono e caddero.
Dalla
poltrona dove stava seduta leggendo, Giorgina chiamò:
“Mamma!”.
Era
già notte e come al solito le imposte degli alti finestroni erano state
sprangate. Pure dall'esterno giungeva un ininterrotto scroscio di pioggia. In
fondo alla sala, verso il vestibolo d'ingresso, un solenne tendaggio rosso
chiudeva la larga apertura ad arco: a quell'ora, per la poca luce che vi
giungeva, esso sembrava nero.
“Mamma!”
disse Giorgina. “Sai quei due cani di pietra in fondo al viale delle querce,
nel parco?”
“E
come ti saltano in mente i cani di pietra, cara?” rispose la mamma con cortese
indifferenza, riprendendo il cestino del lavoro e sedendosi al consueto posto,
presso un paralume.
“Questa
mattina” spiegò la graziosa ragazza “mentre tornavo in auto, li ho visti sul
carro di un contadino, proprio vicino al ponte.”
Nel
silenzio della sala, la voce esile della Giorgina spiccò grandemente. La
signora Gron, che stava scorrendo un giornale, piegò le labbra a un sorriso di
precauzione e guardò di sfuggita il marito, come se sperasse che lui non avesse
ascoltato.
“Questa
è bella!” esclamò il dottor Martora. “Non manca che i contadini vadano in giro
a rubare le statue. Collezionisti d'arte, adesso!”
“E
allora?” chiese il padre, invitando la figliola a continuare.
“Allora
ho detto a Berto di fermare e di andare a chiedere...”
La
signora Gron, contrasse lievemente il naso; faceva sempre così quando uno
toccava argomenti ingrati e bisognava correre ai ripari. La faccenda delle
statue nascondeva qualcosa e lei aveva capito; qualcosa di spiacevole che
bisognava quindi tacere.
“Ma
sì, ma sì, sono stata io a dire di portarli via” e lei così tentava di liquidar
la questione “li trovo così antipatici.”
Dal
caminetto giunse la voce del padre, una voce profonda e oscillante, forse per
la vecchiaia, forse per inquietudine: “Ma come? ma come? Ma perché li hai fatti
portar via, cara? Erano due statue antiche, due pezzi di scavo...”.
“Mi
sono spiegata male,” fece la signora accentuando la gentilezza (che stupida
sono stata, pensava intanto, non potevo trovare qualcosa di meglio?). “L'avevo
detto, sì, di toglierli, ma in termini vaghi, più che altro per scherzo l'avevo
detto, naturalmente...”
“Ma
stammi a sentire, mammina,” insisté la ragazza. “Berto ha domandato al
contadino e lui ha detto che aveva trovato il cane giù sulla riva del fiume...”
Si
fermò perché le era parso che la pioggia fosse cessata. Invece, fattosi
silenzio, si udì ancora lo scroscio immobile, fondo, che opprimeva gli animi
(benché nessuno se ne accorgesse).
“Perché
"il cane"?” domandò il giovane Federico, senza nemmeno voltare la
testa. “Non avevi detto che c'erano tutti e due?”
“Oh
Dio, come sei pedante,” ribatté Giorgina ridendo, “io ne ho visto uno, ma
probabilmente c'era anche l'altro.”
Federico
disse: “Non vedo” non vedo il perché”. E anche U dottor Martora rise.
“Dimmi,
Giorgina” chiese allora la signora Gron, approfittando subito della pausa. “Che
libro leggi? È l'ultimo romanzo del Massin, quello che mi dicevi? Vorrei
leggerlo anch'io quando l'avrai finito. Se non tè lo si dice prima, tu lo
presti immediatamente alle amiche. Non si trova più niente dopo. Oh, a me piace
Massin, così personale, così strano... La Frida oggi mi ha promesso...”
Il
marito però interruppe: “Giorgina,” chiese alla figlia, “tu allora che cosa hai
fatto? Ti sarai fatta almeno dare il nome! Scusa, sai, Maria” aggiunse
alludendo all'interruzione.
“Non
volevi mica che mi mettessi a litigare per la strada, spero” rispose la
ragazza. “Era uno dei Dall'Oca. Ha detto che lui non sapeva niente, che aveva
trovato la statua giù nel fiume.”
“E
sei proprio sicura che fosse uno dei cani nostri?”
“Altro
che sicura. Non ti dico io che Fedri e io gli avevamo dipinto le orecchie di
verde?”
“E
quello che hai visto aveva le orecchie verdi?” fece il padre, spesso un poco
ottuso di mente.
“Le
orecchie verdi, proprio,” disse la Giorgina. “Si capisce che ormai sono un po'
scolorite.”
Di
nuovo intervenne la mamma: “Sentite,” domandò con garbo perfino esagerato, “ma
li trovate poi così interessanti questi cani di pietra? Non so, scusa se tè lo
dico, Stefano, ma non mi sembra ci sia da fare poi un gran caso...”
Dall'esterno
- si sarebbe detto quasi subito dietro il tendone -giunse, frammisto alla voce
della pioggia, un rombo sordo e prolungato.
“Avete
sentito?” esclamò subito il signor Gron. “Avete sentito?”
“Un
tuono, no? Un semplice tuono. È inutile, Stefano, tu hai bisogno di essere
sempre nervoso nelle giornate di pioggia” si affrettò a spiegare la moglie.
Tacquero
tutti, ma a lungo non poteva durare. Sembrava che un pensiero estraneo,
inadatto a quel palazzo da signori, fosse entrato e ristagnasse nella grande
sala in penombra.
“Trovato
giù nel fiume!” commentò ancora il padre, tornando all'argomento dei cani.
“Come è possibile che sia finito giù al fiume? Non sarà mica volato, dico.”
“E
perché no?” fece il dottor Martora gioviale.
“Perché
no cosa, dottore?” chiese la signora Maria, diffidente, non piacendole in
genere le facezie del vecchio amico.
“Dico:
e perché è poi escluso che la statua abbia fatto un volo? Il fiume passa
proprio lì, sotto. Venti metri di salto, dopo tutto.”
“Che
mondo, che mondo!” ancora una volta Maria Gron tentava di respingere il
soggetto dei cani, quasi vi si celassero cose sconvenienti. “Le statue da noi
si mettono a volare e sapete cosa dice qua il giornale? "Una razza di
pesci parlanti scoperta nelle acque di Giava."”
“Dice
anche: "Tesaurizzate il tempo!"” aggiunse stupidamente Federico che
pure aveva in mano un giornale.
“Come,
che cosa dici?” chiese il padre, che non aveva capito, con generica
apprensione.
“Sì,
c'è scritto qui: "Tesaurizzate il tempo! Nel bilancio di un produttore di
affari dovrebbe figurare all'attivo e al passivo, secondo i casi, anche il
tempo".”
“Al
passivo, direi allora, al passivo, con questo po' po' di pioggia!” propose il
Martora divertito.
E
allora si udì il suono di un campanello, al di là della grande tenda. Qualcuno
dunque giungeva dall'infida notte, qualcuno aveva attraversato le barriere di
pioggia, la quale diluviava sul mondo, martellava i tetti, divorava le rive del
fiume facendole crollare a spicchi; e nobili alberi precipitavano col loro
piedistallo di terra giù dalle ripe, scrosciando, e poco dopo si vedevano
emergere per un istante cento metri più in là, succhiati dai gorghi; il fiume
che aveva inghiottito i margini dell'antico parco, con le balaustre di ferro
settecentesco, le panchine, i due cani di pietra
“Chi
sarà?” disse il vecchio Gron, togliendosi gli occhiali d'oro. “Anche a
quest'ora vengono? Sarà quello della sottoscrizione, scommetto, l'impiegato
della parrocchia, da qualche giorno è sempre tra i piedi. Le vittime
dell'inondazione! Dove sono poi queste vittime? Continuano a domandare soldi,
ma non ne ho vista neanche una, io, di queste vittime! Come se... Chi è? Chi
è?” domandò a bassa voce al cameriere uscito dalla tenda.
“Il
signor Massigher” annunciò il cameriere.
Il
dottor Martora fu contento: “Oh eccolo, quel simpatico amico! Abbiam fatto una
discussione l'altro giorno... oh, sa quel che si vuole il giovanotto.”
“Sarà
intelligente fin che volete, caro Martora,” disse la signora “ma è proprio la
qualità che mi commuove meno. Questa gente che non fa che discutere...
Confesso, le discussioni non mi vanno... Non dico di Massigher che è un gran
bravo ragazzo... Tu, Giorgina” aggiunse a bassa voce “farai il piacere, dopo
aver salutato, di andartene a letto. È tardi, cara, lo sai.”
“Se
Massigher ti fosse più simpatico,” rispose la figlia audacemente, tentando un
tono scherzoso, “se ti fosse più simpatico scommetto che adesso non sarebbe
tardi, scommetto.”
“Basta,
Giorgina, non dire sciocchezze, lo sai... Oh buonasera, Massigher. Oramai non
speravamo più di vedervi... di solito venite più presto...”
Il
giovine, i capelli un po' arruffati, si fermò sulla soglia, guardando i Gron
con stupore. Ma come, loro non sapevano? Poi si fece avanti, vagamente
impacciato.
“Buonasera,
signora Maria,” disse senza raccogliere il rimprovero. “Buonasera, signor Gron,
ciao Giorgina, ciao Fedri, ah, scusatemi dottore, nell'ombra non vi avevo
veduto...”
Sembrava
eccitato, andava di qua e di là salutando, quasi ansioso di dare importante
notizia.
“Avete
sentito dunque?” si decise infine, siccome gli altri non lo provocavano. “Avete
sentito che l'argine...”
“Oh
sì,” intervenne Maria Gron con impeccabile scioltezza. “Un tempaccio, vero?” E
sorrise, socchiudendo gli occhi, invitando l'ospite a capire (pare impossibile,
pensava intanto, il senso dell'opportunità non è proprio il suo forte!).
Ma
il padre Gron si era già alzato dalla poltrona. “Ditemi, Massigher, che cosa
avete sentito? Qualche novità forse?”
“Macché
novità,” fece vivamente la moglie. “Non capisco proprio, caro, questa sera sei
così nervoso...”
Massigher
restò interdetto.
“Già,”
ammise, cercando una scappatoia, “nessuna novità che io sappia. Solo che dal
ponte si vede...”
“Sfido
io, mi immagino, il fiume in piena!” fece la signora Maria aiutandolo a trarsi
d'impaccio. “Uno spettacolo imponente, immagino... ti ricordi, Stefano, del
Niagara? Quanti anni, da allora...”
A
questo punto Massigher si avvicinò alla padrona di casa e le mormorò sottovoce,
approfittando che Giorgina e Federico si erano messi a parlare tra loro: “Ma
signora, ma signora,” i suoi occhi sfavillavano, “ma il fiume è ormai qui
sotto, non è prudente restare, non sentite il...?”
“Ti
ricordi, Stefano?” continuò lei come se non avesse neppure sentito, “ti ricordi
che paura quei due olandesi? Non hanno voluto neppure avvicinarsi, dicevano
ch'era un rischio inutile, che si poteva venire travolti...”
“Bene,”
ribatté il marito, “dicono che qualche volta è proprio successo. Gente che si è
sporta troppo, un capogiro, magari...”
Pareva
aver riacquistato la calma. Aveva rimesso gli occhiali, si era nuovamente
seduto vicino al caminetto, allungando le mani verso il fuoco, allo scopo di
scaldarle.
Ed
ecco per la seconda volta quel rombo sordo e inquietante. Ora sembrava
provenire in realtà dal fondo della terra, giù in basso, dai remoti meandri
delle cantine. Anche la signora Gron restò suo malgrado ad ascoltare.
“Avete
sentito?” esclamò il padre, corrugando un pochette la fronte. “Di', Giorgina,
hai sentito?...”
“Ho
sentito, sì, non capisco,” fece la ragazza sbiancatasi in volto. i “Ma è un
tuono!” ribatté con prontezza la madre. “Ma è un tuono qualsiasi... che cosa
volete che sia?... Non saranno mica gli spiriti alle volte!”
“Il
tuono non fa questo rumore, Maria” notò il marito, scuotendo la testa. “Pareva
qui sotto, pareva.”
“Lo
sai, caro: tutte le volte che fa temporale sembra che crolli la casa” insisté
la signora. “Quando c'è temporale in questa casa saltan fuori rumori di ogni
genere... Anche voi avete sentito un semplice tuono, vero, Massigher?”
concluse, certa che l'ospite non avrebbe osato smentirla.
Il
quale sorrise con garbata rassegnazione, dando risposta elusiva:
“Voi
dite gli spiriti, signora..., proprio stasera, attraverso il giardino, ho avuto
una curiosa impressione, mi pareva che mi venisse dietro qualcuno... sentivo
dei passi, come... dei passi ben distinti sulla ghiaietta del viale...”
“E
naturalmente suono di ossa e rantoli, vero?” suggerì la signora Gron.
“Niente
ossa, signora, semplicemente dei passi, probabilmente erano i miei stessi,”
soggiunse “si verificano certi strani echi, alle volte.”
“Ecco,
così; bravo Massigher... Oppure topi, caro mio, volete vedere che erano topi?
Certo non bisogna essere romantici come voi, altrimenti chissà cosa si
sente...”
“Signora,”
tentò nuovamente sottovoce il giovane, chinandosi verso di lei. “Ma non
sentite, signora? Il fiume qua sotto, non sentite?”
“No,
non sento, non sento niente,” rispose lei, pure sottovoce, recisa. Poi più
forte: “Ma non siete divertente con queste vostre storie, sapete?”.
Non
trovò da rispondere, il giovane. Tentò soltanto una risata, tanto gli pareva
stolta l'ostinazione della signora. "Non ci volete credere dunque?"
pensò con acrimonia; anche in pensiero, istintivamente, finiva per darle del
voi. "Le cose spiacevoli non vi riguardano, vero? Voglio vedere, la vostra
sdegnosa immunità dove andrà a finire!"
“Senti,
senti, Stefano,” diceva lei intanto con slancio, parlando attraverso la sala,
“Massigher sostiene di aver incontrato gli spiriti, qui fuori, in giardino, e
lo dice sul serio... questi giovani, un bell'esempio, mi pare.”
“Signor
Gron, ma non crediate” e rideva con sforzo, arrossendo, “ma io non dicevo
questo, io...”
Si
interruppe, ascoltando. E dal silenzio stesso sopravvenuto gli parve che, sopra
il rumore della pioggia, altra voce andasse crescendo, minacciosa e cupa. Egli
era in piedi, nel cono di luce di una lampada un poco azzurra, la bocca
socchiusa, non spaventato in verità, ma assorto e come vibrante, stranamente
diverso da tutto ciò che lo circondava, uomini e cose. Giorgina lo guardava con
desiderio.
Ma
non capisci, giovane Massigher? Non ti senti abbastanza sicuro nell'antica
magione dei Gron? Come fai a dubitare? Non ti bastano queste vecchie mura
massicce, questa controllatissima pace, queste facce impassibili? Come osi
offendere tanta dignità coi tuoi stupidi spaventi giovanili?
“Mi
sembri uno spiritato,” osservò il suo amico Fedri. “Sembri un pittore..., ma
non potevi pettinarti, stasera? Mi raccomando un'altra volta... lo sai che la
mamma ci tiene” e scoppiò in una risata.
Il
padre allora intervenne con la sua querula voce: “Bene, lo cominciamo questo
ponte? Facciamo ancora in tempo, sapete. Una partita e poi andiamo a dormire.
Giorgina, per favore, va' a prendere la scatola delle carte.”
In
quel mentre si affacciò il cameriere con faccia stranita. “Che cosa c'è,
adesso?” chiese la padrona, malcelando l'irritazione. “E arrivato qualcun
altro?”
“C'è
di là Antonio, il fattore... chiede di parlare con uno di lor signori, dice che
è una cosa importante.”
“Vengo
io, vengo io” disse subito Stefano, e si alzò con precipitazione, come temesse
di non fare in tempo.
La
moglie infatti lo trattenne: “No, no, no, tu rimani qui, adesso. Con l'umido
che c'è fuori... lo sai bene... i tuoi reumi. Tu rimani qui, caro. Andrà Fedri
a sentire”.
“Sarà
una delle solite storie,” fece il giovane, avviandosi verso la tenda. Poi da
lontano giunsero voci incerte.
“Vi
mettete qui a giocare?” chiedeva nel frattempo la signora. “Giorgina, togli
quel vaso, per favore... poi va' a dormire, cara, è già tardi. E voi, dottor
Martora, che cosa fate, dormite?”
L'amico
si riscosse, confuso: “Se dormivo? Eh sì, un poco” rise. “Il caldo del
caminetto, l'età...”
“Mamma!”
chiamò da un angolo la ragazza. “Mamma, non trovo più la scatola delle carte,
erano qui nel cassetto, ieri.”
“Apri
gli occhi, cara. Ma non la vedi lì sulla mensola? Voi almeno non trovate mai
niente...”
Massigher
dispose le quattro sedie, poi cominciò a mescolare un mazzo. Intanto rientrava
Federico. Il padre domandò stancamente:
“Che
cosa voleva Antonio?”.
“Ma
niente!” rispose il figliolo allegro. “Le solite paure dei contadini. Dicono
che c'è pericolo per il fiume, dicono che anche la casa è minacciata, figurati.
Volevano che io andassi a vedere, figurati, con questo tempo! Sono tutti là che
pregano, adesso, e suonano le campane, sentite?”
“Fedri”
propose allora Massigher. “Andiamo insieme a vedere? Solo cinque minuti. Ci
stai?”
“E
la partita, Massigher?” fece la signora. “Volete piantare in asso il dottor
Martora? Per bagnarvi come pulcini, poi...”
Così
i quattro cominciarono il gioco, Giorgina se n'andò a dormire, la madre in un
angolo prese in mano il ricamo.
Mentre
i quattro giocavano, i tonfi di poco prima divennero più frequenti. Era come se
un corpo massiccio piombasse in una buca profonda piena di melma, tale era il
suono: un colpo tristo nelle viscere della terra. Ogni volta esso lasciava
dietro a sé sensazione di pena, le mani indugiavano sulla carta da gettare, il
respiro restava sospeso, ma poi tutto quanto spariva.
Nessuno
- si sarebbe detto - osava parlarne. Solo a un certo punto il dottor Martora
osservò: “Deve essere nella cloaca, qui sotto. C'è una specie di condotta
antichissima che sbocca nel fiume. Qualche rigurgito forse...” gli altri non
aggiunsero parola.
Ora
conviene osservare gli sguardi del signor Gron, nobiluomo. Essi sono rivolti
principalmente al piccolo ventaglio di carte tenuto dalla mano sinistra,
tuttavia essi passano anche oltre il margine delle carte, si estendono alla
testa e alle spalle del Martora, seduto dinanzi, e raggiungono perfino
l'estremità della sala là dove il lucido pavimento scompare sotto le frange del
tendaggio. Adesso invece gli occhi di Gron non si indugiavano più sulle carte,
ne sull'onesto volto dell'amico, ma insistevano al di là, verso il fondo, ai
piedi del cortinaggio; e si dilatavano per di più, accendendosi di strana luce.
Fino
a che dalla bocca del vecchio signore uscì una voce opaca, carica di indicibile
desolazione, e diceva semplicemente: “Guarda”. Non si rivolgeva al figlio, ne
al dottore, ne a Massigher in modo particolare. Diceva solamente “Guarda” ma
così da suscitare paura.
Il
Gron disse questo e gli altri guardarono, compresa la consorte che sedeva
nell'angolo con grande dignità, accudendo al ricamo. E dal bordo inferiore del
cupo tendaggio videro avanzare lentamente, strisciando sul pavimento,
un'informe cosa nera.
“Stefano,
Stefano, per l'amor d” Dio, perché fai quella voce?” esclamava la signora Gron
levatasi in piedi e già in cammino verso la tenda:
“Non
vedi che è acqua?”. Dei quattro che stavano giocando nessuno si era ancora
alzato.
Era
acqua infatti. Da qualche frattura o spiraglio essa si era finalmente insinuata
nella villa, come serpente era andata strisciando qua e là per gli anditi prima
di affacciarsi nella sala, dove figurava di colore nero a causa della penombra.
Una cosa da ridere, astrazion fatta per l'aperto oltraggio. Ma dietro quella
povera lingua d'acqua, scolo di lavandino, non c'era altro? E proprio certo che
sia tutto qui l'inconveniente? Non sussurrìo di rigagnoli giù per i muri, non
paludi tra gli alti scaffali della biblioteca, non stillicidio di flaccide
gocce dalla vòlta del salotto vicino (percotenti il grande piatto d'argento
donato dal Principe per le nozze, molti molti anni or sono)?
Il
giovane Federico esclamò: “Quei cretini hanno dimenticato una finestra
aperta!”. Il padre suo: “Corri, va' a chiudere, va'!”. Ma la signora si oppose:
“Ma neanche per idea, state quieti voi, verrà bene qualcheduno spero!”.
Nervosamente
tirò il cordone del campanello e se ne udì lo squillo lontano. Nel medesimo
tempo i tonfi misteriosi succedevano l'uno all'altro con tetra precipitazione,
perturbando gli estremi angoli del palazzo. Il vecchio Gron, accigliato,
fissava la lingua d'acqua sul pavimento: lentamente essa gonfiavasi ai bordi,
straripava per qualche centimetro, si fermava, si gonfiava di nuovo ai margini,
di nuovo un altro passo in avanti e così via. Massigher mescolava le carte per
coprire la propria emozione, presentendo cose diverse dalle solite. E il dottor
Martora scuoteva adagio il capo, il quale gesto poteva voler dire: che tempi,
che tempi, di questa servitù non ci si può più fidare!, oppure,
indifferentemente: niente da fare, oramai, troppo tardi ve ne siete accorti.
Attesero
alcuni istanti, nessun segno di vita proveniva dalle altre sale. Massigher si
fece coraggio: “Signora,” disse “l'avevo pur detto che...”.
“Ciclo!
Sempre voi, Massigher!” rispose Maria Gron non lasciandolo neppure finire. “Per
un po' d'acqua per terra! Adesso verrà Ettore ad asciugare. Sempre quelle
benedette vetrate, ogni volta lasciano entrare acqua, bisognerebbe rifare le
serramenta!”
Ma
il cameriere di nome Ettore non veniva, ne alcun altro dei numerosi servi. La
notte si era fatta ostile e greve. Mentre gli inesplicabili tonfi si mutavano
in un rombo pressoché continuo simile a un rotolìo di botti nelle fondamenta
della casa. Lo scroscio della pioggia all'esterno non si udiva già più,
sommerso dalla nuova voce.
“Signora!”
gridò improvvisamente Massigher, balzando in piedi, con estrema risolutezza.
“Signora, dov'è andata Giorgina? Lasciate che vada a chiamarla.”
“Che
c'è ancora, Massigher?” e Maria Gron atteggiava ancora il volto a mondano
stupore. “Siete tutti terribilmente nervosi, stasera. Che cosa volete da
Giorgina? Fatemi il santo piacere di lasciarla dormire.”
“Dormire!”
ribatté il giovanotto ed era piuttosto beffardo. “Dormire! Ecco, ecco...”
Dall'andito
che la tenda celava, come da gelida spelonca, irruppe nella sala un impetuoso
soffio di vento. Il cortinaggio si gonfiò qual vela, attoreigliandosi ai lembi,
così che le luci della sala potessero passare di là e riflettersi nell'acqua
dilagata per terra.
“Fedri,
perdio, corri a chiudere!” imprecò il padre “perdio, chiama i
servi,
chiama!”
Ma
il giovane pareva quasi divertito dall'imprevisto. Accorso verso l'andito buio
andava gridando: “Ettore! Ettore! Berto! Berto! Sofia!”. Egli chiamava i
facenti parte della servitù ma le sue grida si perdevano senza eco nei
vestiboli deserti.
“Papa”
si udì ancora la voce di Federico. “Non c'è luce, qui. Non riesco a vedere...
Madonna, che cos'è successo!”
Tutti
nella sala erano in piedi, sgomenti per l'improvviso appello. La villa intera
sembrava ora, inesplicabilmente, scrosciare l'acqua. E il vento, quasi i muri
si fossero spalancati, la attraversava in su e in giù, protervamente, facendo
dondolare le lampade, agitando carte e giornali, rovesciando fiori.
Federico,
di ritorno, comparve. Era pallido come la neve e un poco tremava. “Madonna!”
ripeteva macchinalmente. “Madonna, cos'è successo!”
E
occorreva ancora spiegare che il fiume era giunto lì sotto, scavando la riva,
con la sua furia sorda e inumana? Che i muri da quella parte stavano per
rovinare? Che i servi tutti erano dileguati nella notte e fra poco
presumibilmente sarebbe mancata la luce? Non bastavano, a spiegare tutto, il
bianco volto di Federico, i suoi richiami affannosi (lui solitamente così
elegante e sicuro di sé), l'orribile rombo che aumentava aumentava dalle fonde
voragini della terra?
“Andiamo,
presto, andiamo, c'è anche la mia macchina qui fuori, sarebbe da pazzi...”
diceva il dottor Martora, fra tutti passabilmente calmo. Poi, accompagnata da
Massigher, ecco ricomparire Giorgina, avviluppata in un pesante mantello; ella
singhiozzava lievemente, con assoluta decenza, senza quasi farsi sentire. Il
padre cominciò a frugare un cassetto raccogliendo i valori.
“Oh
no! no!” proruppe infine la signora Maria, esasperata. “Oh, non voglio! I miei
fiori, le mie belle cose, non voglio, non voglio!” la sua bocca ebbe un
tremito, la faccia si contrasse quasi scomponendosi, ella stava per cedere. Poi
con uno sforzo meraviglioso, sorrise. La sua maschera mondana era intatta,
salvo il suo raffinatissimo incanto.
“Me
la ricorderò, signora” incrudelì Massigher, odiandola sinceramente. “Me la
ricorderò sempre questa vostra villa. Com'era bella nelle notti di luna!”
“Presto,
un mantello, signora” insisteva Martora rivolto alla padrona di casa. “E anche
tu, Stefano, prendi qualcosa da coprirti. Andiamo prima che manchi la luce.”
Il
signor Stefano Gron non aveva nemmeno paura, si poteva veramente dirlo. Egli
era come atono e stringeva la busta di pelle contenente i valori. Federico
girava per la sala sguazzando nell'acqua, senza più dominarsi. “È finita, è
finita” andava ripetendo. La luce elettrica cominciò a affievolire.
Allora
ritornò, più tenebroso dei precedenti e ancor più vicino, un lungo tonfo da
catastrofe. Una gelida tenaglia si chiuse sul cuore dei Gron.
“Oh,
no! no!” ricominciò a gridare la signora. “Non voglio, non voglio!” Pallida
anche lei come la morte, una piega dura segnata sul volto, ella avanzò a passi
ansiosi verso il tendaggio che palpitava. E faceva di no col capo: per
significare che lo proibiva, che adesso sarebbe venuta lei in persona e l'acqua
non avrebbe osato passare.
La
videro scostare i lembi sventolanti della tenda con gesto d'ira, sparire al di
là nel buio, quasi andasse a cacciare una turba di pezzenti molesti che la
servitù era incapace di allontanare. Col suo aristocratico sprezzo presumeva
ora di opporsi alla rovina, di intimidire l'abisso?
Ella
sparì dietro il tendaggio, e benché il rombo funesto andasse crescendo, parve
farsi il silenzio.
Fino
a che Massigher disse: “C'è qualcuno che batte alla porta”.
“Qualcuno
che batte alla porta?” chiese il Martora. “Chi volete che sia?”
“Nessuno”
rispose Massigher. “Non c'è nessuno, naturalmente, oramai. Pure battono alla
porta, questo è positivo. Un messaggero forse, uno spirito, un'anima, venuta ad
avvertire. E una casa di signori, questa. Ci usano dei riguardi, alle volte,
quelli dell'altro mondo.”
6. ELEGANZA
MILITARE
All'ora
della partenza eravamo pallidi e brutti, non c'era stato tempo di farsi la
barba, il bosco si era riempito di nebbia, faceva freddo e si beveva caffè.
Davanti a me marciava il tenente Carlo Custoza, commerciante di professione, e
con lui il tenente Beppe Molo, della medesima categoria sociale. Non
camminavano da militari, non stavano bei diritti, tenevano le mani in tasca.
“Mi fai girare le scatole,” diceva uno e l'altro diceva: “Me ne frego della
provvigione, me ne frego, io faccio da per me!”. Parlavano di tessuti, molti
tessuti che ora giacevano in un magazzino, nel centro della città, grosse pezze
di ogni colore, sovrapposte le une alle altre negli appositi scaffali, e si
facevano sempre più lontane, noi camminando, dietro le nostre spalle.
Molte
cose dello stesso genere si comunicavano i due, che io non saprei ripetere
perché non stavo abbastanza attento. Ma per lo più erano parole come:
minchioneria, vatti a far benedire, pollo che non sei altro. E io sinceramente
li guardavo di traverso, benché in fondo fossero buoni compagni.
La
cinta periferica della città oltrepassata, il principio di un po' di sole, il
gusto di cattivo in bocca, e il magazzino dei tessuti si allontanava ad ogni
passo che noi facevamo perché esso restava immobile nella baracca di via
Lorenzini 14 mentre noi invece si camminava col cosiddetto passo di strada,
lungo la via di fango, verso il combattimento.
Essi
dicevano: maggiorazione, sdoganamento, lettera del comm. Scortace del 10
settembre. Evidentemente i tenenti Custoza e Molo da borghesi si conoscevano
bene e adesso non si erano accorti che i loro affari diventavano falsi e
lontani, di minuto in minuto più estranei. L'uno e l'altro non si erano fatti
la barba, marciavano con le mani in tasca, complessivamente davano ai nervi,
benché avessero stivali come si deve, calzoni tagliati veramente bene, caschi
coloniali di forma nobile, con ogni probabilità pagati cari. Ma adesso i due
tenenti parlavano con alquanti intervalli, avendo perso la primitiva freschezza
fisica. Si era anche messo a piovere, cosicché tutti avevano indossato la
mantella.
Suoni
gutturali provenivano di sotto i cappucci dei soldati i quali camminavano
curvi, strascinando gli stivaletti nuovi, e lasciavano ciondolare come bisacce
il fucile, il bei fucile modello 37. Nella maggioranza gli sguardi erano chini
a terra, sui talloni del compagno davanti, che si sollevavano alternativamente
con mostruosi zoccoli di fango. E sì che il Governo l'aveva curata, questa sua
giovane truppa. Faceva piacere alla vista il soffice cuoio delle scarpe, così
come quello delle giberne, davvero di prima qualità. I caschi odoravano ancora
di fabbrica, la classica forma mantenendosi intatta anche sotto la pioggia;
splendenti le coccarde tricolori del fregio, pieghettate a mano. Eppure tutti
camminavano insensibili alla presenza di ciò che si usa chiamare destino, il
quale si era rivelato a me prima della partenza, sotto forma di misterioso
cavallo, galoppante da solo nella piazza antistante alla caserma.
Nessuno
dunque, fuori che me, pareva sapere che il reggimento non era uscito per una
manovra ordinaria, ma si sarebbe allontanato di molto, fino al ciglione
dell'altopiano e più oltre forse, spingendosi in giù, alle estreme lontananze
orientali, là dove le pietre diventano calde come castagne arrosto.
Custoza
e Molo ora tacevano, dimentichi della condizione militare, ansiosi solo che il
colonnello ordinasse l'alt, concedesse un po' di riposo, comandasse di mettersi
sulla via del ritorno. Intanto la pioggia era cessata, cosicché, tolte le
mantelle, luccicarono liberamente al sole gli anelli, le fibbie e i ganci dei
bellissimi cinturoni.
Camminammo
tutta la giornata, sempre in direzione est, e quanto più si dimostrava
inevitabile un attendamento notturno, le facce andavamo assumendo
un'espressione antipatica. Ne si udirono canzoni, alla sera, intorno ai fuochi,
ne risate.
Non
si fecero la barba, il mattino successivo, ne il tenente Custoza, ne Molo,
entrambi imbruttiti dal sonno, come probabilmente anch'io. Quando giunse
l'ordine di proseguire verso oriente invece di fare ritorno, nessuno dei due
disse parola, ma più tardi, quando già il reggimento si era messo in cammino,
udii uno di loro (non saprei dire chi perché ero lontano) uno di loro
bestemmiare lungamente. Parlarono poi ancora di affari, ma poco. Evidentemente
cominciavano a capire che i tessuti, le loro grosse pezze allineate negli
appositi scanali, i loro interessi mondani, si allontanavano progressivamente,
ad ogni loro nuovo passo, dietro le spalle del reggimento che marciava. Eravamo
giunti alle falde dell'altopiano, dove le nubi non consistono e splende il sole
immobile, abbastanza perpendicolare e pressoché eterno. Gli alberi poi non
erano più alti e frondosi, bensì contorti, aridi e molto belli (come nei parchi
antichissimi, al di là della troppo temuta porta).
Forse
per il caldo crescente, forse per la fatica, io non percepivo più la presenza
di ciò che usiamo chiamare destino e mi domandavo se alle volte non mi fossi
sbagliato e il cavallo scorto nella piazza non fosse ora chiuso banalmente
nella sua stalla domestica. Custoza e Molo - come avevo preveduto da tempo - si
erano slacciato il colletto dell'uniforme, rinunciando al prescritto stile
militare, senza neppure tentar di resistere. I soldati naturalmente li
imitarono e trascinavano i piedi, danneggiandosi a vicenda col polverone,
mentre il bordo posteriore dei caschi, già intrisi d'acqua ed ora battuti dal
sole, accennava ad accartocciarsi.
In
questo modo si marciò per diciassette giorni, intramezzati da due soste, sempre
all'oscuro della nostra destinazione. Il ciglione dell'altopiano non era più
che una vaga lontanissima linea alle nostre spalle, quasi invisibile attraverso
la caligine. I tenenti Custoza e Molo avevano lasciato i consueti discorsi
d'affari ne si davano più importanza, adattandosi forse ad essere come gli
altri, semplici ufficiali subalterni di un reggimento in marcia, che non
avevano fatto un bagno completo da tempo immemorabile.
Noi
si marciava per una specie di pista, nel cuore delle boscaglie, tra voci di
invisibili bestie e all'orizzonte (eccettuata la tremolante linea
dell'altopiano) non scorgevamo che coni di roccia e terra giallastra, i quali
si alzavano qua e là nella piana, disabitati da ogni creatura. Questi coni,
sebbene di altezza mediocre, esprimevano cose oscure e inquietanti che non
riuscivamo a capire, per quanto li osservassimo. Perciò gli sguardi non
strisciavano più al suolo, sui talloni del compagno antistante, ma giravano
intorno con irrequietudine, per l'impressione che ombre sospette fossero
scivolate dietro i cespugli di spine. Le giornate si mescolavano nel ricordo tra
di loro, troppo simili l'una all'altra, uguale permanendo il paesaggio che
attraversavamo. Questa confusione termina sul bordo di una larghissima valle
sassosa e poco profonda, dove il reggimento fece alt verso le dieci del
mattino. Era una strada di antiche acque, ora inaridita, e attraversava
normalmente il nostro itinerario. Sul bordo opposto, che appariva distante
almeno cinque chilometri, si alzava una barriera complicata di rocce, di
lastroni e di basse cupole gialle, fino a perdita d'occhio.
Allora
il signor colonnello comandante, senza scendere di sella, esaminò la carta
geografica per identificare il vallone. “Ecco” disse “ora bisogna
attraversare.” Solo questo disse, ma la sua voce aveva un'inflessione speciale,
quasi che vi fossero nascoste molte altre cose ch'egli non poteva farci sapere.
In quel momento ciò che comunemente viene definito destino riempì nuovamente
l'aria a noi circostante, e questa volta tutti se ne accorsero senza eccezione,
poiché cessarono di sussurrare e guardarono intensamente alla riva opposta del
vallone deserto, verso le rocce che parevano chiudere la via. Solo allora, dopo
tanti giorni, io li osservai e vidi che erano mutati, che il cuoio delle
scarpe, per quanto buono, si era aperto in crepe sottili, che la tela delle uniformi
non aveva resistito alle spine e spesso pendeva in brandelli, che i caschi si
erano sformati, assumendo sagome curiose, che il sole aveva smangiato la
vernice dei fucili, il cuoio delle giberne, le cinghiette degli zaini. Eppure,
sul ciglio della valle sconosciuta, non riuscivo più a vedere schiene curve,
volti torvi o flaccidi, ginocchia pesanti. I soldati, sotto il sole fortissimo,
stavano diritti e silenziosi, con dignità, quasi che una voce fosse entrata nel
buio delle loro anime.
Il
signor colonnello fece un piccolo cenno e il reggimento cominciò a scendere
verso il fondo dell'uadi, al tintinnìo delle gavette. La boscaglia
finiva dinanzi alla totale desolazione delle pietre e fu stupore per molti, non
per me che avevo bene capito, udire la voce di un soldato che si era messo a
cantare: esattamente il fuciliere Stefano Capasse, di Stefano, classe 1916.
Aveva perso il casco e si riparava la testa con una specie di fez ricavato da
una vecchia camicia. I suoi calzoni presentavano tre larghe brecce, per via
della boscaglia spinosa. Le scarpe non erano più scarpe ma strane cose prive di
possibile definizione. E come il soldato Stefano Capasse così erano la
maggioranza, ridotti veramente male; ciononostante si mettevano uno dopo
l'altro a cantare, forse perché sentivano prossima l'ora del cosidetto destino.
Si
giunse in fondo al vallone, mancava l'acqua, i piedi si congestionavano sulle
pietre roventi, udii i tenenti Custoza e Molo parlarsi con accento pacato,
dirsi cose giuste ed umane. “Vuoi un po' di cognac?” diceva uno. “Ce n'è
rimasto ancora nella mia boccetta.” E l'altro: “Grazie, ma forse è meglio
aspettare”. Oramai avevano tolto le mani di tasca, procedevano a passi lenti ma
militari, le spalle diritte ed aperte. Lo stivale sinistro del Custoza si era
tutto spaccato di dietro, una intera manica si era scucita, si sarebbe detto un
pezzente randagio se egli non avesse cominciato a diventare bellissimo. Mano
mano che si avanzava verso l'intrico delle rocce, egli andava infatti assumendo
una progressiva bellezza, positiva, dico, assolutamente controllabile dagli
occhi umani. E con gioia che non si può dire mi accorgevo che anche tutti noi,
tra il polverone giallo del mezzogiorno, subivamo la medesima sorte, seppure un
po' meno.
Da
una specie di grotta rossastra, sul pendìo antistante, giunse un colpo
caratteristico, indizio di fucilata, e contemporaneamente il Custoza si piegò
un poco in avanti, portandosi una mano al ventre. Subito dopo tuttavia si
raddrizzò nuovamente, sopravanzando tutti i compagni, benché di solito fosse
basso di statura. Egli portava in testa un turbante meraviglioso di seta rossa,
con uno smeraldo sulla fronte, e marciando faceva ondeggiare i panneggiamenti
del candido mantello, come nelle favole antiche.
Camminammo
ancora verso oriente, laceri e assetati, attraverso il deserto colmo di
agguati. Per lo più si cantava o discorrevamo di cose buone ed amate, della,
nostra terra lontana, del mare, di certi giardini. Il tintinnìo delle gavette
era finalmente taciuto, si udiva soltanto il suono ritmico dei passi. Negli
occhi di molti si era accesa la febbre, altri portavano fasciature di piaghe,
dietro a noi sul terreno restavano brandelli di tela e di cuoio. Ma io vedevo
attorno a me soldati di statura grandissima, con uniformi ricamate d'oro, fasce
di mille colori, lance e sciabole di argento puro. Essi guardavano dinanzi a
sé, sorridendo, e le loro barbe luccicavano al sole.
7. TEMPORALE
SUL FIUME
Le
canne acquatiche, le erbe della riva, i piccoli cespugli di salici e gli alberi
grandi videro giungere anche quella domenica di settembre il signore attempato
vestito di bianco.
Tanti
anni prima - solo i tronchi più vecchi lo ricordano vagamente - uno sconosciuto
aveva cominciato a pescare in quell'ansa solitària del fiume dove le acque sono
calme e profonde. Tutte le feste, nelle buone stagioni, tornava puntualmente.
Un
giorno non era venuto più solo; era con lui un bambino che giocava tra le
piante e aveva una piccola voce chiara. Lentamente erano passati gli anni: il
signore sempre più stanco, il fanciullo sempre più grande. E alla fine, una
domenica di primavera, il vecchio più non comparve. Arrivò solo il giovanotto
che si mise a pescare, solo.
Poi
il tempo continuò a consumarsi. Il giovanotto, che tornava di quando in quando,
perse quella sua voce limpida, cominciò anche lui ad invecchiare. Ma pure lui
un giorno tornò accompagnato.
Una
lunga storia a cui tutto il bosco è affezionato. Il secondo fanciullo divenne
grande e suo padre non si fece più vedere. Tutto questo poi si è confuso nella
memoria delle piante. Da qualche anno i pescatori sono ancora due. Anche il
mese passato, con il signore vestito di bianco è venuto il bambino, che si è
seduto con la sua piccola canna ed ha cominciato a pescare.
Le
piante li rivedono volentieri, li aspettano anzi tutta la settimana, in quella
gran noia del fiume. Si divertono ad osservarli; a sentire i discorsi del
bambino, la sua voce fine che risuona così bene tra le foglie; a vederli
immobili tutti e due, seduti sulla riva, tranquilli come il fiume stagnante,
mentre sopra passano le nubi.
Qualche
insetto volante ha riferito che padre e figlio abitano in una grande casa sul
colle vicino. Ma il bosco con esattezza non sa chi siano. Sa però che tutte le
cose hanno il loro giro, che presto o tardi anche il signore anziano non potrà
più tornare e lascerà venire il giovanotto solo.
Anche
oggi, alla solita ora, si è sentito il rumore di foglie smosse. Si è udito un
passo avvicinare. Ma il signore è comparso solo, un po' curvo, un po' magro e
stanco. Si è diretto alla piccola capanna, mezza nascosta tra le fronde, dove
da tempo immemorabile si conservano gli arnesi da pesca. Questa volta il
signore si ferma più del solito, a frugare tra le vecchie cose, nella casetta
silenziosa.
Ora
tutto è immobile e quieto; la campana della chiesa vicina ha finito di suonare.
Il pescatore si è levato la giacca; seduto ai piedi di un pioppo, tenendo la
sua canna, lasciando pendere la lenza nell'acqua, forma una macchia bianca tra
il verde. Nel cielo ci sono due grandi nuvole, una a muso di cane, l'altra a
forma di bottiglia.
Il
bosco è impazientito perché il bimbo non viene. Le piante acquatiche le altre
volte si agitavano apposta per spaventare i pesci e mandarli al piccolo
pescatore. Da ai nervi anzi quell'uomo solo con quella faccia sciupata e
pallida. Ma anche se i pesci non vengono il signore non si indispettisce.
Tenendo ferma la canna si guarda attorno lentamente.
Le
canne in riva al fiume ora badano a un grosso trave squadrato. Si è impigliato
tra le erbe e ne approfitta per fare un racconto; spiega che lui apparteneva a
un ponte, che si è stancato di quella fatica, ha ceduto per rabbia al peso,
facendo crollare tutto quanto. Le canne stanno a sentire, poi mormorano tra
loro qualcosa, allargano attorno un brusìo che si propaga per il prato fino ai
rami degli alberi e si diffonde col vento.
Il
pescatore ora alza il capo, si guarda attorno come se avesse sentito anche lui.
Giungono dalla vicina capanna due tre piccoli colpi secchi, di origine
misteriosa. Nell'interno è rimasta rinchiusa una vecchia mosca. Si è smarrita e
gira incerta per la stanza. Ogni tanto si ferma e sta ad ascoltare. Le sue
compagne sono scomparse. Chissà dove sono andate. Strana quest'aria pesante.
La
mosca non si rende conto che è autunno, batte da una parte e dall'altra. Si
sentono i piccoli tonfi del suo corpo grasso che urta contro la finestrella. In
fondo, non c'è ragione perché le altre se ne siano andate. Si scorge attraverso
i vetri una nuvola da temporale.
Il
signore ha acceso un sigaro. Ogni tanto su dai rami sale un soffio di fumo
azzurro. Il bimbo oramai non verrà, il pomeriggio è troppo avanti. La mosca
finalmente è riuscita a fuggire dalla capanna. Il sole è scomparso tra le nubi.
Poco fa il vento ha urtato il trave, lo ha smosso dalle canne, spingendolo
nelle acque libere. Il racconto è rimasto interrotto. Il legno si allontana,
condannato a marcire nel mare.
Il
temporale si forma, ma il pescatore non si è mosso, sempre immobile, con la
schiena appoggiata al tronco. Dal sigaro, lasciato cadere acceso sul prato,
fugge via il fumo strappato dal vento. Le nuvole diventate nere lasciano
scendere un po' di pioggia. Si formano nell'acqua, qua e là, dei cerchi precisi
che si allargano man mano. Nella capanna vicina si ripetono più insistenti
quegli inesplicabili colpi. Chissà perché il signore non se ne va. Una goccia
ha colpito proprio il tizzone del sigaro e lo ha spento con un sottile rumore.
Da
una crepa del ciclo, a occidente, arriva una luce fredda e bianca da agguati.
Il vento batte sugli alberi, ne cava fuori una voce forte; muove anche la
giacca bianca lasciata appesa ad un ramo. Ora gli alberi grandi, i piccoli
cespugli di salici, le erbe della riva e le piante acquatiche cominciano a
capire. Pare che il pescatore si sia addormentato, nonostante i tuoni si
avanzino dal fondo dell'orizzonte. La sua testa è piegata in avanti, il mento
preme contro il petto.
Le
erbe immerse nell'acqua allora si agitano per spaventare i pesci e mandarli,
come le altre volte, verso la lenza. Ma la canna del pescatore, non più
trattenuta, ormai si è abbassata lentamente; la cima è già immersa nell'acqua.
Urtandovi contro, la placida corrente si increspa appena appena.
8. L'UOMO CHE
SI DAVA ARIE
L'umiltà
del dottore Antonio Deroz cominciò a declinare verso la fine dell'anno, quando
la stagione secca regnava sul bassopiano con grandissimo sole. Antonio Deroz
era un nuovo medico dell'ospedale e alla fine di febbraio scadeva il suo
periodo di prova. Era zelante e preciso ma nessuno l'aveva preso sul serio,
forse proprio per la sua aria dimessa di uomo che si sente generalmente
inferiore, sempre servizievole, mai seduto se qualcuno era in piedi. Lo vidi
parecchie volte, passando per la cittadina, ma non mi ricordo più la sua
faccia, per quanto mi sforzi.
L'umiltà
sua scomparve progressivamente nello spazio di pochi giorni durante i quali
tuttavia egli sembrava deperire, la sua faccia facendosi sempre più magra. Era
smilzo, di statura media. Quando il professore Dominici, parassitologo, lo fece
chiamare per avere da lui certi medicinali, Deroz mandò a dire che non aveva
tempo. La risposta fu proprio questa e parve incredibile perché fino allora un
sorriso benevolo del professore Dominici bastava a farlo arrossire di gioia.
(Il parere di Dominici avrebbe avuto grande importanza per la sua convalida al
posto bell'ospedale; e per ingraziarselo il giovane medico gli portava molto
spesso zanzare, zecche, pidocchi. Ma di solito senza successo. Lo scienziato
riceveva il materiale come tributo doveroso e per lo più derideva Deroz con
arguzie tecniche, facendogli capire che perdeva tempo per niente. Data una
breve occhiata agli insetti, rovesciava i tubetti di vetro lasciando cadere le
bestiole a terra e le schiacciava coi piedi).
Il
Dominici, avuta la risposta, credette in un malinteso e mandò di nuovo il servo
nero a chiamare Deroz. Questa volta ebbe un bigliettino che diceva così:
"Caro professore, le fiale da voi richieste sono finite. Mi dispiace di
non potere venire da voi, ma ho parecchio da fare. Arrivederci". Lo
scienziato sorrise con un certo sforzo (sebbene nessuno lo vedesse) e stracciò
la carta. Gli era dato di volta il cervello a quel disgraziato di Deroz? Al
professore Dominici un nudo e crudo "arrivederci"? Avrebbe pensato
lui, nella prossima occasione, a ristabilire le distanze. E pensare che la
carriera del giovanotto era nelle sue mani. Sarebbe bastata una parolina con l'ispettore
di Sanità, una frase lasciata cadere come per caso. O che invece Deroz si
sentisse male? Che gli fosse venuta la febbre?
No,
non gli era venuta la febbre. Alla sera, quando il sole stava per immergersi
nell'orizzonte desolato di rupi, il dottore Deroz comparve al Caffè Antinea
vestito tutto di bianco, con camicia di seta e cravatta, come non era mai
avvenuto. Sedette a un tavolino accavallando le gambe, accese una sigaretta e
si mise a fissare il muro della casa di fronte (che aveva le grate chiuse) come
discorresse con sé di argomenti grati. Un sorriso infatti gli illuminava il
volto stanco.
“Deroz!
E perché non siete venuto?” gli gridò improvvisamente alle spalle il professore
Dominici che arrivava in compagnia di due amici.
Lui
volse appena un poco la testa, senza accennare ad alzarsi, e disse
semplicemente: “Non ho potuto, professore. Non ho proprio potuto”. Poi riprese
a fissare il murò della casa di fronte che lo aveva fino allora affascinato.
“Che
vi salta in mente, Deroz?” ribatté lo scienziato, acre. “E il modo di
rispondere questo? Vi rendete conto? Dite: vi rendete conto?” E i due amici
guardavano il giovanotto con occhi non buoni, pregustando la sua
mortificazione.
Soltanto
allora Deroz si alzò in piedi e lo fece adagio, appoggiandosi con una mano al
tavolino verniciato di rosso su cui era scritto: "Bevete il bitter
Leopardi". Poi si mise a ridere non villanamente, in tono aperto e
gioviale, di chi sa stare allo scherzo. Batté una mano sulla spalla dello
scienziato con una certa energia: “Magnifico!” esclamò. “Sapete che a momenti
credevo faceste sul serio? Ma sedete, sedete, posso offrirvi un aperitivo?”
“Ma,
dico... non poss... non poss...” balbettò Dominici, interdetto e si mise a
sedere meccanicamente insieme con gli altri due. Qualche cosa doveva essere
successo perché Deroz osasse trattarlo così. Che gli fosse stato assegnato un
alto incarico? Era il caso di dargli una lezione? O era più prudente aspettare?
Fece
finta di niente: “Volevo avvertirvi, Deroz” e assumeva il suo classico tono
accademico, che di solito faceva effetto, “tra quindici giorni bisognerà
prendere gli indici spanici giù ai pozzi di Allibad, dovreste usarmi la
cortesia...”.
“Tra
quindici giorni” interruppe Deroz “io non ci sarò più. O, per essere più
precisi, sarò piuttosto lontano.”
“Ve
n'andate?” chiese l'altro, sorpreso gradevolmente. “Ve n'andate in Italia? Ci
lasciate dunque?”
Sorrise
il giovane medico in tono amaro e insieme di compatimento:
“Oh,
non in Italia! Un viaggio soltanto, un viaggetto abbastanza lungo”. E si passò
la destra sulla fronte come si sentisse sfinito.
Dominici
si oscurò nuovamente: dunque non si trattava di rimpatrio, di punizione, di
esonero dal servizio; forse era un viaggio ufficiale, invece, una missione vera
e propria.
“Per
incarico del Governo? Non mi avevate detto, Deroz,” fece allora con aria di
affettuoso rimprovero, quasi accampando per titoli di amicizia una precedenza
nel sapere il segreto.
“Un
incarico, sì” disse Deroz evasivo. “Si può anche chiamare un incarico.
Disposizioni di autorità superiore...”
C'erano
due grandi nubi nel ciclo, ancora illuminate dal sole, mentre la terra già si
ricopriva di ombre. Esse avevano forme abbastanza usuali, ma dai bordi
inferiori frange nere pendevano, che ogni tanto si afflosciavano sulla
superficie del mondo.
“Non
voglio neanche sapere” replicò Dominici risentito. “Ma da che parte? Potrete
dire almeno da che parte?”
“Ancora
non so con precisione” disse Deroz fissando bene in faccia il professore con
atto pressoché insolente. “Ma credo pressapoco laggiù.”
I
tre lo guardavano stupefatti. Ed egli si levò in piedi, facendosi quasi in
mezzo alla via, di modo che le case non gli togliessero la visuale, lentamente
additò le terre del settentrione, il deserto, le pianure non valicabili. Restò
così fermo con la destra tesa, eccezionalmente bianco ai riflessi smorti delle
lampadine del Caffè Antinea.
“Ah,
una missione nel deserto?” insisteva Dominici, letteralmente strisciando ai
suoi piedi con la sua anima meschina. “Una delle solite ispezioni, vero? E
verrà qualcuno dell'Ispettorato con voi?”
Deroz
scosse il capo: “No, no” disse. “Credo proprio che dovrò andarmene solo.”
Dette
queste parole barcollò improvvisamente come se un essere invisibile, correndo
lungo la via, gli avesse dato uno spintone. Poco mancava che andasse a terra,
ma poi si riprese e tornò a sedersi al tavolino.
Il
giorno dopo, al Governo, Dominici cercò di sondare il terreno. Ma del viaggio
di Deroz nessuno sapeva niente. L'ispettore di Sanità tra l'altro disse: “Mi
pare disorientato, quel giovanotto. Ho paura che non resista. Ci sono molti del
resto che non reggono al clima”. Parole significative che fecero piacere a
Dominici: tra non molto- pensava-quell'insolente avrebbe avuto la meritata
lezione.
Ma
intanto il contegno di Deroz peggiorava, facendosi addirittura altezzoso. Non
salutava quasi mai per primo, faceva finta di non sentire quando eli parlavano,
la sera se ne restava in casa a riempire certe cassette di legno adatte per
viaggio in carovana.
E
alla fine, in un pomeriggio molto caldo, si presentò al professore Dominici per
prendere commiato. Era vestito più che mai di bianco e si appoggiava a un
bastone. I piedi si trascinavano sul terreno come lumache ciò che a Dominici
parve soltanto una posa.
“Professore,
vengo a salutarvi” disse. “L'ordine non mi è ancora arrivato ma credo che
partirò questa notte, poco prima dell'alba, alle cinque e mezza, credo.”
“Non
voglio sapere niente” rispose Dominici gelido. “Teneteveli, i vostri segreti. E
buon viaggio...” Fece quindi un piccolo sogghigno, sicuro oramai che il viaggio
famoso non fosse che uno stupido scherzo.
Un
breve colpo di tosse si udì nello studio pieno di grafici e strumenti, poi la
voce tranquilla del medico Antonio Deroz: “Professore, perché sogghignate? Non
fatelo, per favore”.
Si
voltò, raggiunse la porta, appoggiandosi tutto al bastone; o lo faceva apposta
o stentava davvero a reggersi in piedi. “Maledetto impostore!” mormorò tra i
denti Dominici, badando a non farsi sentire.
“Avete
detto qualche cosa, professore?” chiese Deroz fermandosi sulla soglia.
“Se
fossi in voi aspetterei” rispose l'altro, per incrudelire. “Voi non state bene,
ve l'assicuro. Avete una faccia cadaverica oggi, proprio cadaverica.”
“Proprio
così, professore? Aspettereste a partire se foste in me? Eh, voi siete bravo,
professore, voi sapete molte cose,” fu il commento di Deroz, privo di qualsiasi
rancore. Scomparve dietro lo stipite della porta, i suoi passi incerti poco
dopo non si udirono più.
Quindi
si iniziò la notte, periodo di tenebre relativamente breve paragonato al
cammino dei mondi, ma abbastanza considerevole nella circostanza attuale; non
consolata dal lume di luna ma dal solo luccichio delle stelle, sparse a miriadi
nella cupola. Essa passava placidamente sulla piccola città coloniale, sui
deserti circostanti, sui misteriosi cimiteri delle montagne (pur rimanendo
accesa una finestra nella casa del dottore Deroz). Bisogna aspettare le cinque
del mattino per assistere a cose nuove: a quell'ora si ode infatti un passo
avvicinarsi alla casa ed ecco, alle luci gialle dei lampioni residenziali, la
lunga figura del professore Dominici.
Egli
non era tuttavia solo ma accompagnato da due amici. E insieme si proponevano di
ridere alle spalle di un uomo che simulava grandi viaggi dandosi arie, e
invece, probabilmente, era soltanto ubriaco, disteso su una poltrona, per
dimenticare le miserie della vita.
Essi
dunque si avvicinarono alla casa, sebbene i loro passi risonassero con eco
spaventosa tra le mura addormentate. Tutto era immobile e tranquillizzante. Un
cane randagio dormiva dinanzi alla porta. Ne vi erano autocarri in attesa, autoveicoli
carichi di viveri, casse e medicinali, come sarebbero occorsi per una
spedizione attraverso i deserti. Nessun dubbio quindi che il viaggio di Deroz
fosse una fantasia ridicola, atta a ricadere su di lui con molta vergogna.
Verso
la strada le finestre erano chiuse e spente; dalla parte opposta invece ce
n'era una illuminata. E bisogna notare che dietro alla casa cominciava
immediatamente la boscaglia, cosicché, inoltrandosi in quella direzione, presto
o tardi si raggiungeva la scabra solitudine dei deserti;
il
cui mistero in un certo senso dilagava quindi fino all'edificio, come onda
sulla scogliera.
Accortosi
della finestra accesa, il professore Dominici girò dietro alla casa e alzandosi
sulla punta dei piedi guardò attraverso la grata. Senza chiedere permesso egli
osò guardare nell'interno dell'abitazione, contaminando la notte stessa che era
venuta da molto lontano, coi suoi passi meravigliosi e si era chiusa là dentro,
a conforto esclusivo del giovane medico.
La
presenza della notte era tuttavia elemento troppo sottile perché Dominici
potesse accorgersene. Egli vide al contrario Deroz disteso su una poltrona
(come aveva previsto), apparentemente assopito. Sopra di lui, sul muro, pendeva
una testa di antilope imbalsamata; al posto degli occhi mancavano però le
solite emisfero di vetro cosicché le orbite risultavano vuote e sgradevolmente
pensierose. Il giovane medico era avvolto in una vestaglia di seta e varie
zanzare giravano intorno al suo capo, con volo continuo, senza mai osare
toccarlo: tanto si era accresciuto nelle ultime ore il suo prestigio.
Questo
particolare delle zanzare naturalmente sfuggiva al professore Dominici che
gongolava dal gusto, ripromettendosi molte risate. “Che razza di buffone!”
esclamò a bassa voce, convinto che Deroz si fosse semplicemente ubriacato. E si
chinò a terra con l'intenzione di raccogliere un sasso da gettare nell'interno
della stanza, quando uno dei compagni lo afferrò per un braccio con
apprensione.
Si
era infatti aperta la porta retrostante della casa e ne era uscito, non si
sapeva come, il dottore Deroz medesimo. Era vestito di bianco come negli ultimi
giorni ma, certo per un curioso effetto ottico, appariva molto diverso dalla
immagine, solita, pur tenuto conto delle tenebre. I suoi contorni anche, a
causa di una specie di fosforescenza, sfuggivano a un preciso controllo, quasi
fossero di fumo.
Dapprima
Dominici pensò che il medico, accortosi della visita indesiderata, cercasse di
eclissarsi, per evitare la baia. E perciò si mise a gridare: “Deroz! Deroz!
Dove scappate?”. La sua voce però si spense nel modo più miserevole perché il
giovane, anziché voltarsi al richiamo, si avviava verso la boscaglia, col suo
nuovo passo disdegnoso e ferma determinazione; egli non strascicava i piedi ne
adoperava il bastone; un sentimento indicibile si sprigionava da lui e lo
stesso Dominici ne fu sopraffatto, avendo finalmente compreso che proprio
quella era la partenza per il viaggio famoso, che Deroz non sarebbe tornato più
indietro ma a piedi si sarebbe spinto indefinitamente al nord, verso le massime
lontananze, simile a un pezzente o a un dio.
Egli
se n'andava solo, tra le ragnatele delle acacie spinose, pallido sembiante, in
direzione delle città a noi sconosciute; pure un alone di genii benigni lo
seguiva, corteo misericordioso, sussurrandogli parole gentili ed attributi
onorifici come: “Per di qua, a destra, prego, Eccellenza! Attento a quella
buca! Molto agile davvero, Eccellenza!”. In quanto al professore Dominici,
appena vide sparire l'ambigua figura, entrò con avidità poliziesca nella casa.
Dove, naturalmente, rinvenne disteso sulla poltrona, sotto la pensierosa testa
di antilope, il corpo corruttibile del dottore Deroz, troppo gracile e insieme
troppo pesante per poter accompagnare il padrone nel lungo viaggio.
9. IL
MEMORIALE
II
contadino Teodoro Berti riuscì a comperare, per interposta persona, il podere
detto Praloro, di 21 ettari, dal conte Andrea Petrojanni, suo vecchio padrone,
che l'aveva licenziato. Il Berti non era mosso da alcun odio o desiderio di
vendetta contro il ricchissimo conte. A lui importava soltanto poter ritornare
a Praloro, la campagna dove era nato e vissuto fino ai quarantacinque anni. Il
Petrojanni invece si mise in mente che quella fosse una rappresaglia: Teodoro,
pensava, si era installato in mezzo alle sue terre come proprietario, da pari a
pari, e sarebbe stato origine di un'infinità di fastidi; perciò lo prese ad
odiare e ordinò ai dipendenti di non mantenere con lui rapporti. Forse offrendo
una somma maggiore avrebbe potuto ricomprare Praloro; ma gli sarebbe parso di
dar soddisfazione al Berti, senza contare l'inconveniente di annodare col
contadino, sia pure per tramite di intendenti e notai, nuove relazioni di
affari. Così il principesco palazzo Petrojanni, il conte, i suoi familiari, i
suoi servi, tutto il mondo gravitante intorno a loro, divennero per i Berti
ancor più inaccessibili di quanto non fossero mai stati e a lungo andare
nell'animo di Teodoro andò insinuandosi una vaga sensazione di colpa, come se
l'affronto involontariamente fatto al vecchio signore non potesse sperare
perdono e ci fosse da temere, presto o tardi, una spietata punizione.
Una
medesima strada collegava alla provinciale il podere di Teodoro e il palazzo
Petrojanni. Essa era interrotta a un certo punto da un passaggio a livello,
custodito da un casellante. Spesso avveniva che dinanzi alle sbarre abbassate
nell'attesa di un treno si dovessero fermare, fianco a fianco, i carri rustici
del Berti e la superba carrozza che trasportava alla città vicina il conte, o
la contessa, o i loro figliuoli ed ospiti. Invariabilmente, per dispregio, le
tendine della carrozza venivano abbassate, mentre i contadini si rimettevano in
silenzio il cappello, tolto in atto di saluto. Comunque, per la mancanza di
qualsiasi interesse comune, la sterminata tenuta Petrojanni e la campagna di
Teodoro vivevano completamente separate, evitando così contrasti o litigi.
Un
giorno si seppe, che, allo scadere del primo ventennio di esercizio, cioè fra
due anni, le Ferrovie avrebbero sospeso il servizio di custodia al passaggio a
livello. In seguito, la sorveglianza sarebbe dunque rimasta a carico degli
interessati. La notizia diede molto da pensare a Teodoro. Siccome il passaggio
a livello serviva soltanto ai Petrojanni e ai Berti, i casi erano due: o il
conte, fingendo di ignorare l'ex-colono, avrebbe provveduto direttamente al
servizio di custodia, disinteressandosi completamente dei bisogni di Praloro e
creando quindi ogni difficoltà al passaggio dei carri e del bestiame dei Berti;
oppure l'incarico, per ordine dell'autorità, senza bisogno di reciproco accordo
sarebbe stato assunto da entrambi cumulativamente: ciò che appariva ancora più
pericoloso: come escludere che il conte avrebbe favorito il verificarsi di
qualche grave incidente, la cui responsabilità sarebbe ricaduta su tutti e due?
Quasi sempre in questi accidenti i danni da rifondere, trattandosi di vite
umane, ammontavano a decine o a centinaia di migliaia di lire. Per il conte
sarebbe stata una perdita irrilevante, per Teodoro invece la rovina; avrebbe
dovuto vendere Praloro, le bestie, gli arnesi, i mobili e forse non sarebbe
bastato.
Era
assolutamente necessario mettersi d'accordo amichevolmente, chiedere una specie
di armistizio, se non addirittura la pace. Maria, la moglie di Teodoro, era
così spaventata che parlava già di vendere il podere e trasferirsi altrove. Di
giorno e di notte, a poco più di trecento metri, i treni intanto passavano
sulla strada ferrata, facendo un rumore d'inferno.
Teodoro,
non potendo interpellare i fattori o gli intendenti del conte, i quali non gli
avrebbero neppure risposto, ne parlò con il casellante, suo vecchio amico,
pregandolo di tastare il terreno con qualcuno dei Petrojanni. Qualche giorno
dopo il casellante gli disse di aver potuto chiedere notizie allo stesso
Gervasi, procuratore del conte, che praticamente sovraintendeva all'intera
tenuta: il Gervasi gli aveva risposto che c'era tempo da pensarci e si era
anche messo a ridere, come avesse intuito l'origine di quella richiesta.
Disposto
anche a spendere qualche decina di lire, Teodoro allora era andato in città per
chiedere consiglio a un avvocato. Quando però aveva saputo che la pratica
seppure regolarissima, finiva per avere un vago tono di ostilità verso il
Petrojanni (non perché minacciasse in alcun modo gli interessi del conte, ma in
quanto cercava di eludere la sua presunta inimicizia) l'avvocato non aveva
voluto incaricarsene, si era anzi quasi sdegnato per l'audacia del contadino.
Il
presentimento di un avvenire calamitoso, la sensazione di trovarsi isolati,
deboli e ignoranti, in un mondo ostile, ricco e istruito, andarono addensando a
Praloro un'aria d'incubo, quasi di disperazione. L'ultima possibilità che
rimanesse era di rivolgersi per scritto al Gervasi o meglio ".ora _
sosteneva Teodoro contro il parere dei suoi familiari - al vecchio conte
Petrojanni in persona, il quale si diceva fosse un uomo giusto se pur debole e
quindi facilmente istigato dalla perfida moglie. Ma certo nessuno ne avvocati
di città, ne il medico, ne il parroco, ne le maestre delle elementari si
sarebbero assunti l'ingrato incarico di mettere su carta le richieste del
Berti, col rischio di attirarsi l'ira del conte potentissimo nella regione:
prima o dopo egli avrebbe certo identificato l'autore della lettera.
Si
era a questo punto quando una sera, mentre la famiglia di Teodoro era raccolta,
dopo pranzo, in cucina, in penoso silenzio, Piero, il settimo figlio, dichiarò
che avrebbe scritto lui al Petrojanni. Piero aveva 17 anni; colpito, bambino,
da paralisi infantile, era rimasto infermo, l'unico della famiglia che non
lavorasse. Benché conducesse praticamente una esistenza da parassita e per di
più fosse considerato scemo - alle buone pagelle da lui ottenute a scuola
nessuno aveva dato importanza -tutti gli volevano bene, genitori e fratelli.
Assumendo anzi lui, nell'ozio, un aspetto quasi fine, da studente di città,
Teodoro ne era in fondo orgoglioso, come se ciò sollevasse un poco la famiglia
verso il livello dei signori.
“Voglio
scrivergli io”, ripeté per la seconda volta Piero, poiché nessuno gli
rispondeva.
“Ci
vuoi altro, caro mio”, disse Primo, il fratello maggiore, di venticinque anni,
come se non valesse neppure la pena di discutere una cosa tanto ridicola. Tutti
gli altri tacquero, compresa la madre, che di solito si gettava avidamente su
ogni argomento buono per diatribe o recriminazioni.
Quella
sera però la finestra della camera di Piero (lui aveva una stanzetta per sé, i
fratelli dormivano in due o tre insieme) rimase accesa fino a tardissima ora.
Solo al figlio infermo Teodoro permetteva di tenere la luce dopo le nove di
sera e tutti trovavano naturale questa specie di ingiustizia. Egli era però
sempre al corrente dell'ora in cui Piero spegneva e il mattino dopo gli chiese
perché fosse stato sveglio così a lungo. “Sei stato male stanotte?” gli domandò
essendo Piero spesso tormentato da crisi di dolori notturni.
“No,”
rispose il ragazzo, “ma ho provato a incominciare il memoriale.”
“Che
memoriale? Ne hai una nuova adesso?”
“Il
memoriale per il signor conte,” fece Piero con voce tranquilla, senza sentire
il bisogno di scusarsi, “per il passaggio a livello.”
Teodoro
scrollò le spalle, per dire che quelle sciocchezze lo infastidivano. Scrollò le
spalle, ma un barlume di speranza era già nato nel suo cuore.
“Beh,”
disse dopo essere rimasto in forse se rimproverarlo o no, “se non hai altro da
fare... ma non farti sentire, almeno: ne abbiamo abbastanza di pensieri, senza
che tu ci faccia ridere dietro.”
E
se n'andò verso i campi.
Quando
venne il sabato però, e ci fu all'osteria la solita riunione con i pochi amici
rimasti a lui fedeli (erano il casellante, un uomo del molino, il capostradino
e uno strano tipe sempre in giro a pescare), Teodoro appena il discorso capitò
sull'eterno argomento del passaggio a livello annunciò con aria di mistero che
suo figlio Piero stava facendo un memoriale.
“Piero,
quello malato?”, domandò lo strano tipo senza levare gli occhi dalle carte del
tressette.
“Proprio
lui, quello malato”, disse Teodoro.
“Ma
non è un po'...?”, chiese ancora il pescatore e fece segno con un dito alla
fronte, per delicatezza, poiché non aveva il coraggio di dire: ma non è un po'
cretino?
“Già”
intervenne il casellante, “non è un po', come dicono, deficiente? Non mi dicevi
che non capiva niente?”
Teodoro
non poteva negare ma disse:
“La
scuola però l'ha fatta, e anche meglio degli altri.”
“Sì,
sì,” fece il casellante, “ma adesso mettersi addirittura con un memoriale!”
“Eh,
ho paura anch'io:” disse il capostradino, fino a quel momento silenzioso, “un
memoriale è un memoriale!” e non specificò meglio ciò che intendesse dire.
Il
pescatore, ch'era in coppia con Teodoro fece nove mani di fila, dando con le
sue carte vincitrici dei grandi colpi soddisfatti sul tavolo, poi disse (e
tutti si aspettavano una delle sue solite facezie sul gioco): “Mah, dovresti
dirgli di stare attento!”.
“Stare
attento a chi?”, disse Teodoro.
“A
tuo figlio, dico, che non ti combini qualche pasticcio: dovresti starci attento
a quel memoriale.”
Teodoro
esclamò: “Eh, come faccio? Lui non me lo fa mica vedere!”
“Non
tè lo fa vedere, ci manca anche questa!,” disse il casellante evidentemente mal
prevenuto contro Piero: “Vuoi fare un memoriale e poi non tè lo fa vedere! Ma è
proprio un asino allora!”.
Teodoro
tacque e continuò a giocare. Capì che aveva fatto male a parlare e il giorno
dopo tentò, ma inutilmente, di farsi mostrare da Piero quello che aveva già
scritto. Piero gli rispose che non aveva ancora cominciato, che stava studiando
la questione, che doveva prima guardare alcuni libri alla biblioteca del
Municipio.
Fatto
è che dopo una quindicina di giorni arrivò, indirizzata proprio all'egregio
signor Pietro Berti, una lettera chiusa, intestata alla Società Anonima
Ferrovia Portonuovo - Trevo. Nacque una lite perché Piero non volle farla
vedere ai fratelli. “Sono delle informazioni, sono!” si limitava a dire. Non ci
fu verso di poterla leggere.
Questo
piccolo episodio ad ogni modo cominciò a scuotere anche la diffidenza di Primo,
il fratello maggiore. Dopo tutto chissà che Piero non avesse più criterio di
quanto si credesse. Perché non lasciarlo fare?
La
finestra del ragazzo infermo restava accesa almeno fino alle undici tutte le
notti. Nelle rare giornate di benessere fisico e quindi di buon umore, Piero
adesso si lasciava andare a qualche confidenza. Aveva pensato-e tutti furono
concordi nell'ammettere la bontà dell'idea - che le Ferrovie stesse potessero
curare direttamente la custodia del passaggio a livello, dietro congrue
compenso. Il Petrojanni e i Berti avrebbero contribuito alla spesa in base a
una proporzione da determinarsi, e sarebbe stato così tolto di mezzo ogni
pericolo di angheria e di responsabilità per danni. Tutto dipendeva però dal
consenso del conte e per questo occorreva che il memoriale fosse preparato e
scritto con la massima cura.
I
genitori e i fratelli stavano ad ascoltare le spiegazioni di Piero,
profondamente meravigliati ch'egli tenesse discorsi così difficili. Oramai
nessuno diffidava più di lui, nel suo memoriale anzi si concentravano le comuni
speranze della famiglia, a poco a poco i tristi pensieri dileguavano e per la
casa le donne tornavano a cantare.
Un
mese circa passò e finalmente Piero annunciò di aver finito la prima pagina del
memoriale, non nella forma definitiva perché gli pareva che le frasi fossero
ancora un poco dure e ingarbugliate, ma insomma la base c'era. Essendosi
rifiutato di leggerla, i familiari non insistettero; una sorella anzi gli disse
apertamente che anche lei avrebbe fatto lo stesso.
Intanto
all'osteria Teodoro non discorreva più di questo memoriale con la timida
sottomissione della prima volta e pure gli amici cominciavano a prendere sul
serio la cosa. Persino il casellante parteggiava adesso per Piero, ed era
naturale perché con la soluzione proposta dal ragazzo egli avrebbe avuto molte
probabilità di essere mantenuto in servizio.
Tutta
la famiglia Berti viveva così da qualche tempo concentrata sul famoso
memoriale, tanto che la meraviglia non fu eccessiva quando il signor Paoletto,
segretario del Gervasi, comparve un giorno nel cortile di Praloro e chiese di
Piero. I due rimasero a confabulare per circa un'ora. Tutti i fratelli erano
fulmineamente accorsi dai campi e stavano silenziosi in attesa dinanzi alla
porta di casa. Finalmente il signor Paoletto uscì, il volto sorridente e fece
un lieve (lievissimo) cenno di risposta al saluto di Teodoro e dei figli.
Allontanatesi l'eccezionale ospite, tutti si precipitarono da Piero, seduto
nella sua camera dinanzi a un tavolo ingombro di scartafacci.
Il
ragazzo non era affatto emozionato e cercò di spegnere l'entusiasmo dei
familiari assicurando che il signor Paoletto era venuto soltanto a prendere un
libro: alla biblioteca municipale gli avevano detto che il volume era in
prestito presso Piero Berti ed era andato a farselo consegnare.
“Ma
del passaggio a livello avete parlato?” chiese Teodoro.
“Così
di sfuggita” rispose Piero. “Il signor Paoletto, del resto, mi è sembrato
piuttosto contrario ai sistemi del conte, non sembra neanche uno dei suoi.”
Nessuno
seppe esattamente i particolari del colloquio, ma nell'intera famiglia si
radicò la convinzione che in un certo senso il ghiaccio stava per essere spezzato:
il memoriale - di cui tuttavia non si era riusciti a leggere neppure una parola
- sarebbe stato di importanza decisiva. Ad accrescere le speranze dei Berti ci
fu poi una confidenza del casellante.
Raccontò
il casellante che il signor Paoletto si era fermato a discorrere con lui a
proposito del passaggio a livello, dei Berti e soprattutto di Piero.
“Vuoi
sapere sinceramente la mia impressione?” concluse, rivolto a Teodoro.
“Dimmi,
dimmi, caspita” fece Teodoro.
“Bene”
disse il casellante, “la mia impressione è stata che loro hanno paura.”
“Paura?
paura di che?”
“Mah,
non ti so dire di che cosa, ma hanno paura. Io non so niente, il signor
Paoletto parlava del memoriale, non ho capito bene cosa diceva...”
Era
assurdo parlare di paura a proposito del conte. Il memoriale non doveva
contenere che una rispettosa proposta per la sistemazione del passaggio a
livello. Il casellante, non c'era dubbio, fraintendeva, non rendendosi conto
della questione; pure nell'atteggiamento del signor Paoletto, rappresentante non
ultimo dell'amministrazione Petrojanni, egli doveva avere intravisto una certa
remissività che un tempo sarebbe stata follia anche solo sperare.
Senza
montarsi la testa, Piero continuò intensamente il lavoro; non si faceva quasi
più vedere in paese per evitare fastidiose interrogazioni, spesso andava alla
biblioteca municipale o ispezionava il passaggio a livello, o discuteva col
casellante sulle minuzie tecniche del suo servizio. Così per mesi e mesi. Quasi
un anno e mezzo era passato dal primo allarme quando il ragazzo, attraverso
prudenti allusioni fece capire ai suoi che il memoriale poteva dirsi
praticamente finito. La prima parte era ormai fissata nella stesura definitiva,
gli rimanevano ancora alcuni dubbi sul tono della chiusa, se fosse più opportuno
un saluto freddo o stringato o non piuttosto largheggiare in complimenti, per
ingraziarsi l'animo del patrizio.
Dopo
questo annunzio non si dubitò più minimamente della favorevole soluzione del
problema; l'importanza del memoriale si era andata ampliando, aveva acquistato
per così dire una vita autonoma, sorpassava di gran lunga i limiti della
questione del passaggio a livello (pure in sé tanto grave), si era trasformata
in motivo di orgoglio per i genitori e i fratelli di Piero, uno degli scopi
quasi della loro esistenza.
Sette
mesi ancora mancavano alla sospensione del servizio di custodia al passaggio a
livello ed ecco una sera, sull'imbrunire, fermarsi una carrozzella, come non
avveniva a memoria d'uomo, nel cortile di Praloro. Ne scese un signore sconosciuto
sulla sessantina che domandò in tono sbrigativo se abitasse là un certo signor
Piero Berti.
Piero
era presente e si fece innanzi.
“Sono
il direttore della ferrovia” annunciò allora il signore con accento che parve
minaccioso. “Andiamo dentro un momento, vi prego. Devo parlarvi.”
Il
visitatore, Piero e poi tutti i familiari si raccolsero in cucina. Al Direttore
della ferrovia fu offerta la sedia migliore e gli altri si disposero intorno ad
ascoltare.
Egli
disse:
“Si
tratta di questo: ho sentito dire in giro che qui da voi si fa una gran
questione del passaggio a livello, ho sentito parlare anche di un Memoriale o
che so io. Il signore (e guardò un librettino per ricordarsi il nome) il signor
Piero Berti, qui presente, mi ha scritto più di una volta e capisco le vostre
preoccupazioni. Ora sono qui per tranquillizzarvi.”
“Buone
notizie, allora,” fece Teodoro stupidamente, senza immaginare di che cosa
potesse trattarsi.
“Buonissime,
credo” disse il direttore della ferrovia.
Tutti
stettero zitti a sentire; ma Piero pallido di abitudine, si andava facendo più
bianco ancora. Visto che nessuno parlava, il direttore della ferrovia continuò:
“Vengo
a dirvi che potete stare tranquilli. Fra cinque mesi il passaggio a livello
viene abolito. Non passeranno più treni. Fra cinque mesi si inaugura il nuovo
tronco, che passa al di là del fiume. Non ci sarà più bisogno di casellante,
non ci sarà più passaggio a livello”, ripeté poiché i Berti non davano alcun
segno di contentezza.
Ne
Teodoro, ne la moglie, ne i figlioli avevano infatti battuto ciglio. Oramai
l'abolizione del passaggio a livello, che un anno e mezzo prima li avrebbe
liberati da un incubo, riusciva loro sgradita. Se così fosse stato, il
memoriale di Piero diventava assolutamente inutile, una fatica buttata via, un
pezzo di carta straccia. E oramai loro, a ragione o a torto, si erano abituati
a quella speranza. La fine del passaggio a livello avrebbe semplicemente
evitato i fastidi, il memoriale invece avrebbe potuto in soprappiù conquistare
il favore del conte; indipendentemente dall'affare dei treni, esso offriva
l'eventualità di un successo, che adesso veniva a mancare.
“Ma
come?” domandò il visitatore stupito dell'apatia dei contadini, “ma come? Non
siete contenti?”
Teodoro
disse senza entusiasmo: “Contenti sì, certamente. Ma sa? questo cambia molte
cose...”.
“Ah,
lei vuoi dire il memoriale, il lavoro di suo figlio? Già, capisco. Adesso
dispiace aver lavorato per niente. Ma voi che cosa dite?” chiese direttamente a
Piero, confidando nella sua maggiore intelligenza.
Ma
Piero si era fatto terreo in volto, pareva svuotato di vita. Parlò con grande
sforzo:
“Oh
sì,” disse “tutto si aggiusta... eppure...”
“Dite,
dite pure liberamente...”
“Ecco,
è quasi un anno e mezzo che ci studio, è un peccato buttare via tutto così;
d'altra parte sarebbe assurdo...”
“Lo
credo bene che sarebbe assurdo,” notò il direttore della ferrovia con un
risolino, “non utilizzare la linea nuova perché il memoriale non vada perduto!
ah sarebbe una trovata magnifica!” e scoppiò in una risata che non ebbe eco fra
i presenti. “Un'idea brillante davvero!”
Piero
disse a questo punto, riprendendo coraggio: “Sentite, signor ingegnere, non
perché pensi di farvi cambiare idea, ma accontentatemi, vi prego, vorrei leggervi
il memoriale!”.
“Volentieri,
ma devo scappare, mio caro ragazzo; un'altra volta, avrò occasione di
ritornare, non dubitate della mia ammirazione...”
Tentò
di schermirsi, ma per poco, poiché vide dipinto sul volto del giovanetto un
troppo amaro sconforto. “Bene, sentiamo!” disse con svogliata compiacenza
sedendosi di nuovo.
Piero
andò a prendere il documento, si mise presso una finestra per avere luce e
cominciò a leggere con voce un po' vacillante:
“Egregio
signor conte, da circa otto anni sto carteggiando...”
“Otto
anni?” interruppe Primo, il fratello maggiore, “ma se è appena un anno?”
“Lo
so, lo so,” spiegò Piero seccato per l'interruzione, “lo so anch'io che non è
vero ma fa più effetto, ci ho pensato a lungo, è una questione delicata, sono
stato anche in dubbio se mettere tre anni invece di otto, ma poi mi son deciso
per otto. Adesso lasciami continuare.”
Prese
fiato e ricominciò la lettura:
“Egregio
signor conte, da circa otto anni sto carteggiando con l'amministrazione della
Società Anonima Ferrovia Trevo-Portonuovo per trovar modo di risolvere in via
permanente, nell'interesse comune, in quel di Sant'Elpidio (Trevo) la quistione
del passaggio a livello (P. L.) al chilometro 39 + 127 della strada ferrata
suddetta.”
Via
via che leggeva, la voce di Piero andava rinfrancandosi e acquistando tonalità
vive ed umane. Il volto, nella luce del pomeriggio morente, risplendeva di
un'ardente e quasi disperata fede.
“Attualmente,”
proseguì adagio, “per ricorrere alla felice espressione riassuntiva del cavalier
Martandrei, segretario capo del Comune di Sant'Elpidio, col quale ho avuto
l'onore di scambiare ripetute consultazioni epistolari, dirò che il problema
può compendiarsi nell'alternativa seguente:
“A)
ad una responsabilità in solido per entrambi, qualora ci assumessimo di
rimborsare le spese per il personale di custodia del P. L. (vedi appresso) ;
“B)
in una responsabilità civile in caso di sinistro - non difficile, quest'ultimo
a verificarsi ora che sono in uso i celerissimi "treni leggeri"
alcuni dei quali (per esempio quelli addetti al trasporto merci) passano senza
orario; e tenuto conto delle frequentissime e fittissime nebbie che incombono
sulla Marca Trevana - qualora noi avessimo a prendere in consegna le chiavi
delle sbarre.”
Il
memoriale elencava poi gli argomenti a vantaggio della prima soluzione,
escludendo senz'altro l'ipotesi che, in mancanza di accordo fra i due
interessati, l'autorità competente sancisse d'ufficio la seconda. Accettata
come base la sistemazione A, il memoriale proponeva che una persona
s'incaricasse di fungere da tramite con le Ferrovie per il regolamento del
periodico debito e stabiliva le eventuali modalità in proposito.
I
genitori e i fratelli di Piero se ne stavano impietriti dallo stupore: pareva
loro miracoloso prodigio che il ragazzo fosse riuscito da solo a scrivere una
cosa così profonda e perfetta.
“Qualora,
in via di assurda ipotesi,” concludeva il memoriale, “uno di noi mancasse
all'impegno di pagare la propria quota, le Ferrovie a detta dell'ingegner
Falcone, gerente tecnico, non provvederebbero subito a chiudere il P.L.
(chiusura che sarebbe di immenso danno a tutti noi) bensì incaricherebbero
della bisogna l'avvocatura erariale, lasciando un certo lasso di tempo acché il
recalcitrante si emendi! Ma non credo che ciò sarà per accadere da parte di
nessuno di noi: la nostra rispettabilità non consente di metterlo neppure in
dubbio. Vi sarò grato, Egregio Signor Conte, se Vi vorrete compiacere di
inviarmi un cenno di benestare.”
Piero
aveva finito, lasciò cadere la mano che teneva i fogli, restò appoggiato a un
bordo della finestra, ansimante; le ultime luci della giornata lo illuminavano.
“Bellissimo,
veramente bellissimo!” esclamò il direttore della ferrovia. Poi guardò i Berti
che lo fissavano muti, quelle facce affaticate e piene di avida implorazione,
guardò la cenere del camino dove morivano le ultime brace, il pavimento di
pietra con chiazze d'acqua, il tavolo con i resti della polenta, i muri già
bianchi, ora tutti incrostati dal fumo, il ragazzo infermo. Nessuno parlava.
Che cosa voleva dunque da lui quella gente? Era mai possibile?
“Capisco,”
disse ancora l'ingegnere. “Non dico di no, è spiacevole dover buttare via tutto
questo lavoro, ma che cosa posso fare? L'inaugurazione della nuova ferrovia è
già fissata, bisognerebbe avvertire il Ministero.”
“Sì,
ma basterebbe...” balbettò il ragazzo e non osò altro.
“Su,
dite, dite...”
“Basterebbe
forse,” fece il ragazzo, “basterebbe che il conte non lo sapesse, voi
potreste...”
Il
direttore della ferrovia lo interruppe: “Niente da fare, lui è perfettamente al
corrente”.
Tacquero
ancora tutti. La cucina si faceva buia. L'ingegnere finalmente si alzò con un
profondo sospiro.
“Bene,”
disse, “sapete che cosa faccio? Io ordino un rinvio dell'inaugurazione, un
rinvio a tempo indeterminato, possono essere anche due anni, ma nessuno mi
impedisce che poi siano magari anche 15 giorni, intanto la questione del
passaggio a livello resta aperta e voi potete mandare il memoriale. Ci penso io
ad avvertire il Petrojanni. Vedete che tutto si aggiusta, siete contento?”
Esattamente
questo disse e i contadini in fondo non se ne meravigliarono: solo Piero nella
penombra sorrise.
Così
il memoriale partì per il palazzo Petrojanni, trascritto pazientemente da Piero
in perfetta calligrafia. La fede sua e della famiglia era tanta che nessuno
dubitava della risposta. Se il direttore della ferrovia aveva rinviato apposta
l'inaugurazione della linea, voleva pur dire che il memoriale era una cosa
importante.
Il
primo giorno nessuno attese la risposta, al secondo si poteva cominciare ad
aspettare, al terzo venne solo la pioggia, al quarto comparve nel cortile il
signor Paoletto, ma non portava lettere o ambasciate, si era solamente smarrito
andando a caccia, al quinto venne ancora pioggia, al sesto le speranze non
erano più così grandi, il settimo era domenica e certo nessuno sarebbe venuto,
all'ottavo, mentre era solo in casa e i suoi lavoravano nei campi, Piero
scoppiò improvvisamente in singhiozzi, al nono Piero fu preso da alta febbre,
sempre al nono giorno, ma qualche ora più tardi, giunse una lettera del
Gervasi: il conte Andrea Petrojanni - era scritto - aspettava Piero Berti al
palazzo per il mattino seguente.
Ma
Piero era ammalato e non si poteva alzare. Bisognava avvertire il conte che il
ragazzo era immobilizzato, il conte si sarebbe offeso, aveva fatto fin troppo,
lo riconosceva perfino Teodoro. Così tutto andava in malora.
Teodoro
stesso, per la prima volta dopo tanti anni, si recò il mattino dopo al palazzo
Petrojanni per portare il biglietto di scusa, scritto con fatica da Piero.
Consegnò la busta a un servo e se ne ritornò malinconico, benché fosse una
splendida giornata di primavera.
Verso
le undici Annetta, una delle sorelle di Piero, stava alla finestra nella camera
del malato. Di là si scorgevano il palazzo Petrojanni in cima al colle e la
bianca strada che ne scendeva.
“Hanno
tirato fuori la carrozza del vecchio,” disse la ragazza per distrarre un po' il
fratello.
Piero
uscì dal torpore: “Sei sicura?” domandò alzando la testa. “Proprio la carrozza
del conte?”
“Sì,
è la sua. Ha quattro cavalli e due cocchieri. Lui deve essere già montato,
adesso si muove...”
Il
ragazzo si abbandonò nuovamente sui cuscini.
“Di',
Piero,” esclamò Annetta, “a quest'ora lui non si muove mai. Vuoi vedere che
viene qui? Vuoi vedere che viene a trovarti?”
Piero
non disse: “Sciocchezze, figurati!” bensì tacque, e il cuore prese a battergli
forte. Cercò, per calmarsi, di pensare al suo memoriale che adesso
probabilmente giaceva fra mille altre carte, nell'ufficio del Gervasi, del
tutto dimenticato. Ma il cuore batteva sempre più forte.
La
carrozza del vecchio conte Petrojanni fece a spron battuto la discesa, si
avvicinò rapidamente a Praloro, già si vedeva sopra le siepi una nuvola bianca
di polvere, si udivano lo scalpitìo dei cavalli e il tintinnìo delle
sonagliere. “Fra poco è al bivio!” gridò Annetta.
Oramai
la carrozza era vicina. Avrebbe tirato via direttamente verso il passaggio a
livello, in direzione della città, oppure si sarebbe infilata per la stradetta
laterale che portava a Praloro? Ancora due tre metri e poi si sarebbe saputo.
10. CÈVERE
Ogni
sette anni Cèvere risale il fiume con la sua lunga piroga, fino Ila grande
ansa, e si ferma presso il paese di Naer a prendere i morti. Questa è la
leggenda e i neri della zona ci credono, senza darvi troppa ~ portanza. Non
hanno ne curiosità ne paura, così come noi non curiamo nell'alba livida delle
nostre città, gli uomini che vengono a portar via le immondizie. Cosicché quasi
nessuno tiene conto dei sette anni e calcola il giorno della scadenza.
Cèvere
è alto, nero come la notte, ne giovane ne vecchio. Nessuno è riuscito mai a
scorgere la sua faccia; certi dicono ch'egli abbia gli occhi di dietro, altri
che si copra il volto, alla vista di esseri umani, con una stoffa bianca.
Giunge silenzioso con la sua barca, accosta alla riva deserta, scompare nella
boscaglia in cerca dei morti. Prima che la notte scenda egli è di ritorno e i
defunti siedono a due a due nella grande piroga, impugnando i remi. Lui sta in
piedi a prua, con una lunga asta che ogni tanto immerge nell'acqua per
rettificare il cammino. Poi essi scompaiono giù per il fiume, in direzione del
sud, inghiottiti dal buio.
Ora
io venni a sapere da un anziano del paese che questo era l'anno buono; in
quanto al mese e al giorno però non mi disse niente. Comunque per una vaga
speranza, lasciati i compagni increduli, me n'andai verso le ore 18 su di una
minuscola collina di pietre rosse, emergente dal mare di spine, sopra l'ansa
del fiume. Tutto attorno, a perdita d'occhio, era desolazione di arbusti
bruciati dal sole; e in questa landa giallastra il corso d'acqua segnava una
striscia di inverosimile verde, con alberi di grandi dimensioni e ricchi di
fronde. Sotto uno di questi, presso la riva, nell'ombra, vidi una imbarcazione
vuota che dondolava lievemente.
La
mia venuta a Naer era di grande importanza perché, dopo parecchi mesi, si
poteva finalmente organizzare alla Viceresidenza una partita di ponte. C'erano
il viceresidente, il medico e uno strano individuo che si diceva perito
minerario ma che ancor oggi non capisco che cosa potesse essere andato a fare
in quello sperduto esilio. Essi mi avevano raccomandato di fare presto,
impazienti di iniziare il gioco, che sarebbe durato probabilmente fino a tarda
notte. Ma il cuore si era messo a battermi, come succede al mago ormai
sfiduciato che finalmente vede uscire Satana dalla fiala. E c'era un grande
silenzio, per nulla ostacolato dalle strida saltuarie di corvi, avvoltoi, aquile
pescatrici.
Nulla
poteva esserci di più placido e innocuo che quella barca abbandonata,
oscillante presso la riva. Pure un acuto orgasmo mi prese, sembrando essa la
prova di una sovrannaturale presenza. Poi mi tranquillizzai pensando: e perché
mai dovrebbe essere la piroga di Cèvere? i pescatori della zona non adoperano
forse imbarcazioni simili a questa? Discesi allora dalla collinetta e,
facendomi coraggio, mi appostai sulla riva, in un intrico di verzura, circa
duecento metri a valle della barca. Il fiume aveva colore giallastro e
continuava il suo antichissimo viaggio, dirigendosi a terre inesplorate,
viscere fonde dell'Africa.
Chiesi
a me: "Hai forse paura? Che cos'è questo nervosismo? Peggio di un
bambino!" - "Non è vero niente" risposi ipocritamente, "Ci
sono i compagni che aspettano, saranno già seduti al tavolo, non aspettano più
che me. Tanto, qui non verrà nessuno". - "Storie!" ribattei.
"Tutte storie - la questione è che hai paura, non sei nato per queste
cose, ecco il fatto, non dovresti neppure metterti!" E già calavano le
ombre.
D'improvviso,
essendosi accostata la piroga alla riva come per casuale risucchio, vi
sgusciarono dentro, giù dalla sponda, diverse figure umane. Per la distanza non
le potevo distinguere bene ma mi parvero differenti da noi, quasi per una certa
fluidità e inconsistenza corporea non riesco proprio a spiegarmi meglio.
Ansiosamente si ammucchiarono nella piroga, disponendosi quindi più
regolarmente a due a due, così da riempirla tutta. Come si furono accomodate,
restarono immobili. Una emozione indicibile mi pesava nel petto. Era dunque
vero!
Ed
ecco lui comparve. Non lo vidi scendere dalla riva. Lo scorsi ch'era già in
piedi sulla prua, altissimo e di stupefacente bellezza. Il volto tuttavia mi
sfuggiva; esso apparve quale macchia lucente, in contrasto col rimanente corpo,
nudo e nero come la notte. Non mi venne neppure in mente che potesse essere un
uomo qualunque, il quale si accingesse a partire in barca con altri uomini
qualunque. Era lui, Cèvere, scaturito dai misteriosi recessi del mondo, ed ora
se ne andava coi morti degli ultimi sette anni, racimolati presso il paese di
Naer. Ma dove, ma dove?
Otto
remi toccarono il filo dell'acqua, la piroga lentissimamente si mosse e tra le
due muraglie arboree io udii alzarsi la voce di Cèvere; era straordinariamente profonda,
senza allegria ne mestizia, staccantesi a poco a poco dalle miserie della
terra. “Il mio nome è Cèvere” diceva (oh, io non conoscevo certo la sua lingua
barbarica, eppure capivo). “Il mio nome è Cèvere” diceva “e noi andiamo alla
terra dei grandi fiumi, dove anni innumerevoli passano senza che diminuisca la
contentezza dell'uomo.”
Allora
anche i morti si misero a cantare, ma in un coro oltremodo triste, rimpiangendo
le cose della vita: gli abiti di seta - dicevano - i nutrimenti, i sogni che si
fanno di notte, il latte, i cammelli grassi, le brune ragazze, le fantasie di
guerra, il sapore del capretto, oh quanto breve tempo siamo stati insieme!
“La
terra dei grandi fiumi” ripeté Cèvere con progressiva magnificenza, (e io
vedevo la piroga farsi sempre più grande). “La legge proibisce alle febbri di
entrare, l'aria è buona da respirare, spenti i desideri dell'uomo!” Così egli
cantava ma i defunti ancora lacrimarono per i beni perduti, enumerando le cose
belle che non avevano fatto in tempo a vedere, il mare, le città degli uomini
bianchi, le principesse straniere dalla pelle tenera come uccelletti, addio,
addio. Con spietata fermezza però Cèvere mostrava di non udirli, continuando a
cantare circa gli immobili gaudi dell'oltretomba. E ben presto essi cessarono
di contraddirlo, anzi cominciarono a ripetere in sordina le sue parole.
Lo
vedevo ormai vicino. Diritto sulla prua, con una gamba un po' avanzata in segno
di imperio, in mano la lunga asta nobilmente tenuta a guisa di scettro. Ma il
suo volto era invisibile, nascosto dietro una Maschera d'argento che ricordava
certi stregoni e splendeva con espressione di amaro trionfo. Era a pochi metri.
Allora la piroga letteralmente sfiorò la mia riva, rallentò, quasi invitandomi,
e dagli obliqui spiragli della maschera gli sguardi di Cèvere calarono
lentamente nei miei.
"Coraggio,"
mi dissi, "salta sulla piroga! Farai sempre in tempo a scendere, saresti
il primo nel mondo a provare!" - "Un cavolo!" replicai,
tremando. "Non è che una delle loro tante cerimonie. Dietro quella
maschera potrebbe esserci la lebbra. E poi quei tre, alla Viceresidenza, hanno
già aspettato abbastanza." - "Paura, schifosa paura, ecco che
cos'hai! Non lasciare passare l'occasione, poi ne sarai fiero per tutta la
vita, un piccolo salto e nient'altro... eh sì! troppo tardi adesso! Oramai la
barca è andata."
Solamente
Cèvere mi degnò di uno sguardo, o almeno così mi parve. I defunti invece
continuarono a remare, massa confusa nella crescente penombra. Vidi la piroga
scivolare via, farsi sempre più piccola, scomparire infine dietro le quinte di
foresta, verso lo sconosciuto paradiso delle anime nere. Ma, tornando il fiume
deserto e dileguando lontano la voce inquietante di Cèvere, io mi sentii
vilmente felice: ancora qui, in territorio geograficamente noto, con il mio
corpo affezionato, con la mia vecchia ombra, tra poco avrei giocato alle carte
e scherzato con altri esseri umani.
Raggiunsi
infatti la capanna della Viceresidenza e mi sedetti con gli altri per la
partita. Dissi di non avere visto niente, sentivo caldo alla testa per la
vergogna. Vennero distribuite le carte. Il primo - era il viceresidente - passò
e così il secondo. Io avevo l'asso, il rè e il fante quinto di cuori, l'asso e
il rè di quadri, l'asso di picche, cinque punti abbondanti. Cèvere ormai doveva
essere lontano, la sua fantomatica ciurma remigante nel buio; sempre diritto in
piedi, col suo tenebroso sprezzo per le cose umane. Cinque punti abbondanti
avevo, una fortuna ironica e grottesca. Il medico, alla mia destra, scosse il capo,
posando sul tavolino il mazzetto delle sue carte. Tutti e tre mi guardarono,
aspettando. Poi anch'io dissi:
“Passo”.
11. IL
MANTELLO
Dopo
interminabile attesa quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni
ritornò alla sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava
sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie.
Egli
comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: “Ah benedetto!”
correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più
giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e
mesi, cosi spesso balenato nei dolci sogni dell'alba, che doveva riportare la
felicità.
Egli
non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva
subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il
berretto di pelo. “Lasciati vedere,” diceva tra le lacrime la madre, tirandosi
un po' indietro, “lascia vedere quanto sei bello. Però sei pallido, sei.”
Era
alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo
alla stanza, si sedette. Che stanco, che stanco, perfino a sorridere sembrava
facesse fatica.
“Ma
togliti il mantello, creatura,” disse la mamma, e lo guardava come un prodigio,
sul punto d'esserne intimidita; com'era diventato alto bello, fiero (anche se
era un po' troppo pallido). “Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che
caldo?”
Lui
ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello,
per timore forse che glielo strappassero via.
“No,
no lasciami,” rispose evasivo, “preferisco di no, tanto, tra poco devo
uscire...”
“Devi
uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire?” fece lei desolata, vedendo
subito ricominciare, dopo tanta gioia, l'eterna pena delle madri. “Devi uscire
subito? E non mangi qualcosa?”
“Ho
già mangiato, mamma,” rispose il figlio con un sorriso buono, e si guardava
attorno assaporando le amate penombre. “Ci siamo fermati a un'osteria, qualche
chilometro da qui...”
“Ah,
non sei venuto solo? E chi c'era con tè? Un tuo compagno di reggimento? Il
figliolo della Mena forse?”
“No,
no, era uno incontrato per via. E fuori che aspetta adesso.”
“E
lì che aspetta? E perché non l'hai fatto entrare? L'hai lasciato in mezzo alla
strada?”
Andò
alla finestra e attraverso l'orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla
via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava
sensazione di nero. Allora nell'animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo
ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta.
“E
meglio di no,” rispose lui, reciso. “Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo
così.”
“Ma
un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?”
“Meglio
di no, mamma. E un tipo curioso, è capace di andar sulle furie.”
“Ma
chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da tè?”
“Bene
non lo conosco,” disse lui lentamente e assai grave. “L'ho incontrato durante
il viaggio. E venuto con me, ecco.”
Sembrava
preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non
contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto
amabile la luce di prima.
“Senti,”
disse, “ti figuri la Manetta quando saprà che sei tornato? Tè l'immagini che
salti di gioia? È per lei che volevi uscire?”
Beli
sorrise soltanto, sempre con quell'espressione di chi vorrebbe essere lieto
eppure non può, per qualche segreto peso.
La
mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste come il
giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti,
un'infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme,
una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli
anni futuri. Non più le notti d'angoscia quando all'orizzonte spuntavano
bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso
immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato,
finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Manetta. Tra poco
cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina,
tra suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non
rideva più, perché non raccontava le battaglie? E il mantello? Perché se lo
teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché, sotto,
l'uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di
fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine.
Il
dolce viso piegato un po' da parte, lo fissava con ansia, attenta a non
contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O
semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava, perché non la
guardava nemmeno?
In
realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i
suoi sguardi come se ne temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo
contemplavano muti, con un curioso imbarazzo.
“Giovanni”
mormorò lei non trattenendosi più. “Sei qui finalmente, sei qui finalmente!
Aspetta adesso che ti faccio il caffè.”
Si
affrettò alla cucina. E Giovanni rimase coi due fratelli tanto più giovani di
lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la
strada, che cambiamento nello spazio di due anni. Ora si guardavano a vicenda
in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto sorridevano insieme, tutti
e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed
ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui
vuotò d'un fiato la tazza, masticò la torta con fatica. "Perché? Non ti
piace più? Una volta era la tua passione!" avrebbe voluto domandargli la
mamma, ma tacque per non importunarlo.
“Giovanni”
gli propose invece “e non vuoi rivedere la tua camera? t- è il letto
nuovo, sai? ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere... ma
il mantello, non tè lo levi dunque?... non senti che caldo?”
Il
soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia muovendo alla stanza vicina. I
suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come s'egli non avesse
vent'anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entrò soltanto
una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
“Che
bello!” fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia, alla vista dei
mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e
pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la coperta del letto, anch'essa
nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue gracili spalle, sguardo di
inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti
stavano dietro di lui, i faccini raggianti aspettandosi una grande scena di
letizia e sorpresa.
Invece
niente. “Com'è bello! Grazie, sai? mamma” ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli
occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di concludere un colloquio
penoso. Mai soprattutto, ogni tanto, guardava con evidente preoccupazione,
attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una
figura andava su e giù lentamente.
“Sei
contento, Giovanni? sei contento?” chiese lei impaziente di vederlo felice.
“Oh, sì, è proprio bello” rispose il figlio (ma perché si ostinava a non
levarsi il mantello?) e continuava a sorridere con grandissimo sforzo.
“Giovanni”
supplicò lei “Che cos'hai? che cos'hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una
cosa, perché non vuoi dire?”
Egli
si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. “Mamma”
rispose dopo un po' con voce opaca “mamma, adesso io devo andare.”
“Devi
andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Manetta, vero? dimmi la verità, vai
dalla Manetta?” e cercava di scherzare, pur sentendo la pena.
“Non
so, mamma” rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava
intanto alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo “non so, ma adesso
devo andare, c'è quello là che mi aspetta”.
“Ma
torni più tardi? torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio
e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po' prima di
pranzo...”
“Mamma”
ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di più, di tacere, per
carità, di non aumentare la pena. “Devo andare, adesso, c'è quello là che mi
aspetta, è stato fin troppo paziente.” Poi la fissò con sguardo da cavar
l'anima.
Si
avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero addosso e
Pietro sollevò un lembo del mantello per sapere come il fratello fosse vestito
di sotto. “Pietro, Pietro! su, che cosa fai? lascia stare, Pietro!” gridò la
mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
“No,
no!” esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo
tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante.
“Oh,
Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?” balbettò la madre, prendendosi
il volto tra le mani. “Giovanni ma questo è sangue!”
“Devo
andare, mamma” ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. “L'ho
già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma.”
Era
già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l'orto nasi di corsa,
aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio,
non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso nord in
direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.
E
allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai i secoli
sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del
mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso
individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel
sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da
accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre),
affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del
cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente
affamato.
12.
L'UCCISIONE DEL DRAGO
Nel
maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Giosuè Longo, che andava spesso
a caccia per le montagne, raccontò di aver visto in valle Secca una grossa
bestiaccia che sembrava un drago. A Palissano, l'ultimo paese della valle, era
da secoli leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri.
Ma nessuno l'aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l'assennatezza del
Longo, la precisione del suo racconto, i particolari dell'avventura più volte
ripetuti senza la minima variazione, persuasero che ci dovesse essere qualche
cosa di vero e il conte Martino Gerol decise di andare a vedere. Certo egli non
pensava a un drago; poteva darsi tuttavia che qualche grosso serpente di specie
rara vivesse fra quelle gole disabitate.
Gli
furono compagni nella spedizione il governatore della provincia Quinto
Andronico con la bella e intrepida moglie Maria, il naturalista professore
Inghirami e il suo collega Fusti, versato specialmente nell'arte
dell'imbalsamazione. Il fiacco e scettico governatore da tempo si era accorto
che la moglie aveva per il Gerol grande simpatia, ma non se ne dava pensiero.
Acconsentì anzi volentieri quando Maria gli propose di andare col conte alla
caccia del drago. Egli non aveva per il Martino la minima gelosia; ne lo invidiava,
pure essendo il Gerol molto più giovane, bello, forte, audace e ricco di lui.
Due
carrozze partirono poco dopo la mezzanotte dalla città con la scorta di otto
cacciatori a cavallo e giunsero verso le sei del mattino al paese di Palissano.
Il Gerol, la bella Maria e i due naturalisti dormivano; solo l'Andronico era
sveglio e fece fermare la carrozza dinanzi alla casa di "n'amica
conoscenza: il medico Taddei. Poco dopo, avvertito da un cocchiere, il dottore,
tutto assonnato, il berretto da notte in testa, comparve a una finestra del
primo piano. Andronico, fattosi sotto, lo salutò giovialmente, spiegandogli lo
scopo della spedizione; e si aspettò che l'altro ridesse, sentendo parlare di
draghi. Al contrario il Taddei scosse il capo a indicare disapprovazione.
“Io
non ci andrei se fossi in voi” disse recisamente.
“Perché?
Credete che non ci sia niente? Che siano tutte fandonie?”
“Non
lo so questo” rispose il dottore. “Personalmente anzi credo che il drago ci
sia, benché non l'abbia mai visto. Ma non mi ci metterei in questo pasticcio. E
una cosa di malaugurio.”
“Di
malaugurio? Vorreste sostenere, Taddei, che voi ci credete realmente?”
“Sono
vecchio, caro governatore,” fece l'altro “e ne ho viste. Può darsi che sia
tutta una storia, ma potrebbe anche essere vero; se fossi in voi, non mi ci
metterei. Poi, state a sentire: la strada è difficile a trovare sono tutte
montagne marce piene di frane, basta un soffio di vento per far nascere un
finimondo e non c'è un filo d'acqua. Lasciate stare, governatore, andate piuttosto
lassù, alla Crocetta (e indicava una tonda montagna erbosa sopra il paese), là
ci sono lepri fin che volete.” Tacque un istante e aggiunse: “Io non ci andrei
davvero. Una volta poi ho sentito dire, ma è inutile, voi vi metterete a
ridere...”.
“Perché
dovrei ridere” esclamò l'Andronico. “Ditemi, dite, dite pure.”
“Bene,
certi dicono che il drago manda fuori del fumo, che questo fumo è velenoso,
basta poco per far morire.”
Contrariamente
alla promessa, l'Andronico diede in una bella risata:
“Vi
ho sempre saputo reazionario” egli concluse “strambo e reazionario. Ma questa
volta passate i limiti. Medioevale siete, il mio caro Taddei. Arrivederci a
stasera, e con la testa del drago!”
Fece
un cenno di saluto, risalì nella carrozza, diede ordine di ripartire. Giosuè
Longo, che faceva parte dei cacciatori e conosceva la strada, si mise in testa
al convoglio.
“Che
cosa aveva quel vecchio da scuotere la testa?” domandò la bella Maria che nel
frattempo si era svegliata.
“Niente,”
rispose l'Andronico, “era il buon Taddei, che fa a tempo perso anche il
veterinario. Si parlava dell'afta epizootica.”
“E
del drago?” disse il conte Gerol che sedeva di fronte. “Gli hai chiesto se sa
niente del drago?”
“No,
a dir la verità” fece il governatore. “Non volevo farmi ridere dietro. Gli ho
detto che si è venuti quassù per un po' di caccia, non gli ho detto altro, io.”
Alzandosi
il sole, la sonnolenza dei viaggiatori scomparve, i cavalli accelerarono il
passo e i cocchieri si misero a canticchiare.
“Era
medico della nostra famiglia il Taddei. Una volta” raccontava il governatore
“aveva una magnifica clientela. Un bei giorno non so più per che delusione
d'amore si è ritirato in campagna. Poi deve essergli capitata un'altra
disgrazia ed è venuto a rintanarsi quassù. Ancora un'altra disgrazia e chissà
dove andrà a finire; diventerà anche lui una specie di drago!”
“Che
stupidaggini!” disse Maria un po' seccata. “Sempre la storia del drago comincia
a diventare noiosa questa solfa, non avete parlato d'altro da' che siamo
partiti.”
“Ma
sei stata tu a voler venire!” ribatté con ironica dolcezza il rito “E poi come
potevi sentire i nostri discorsi se hai continuato a dormire? Facevi finta
forse?”
Maria
non rispose e guardava inquieta, fuori dal finestrino. Osservava le montagne
che si facevano sempre più alte, dirupate e aride. In fondo alla valle si
intravedeva una successione caotica di cime, per lo più di forma conica, nude
di boschi o prato, dal colore giallastro, di una desolazione senza pari.
Battute dal sole, esse risplendevano di una luce ferma e fortissima.
Erano
circa le nove quando le vetture si fermarono perché la strada finiva. I
cacciatori, scesi dalla carrozza, si accorsero di trovarsi ormai nel cuore di
quelle montagne sinistre. Viste da presso, apparivano fatte di rocce fradice e
crollanti, quasi di terra, tutta una frana dalla cima in fondo.
“Ecco,
qui comincia il sentiero” disse il Longo, indicando una traccia di passi umani
che saliva all'imboccatura di una valletta. Procedendo di là, in tre quarti
d'ora si arrivava al Burel, dove il drago era stato visto.
“È
stata presa l'acqua?” domandò Andronico ai cacciatori.
“Ce
ne sono quattro fiaschi; e poi due altri di vino, eccellenza” rispose uno dei
cacciatori. “Ce n'è abbastanza, credo...”
Strano.
Adesso che erano lontani dalla città, chiusi dentro alle montagne, l'idea del
drago cominciava a sembrare meno assurda. I viaggiatori si guardavano attorno,
senza scoprire cose tranquillizzanti. Creste giallastre dove non era mai stata
anima viva, valletto che si inoltravano ai lati nascondendo alla vista i loro
meandri: un grandissimo abbandono.
S'incamminarono
senza dire parola. Precedevano i cacciatori coi fucili, le colubrine e gli
altri arnesi da caccia, poi veniva Maria, ultimi i due naturalisti. Per fortuna
il sentiero era ancora in ombra; fra le terre gialle il sole sarebbe stato una
pena.
Anche
la valletta che menava al Burel era stretta e tortuosa, non c'era torrente sul
fondo, non c'erano piante ne erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non
canto di uccelli o di acque, ma isolati sussurri di ghiaia.
Mentre
il gruppo così procedeva, sopraggiunse dal basso, camminando più presto di
loro, un giovanotto con una capra morta sulle spalle, “Va dal drago, quello”
fece il Longo; e lo disse con la massima naturalezza senza alcuna intenzione di
celia. La gente di Palissano, spiegò, era superstiziosissima, e ogni giorno
mandava una capra al Burel, per rabbonire gli umori del mostro. L'offerta era
portata a turno dai giovani del paese. Guai se il mostro faceva sentire la sua
voce. Succedeva disgrazia.
“E
ogni giorno il drago si mangia la capra?” domandò scherzoso il Gome Gerol.
“Il
mattino dopo non trovano più niente, questo è positivo.”
“Nemmeno
le ossa?”
“Eh
no, nemmeno le ossa. La va a mangiare dentro la caverna.”
“E
non potrebbe darsi che fosse qualcuno del paese a mangiarsela?” fece il
governatore. “La strada la sanno tutti. L'hanno veramente mai visto il drago
acchiapparsi la capra?”
“Non
so questo, eccellenza” rispose il cacciatore.
Il
giovane con la capra li aveva intanto raggiunti.
“Di',
giovanotto!” disse il conte Gerol con il suo tono autoritario “quanto vuoi per
quella capra?”
Non
posso venderla, signore” rispose quella.
“Nemmeno
per dieci scudi?”
“Ah,
per dieci scudi...” accondiscese il giovanotto “vuoi dire che ne andrò a
prendere un'altra.” E depose la bestia per terra.
Andronico
chiese al conte Gerol:
“E
a che cosa ti serve quella capra? Non vorrai mica mangiarla, spero.”
“Vedrai,
vedrai a che cosa mi serve” fece l'altro elusivamente.
La
capra venne presa sulle spalle da un cacciatore, il giovinetto di Palissano
ridiscese di corsa verso il paese (evidentemente andava a procurarsi un'altra
bestia per il drago) e la comitiva si rimise in cammino.
Dopo
meno di un'ora finalmente arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un
ampio circolo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da
muraglie di terra e rocce crollanti, di colore giallo-rossiccio. Proprio nel
mezzo, al culmine di un cono di sfasciumi, un nero pertugio: la grotta del
drago.
“E
là,” disse il Longo. Si fermarono a poca distanza, sopra una terrazza ghiaiosa
che offriva un ottimo punto di osservazione, una decina di metri sopra il
livello della caverna e quasi di fronte a questa. La terrazza aveva anche il
vantaggio di non essere accessibile dal basso perché difesa da una paretina a
strapiombo. Maria ci poteva stare con la massima sicurezza.
Tacquero,
tendendo le orecchie. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne,
toccato da qualche sussurro di ghiaia. Ora a destra ora a sinistra una cornice
di terra si rompeva improvvisamente e sottili rivoli di sassolini cominciavano
a colare, estinguendosi con fatica. Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne
rovina; montagne abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a
poco.
“E
se oggi il drago non esce?” domandò Quinto Andronico.
“Ho
la capra” replicò il Gerol. “Ti dimentichi che ho la capra!”
Si
comprese quello che voleva dire. La bestia sarebbe servita da esca per far
uscire il mostro dalla caverna.
Si
cominciarono i preparativi: due cacciatori si inerpicarono con fatica una
ventina di metri sopra l'ingresso della caverna per scaraventare giù sassi se
mai ce ne fosse bisogno. Un altro andò a depositare la capra sul ghiaione, non
lontano dalla grotta. Altri si appostarono ai lati, ben difesi dietro grossi
macigni, con le colubrine e i fucili. L'Andronico non si mosse con l'intenzione
di stare a vedere.
La
bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei svanita. Con quanta gioia
sarebbe tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi
percorrevano le pareti attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di
terra rossa che sembrava dovessero ad ogni momento cadere. Il marito, il conte
Gerol, i due naturalisti, i cacciatori gli parevano pochi, pochissimi, contro
tanta solitudine.
Deposta
che fu la capra morta dinanzi alla grotta, cominciarono ad aspettare. Le 10
erano passate da un pezzo e il sole aveva invaso completamente il Burel,
portandolo a un intenso calore. Ondate ardenti si riverberavano dall'una
all'altra parte. Per riparare dai raggi il governatore e sua moglie, i
cacciatori alzarono alla bell'e meglio una specie di baldacchino, con le
coperte della carrozza; e Maria mai si stancava di bere.
“Attenti!”
gridò a un tratto il conte Gerol, in piedi sopra un macigno, giù sul ghiaione,
con in mano una carabina, appeso al fianco un mazzapicchio metallico.
Tutti
ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna
uscire cosa viva. Il drago! il drago! gridarono due o tre cacciatori, non si
capiva se con letizia o sgomento.
L'essere
emerse alla luce con dondolio tremulo come di biscia. Eccolo, il mostro delle
leggende la cui sola voce faceva tremare un intero paese!
“Oh,
che brutto!” esclamò Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di
peggio.
“Forza,
forza!” gridò un cacciatore scherzando. E tutti ripresero sicurezza in se
stessi.
“Sembra
un piccolo ceratosaurus” disse il prof. Inghirami a cui era tornata
sufficiente tranquillità d'animo per i problemi della scienza.
Non
appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco più di due metri, con una
testa simile ai coccodrilli sebbene più corta, un esagerato collo da lucertola,
il torace quasi gonfio, la coda breve, una specie di cresta molliccia lungo la
schiena. Più che la modestia delle dimensioni erano però i suoi movimenti
stentati, il colore terroso di pergamena (con qualche striatura verdastra)
l'apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L'insieme
esprimeva una vecchiezza immensa. Se era un drago, era un drago decrepito,
quasi al termine della vita.
“Prendi”
gridò sbeffeggiando uno dei cacciatori saliti sopra l'imbocco della caverna, e
lanciò una pietra in direzione della bestiaccia.
Il
sasso scese a piombo e raggiunse esattamente il cranio del drago. Si udì
nettissimo un "toc" sordo come di zucca. Maria ebbe un sussulto di
repulsione.
La
botta fu energica ma insufficiente. Rimasto qualche istante immobile, come
intontito, il rettile cominciò ad agitare il collo e la testa Feralmente, in
atto di dolore. Le mascelle si aprivano e chiudevano alternativamente,
lasciando intravedere un pettine di acuti denti, ma non ne usciva alcuna voce.
Poi il drago mosse giù per la ghiaia in direzione della capra.
“Ti
hanno fatto la testa storna eh?” ridacchiò il conte Gerol che aveva
improvvisamente smesso la sua alterigia. Sembrava invaso da una gioiosa
eccitazione, pregustando il massacro.
Un
colpo di colubrina, sparato da una trentina di metri, sbagliò il bersaglio. La
detonazione lacerò l'aria stagnante, destò tristi boati fra le muraglie da cui
presero a scivolare giù innumerevoli piccole frane.
Quasi
immediatamente sparò la seconda colubrina. Il proiettile raggiunse il mostro a
una zampa posteriore, da cui sgorgò subito un rivolo di sangue.
“Guarda
come balla!” esclamò la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo.
Allo spasimo della ferita la bestiaccia si era messa infatti a girare su se
stessa, sussultando, con miserevole affanno. La zampa fracassata le ciondolava
dietro, lasciando sulla ghiaia una striscia di liquido nero.
Finalmente
il rettile riuscì a raggiungere la capra e ad afferrarla coi denti. Stava per
ritirarsi quando il conte Gerol, per ostentare il proprio coraggio, gli si fece
vicino, quasi a due metri, scaricandogli la carabina nella testa.
Una
specie di fischio uscì dalle fauci del mostro. E parve che cercasse di
dominarsi, reprimesse il furore, non emettesse tutta la voce che aveva in
corpo, che un motivo ignoto agli uomini lo inducesse ad avere pazienza. Il
proiettile della carabina gli era entrato nell'occhio. Gerol, fatto il colpo,
si ritrasse di corsa e si aspettava che il drago cadesse stecchito. Ma la
bestia non cadde stecchita, la sua vita pareva inestinguibile come fuoco di pece.
Con la pallottola di piombo nell'occhio, il mostro trangugiò tranquillamente la
capra e si vide il collo dilatarsi come gomma man mano che vi passava il
gigantesco boccone. Poi si ritrasse indietro alla base delle rocce, prese a
inerpicarsi per la parete, di fianco alla caverna. Saliva affannosamente,
spesso franandogli la terra sotto le zampe, ansioso di scampo. Sopra
s'incurvava un cielo limpido e scialbo, il sole asciugava rapidamente le tracce
di sangue.
“Sembra
uno scarafaggio in un catino” disse a bassa voce il governatore Andronico,
parlando a se stesso.
“Come
dici?” gli chiese la moglie.
“Niente,
niente” fece lui.
“Chissà
perché non entra nella caverna!” osservò il prof. Inghirami, apprezzando
lucidamente ogni aspetto scientifico della scena.
“Ha
paura di restare imprigionato” suggerì il Fusti. “Deve essere, piuttosto
completamente intontito. E poi come vuoi che faccia un simile ragionamento? Un ceratosaurus...”
“Non è un ceratosaurus,” fece il Fusti. “Ne ho ricostruiti parecchi per
i musei, ma sono diversi. Dove sono gli aculei della coda?”
“Li
tiene nascosti” replicò l'Inghirami. “Guarda che addome gonfio. ta coda si
accartoccia di sotto e non si può vedere.
Stavano
così parlando quando uno dei cacciatori, quello che aveva arato il secondo
colpo di colubrina, si avviò di corsa verso la terrazza dove stava l'Andronico,
con l'evidente intenzione di andarsene.
“Dove
vai? Dove vai?” gli gridò il Gerol. “Sta' al tuo posto fin che non abbiamo
finito.”
“Me
ne vado” rispose con voce ferma il cacciatore. “Questa stona non mi piace. Non
è caccia per me, questa.”
“Che
cosa vuoi dire? Hai paura. E questo che vuoi dire?”
“No
signore, io non ho paura.”
“Hai
paura sì, ti dico, se no rimarresti al tuo posto.”
“Non
ho paura, vi ripeto. Vergognatevi piuttosto voi, signor conte.”
“Ah,
vergognatevi?” imprecò Martino Gerol. “Porco furfante che non sei altro! Sei
uno di Palissano, scommetto, un vigliaccone sei. Vattene prima che ti dia una
lezione.”
“E
tu, Beppi, dove vai tu adesso?” gridò ancora il conte poiché anche un altro
cacciatore si ritirava.
“Me
ne vado anch'io, signor conte. Non voglio averci mano in questa brutta
faccenda.”
“Ah,
vigliacchi!” urlava il Gerol. “Vigliacchi, ve la farei pagare, se potessi
muovermi!”
“Non
è paura signor conte” ribatté il secondo cacciatore. “Non è paura, signor
conte. Ma vedrete che finirà male!”
“Vi
faccio vedere io adesso!” E, raccattata una pietra, il conte la lanciò a tutta
forza contro il cacciatore. Ma il tiro andò a vuoto.
Vi
fu qualche minuto di pausa mentre il drago arrancava sulla parete senza
riuscire a innalzarsi. La terra e i sassi cadevano, lo trascinavano sempre più
in giù, là donde era partito. Salvo quel rumore di pietre smosse, c'era
silenzio.
Poi
si udì la voce di Andronico. “Ne abbiamo ancora per un pezzo?” gridò al Gerol.
“C'è un caldo d'inferno. Falla fuori una buona volta, quella bestiaccia. Che
gusto tormentarla così, anche se è un drago?”
“Che
colpa ce n'ho io?” rispose il Gerol irritato. “Non vedi che non vuoi morire?
Con una palla nel cranio è più vivo di prima...”
S'interruppe
scorgendo il giovanotto di prima con un'altra capra in spalla. Stupito dalla
presenza di quegli uomini, di quelle armi, di quelle tracce di sangue e
soprattutto dall'affannarsi del drago su per le rocce, lui che non l'aveva mai
visto uscire dalla caverna si era fermato, fissando la strana scena.
“Ohi!
Giovanotto!” gridò il Gerol. “Quanto vuoi per quella capra?”
“Niente,
non posso” rispose il giovane. “Non ve la dò neanche a peso d'oro. Ma che cosa
gli avete fatto?” aggiunse, sbarrando gli occhi verso il mostro sanguinolento.
“Siamo
qui per regolare i conti. Dovreste essere contenti. Basta capre da domani.”
“Perché
basta capre?”
“Domani
il drago non ci sarà più” fece il conte sorridendo.
“Ma
non potete farlo, non potete farlo, io dico” esclamò il giovane spaventato.
“Anche
tu adesso cominci!” gridò Martino Gerol. “Dammi subito qua la capra.”
“No,
vi dico” replicò duro l'altro ritirandosi.
“Ah,
perdio!” e il conte fu addosso al giovane, gli vibrò un pugno in pieno viso,
gli strappò la capra di dosso, lo scaraventò a terra.
“Ve
ne pentirete, vi dico, ve ne pentirete, vedrete se non ve ne pentirete!”
imprecò a bassa voce il giovane rialzandosi, perché non osava reagire.
Ma
Gerol gli aveva già voltato le spalle.
Il
sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti
tanto abbacinava il riflesso delle ghiaie gialle, delle rocce delle ghiaie
ancora e dei sassi; niente, assolutamente, che potesse riposare gli sguardi.
Maria
aveva sempre più sete, e bere non serviva a niente. “Dio, che caldo!” si
lamentava. Anche la vista del conte Gerol cominciava a darle fastidio.
Nel
frattempo, come sbucati dalla terra, decine di uomini erano apparsi. Venuti
probabilmente da Palissano alla voce che gli stranieri erano saliti al Burel,
essi se ne stavano immobili sul ciglio di vari crostoni di terra gialla e
osservavano senza far motto.
“Hai
un bei pubblico adesso!” tentò di celiare l'Andronico, rivolto al Gerol che stava
trafficando intorno alla capra con due cacciatori.
Il
giovane alzò gli sguardi fin che scorse gli sconosciuti che lo stavano
fissando. Fece una smorfia di disprezzo e riprese il lavoro.
Il
drago, estenuato, era scivolato per la parete fino al ghiaione e giaceva
immobile, palpitando solo il ventre rigonfio.
“Pronti!”
fece un cacciatore sollevando col Gerol la capra da terra. Avevano aperto il
ventre alla bestia e introdotto una carica esplosiva collegata a una miccia.
Si
vide allora il conte avanzare impavido per il ghiaione, farsi vicino al drago
non più di una decina di metri, con tutta calma deporre per terra la capra,
quindi ritirarsi svolgendo la miccia.
Si
dovette aspettare mezz'ora prima che le bestia si movesse. Gli sconosciuti in
piedi sul ciglio dei crestoni sembravano statue: non parlavano neppure fra
loro, il loro volto esprimeva riprovazione. Insensibili al sole che aveva
assunto una estrema potenza, non distoglievano gli sguardi dal rettile, quasi
implorando che non si muovesse.
Invece
il drago, colpito alla schiena da un colpo di carabina, si voltò
improvvisamente. Stava per allungare la testa e afferrare la preda quando il
conte accese la miccia. La fiammella corse via rapidamente lungo il cordone,
ben presto raggiunse la capra, provocò l'esplosione.
Lo
scoppio non fu rumoroso, molto meno forte dei colpi di colubrina, suono secco
ma opaco, come di asse che si spezzi. Ma il corpo del drago fu ributtato
indietro di schianto, si vide quindi che il ventre era stato squarciato. La
testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e a sinistra, pareva che dicesse
di no, che non era giusto, che erano stati troppo crudeli, e che non c'era più
nulla da fare.
Rise
di compiacenza il conte, ma questa volta lui solo. “Oh che orrore! Basta!”
esclamò la bella Maria coprendosi la faccia con le mani.
“Sì”
disse lentamente il marito, “anch'io credo che finirà male.”
Il
mostro giaceva, in apparenza sfinito, sopra una pozza di sangue nero. Ed ecco
dai suoi fianchi uscire due fili di fumo scuro, uno a destra e uno a sinistra,
due fumacchi grevi che stentavano ad alzarsi.
“Hai
visto?” fece l'Inghirami al collega.
“Sì,
ho visto,” confermò l'altro.
“Due
sfiatatoi a mantice, come nel ceratosaurus, i cosidetti operculi
hammeriani.”
“No”
disse il Fusti. “Non è un ceratosaurus.”
A
questo punto il conte Gerol, di dietro al pietrone dove si era riparato, si
avanzò per finire il mostro. Era proprio in mezzo al cono di ghiaia e stava impugnando
la mazza metallica quando tutti i presenti mandarono un urlo.
Per
un istante Gerol credette fosse un grido di trionfo per l'uccisione del drago.
Poi avvertì che una cosa stava muovendosi alle sue spalle. Si voltò di balzo e
vide, oh ridicola cosa, vide due bestiole pietose uscire incespicando dalla
caverna, e avanzarsi abbastanza celermente verso di lui. Due piccoli rettili
informi, lunghi non più di mezzo metro, che ripetevano in miniatura l'immagine
del drago morente. Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla
caverna per fame.
Fu
questione di pochi istanti. Il conte dava bellissima prova di agilità. “Tieni!
Tieni!” gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi
bastarono. Vibrato con estrema energia e decisione, il mazzapicchio percosse
successivamente i mostriciattoli, spezzò le teste come bocce di vetro. Entrambi
si afflosciarono, morti, da lontano sembravano due cornamuse.
Allora
gli uomini sconosciuti, senza dare la minima voce, si allontanarono correndo
giù per i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero una improvvisa
minaccia. Essi non provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo
neppure per un istante alla caverna del drago, scomparvero così come erano
apparsi, misteriosamente.
Il
drago adesso si moveva, sembrava che mai e poi mai sarebbe riuscito a morire.
Trascinandosi come lumaca, si avvicinava alle bestiole morte, sempre emettendo
due fili di fumo. Raggiunti che ebbe i figli, si accasciò sul ghiaione, allungò
con infinito stento la testa, prese a leccare dolcemente i due mostriciattoli
morti, forse allo scopo di richiamarli in vita.
Infine
il drago parve raccogliere tutte le superstiti forze, levò il collo
verticalmente al ciclo, come non aveva ancora fatto e dalla gola uscì prima lentissimo,
quindi con progressiva potenza un urlo indicibile, voce mai udita nel mondo, ne
animalesca ne umana, così carica d'odio che persino il conte Gerol ristette,
paralizzato dall'orrore.
Ora
si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana dove pure avrebbe
trovato scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a
qualche sibilo. Il drago pensava ai due figli e per risparmiarli aveva
rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti nascosto nella caverna, gli
uomini lo avrebbero inseguito là dentro, scoprendo i suoi nati; e se avesse
levato la voce, le bestiole sarebbero corse fuori a vedere. Solo adesso, che li
aveva visti morire, il mostro mandava il suo urlo d'inferno.
Invocava
un aiuto il drago, e chiedeva vendetta per i suoi figli. Ma a chi? alle
montagne forse, aride e disabitate? al ciclo senza uccelli ne nuvole, agli
uomini che lo stavano suppliziando, al demonio forse? L'urlo trapanava le
muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l'intero mondo. Sembrava
impossibile (anche se non c'era alcun ragionevole motivo) sembrava impossibile
che nessuno gli rispondesse.
“Chi
chiamerà?” domandò l'Andronico tentando inutilmente di fare scherzosa la
propria voce. “Chi chiama? Non c'è nessuno che venga, mi pare?”
“Oh,
che muoia presto!” disse la donna.
Ma
il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla
smania di finirla, gli sparasse contro con la carabina. Tan! Tan! Era
inutile. Il drago accarezzava con la lingua le bestiole morte; pur con moto
sempre più lento, un sugo biancastro gli sgorgava dall'occhio illeso.
“Il
sauro!” esclamò il prof. Fusti. “Guarda che piange!”
Il
governatore disse: “E tardi. Basta, Martino, è tardi, è ora di andare”.
Sette
volte si levò al cielo la voce del mostro, e ne rintronarono le rupi e il
ciclo. Alla settima volta parve non finire mai, poi improvvisamente si estinse,
piombò a picco, sprofondò nel silenzio.
Nella
mortale quiete che seguì si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di
polvere il volto trasfigurato dalla fatica, dall'emozione e dal sudore, il
conte Martino, gettata tra i sassi la carabina, attraversava il cono di
sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto.
“Che
cosa c'è adesso?” domandò l'Andronico con volto serio per presentimento di male.
“Che cosa ti sei fatto?”
“Niente”
fece il Gerol sforzando a giocondità il tono della voce. “Mi è andato dentro un
po' di quel fumo.”
“Di
che fumo?”
Gerol
non rispose ma fece segno con la mano al drago. Il mostro giaceva immobile,
anche la testa si era abbandonata fra i sassi; si sarebbe detto ben morto,
senza quei due sottili pennacchi di fumo.
“Mi
pare che sia finita” disse l'Andronico.
Così
infatti sembrava. L'ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago.
Nessuno
aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le
montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come
riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta, e il sole
andava calando. Nessuno, ne bestia ne spirito, era accorso a vendicare la
strage. Era stato l'uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l'uomo
astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l'ordine, l'uomo
incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun
modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. Era stato
l'uomo ad uccidere e sarebbe stato stolto recriminare.
Ciò
che l'uomo aveva fatto era giusto, esattamente conforme alle leggi. Eppure
sembrava impossibile che nessuno avesse risposto alla voce estrema del drago.
Andronico, così come sua moglie e i cacciatori, non desiderava altro che
fuggire; persino i naturalisti rinunciarono alle pratiche dell'imbalsamazione,
pur di andarsene presto lontani.
Gli
uomini del paese erano spariti, come presentissero maledizione. Le ombre
salivano su per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame
incartapecorito, si levavano ininterrotti i due fili di fumo e nell'aria
stagnante si attorcigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una triste cosa
da dimenticare e nient'altro. Ma il conte Gerol continuava a tossire, a
tossire. Sfinito, sedeva sopra un pietrone, accanto agli amici che non osavano
parlargli. Anche la intrepida Maria guardava da un'altra parte. Si udivano solo
quei brevi colpi di tosse. Inutilmente Martino Gerol cercava di dominarli; una
specie di fuoco colava nell'interno del suo petto sempre più in fondo.
“Me
la sentivo” sussurrò il governatore Andronico alla moglie che tremava un poco.
“Me la sentivo che doveva finire malamente.”
13. UNA COSA
CHE COMINCIA PER ELLE
Arrivato
al paese di Sisto e sceso alla solita locanda, dove soleva capitare due tre
volte all'anno, Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto,
perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi,
ch'egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse
che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per
esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il
mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio, tanto che volle alzarsi senza
aspettare il dottore. In maniche di camicia stava facendosi la barba quando fu
bussato all'uscio. Era il medico. Lo Schroder disse di entrare.
“Sto
benone stamattina” disse il mercante senza neppure voltarsi, continuando a
radersi dinanzi allo specchio. “Grazie di essere venuto ma adesso potete
andare.”
“Che
furia, che furia!” disse il medico, e poi fece un colpettino di tosse a
esprimere un certo imbarazzo. “Sono qui con un amico, questa mattina.”
Lo
Schroder si voltò e vide sulla soglia, di fianco al dottore, un signore sulla
quarantina, solido, rossiccio in volto e piuttosto volgare, che sorrideva
insinuante. Il mercante, uomo sempre soddisfatto di sé e solito da far da
padrone, guardò seccato il medico con aria interrogativa.
“Un
mio amico” ripeté il Lugosi. “Don Valerio Melilo. Più tardi dobbiamo andare
insieme da un malato e così gli ho detto di accompagnarmi.”
“Servitor
suo” fece lo Schroder freddamente. “Sedete, sedete.”
“Tanto,”
proseguì il medico per giustificarsi maggiormente, “oggi, a quanto pare, non
c'è più bisogno di visita. Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo
salasso.”
“Un
salasso? E perché un salasso?”
“Vi
farà bene” spiegò il medico. “Vi sentirete un altro, dopo. Fa sempre bene ai
temperamenti sanguigni. E poi è questione di due minuti.”
Così
disse s trasse fuori dalla mantella un vasetto di vetro contenente tre
sanguisughe. L'appoggiò a un tavolo e aggiunse: “Mettetevene una per polso.
Basta tenerle ferme un momento e si attaccano subito. E vi prego di fare da
voi. Cosa volete che vi dica? Da vent'anni che faccio il medico, non sono mai
stato capace di prendere in mano una sanguisuga”.
“Date
qua” disse lo Schroder con quella sua irritante aria di superiorità. Prese il
vasetto, si sedette sul letto e si applicò ai polsi le due sanguisughe come se
non avesse fatto altro in vita sua.
Intanto
il visitatore estraneo, senza togliersi l'ampio mantello, aveva deposto sul
tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo
Schroder notò, con un senso di vago malessere, che l'uomo si era seduto quasi
sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
“Don
Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già” disse allo Schroder il
medico, sedendosi pure lui, chissà perché, vicino alla porta.
“Non
mi ricordo di aver avuto l'onore” rispose lo Schroder che, seduto sul letto,
teneva le braccia abbandonate sul materasso, le palme rivolte in su, mentre le
sanguisughe gli succhiavano i polsi. Aggiunse:
“Ma
dite, Lugosi, piove stamattina? Non ho ancora guardato fuori. Una bella
seccatura se piove, dovrò andare in giro tutto il giorno”.
“No,
non piove” disse il medico senza dar peso alla cosa. “Ma Don Valerio vi conosce
davvero, era ansioso di rivedervi.”
“Vi
dirò:” fece il Melito con voce spiacevolmente cavernosa. “Vi dirò: non ho mai
avuto l'onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo
non immaginate.”
“Non
saprei proprio” rispose il mercante con assoluta indifferenza.
“Tre
mesi fa?” chiese il Melilo. “Cercate di ricordare: tre mesi fa non siete
passato con la vostra carrozzella per la strada del Confine Vecchio?”
“Mah,
può darsi” fece lo Schroder. “Può darsi benissimo, ma esattamente non ricordo.”
“Bene.
E non vi ricordate allora di essere slittato a una curva, di
essere
andato fuori strada?”
“Già,
è vero” ammise il mercante, fissando gelidamente la nuova e non desiderata
conoscenza.
“E
una ruota è andata fuori di strada e il cavallo non riusciva a rimetterla in
carreggiata?”
“Proprio
così. Ma, voi, dove eravate?”
“Ah,
ve lo dirò dopo” rispose il Melito scoppiando in una risata e ammiccando al
dottore. “E allora siete sceso, ma neanche voi riuscivate a tirar su la
carrozzella. Non è stato così, dite un po'?”
“Proprio
così. E pioveva che Dio la mandava.”
“Caspita
se pioveva!” continuò don Valerio, soddisfattissimo. “E mentre stavate a
faticare, non è venuto avanti un curioso tipo, un uomo lungo, tutto nero in
faccia?”
“Mah,
adesso non ricordo bene” interruppe lo Schroder. “Scusate, dottore, ma ce ne
vuole ancora molto di queste sanguisughe? Sono già gonfie come rospi. Ne ho
abbastanza io. E poi vi ho detto che ho molte cose da fare.”
“Ancora
qualche minuto!” esortò il medico. “Un po' di pazienza, caro Schroder! Dopo vi
sentirete un altro, vedrete. Non sono neanche le dieci, diamine, c'è tutto il
tempo che volete!”
“Non
era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro?”
insisteva don Valerio. “E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate
che continuava a suonare?”
“Bene:
sì, mi ricordo” rispose scortesemente lo Schroder. “E, scusate, dove volete
andare a finire?”
“Ma
niente!” fece il Melito. “Solo per dirvi che vi conoscevo già. E che ho buona
memoria. Purtroppo quel giorno ero lontano, al di là di un fosso, ero almeno
cinquecento metri distante. Ero sotto un albero a ripararmi dalla pioggia e ho
potuto vedere.”
“E
chi era quell'uomo, allora?” chiese lo Schroder con asprezza, come per far
capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse
subito.
“Ah,
non lo so chi fosse, esattamente, l'ho visto da lontano! Voi, piuttosto, chi
credete che fosse?”
“Un
povero disgraziato, doveva essere” disse il mercante. “Un sordomuto pareva.
Quando l'ho pregato di venire ad aiutarmi, si è messo come a mugolare, non ho
capito una parola.”
“E
allora voi gli siete andato incontro, e lui si è tirato indietro, e allora voi
lo avete preso per un braccio, l'avete costretto a spingere la carrozza insieme
a voi. Non è così? Dite la verità.”
“Che
cosa c'entra questo?” ribatté lo Schroder insospettito. “Non eli ho fatto
niente di male. Anzi, dopo gli ho dato due lire.”
“Avete
sentito?” sussurrò a bassa voce il Melito al medico; poi, più forte, rivolto al
mercante: “Niente di male, chi lo nega? Però ammetterete che ho visto tutto”.
“Non
c'è niente da agitarsi, caro Schroder;” fece il medico a questo punto vedendo
che il mercante faceva una faccia cattiva. “L'ottimo don Valerio, qui presente,
è un tipo scherzoso. Voleva semplicemente sbalordirvi.”
Il
Melito si volse al dottore, assentendo col capo. Nel movimento i lembi del
mantello si dischiusero un poco e lo Schroder, che lo fissava divenne pallido
in volto.
“Scusate,
don Valerio” disse con una voce ben meno disinvolta del solito. “Voi portate
una pistola. Potevate lasciarla da basso, mi pare. Anche in questi paesi c'è
l'usanza, se non mi inganno.”
“Perdio!
Scusatemi proprio!” esclamò il Melito battendosi una mano sulla fronte a
esprimere rincrescimento. “Non so proprio come scusarmi! Me ne ero proprio
dimenticato. Non la porto mai, di solito, è per questo che mi sono dimenticato.
E oggi devo andare fuori in campagna a cavallo.”
Pareva
sincero, ma in realtà si tenne la pistola alla cintola; continuò a scuotere il
capo. “E dite” aggiunse sempre rivolto allo Schroder. “Che impressione vi ha
fatto quel povero diavolo?”
“Che
impressione mi doveva fare? Un povero diavolo, un disgraziato.”
“E
quella campanella, quell'affare che continuava a suonare, non vi siete chiesto
che cosa fosse?”
“Mah”
rispose lo Schroder, controllando le parole, per il presentimento di qualche
insidia. “Uno zingaro, poteva essere; per far venire gente li ho visti tante
volte suonare una campana.”
“Uno
zingaro!” gridò il Melito, mettendosi a ridere, come se l'idea lo divertisse un
mondo. “Ah, l'avete creduto uno zingaro?”
Lo
Schroder si voltò verso il medico con irritazione.
“Che
cosa c'è?” chiese duramente. “Che cosa vuoi dire questo interrogatorio? Caro il
mio Lugosi, questa storia non mi piace un bei niente! Spiegatevi, se volete
qualcosa da me.”
“Non
agitatevi, vi prego...” rispose il medico interdetto.
“Se
volete dire che a questo vagabondo è capitato un accidente e la colpa è mia,
parlate chiaro” proseguì il mercante alzando sempre più la voce “parlate
chiaro, cari i miei signori. Vorreste dire che l'hanno ammazzato?”
“Macché
ammazzato!” disse il Melito, sorridendo, completamente padrone della situazione
“ma che cosa vi siete messo in mente? Se vi ho disturbato mi spiace proprio. Il
dottore mi ha detto: don Valerio, venite su anche voi, c'è il cavaliere
Schroder. Ah lo conosco, gli ho detto io. Bene, mi ha detto lui, venite su
anche voi, sarà lieto di vedervi. Mi dispiace proprio se sono riuscito
importuno...”
Il
mercante si accorse di essersi lasciato portare.
“Scusate
me, piuttosto, se ho perso la pazienza. Ma pareva quasi un interrogatorio in
piena regola. Se c'è qualcosa, ditela senza tanti riguardi."
“Ebbene”
intervenne il medico con molta cautela. “Ebbene: c'è effettivamente qualche
cosa.”
“Una
denuncia?” chiese lo Schroder sempre sicuro di sé, mentre creava di
riattaccarsi ai polsi le sanguisughe staccatesi durante la sfuriata di prima.
“C'è qualche sospetto contro di me?”
“Don
Valerio” disse il medico. “Forse è meglio che parliate voi.” “Bene” cominciò il
Melito. “Sapete chi era quell'individuo che vi ha aiutato a tirar su la
carrozza?”
“Ma
no, vi giuro, quante volte ve lo devo ripetere?” “Vi credo” disse il Melito.
“Vi domando solo se immaginate chi fosse.”
“Non
so, uno zingaro, ho pensato, un vagabondo...” “No. Non era uno zingaro. O, se
lo era stato una volta, non lo era più. Quell'uomo, per dirvelo chiaro, è una
cosa che comincia per elle.”
“Una
cosa che comincia per elle?” ripeté meccanicamente lo Schroder, cercando nella
memoria, e un'ombra di apprensione gli si era distesa sul volto.
“Già.
Comincia per elle” confermò il Melito con un malizioso sorriso.
“Un
ladro? volete dire?” fece il mercante illuminandosi in volto per la sicurezza
di aver indovinato.
Don
Valerio scoppiò in una risata: “Ah, un ladro! Buona davvero questa! Avevate
ragione dottore: una persona piena di spirito, il cavaliere Schroder!”. In quel
momento si sentì fuori della finestra il rumore della pioggia.
“Vi
saluto” disse il mercante recisamente, togliendosi le due sanguisughe e
rimettendole nel vasetto. “Adesso piove. Io me ne devo andare, se no faccio
tardi.”
“Una
cosa che comincia per elle” insistette il Melito alzandosi anche lui in piedi a
manovrando qualcosa sotto l'ampia mantella.
“Non
so, vi dico. Gli indovinelli non sono per me. Decidetevi, se avete qualche cosa
da dirmi... Una cosa che comincia per elle?... Un lanzichenecco forse?...”
aggiunse in tono di beffa.
Il
Melito e il dottore, in piedi, si erano accostati l'un l'altro, appoggiando le
schiene all'uscio. Nessuno dei due ora sorrideva più.
“Ne
un ladro ne un lanzichenecco,” disse lentamente il Melito. “Un lebbroso, era.”
Il
mercante guardò i due uomini, pallido come un morto.
“Ebbene?
E se anche fosse stato un lebbroso?”
“Lo
era purtroppo, di certo,” disse il medico, cercando pavidamente di ripararsi
dietro le spalle di don Valerio. “E adesso lo siete anche voi.”
“Basta!”
urlò il mercante tremando per l'ira. “Fuori di qua! Questi scherzi non mi
vanno. Fuori di qua tutti e due!”
Allora
il Melito insinuò fuori del mantello una canna della pistola.
“Sono
l'alcalde, caro signore. Calmatevi, vi torna conto.”
“Vi
farò vedere io chi sono!” urlava Io Schroder. “Che cosa vorreste farmi,
adesso?”
Il
Melito scrutava lo Schroder, pronto a prevenire un eventuale attacco. “In quel
pacchetto c'è la vostra campanella” rispose. “Uscirete immediatamente di qui e
continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi
ancora, fino a che non sarete uscito dal regno.”
“Ve
la farò vedere io la campanella!” ribatté lo Schroder, e tentava ancora di
gridare ma la voce gli si era spenta in gola, l'orrore della rivelazione gli
aveva agghiacciato il cuore. Finalmente capiva: il dottore visitandolo il
giorno prima, aveva avuto un sospetto ed era andato ad avvertire l'alcalde.
L'alcalde per caso lo aveva visto afferrare per un braccio, tre mesi prima, un
lebbroso di passaggio, ed ora lui, Schroder, era condannato. La storia delle
sanguisughe era servita per guadagnar tempo. Disse ancora: “Me ne vado senza
bisogno dei vostri ordini, canaglie, vi farò vedere, vi farò vedere...”.
“Mettetevi
la giacca” ordinò il Melito, il suo volto essendosi illuminato di una diabolica
compiacenza. “La giacca, e poi fuori immediatamente.”
“Aspetterete
che prenda le mie robe,” disse lo Schroder, oh quanto meno fiero di un tempo.
“Appena ho impacchettato le mie robe me ne vado, statene pur sicuri.”
“Le
vostre robe devono essere bruciate” avvertì sogghignando l'alcalde. “La campanella
prenderete, e basta.”
“Le
mie robe almeno!” esclamò lo Schroder, fino allora così soddisfatto e
intrepido; e supplicava il magistrato come un bambino. “I miei vestiti, i miei
soldi, me li lascerete almeno!”
“La
giacca, la mantella, e basta. L'altro deve essere bruciato. Per la carrozza e
il cavallo si è già provveduto.”
“Come?
Che cosa volete dire?” balbettò il mercante.
“Carrozza
e cavallo sono stati bruciati, come ordina la legge” rispose l'alcalde, godendo
della sua disperazione. “Non vi immaginerete che un lebbroso se ne vada in giro
in carrozzella, no?”
E
diede in una triviale risata. Poi, brutalmente: “Fuori! fuori di qua!” urlava
allo Schroder. “Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori
immediatamente, cane!”
Lo
Schroder tremava tutto, grande e grosso com'era, quando uscì dalla camera,
sotto la canna puntata della pistola, la mascella cadente, lo sguardo
inebetito.
“La
campana!” gli gridò ancora il Melito facendolo sobbalzare; e gli sbatté
dinanzi, per terra, il pacchetto misterioso, che diede una risonanza metallica.
“Tirala fuori, e legatela al collo.”
Si
chinò lo Schroder, con la fatica di un vecchio cadente, raccolse il pacchetto,
spiegò lentamente gli spaghi, trasse fuori dell'involto una P3spancila
di rame, con manico di legno tornito, nuova fiammante. “Al
Collo!”
gli urlò il Melito. "Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo!”
Le
mani dello Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire
l'ordine dell'alcalde. Pure il mercante riuscì a passarsi attorno al Ho la cinghia
attaccata alla campanella, che gli pendette così sul ventre, risuonando ad ogni
movimento.
“Prendila
in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio come tè. Va' che bei
lebbroso!” infierì don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo,
sbalordito dalla scena ripugnante.
Lo
Schroder con passi da infermo cominciò a scendere le scale. Dondolava la testa
da una parte e dall'altra come certi cretini che si incontrano lungo le grandi
strade. Dopo due gradini si voltò cercando il medico e lo fissò lungamente
negli occhi.
“La
colpa non è mia!” balbettò il dottor Lugosi. “E stata una disgrazia, una grande
disgrazia!”
“Avanti,
avanti!” incitava intanto l'alcalde come a una bestia. “Scuoti la campanella,
ti dico, la gente deve sapere che arrivi!”
Lo
Schroder riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della
locanda e si avviò lentamente attraverso la piazza. Decine e decine di persone
facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si
avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli
ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den,
faceva.
14. IL DOLORE
NOTTURNO
Verso
la periferia, in un quartiere giardino c'era una villetta dei giovani fratelli
Giovanni e Carlo Morrò, il primo di vent'anni, l'altro di quindici. La villetta
era circondata da un piccolo giardino, e, benché nel viale davanti passassero
molte automobili, dava una impressione di solitudine.
Quella
sera, una tetra sera del tardo inverno, Carlo si mise in letto senza mangiare
perché non si sentiva bene. Nella camera era accesa solo una piccola lampada,
posta in un angolo, dove Giovanni si sedette a leggere, per tenere compagnia al
fratello. Il suono intermittente delle auto che passavano nel viale non bastava
a diminuire il silenzio. La piccola casa era entrata ormai nella notte.
A
un tratto, uscito dal torpore, Carlo domandò al fratello: “Di', Giovanni, è
stata chiusa la porta?”.
“L'ha
chiusa la Maria poco fa,” disse il fratello, “ho sentito che l'ha sprangata
anche dall'interno.”
“Giovanni,”
insistette Carlo dopo un lungo silenzio, “fammi il piacere: va' a vedere se è
chiusa la porta, sento una corrente d'aria.”
Diceva
così per trovare una scusa. In realtà, l'aria nella camera era completamente
stagnante. Eppure il ragazzo aveva una strana impressione, come se la porta
fosse rimasta aperta. “È chiusa ti dico,” ripete Giovanni, “ma se non è che per
questo, vado a vedere.”
Il
giovane si alzò, uscì dalla camera e si udirono poi i suoi passi nella stanza
accanto, incerti finché non scattò l'interruttore della luce. Poco dopo,
dall'anticamera, giunse il caratteristico rumore della porta che veniva
sprangata. Carlo, inquieto, si alzò a sedere sul letto.
“Hai
visto che era aperta? Hai visto?” gridò il ragazzo prima ancora che il fratello
rientrasse nella stanza.
“Non
so capire,” disse Giovanni che non sembrava affatto impressionato, “Maria dice
di averla chiusa alle sette e mezzo, eppure l'ho trovata aperta.”
“E
tu credi che non l'abbia chiusa?”
“Ma
certo che non l'ha chiusa. Vuoi che siano entrati dei ladri? L'ha dimenticata
aperta quando è venuto il lattaio, e adesso cerca una scusa. Ma figurati...”
Il
ragazzo si distese nuovamente tra le coperte e Giovanni riprese a leggere il
libro. Tutto nella casa pareva quieto e rassicurante.
“Di',
Giovanni,” fece ancora il ragazzo, che andava rivoltandosi sul letto. “Ma non
ci poteva essere qualcuno?”
“Qualcuno
dove?” rispose Giovanni distratto.
“Ma
alla porta! Non può essere stato qualcuno ad aprirla?”
“Basta,
Carlo” fece il fratello spazientito. “Calmati adesso, e cerca di dormire. Che
cosa sono queste stupide storie? Che fissazione ti è venuta adesso per la
porta?”
Il
ragazzo invece non seppe dominarsi.
“C'è
qualcuno, ti garantisco, c'è qualcuno che vuole entrare!” esclamò
supplichevole. “Fammi la carità, va' a vedere!”
“Ma
chi vuoi che sia? da dove vuoi che venga dentro? Se scassinassero la porta si
sentirebbe il rumore! Devi avere la febbre, ecco cos'è, ci sono qui io, in
fondo... Hai sentito dei passi?”
“No,”
fece il ragazzo, “non sono dei passi, ma sento che c'è qualcuno.”
“Ma
dove, ma dove, perdio?” Giovanni aveva veramente perso la pazienza.
Il
ragazzo non rispose, ma apriva i grandi occhi nella penombra.
“Dove
vuoi che sia? Avanti, dillo tu, che vado ancora a vedere!” insistette Giovanni
che cominciava a sentire il bisogno di tranquillizzare anche ^se stesso.
“E
dietro la porta, che aspetta,” fece con voce piana il ragazzo. “Dietro la
porta, lo so bene.”
Giovanni
balzò in piedi, gettando il libro su un tavolo. “Avanti,” disse in tono di
scherno, “andiamo a vedere. La finirai poi con queste paure da ragazzetta!”
“No
no,” supplicò allora Carlo. “Fammi la carità, non aprire la porta, non
aprirgli; se lui entra è finita.”
Giovanni
non gli diede retta. A passi irritati uscì dalla stanza, attraversò, senza
accendere la luce, il salotto e non accese neppure in anticamera prima di
spalancare la porta.
Con
il pomolo del catenaccio in mano, rimase per qualche istante incerto. “Chi
c'è?”, domandò, per istintiva precauzione, e si stupì udendo '"ciré dalla
sua bocca una voce stranamente fioca. Nessuno rispose.
“Chi
c'è?” ripeté dopo qualche secondo. Ma ancora silenzio.
Allora
fece scorrere il catenaccio e tirò indietro uno dei due sportelli.
“Misericordia
di Dio!” mormorò Giovanni, attraversato da un lento brivido. Sul pianerottolo,
impassibile, stava un uomo sconosciuto.
Si
capiva dall'insieme che era persona di buone condizioni sociali, benché
Giovanni non riuscisse a concentrare l'attenzione su alcun particolare del
vestito. Il colore del suo paltò, benché non fosse nero, dava una generica
impressione di lutto. Poteva avere una cinquantina d'anni, ma era difficile
dire, perché il volto senza rughe pareva staccato dal tempo.
Non
disse una parola, e con gelida flemma fece atto di entrare. Giovanni si tirò
indietro e accese la luce, rendendosi perfettamente conto che sarebbe stato
inutile resistere. Non che il visitatore fosse armato o particolarmente
robusto. Era così, e non c'era nulla da fare. In ogni modo, Giovanni lo
comprese dal primo istante, quell'individuo sarebbe riuscito a entrare.
Allora
l'uomo, senza levarsi il paltò, con il cappello in mano, si avviò a lenti passi
verso la stanza del ragazzo. Il fratello maggiore fece per correre avanti e
prevenire Carlo, ma l'altro gli fece un piccolo cenno, come per dire ch'era
inutile, che il ragazzo sapeva già.
“Oh
Dio!” mormorò con dolorosa rassegnazione Carlo, disteso nel letto, quando vide
entrare lo sconosciuto. Non disse altro e abbandonò la testa sul cuscino.
L'uomo
depose il cappello sul comò, e, in silenzio, straordinariamente composto, si
sedette su una sedia di fianco al letto, donde cominciò a fissare il ragazzo
malato.
Dal
suo volto, a prima vista, traspariva una specie di sorriso, ma dopo un po' vi
si leggeva una gelida ironia. Negli occhi stagnava una forza maligna.
Oh,
era inutile ribellarsi! Il ragazzo lo guardava con aria dolorosa, incapace di
reagire, mentre il fratello, in piedi, appoggiato al comò, osservava la scena,
muto e triste.
Quasi
per moto istintivo, a un certo punto Giovanni accese la lampada centrale, e
alla viva luce si accorse che l'uomo stava aprendo, tenendola appoggiata alle
ginocchia, una specie di cartella che nessuno dei due fratelli aveva fino
allora notata.
Con
una delle sue lunghe mani, lo sconosciuto trasse fuori dalla cartella un
disegno colorato, deponendolo adagio sulle coperte del letto, in modo che il
ragazzo lo potesse osservare. Il ragazzo vi gettò un'occhiata e cercò di
voltare gli occhi da un'altra parte, con un lieve lamento. Ma era più forte di
lui: dopo qualche secondo, attratto irresistibilmente, ricominciò a fissare il
foglio.
Era
un disegno incomprensibile, eppure di perfido fascino. Linee curve, macchie di
colore, schegge di assurde immagini in cui prevalevano figurazioni di occhi, si
intrecciavano in ridda, e, a osservarli lungamente si vedevano ruotare gli uni
entro gli altri, di un moto che pareva eterno.
Sempre
in piedi presso il comò, Giovanni non poteva scorgerlo. Invece Carlo continuava
a fissarlo.
Passarono
forse quindici minuti, e poi lo sconosciuto trasse dalla cartella un secondo
disegno, quasi identico al primo, ma pure completamente diverso, per il più
intenso male che ne sprigionava.
“Basta,
basta!” supplicò allora il ragazzo, esasperato da quel tormento. “Giovanni,
mandalo via!”
Lo
sconosciuto, accentuando alquanto il suo sorriso mellifluo, si volse verso
Giovanni e scosse il capo a esprimere compatimento, come se soltanto il
fratello maggiore lo potesse comprendere. Non scuoteva il capo come fanno di
solito gli uomini, bensì con un meccanico dondolìo. Giovanni non mosse ciglio,
paralizzato dalla pena di non poter aiutare il fratello.
Circa
due ore passarono così nel silenzio, solcato dai gemiti del ragazzo. Poi Carlo
cominciò ad assopirsi, con alterne riprese di agitazione. Lo sconosciuto, - nel
frattempo Giovanni aveva spento la luce centrale, — riprese i suoi disegni
(Giovanni con stupore non riuscì a distinguere che due fogli di carta
immacolata) e tutto il suo atteggiamento assunse grado a grado la espressione
dell'uomo che sta per partire.
Alle
tre di notte, il ragazzo cadde in un sonno torbido. L'uomo si alzò con
immutabile flemma e scivolò fuori dalla stanza, scomparendo nel buio.
Anche
il giorno dopo Carlo non poté alzarsi dal letto. Salutandosi al mattino,
nessuno dei due fratelli osò accennare per primo alla triste visita della sera
prima, e si arrivò così al crepuscolo senza parlarne. Solo quando fu giunta la
notte, Giovanni disse:
“L'ho
chiusa io stasera, sai, la porta. Sta' pur sicuro che nessuno può entrare. E tu
potrai fare un bei sonno.”
“Oh,
è inutile!” fece con rassegnazione il ragazzo. “E inutile chiudere la porta. Se
vuoi venire entra lo stesso.”
“Ma
non dir sciocchezze!” replicò il fratello cercando di ridere. Eppure sapeva
anche lui che era proprio così.
La
notte, comunque, si consumava nella villetta senza che avvenisse nulla di nuovo.
Il ragazzo, invece di dormire, si faceva via via più animato, al fresco soffio
della speranza. Forse nessuno sarebbe venuto quella notte e neppure la notte
dopo, e forse per sempre. Il ragazzo ci pensava e immaginava i giorni avvenire,
la scuola, il sole, la primavera, tutto un mondo felice. A poco a poco si
addormentò dolcemente.
Ma
Giovanni restò sveglio a leggere, non sentendosi affatto tranquillo. Attraverso
le fessure delle persiane scorgeva ogni tanto le ombre delle piante, in
giardino, agitarsi, sebbene non soffiasse il vento. Dalle altre stanze, con la
voce degli orologi, giungevano insoliti scricchiolii. E per due volte si udì
come un secco scatto metallico, di origine inesplicabile.
Giovanni
leggeva una storia d'amore, ma non riusciva a staccare la sua mente da quella
stanza. Sul viale passavano a grande velocità automobili sempre più rare, il
rombo della città si affievoliva nel sonno, passi solitari risuonavano ogni
tanto sulla via, e il cuore di Giovanni cominciava a battere forte.
Anche
lui già si lasciava invadere dalla sonnolenza quando sentì, oh Dio, sentì, con
una precisione che non ammetteva speranza, come la porta della stanza
lievemente si aprisse.
Si
voltò, rassegnato, e lo vide. Con la metodicità della sera prima, l'uomo depose
il cappello sul comò e si sedette al fianco del letto. "Per fortuna",
pensò il fratello, "Carlo dormiva e non se ne sarebbe accorto."
Ma
l'uomo si chinò premurosamente verso il ragazzo e gli toccò, gli sfiorò, anzi,
la testa, con una mano. Carlo ebbe un sussulto, spalancò gli occhi, mandò un
lungo lamento.
Allora
lo sconosciuto parlò, scandendo le sillabe.
“Tutti
dormono,” disse soavemente, “tutti dormono adesso. Nelle case vicine tutti sono
addormentati, e nell'intera città... anche tuo fratello,” aggiunse dopo una
pausa, e non era vero, ma Carlo nella penombra non poteva scorgere il fratello,
in piedi, con le spalle appoggiate a un muro. “Tutti dormono...,” ripeteva
ossessionante, “tutti hanno la possibilità di riposare, tutti dormono, tutti
dormono...”
Qui
tacque e ritornò il grande silenzio. Carlo fu ripreso dal sonno.
“Fuori
che tè...” proseguì a voce alta il maledetto, toccando di nuovo il ragazzo e
facendolo risvegliare.
“Tutti
dormono, dormono, dormono...” andò avanti poi a mormorare lo sconosciuto come
una litania. E appena Carlo accennava a chiudere gli occhi, lo toccava perché
non dormisse. Lo toccava con un gesto straordinariamente gentile, calcolato con
precisione matematica. E “Fuori che tè,” ripeteva.
"Tutti
dormono eccetto me," pensava il ragazzo, "e questo sarà anche domani
sera, anche dopodomani, sempre?" Un sommesso singhiozzo risuonava nella
stanza. Giovanni, immobile, taceva, non potendo far nulla.
“A
che ora verrà stasera?” domandava Carlo dal letto, oramai senza più angoscia,
ma solo con amara rassegnazione. Erano passati ormai quindici S'orni dalla
prima visita dello sconosciuto, e ogni notte regolarmente egli era matto. Una
sera Giovanni lo aveva trovato seduto in attesa, nel buio, sul divano in
anticamera, una altra volta lo aveva sentito passeggiar a lungo su e giù per il
viale prima di entrare, ma in genere egli scivolava dentro alla camera senza
fare annunciare da alcun segno la sua venuta.
Ancora
una volta i due fratelli lo aspettavano. Erano già suonate le nove. La lampada
era accesa nell'angolo, la storia d'amore era già finita p Giovanni stava
leggendo un nuovo libro che parlava di guerre.
“A
che ora verrà stasera?” domandava dal letto Carlo, consunto formai dalla pena.
“Vedrai
che stasera non viene,” faceva Giovanni per consolarlo “Già ieri notte si è
fermato poco. Vedrai che tutto è passato. Domani starai meglio.”
Quante
volte aveva ripetuto queste buone parole. Quante volte invano! Mentre tutte le
altre case della città a una certa ora parevano addormentarsi, e le finestre si
spegnevano ad una ad una, e i sogni si spargevano nei mille appartamenti a
consolare gli uomini affaticati, nella villetta si insinuava il crudele
incanto.
“Dici
sempre così,” replicava Carlo, “dici sempre così e poi lui viene lo stesso. Oh,
mamma!” e si lasciava prendere dai singhiozzi.
“Sta'
quieto,” provava allora il fratello maggiore con altre parole, “sta' quieto e
non pensarci. Anche lui finirà per stancarsi. Non bisogna pensarci, ecco, come
se non fosse mai venuto...”
“Giovanni!”
gridava improvvisamente il ragazzo, preso da agitazione. “Giovanni, guarda
quell'ombra! C'è qualcuno in giardino! E lui che viene, ti dico!”
“Ma
calmati, per carità,” pregava il fratello. “Non capisci che è il vento? Non
senti il rumore? C'è la tramontana, che porta bei tempo.”
“Oh,
non è vero,” diceva il ragazzo ripiombato nel solito abbattimento. “Il vento fa
un altro rumore, lo so bene, il vento non fa muovere così le piante... E poi non
senti,” riprendeva con nuova agitazione, “non senti quei passi sulla ghiaia?”
“E
una fissazione la tua!” diceva Giovanni. “Io non sento passi, ti giuro. Sarà
stato qualche topo, ecco. Lo sai quanti ce ne sono in giardino...”
“Ce
n'erano, adesso non ce ne sono più. Il gatto li ha...” Era proprio il passo di
un uomo.
Tacque
per qualche istante, poi si alzò di scatto a sedere sul letto, piegò la testa
da un lato, tendendo le orecchie. “Eccolo, eccolo!” esclamò.
Dall'anticamera
infatti un passo umano si avvicinava, risuonando sul pavimento di legno.
Rispetto alle sere precedenti era però insolitamente veloce. L'ultima speranza
fuggì e la porta si aprì lentamente.
“Ma
è la Maria!” gridò Giovanni, con un impeto di sollievo, scorgendo la testa
della cameriera che si affacciava a sbirciare. “Dio sia benedetto!”
Parve
ai due fratelli di aver così guadagnato una specie di tregua. L'incubo subiva
un rinvio. Ma per quanto ancora?
Il
ticchettìo degli orologi scandiva il procedere della notte, così faticoso nelle
case della città. Un cuscino gettato per terra, un giornale piegato sul tavolo,
la lampada centrale spenta, i libri allineati nello scaffale, tutto già
navigava nel sonno. Giovanni leggeva alzando ogni tanto gli occhi a salutare il
fratellino, che lo guardava pensosamente. Ogni tanto lo afferrava la tentazione
di voltare gli sguardi alla porta, che gli pareva lì lì per aprirsi, pure si
dominava, per paura di allarmare il ragazzo.
Passarono
le undici, le undici e mezza, e ancora non veniva nessuno. n Qualche chiesa
lontana giungevano malinconiche le ore. A poco a o nella fonda notte, si
ridestò la debole speranza. “E quasi mezzanotte," diceva Carlo, che
sentiva il bisogno di illudersi. “Non è mai venuto rosi tardi. Se almeno
stanotte si fermasse poco...”
“Vedrai
che non viene. Ormai l'ora brutta è passata,” ripeteva Giovanni per
tranquillizzarlo. Diceva così, ma era lui il primo a non crederci, Giovanni non
si faceva davvero illusioni e già sentiva, pur non spiegandosi come, che lo
sconosciuto era vicino.
Suonò
mezzanotte e Giovanni guardò il fratello. Con la testa rovesciata sul
guanciale, il ragazzo si era finalmente assopito e un sorriso innocente vagava
sul volto. Proprio adesso era disceso nei gorghi del sonno proprio adesso che
lo sconosciuto stava per entrare.
Sì.
Oramai Giovanni era sicuro che l'uomo si trovasse nell'interno della casa. Al
di là delle pareti della camera ne percepiva la presenza. Oh, quanto era
assurdo sperare! Alzandosi dalla poltrona, con infinite precauzioni per non far
rumore, Giovanni attraversò la stanza, socchiuse lentamente la porta del
salotto e si affacciò trepidante.
Era
proprio come aveva sentito. La luce era stata accesa, e seduto su una sedia
stava lo sconosciuto, immobile, in atteggiamento di attesa. Giovanni lo fissò
negli occhi, ma gli sguardi dell'altro lo sfuggivano, tesi orizzontalmente e
fermi.
Restò
qualche istante sulla soglia, immaginando che lo sconosciuto si alzasse per
andare a tormentare il ragazzo. Invece l'odiosa creatura non si mosse di un
millimetro. Allora il giovane si ritrasse adagio dalla camera.
La
porta venne rinchiusa, la serratura fece un piccolo clic, e Carlo per il rumore
riemerse dal sonno.
“Dove
sei stato?” chiese subito con affanno. “Sei andato a vedere di là se è venuto?
Dimmi, l'hai visto?”
“No,”
rispose Giovanni, “sono andato a prendere un bicchiere d'acqua. Non ci pensavo
nemmeno, a lui. Oramai, oramai non viene.”
Un'improvvisa
luce di contentezza si diffuse sulla faccia di Carlo. Quanto crudele ingannarlo
così, pensò il fratello maggiore e si sedette di nuovo a leggere, senza più una
parola.
Tic
tac facevano i vecchi orologi della casa, passavano in fila indiana i minuti,
Carlo stava riaddormentandosi, un autocarro mugolava lontano. Ma si decideva o
no a entrare quel maledetto? Si apriva o non si apriva quella porta? Era ormai
giunto, lui, perché dunque aspettare ancora lì fuori? Perché illudere fino
all'ultimo il ragazzo?
Bisognava
tornare a vedere, era assolutamente necessario. Giovanni si alzo nuovamente
dalla poltrona, attraversò in punta di piedi la camera, aprì la porta del
salotto, affacciò la testa a guardare.
Lo
sconosciuto era ancora al suo posto, nella stessa identica posizione, sulla
medesima sedia, immobile come prima, ma dormiva.
Dormiva.
Le palpebre erano scese completamente a chiudere H gelido sguardo e il sorriso,
il suo perfido sorriso era morto nel sonno. La bocca era chiusa, atona, rigida
come un suggello.
Dormiva.
Non di un sonno placido e umano. Il petto non si agitava per il respiro o, se
palpitava, era un moto impercettibile. Si sarebbe detto ch'era morto se non
fosse stata quella trista creatura.
“Se
continuasse così per tutta la notte!” si augurò Giovanni ritraendo
lentissimamente la testa. Ma non osava ancora sperare. Riaccostò i battenti
della porta, a minuscoli passi riguadagnò il suo angolo sotto la lampada, prese
il libro in mano e stette così, fermo, con le orecchie tese al minimo rumore.
Ma
non giungevano che i tradizionali suoni notturni della casa. Gli orologi, un
gorgoglio di acqua nei tubi, un mobile che si assestava scricchiolando, le
persiane che ogni tanto gemevano al vento, quella notte così insistente. Carlo
continuava a dormire.
Ora
anche su lui, Giovanni, scendeva prepotente il sonno, facendogli pesante la
testa, tirandogli giù pazientemente le palpebre. Gli occhi volevano chiudersi.
Solo le orecchie restavano sveglie e ascoltavano avidamente il silenzio. Forse
l'uomo non si era ancora ridestato.
La
voce degli orologi, gli intermittenti scricchiolii, il penoso respiro di Carlo,
il greve silenzio che su tutto incombeva divennero a poco a poco un lieve unico
rombo, con un suo ritmo metodico, che annebbiava progressivamente la stanza. La
lampada parve spegnersi (le palpebre di Giovanni si erano, infatti chiuse) ed
egli si sentì dolcemente trascinar giù nella fossa del sonno.
Fu
ridestato da una incerta angoscia, che, ripresa conoscenza, egli non stentò a
identificare. Si voltò verso il letto di Carlo. Certo la sagoma luttuosa dello
sconosciuto doveva essere là, sulla sedia, negando il riposo al malato.
Invece
niente. Carlo dormiva, e nessun altro nella stanza. Allora Giovanni s'accorse
che qualcosa di nuovo accadeva. Subito non riuscì a capire, poi, guardando la
finestra, notò sulla persiana strisce bianche.
La
speranza! Con una febbrile agitazione Giovanni spalancò la finestra, afferrò la
serranda della persiana, aprì questa di schianto.
L'alba
era giunta. Ai limiti del limpidissimo cielo, tra gli alberi nudi lavati dal
vento, ampliavasi la luce del sole.
“Carlo,
Carlo!” gridò Giovanni voltandosi indietro.
Il
ragazzo si riscosse, si levò a sedere, si guardò attorno.
“Cosa
c'è? cosa è successo?” chiese spaventato.
“E
l'alba, ti dico!” gridava Giovanni pazzo di gioia. “E l'alba, e lui non è
venuto!”
Non
occorreva più andare a vedere. Era certo, ben certo, che dietro la porta, là
nel salotto, adesso non c'era più nessuno. Il nuovo giorno era nato e lo
sconosciuto era scomparso, risucchiato dai rigurgiti della notte. ricanto era
stato spezzato. Mai più sarebbe venuto.
La
città dormiva, ignara che stesse nascendo il primo sole della primavera. Il
viale deserto, le finestre tutte sprangate, le case ancora notturne.
Il
sorriso dubbioso fiorì sulle labbra del ragazzo che da solo scese dal letto, e,
a incerti passi, si avviò verso la finestra a guardare. I due fratelli stettero
vicini e muti, oppressi dalla gioia: pensavano alla vita che ricominciava, a
mille stupide felicità, bevvero, tremando insieme, il primo raggio di sole.
15. NOTIZIE
FALSE
Reduce
dalla battaglia, il reggimento giunse una sera ai sobborghi di Antioco. La
guerra in quei giorni si illanguidiva e il nemico invasore era ancora lontano.
Si poteva fare una sosta: la truppa, stanchissima, si accampò alle porte della
città, sui prati, e i feriti furono portati all'ospedale.
Poco
lontano dallo stradone, ai piedi di due grandi querce, sorse la grande tenda
bianca del comandante, il conte Sergio-Giovanni.
“Alzo
lo stendardo?” domandò il suo aiutante, incerto.
“E
perché non dovresti alzarlo?” rispose il comandante, leggendo nel suo pensiero.
“Forse che non abbiamo?...” Ma non volle terminare la frase.
Sulla
tenda venne così drizzato lo stendardo giallo dei Sergio-Giovanni, due spade
nere e una scure erano ricamate sul drappo. Dinanzi all'entrata della tenda fu
portato un piccolo tavolo con uno sgabello e il comandante vi si sedette,
aspettando la cena. La sera, appena cominciata, era calda, luci temporalesche
battevano le nude montagne intorno, per la strada bianca ecco avanzarsi un uomo
che si appoggiava a un bastone. Era un vecchio, con abiti di altri tempi, ma
assai dignitosi; alto e sbarbato, rustico, di grande fierezza.
La
polvere lo imbiancava fino ai ginocchi, doveva aver camminato a lungo. Come
vide l'accampamento, si guardò attentamente attorno e poi si avvicinò alla
tenda del comandante.
Arrivato
davanti al conte Sergio-Giovanni, si levò con gesto largo il cappello:
“Eccellenza”, disse, “se permettete, vi devo parlare”.
Il
comandante, ch'era un gentiluomo, si alzò in piedi rispondendo al saluto, ma si
capiva ch'era stanco e irritato. Poi si risedette, rassegnato.
“Vedete
quella montagna?” fece lo sconosciuto additando un grande cono franoso verso
oriente. “È da là che vengo. Sono due giorni che cammino, ma se Dio vuole, sono
arrivato in tempo. Ecco, Eccellenza” continuò dopo una pausa “dietro a quella
montagna c'è il paese di San Forgio. Io sono il podestà Gaspare Nelius.”
Il
colonnello mezzo disattento dondolò su e giù la testa come per dire che aveva
capito.
“Siamo
tagliati fuori dal mondo, lassù” disse ancora il vecchio evidentemente animato
da una lieta eccitazione. “Ma presto o tardi le grandi notizie arrivano lo
stesso. L'altro giorno capita un mercante. "Lo sapete" dice "che
è finita la guerra? Il reggimento dei Cacciatori fa già ritorno alla pianura,
l'ho visto io coi miei occhi." "Finita la guerra?" diciamo.
"Finita per sempre," dice lui. "E dove scende il
reggimento?" dico io. "Ha preso la strada di Antioco", risponde,
"fra tre giorni dovrebbe essere arrivato."”
“Ho
capito, ma...” tentò di interrompere il conte Sergio-Giovanni-l'altro però era
troppo infervorato:
“Immaginate
che notizia per noi. Sapete, Eccellenza, che la seconda compagnia, qui, del
reggimento è tutta di giovanotti di San Giorgio? Il brutto è finito, pensiamo,
i soldati faranno ritorno, con la paga e con le medaglie. Allora progettiamo
una gran festa. Io scendo ad Antioco a prenderli; la guerra è ormai finita, il
signor comandante,” e qui il vecchio sorrise affabilmente, “li lascerà venire.
Hanno ben fatto il loro dovere. Due sono morti, anzi, il Lucchini e il Bonnaz,
lui li lascerà ben venire...”
“Ma,
mio brav'uomo...” interruppe il colonnello alzandosi in piedi. Il vecchio lo
interruppe:
“Lo
so che cosa volete dire, Eccellenza: che non si possono mica congedare così sui
due piedi, i soldati. Lo immaginavo fin da prima, anzi. Ma non vuoi dire, non
vuoi dire. Il reggimento si fermerà bene qualche giorno ad Antioco. Dateci
quattro giorni di permesso, alla seconda compagnia, lasciate che vengano un
momento al loro paese, qualche ora soltanto, fra quattro giorni ve li riporto
tutti, parola d'onore.”
“Ma
non è questo che voglio dire...” tentò ancora di interloquire il
Sergio-Giovanni. “E un'altra cosa, la...”
“Non
ditemi di no, Eccellenza,” supplicò il vecchio, intuendo che l'altro stava per
dargli un rifiuto, “ho camminato per due giorni apposta. E poi, pensate, a San
Giorgio hanno già preparato tutto. Simone ha costruito una specie di arco di
trionfo alla porta del paese. Sarà alto più di questa tenda, tutto a colori, ci
metteranno bandiere e fiori. In cima ci sarà la scritta... aspettate, ce la
devo avere qui... l'abbiamo studiata insieme...” e dopo aver frugato in due o
tre tasche tirò fuori un pezzo di carta spiegazzata, “ecco qui... Agli eroi
vittoriosi che tornano, San Giorgio fiera e riconoscente... è semplice ma
mi pare detto bene.”
“Ma
lasciatemi dire prima una cosa...” fece con voce alterata il comandante. “Siete
un bel tipo voi, a...”
“Lasciatemi
prima finire,” pregò supplichevole il vecchio, “e poi vi persuaderete che non
potete dirmi di no. Pensate a questi poveri ragazzi, due anni che sono in
guerra, sono stati bravi e coraggiosi, pensate che gioia sarebbe. Abbiamo fatto
le cose sul serio. Da contro verrà la banda; si farà un grande banchetto, io
porterò i fuochi artificiali, il Gennari darà in casa sua una festa da ballo,
ci saranno dei discorsi...”
"Basta
basta!” gridò esasperato il comandante. “Ma non capite che sprecate il fiato
per niente? Ma chi vi ha detto che la guerra è finita?”
“Come?”
fece il vecchio interdetto.
“No
” disse seccamente il Sergio-Giovanni con voce dolorosa, “la guerra non è
ancora finita.”
I
due stettero in silenzio, guardandosi, per qualche secondo. Strani dubbi si
presentavano al pensiero del vecchio.
“Ma
sentite,” tentò ancora il podestà di San Giorgio, “qui ad Antioco il reggimento
si fermerà pure qualche tempo. Date ai nostri soldati una licenza anche due
giorni basteranno, marceremo a tutta andatura, faremo a tempo lo stesso, non è
poi mica una cosa straordinaria andare di qua a San Giorgio dalla mattina alla
sera.”
“È
impossibile. Sarebbe impossibile anche se la guerra fosse finita,” fece reciso
il comandante, sempre con quel suo tono fondo e doloroso. “La seconda compagnia
non è più con me.”
Invano
egli si illudeva che questa spiegazione bastasse. Il vecchio si era sbiancato
in volto:
“Non
c'è qui la seconda compagnia? E sarei venuto per niente? Non li potrò nemmeno
vedere? Sono passati a un altro reggimento? Ditemelo sinceramente, Eccellenza,
ditemi dove sono, che li andrò subito a raggiungere, ditemi: c'è anche mio
nipote...”
“Sono
morti,” disse alla fine il comandante guardando per terra.
Si
fece un grande silenzio. Pareva che anche nell'accampamento vicino tutto si
fosse fermato. Il vecchio sentiva il sangue battergli con forza alle tempie.
Sulle montagne stagnava sempre quella luce temporalesca. Lo stendardo giallo
pendeva floscio sopra le tende.
Il
conte Sergio-Giovanni piegò la testa, sembrava affranto, le sue mani poggiavano
inerti sul tavolo.
“Morti...”
mormorò il vecchio a se stesso con voce spenta. Nella sua mente turbinavano i
pensieri. Stette irrigidito per qualche minuto, poi un amaro sorriso gli piegò
lentamente le labbra, egli rialzò con fierezza la testa, a voce monotona
ricominciò a parlare:
“Ecco,
ecco, così doveva finire, siccome erano bravi soldati. L'avevo detto io, al
Safron... glielo avevo detto... E adesso come faccio a portar la notizia? come
faccio a tornare a San Giorgio?” la voce si era alzata, piena di un'irosa
disperazione. “Per la Patria, ci devo dire, ecco l'unica consolazione. Sono
morti in battaglia, sono stati degli eroi. Ecco quello che resta. Non è così,
Eccellenza?”
Il
comandante non rispose, il suo volto sembrava impietrito.
“L'arco
di trionfo, le bandiere,” disse ancora con triste scherno il vecchio, “ai
funerali potranno servire. I fiori andranno sulle tombe, le detteremo tutte
vicine, con delle croci tutte uguali, i più bei giovani del paese. Qui
giacciono gli eroi di San Giorgio, sarà scritto all'ingrosso. Agli eroi
vittoriosi che tornano,” ripeté Gaspare amaro; “San Giorgio fiera e
riconoscente. Almeno questo, Eccellenza, almeno questo ci verrà lasciato?”
“No,”
rispose con acredine esasperata il colonnello. “Basta! tacete! No, già che
volete saperlo: no, non lo potrete dire, non sono morti da eroi sono stati
uccisi in fuga, per colpa loro siamo stati sconfitti...”
Gridò
tutto questo sfogando un atrocissimo peso, poi per la vergogna abbassò la testa
sul tavolo, forse anche singhiozzava, il conte Sergio-Giovanni, ma lo fece in
silenzio, chiuso in se stesso.
Il
vecchio parve finalmente svuotato di vita.
“Scusatemi,
Eccellenza,” disse piano piano dopo una lunga pausa e piangeva, “vedete
anch'io...”
Ma
non riuscì a continuare. Si ritrasse umilmente indietro, lo si vide
allontanarsi a passi strascicati, le braccia gli pendevano morte, una mano
teneva ancora il cappello, l'altra tirava dietro il bastone. Se ne andò
lentamente dalla tenda, s'incamminò per lo stradone bianco, in direzione delle
montagne, mentre ormai si faceva buio.
Soltanto
dopo tre giorni il podestà giunse in vista del suo paese sperduto tra i monti.
Duecento metri circa prima delle case egli avvistò Jeronimo, l'oste che insieme
al cugino Peter stava lavorando attorno a delle asticciole piantate ai lati
della via; certo qualche preparativo per la grande festa. Lembi di stoffa
policroma, che da lontano non si potevano distinguere bene, erano attaccati
alle asticciole e brillavano al sole di quella giornata bellissima.
A
un certo punto, rialzando il capo, Jeronimo scorse il podestà che s'avvicinava
e si mise a gridare, per avvertire gli altri. Ma c'era poca gente nelle
vicinanze. Accorsero, con Jeronimo, soltanto suo cugino, due ragazzi di contadini
e una donna sui cinquant'anni.
“E
così?” domandò Jeronimo, che sembrava lietissimo, al vecchio Gaspare. “Sei
riuscito a trovarli? Quand'è che arrivano?”
“E
il mio Max l'hai visto?” fece insieme la donna. “Sta bene? Saranno qui oggi?”
Il
podestà sedette affranto sull'orlo della strada. Si tolse il cappello, restò
per qualche istante ansimando.
“Non
vengono,” disse poi, piano.
“Come
non vengono?” chiese Giuseppe. “E arrivano domani allora?”
“Neppure
domani,” rispose il podestà. “Non vengono.”
“Ma
è assurdo...” esclamò Jeronimo. “La guerra è ben finita. Che cosa. vuoi
che rimangano laggiù a fare?”
“La
guerra sarà anche finita,” disse Gaspare, “ma loro non vengono.”
“Parla,
allora, che cos'è successo?” domandò con ansia la donna. “Che cosa ti hanno
detto, dunque?”
Il
vecchio restò alcuni istanti muto, rimuginando in se stesso.
“Se
ne vanno alla capitale,” annunciò finalmente. “Vanno a fare la Guardia del Rè.
Vogliono restare soldati. Ormai hanno fatto l'abitudine. Non sarebbero più
capaci di lavorare i campi...”
"Ma...
ma...” obiettò la donna, “verranno bene a salutarci?...” “Mi hanno detto di no,
ecco” aggiunse Gaspare, “mi hanno detto che non farebbero in tempo.”
In
quel mentre sopraggiunse un altro uomo. Era Simone il Falegname.
“Hai
visto?” gridò avvicinandosi al .vecchio Gaspare. “Hai visto
l'arco
finito? Hai visto come è venuto bello?”
“Sta'
zitto,” gli ordinò a bassa voce uno dei ragazzi presenti. Ma Simone non poteva
capire e disse ancora, felice:
“Vieni
subito a vederlo, Gaspare, ci ho messo in cima un cavallo
dorato
e di notte accenderemo le lampade.”
“È
stato un lavoro inutile,” fu la risposta di Gaspare, “oramai non vengono più.
Se ne vanno alla capitale, entrano nella Guardia del Rè.” “Va bene” insisteva
la donna, “ma gli daranno almeno una licenza, torneranno pure a salutarci!”
“Loro
non me l'hanno detto” spiegò il podestà, “non lo so proprio,
però
non credo.”
“Ma,
dico,” fece il falegname impressionato, “l'arco... allora...”
“L'arco
lo puoi demolire, ecco tutto,” rispose Gaspare con pena. “Tè l'ho detto, non
vengono.”
“Ma
è solido, sai? Anche i colori resistono. Perché vuoi demolirlo?” ribatté il
falegname. “Si può aspettare anche qualche mese, vuoi dire che dopo, quando i
soldati verranno, ci daremo una ripassata di colore.”
“Tè
lo ripeto, è inutile,” replicò Gaspare, “non vengono, non hai capito ancora?”
“Ma
una lettera?” insisteva la donna che non riusciva a capacitarsi. “Il mio Max
non ti ha dato da portarmi una lettera? Non ti ha detto niente?”
“Niente,”
disse Gaspare. “Sono diventati tutti superbi, quasi si vergognavano di
salutarmi. Del loro paese non gli importa più niente.”
“Oh,
è impossibile,” esclamò la donna. “Che storie dici! il mio Max superbo...
qualsiasi altro ma non lui, è sempre stato come un bambino, mi ha sempre
scritto quando...”
“Lui
come gli altri,” ribatté crudelmente il vecchio. “Anche lui è diventato
superbo, chissà che cosa credono di essere. E proprio per questo che non
vengono, la guerra gli ha montato la testa, non lo volevo dire prima per non
farvi dispiacere...”
“Ma
pensa...” disse il falegname, scuotendo tristemente la testa, “pensa che
avevamo messo delle bandiere attraverso la piazza, si era aggiustata la vecchia
campana...”
“Non
mi hanno quasi badato” incrudeliva intanto Gaspare. “"Vi aspettiamo",
gli ho detto, "vedrete che vi divertirete". "A San
Giorgio?" ha risposto uno, mi pare che fosse il figlio di Filomena, aveva
due Medaglie sul petto. "Ma non pensarci neanche", mi ha detto,
"dobbiamo andare via subito, ci mancherebbe altro", e si è messo a
ridere.”
Erano
un gruppo immobile sulla strada e facevano sulla polvere bianca un'ombra sola
che si andava allungando via via con il cammino del sole.
“Così
mi han detto,” ripeté con amarezza il vecchio e gli altri oramai tacevano. “E
inutile aspettarli, non vengono,” disse ancora, come avesse paura di non essere
creduto (e li immaginava, intanto, insepolti, in una deserta valletta, distesi
qua e là fra gli sterpi e i sassi, tutto un massacro fra le morte rovine della
battaglia).
II
sole batteva festoso sulle stoffe policrome, sulle bandiere nuove sul cavallo
d'oro in cima all'arco di trionfo. Le ragazze, là in paese, erano ancora
affaccendate nei lieti preparativi, stavano raccogliendo i fiori per i soldati,
i fiori, gli addobbi, il vino, la musica, che non sarebbero serviti mai.
“E
inutile” commentò melanconicamente Jeronimo, rompendo alla fine il silenzio,
“doveva finire così... troppo bravi sono, il Rè non li ha voluti lasciare
andare, non se ne trovano altri di soldati così...”
“Sì,”
approvò il vecchio, “ma si sono montati troppo la testa, non dovevano farlo...”
(distesi con la faccia in giù che mordono vilmente la terra, e i corvi che
volano attorno, su quei morti senza onore, pietoso soltanto il sole che scalda
le schiene immobili, asciugando il sangue delle vergognose ferite).
16. QUANDO
L'OMBRA SCENDE
Al
ragioniere Sisto Tarra, proprio il giorno in cui venne nominato capo-economo
della ditta, capitò uno strano caso. Era un sabato, giornata tiepida con un
bellissimo sole e lui si sentiva in felici condizioni di spirito. La mèta
sospirata per anni era finalmente raggiunta, in realtà egli poteva dirsi
diventato il vero amministratore dell'azienda; ma più che la promozione in se
stessa, più che i vantaggi finanziari, lo riempiva di gioia il veder trionfare
così il suo sottile lavoro diplomatico per scalzare grado a grado il prestigio
del dott. Brezzi, suo predecessore. Per anni, senza soste, era rimasto in
agguato per sorprendere i suoi minimi errori, aggravarne le conseguenze, farli
risaltare agli occhi dei superiori. E tanto più abile era stato perché in
apparenza aveva sempre poi preso le difese del Brezzi, così da acquistare il
volto di uomo generoso e leale.
Il
Tarra abitava da solo in una villetta a due piani, in un viale della città
giardino, fuori di porta. Fatta colazione, egli sedeva nel suo studiolo
meditando a come impiegare il vuoto pomeriggio, quando udì proprio sopra la
testa, nella soffitta, dei passi presumibilmente umani.
Forse,
in un lontanissimo tempo, quand'era ancora fanciullo, sarebbero sorte in lui, a
quel rumore, misteriose paure di spiriti. Forse in altra giornata di pioggia o
stanchezza, egli avrebbe pensato ai ladri e gli sarebbe perfino battuto il
cuore. Ma oggi la serenità era troppa, troppo limpido il sole, troppo grate le prospettive
future. Sisto, con la sua estrema ragionevolezza, escluse ogni ipotesi sinistra
e suppose che ci fossero topi, grosse bestiacce simulanti il rumore dei passi
umani. Comunque volle andare a vedere.
Salì
le scale, aprì la porta, entrò nella soffitta abbandonata, dove filtrava dagli
interstizi delle tegole (e da alcuni piccoli sfiatatoi a mezzaluna) una luce
quieta e diffusa, si guardò attorno, vide un bambino in piedi che stava
frugando in una cassa. "Non topi dunque" si disse il Tarra a turbamento
di sorta "ma un ladruncolo sconosciuto." E stava per intarlo quando
il ragazzetto voltò la testa, così che i loro sguardi si incontrarono.
Sisto
si fermò, inchiodato dallo stupore: Ma lui lo conosceva quel ragazzo, perdio se
lo conosceva! Quel taglio appena rimarginato sopra un occhio, 'ma lui lo sapeva
ch'era stata una caduta in giardino. Quel vestitino blu, quella cintura di
cuoio lucido, oh se li ricordava bene! E stava domandandosi dove mai li avesse
visti, quando improvvisamente capì: quello sconosciuto era lui stesso. Sisto
Tarra, bambino. Proprio lui, Sisto all'età di undici dodici anni.
Prima
fu un semplice sospetto, ma così assurdo che ci sarebbe stato da ridere. Poi,
essendosi il ragazzo voltato verso di lui, il Tarra lo riconobbe perfettamente,
senza possibilità di errore: era proprio lui stesso, Sisto, bambino.
Non
era davvero facile a impressionarsi il Tarra. Pure sentì di colpo una gran
timidezza, come quando veniva chiamato a conferire dal direttore generale. Gli
pareva di non essere più capace di muoversi e fissava sbalordito la propria
viva immagine di trentacinque anni prima.
Fu
silenzio, e si udivano soltanto il respiro di Sisto, la voce di un passero
saltellante sul tetto, un lontano suono di automobile, mentre dagli interstizi
delle tegole e dai piccoli sfiatatoi una luce giallastra si spandeva sui vecchi
libri ammonticchiati negli angoli, sugli specchi rotti, i letti sgangherati, le
cornici vuote, i detriti di un'intera famiglia.
Ma
intanto il ragioniere Sisto Tarra aveva ripreso il pieno dominio di se stesso,
di cui andava solitamente così fiero, e con voce fredda domandava (benché in
cuor suo lo sapesse benissimo):
“Chi
sei? Come sei entrato qua dentro?”
“I
giocattoli!” rispose evasivamente il bambino con una voce stanca e sottile, come
di malato. “Devono essere in questa cassa i giocattoli.”
“I
giocattoli? Qui non ci sono giocattoli!” fece il Tarra sempre più
rinfrancandosi, poiché cominciava ad apprezzare il lato interessante del
colloquio; prima di tutto il ragazzo non lo aveva riconosciuto, ciò che dava a
lui, Sisto, un decisivo vantaggio; poi pregustava il momento in cui %",
Tarra, si sarebbe rivelato; e il bimbo sarebbe rimasto sbalordito dalla
meraviglia, sapendo di essere diventato così grande, ricco e autorevole.
Ma
il ragazzo insisteva:
“Sì
che ci sono! in quella cassa li hanno messi, ho già trovato il
"leccano"!”
“Ah,
il "meccano"!” ripeté il Tarra con la bonaria condiscendenza che le
personalità usano simulare in pubblico di fronte ai bambini “ti piace, il
"meccano"?”
"Trentacinque
anni," intanto pensava, "ma quanto cammino! Bene spesa davvero la sua
vita! Che abisso ormai separava quel ragazzetto sciocco e spaurito, da lui,
ragioniere Tarra, solidamente piantato nel mondo, rispettato e temuto che trattava
senza batter ciglio affari di milioni. Che spettacoloso regalo per quel
bambino" pensava "fra poco quando saprà la propria riuscita!"
.
Il ragazzetto però continuava a guardarlo con perplessità diffidente ne
sembrava preoccuparsi più dei giocattoli.
“E
Sisto?” domandò invece sempre con quel tono malato. “Dov'è Sisto adesso? Abita
qui ancora? Tu lo conosci?”
“Se
lo conosco!” fece il Tarra, sorridendo per la propria facezia. “Abitiamo
insieme, e da molti anni anche!”
“E
com'è? Che cosa fa adesso?”
“Oh,
è diventato una persona importante, Sisto” e il sorriso si faceva sempre più
aperto.
“Importante?”
chiese ancora il bimbo rischiarandosi al volto. “E che cosa fa? E diventato
generale?”
“Generale?
E perché generale? Ti piacerebbe che fosse generale alle volte?” "Che
gusti stupidi" pensava intanto "si vede proprio che è ancora uno
sciocco."
“A
me sì che piacerebbe!” rispose il ragazzo.
“Bene”
continuò Sisto raffreddando la voce. “Non è generale, ma ha fatto strada lo
stesso.”
“Fa
l'esploratore allora?”
"Che
stupidaggini", pensò ancora Sisto, domandandosi se non fosse meglio
troncare il colloquio, ma lo tenne il desiderio di farsi ammirare.
“No,
non è esploratore” disse. “Gli esploratori non esistono più che nei libri. Ma
ci sono cose più importanti a questo mondo.”
“E
che cosa fa allora? E ministro, forse?”
Qui
andiamo meglio, pensò allora il Tarra vedendo il bambino istradato a idee meno
puerili. E rispose:
“Proprio
ministro no, ecco. Ma ha una magnifica posizione. Puoi essere contento di lui.”
Il
bimbo lo guardò fiducioso, in attesa di spiegazione. Si udivano vari passeri
cinguettare sul tetto, una voce di donna giù nella strada, un rintocco di
campana chissà da dove.
“E
capo-economo” disse finalmente il Tarra scandendo le parole. “Capo-economo
della ditta Troll, la prima casa di spedizioni d'Italia.”
Il
ragazzo non parve capire. "Capo-economo" non gli diceva gran che. I
suoi occhi scrutavano ancora quelli del Tarra, interrogativamente, ma
scintillavano forse meno, per un velo sottile di delusione.
“Che
cosa vuoi dire?” domandò. “Fa i conti forse?”
“Anche
i conti” ammise il Tarra, contrariato per la scarsa comprensione. “Praticamente
è uno dei padroni.”
"E'
ricco allora, no?” Questo aspetto della questione sembrava piacere al ragazzo.
"Non
c'è male, non c'è male davvero” rispose Sisto riaffiorandogli il sorriso di
prima. “Non si può lamentare, insomma.”
“Chissà
che bei cavalli, allora!”
“Cavalli?”
“Dico
che avrà dei bei cavalli, allora.”
Il
ragionere scosse il capo, come se la stupidità di quel ragazzo lo scoraggiasse.
E disse, tanto per non mostrarsi duro: “Oh, no, adesso non si usano più i
cavalli”.
Una
nuova idea però veniva al ragazzo, che non si curò più dei
cavalli,
per chiedere:
“Ma
dimmi, com'è adesso Sisto? Come si è fatto?”
“Ah,
è diventato alto” rispose il Tarra, sempre più stimandosi per la presenza di
spirito dimostrata. “Alto come me, pressapoco.”
“Ma
è bello? Dimmi: è bello?”
“Bello?
Non lo so. Negli uomini non si guarda alla bellezza. Certi però dicono che è un
bell'uomo!”
“E
porta la barba?”
“La
barba, no; due baffetti porta, un po' come i miei. Un tipo inglese, certi
dicono.”
La
luce filtrante nella soffitta dagli interstizi delle tegole e dagli sfiatatoi a
mezzaluna, da giallastra che era si fece improvvisamente grigia. Una nuvola
doveva essere cresciuta nel ciclo fino a nascondere il sole.
“E
le preghiere?” chiese improvvisamente il ragazzetto sempre riferendosi a Sisto.
“Le dice sempre le preghiere alla sera?”
Eccolo
di nuovo con le sue scempiaggini, si disse irritato il Tarra: possibile che
quel piccolo fosse lui stesso, sia pure trentacinque anni prima? Possibile che
fosse tanto diverso? Gli pareva assurdo, quasi vergognoso, essere derivato da
quel bambino.
“Oramai
no, caro mio” rispose quasi in tono di stizzosa sfida. “Perché vuoi che dica le
preghiere? A una certa età nessuno le dice più. Soltanto le donne...”
“Ma
le sa ancora, no? Se le ricorda?”
“Non
lo so proprio questo... bisognerebbe domandarglielo, ma lo credo difficile.”
“E
se poi ne ha bisogno? Che cosa fa se poi ne ha bisogno?”
“Bisogno
delle preghiere? Perché mai ne dovrebbe avere bisogno?”
Il
piccolo lo fissò perplesso, come se fosse stato ingiustamente sgridato.
“E
i bambini?” domandò. “Abitano qui i suoi bambini?” “Non ha bambini Sisto” fece
il ragionerò Tarra seccamente. “Chi ti "a messo in mente che abbia
bambini?” “Niente bambini? Neppure uno?” “Ma no, naturalmente, non è mica
sposato, Sisto.”
Si
udiva adesso un nuovo rumore, una specie di mugolìo sordo che ondeggiava su e
giù per le tegole, la voce del vento. La soffitta si era fatta rapidamente
molto più tetra e a spiegarlo non bastava una nuvola dinanzi al sole, per
pesante e nera che fosse, bisognava ammettere proprio che la sera stesse
calando, che inaspettatamente, accelerando il normale ritmo delle ore, come mai
era avvenuto, si avvicinasse la notte.
Il
ragazzo fece allora un timido passo in avanti, puntando l'indice verso l'uomo e
la sua voce divenne ancora più fioca:
“Sei
tu, no?” chiese con ansia. “Di' la verità; sei tu Sisto?”
Finalmente
il ragazzo aveva dunque capito: si era accorto che quel signore vicino alla
cinquantina non era una persona qualsiasi, bensì proprio lui stesso, così come
era stato trasformato dagli anni. La voce del bimbo tremava, per qualche sua
particolare ragione.
La
voce del bimbo tremava, il ragioniere Tarra invece sorrise, ergendo le spalle
ad apparire il più imponente possibile.
“Proprio
io in persona” confermò. “Non l'avevi ancora capito?”
“...avevi
ancora capito?...” ripeté meccanicamente, come una eco, il ragazzo, senza
intendere il suono delle parole, le pupille dilatate nella penombra.
“Sei
contento, no? Dimmi, dimmi. Sei contento della riuscita?”
E
perché adesso lo stupido ragazzetto non sorrideva neppure? Perché non gli
correva incontro festante? Forse non aveva ancora ben capito? o sospettava uno
scherzo e andava guardingo per timore di delusioni?
No,
il fanciullo aveva capito benissimo e guardava Sisto con un'espressione intensa
ed amara, come se si fosse aspettato un grande regalo e avesse trovato una
misera cosa. A passi incerti si avanzava, attraverso la fosca soffitta, verso
quell'uomo che avrebbe voluto non conoscere, fissava quel volto segaligno,
quegli occhi freddi da pesce, quelle labbra sottili e dure, esaminava il
colletto alto inamidato, la spilla della cravatta raffigurante la testa di un
Icone, il vestito scuro correttissimo, e ne toccò con una mano un lembo.
“Guarda
che bell'orologio” disse Sisto Tarra per dare confidenza al bimbo, estraendo il
cronometro di precisione. “L'ho comperato in Svizzera, c'è dentro la suoneria
delle ore.”
Schiacciò
un bottoncino e si udirono, nel pesante silenzio, tintinnare esili rintocchi
metallici. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Le
sei di sera, possibile? Un oscuro orgasmo si formò nel petto del Tarra. Gli
pareva che il colloquio con il bambino non fosse durato più di dieci minuti, ma
l'orologio e il buio crescente testimoniavano il sopraggiungere della notte. Il
sole aveva divorato il cammino, quasi in odio a lui, Sisto. Cessata la flebile
suoneria, si udì il vento di fuori lamentarsi rasento ai muri.
“Che
bello” mormorò il bambino senza convinzione, esaminando l'orologio. “Ma fammi
vedere le mani.”
Prese,
con la sua, la destra del ragionier Tarra, la trasse a sé per vederla
bene, la guardò adagio adagio. E parve davvero incredibile, tristissima cosa,
che quella mano pelosa e massiccia tutta solcata di rughe, dalle nocche
sporgenti, dalle unghie rosse e giallastre, fosse stata così piccola, tenera e
bianca, come l'altra del bimbo. cos1 “E che cos'hai a quell'occhio?”
chiese ancora il ragazzetto alzando ,. guardi alla faccia del Tarra. Sisto
aveva infatti da un paio d'anni, in seguito a una paresi reumatica, la palpebra
destra alquanto cascante, che gli dava un'espressione ambigua.
“Ma
sì, perché lo tieni chiuso” insistette il bambino, siccome l'altro non
rispondeva.
“Niente,
ci vedo benissimo” fece il ragioniere 1 arra, sentendo montare dentro a sé una
collera triste. Che buio nella soffitta! Ne dall'esterno giungeva alcun suono.
Negli angoli perimetrali dove lo spiovente del tetto si innestava col
pavimento, annidavansi a frotte le ombre.
"Maledetta
la volta che sono salito quassù," si disse il Tarra. "Ma perché
questo odioso bambino mi guarda in quel modo? E che cosa ho io in comune con
lui, in fin dei conti?" Il ragazzo lo odiava, si capiva benissimo.
“Mi
immaginavi diverso, eh?” fece Sisto nelle tenebre crescenti, con voce rauca e
nemica.
“Non
so, non so...” balbettò il bambino impaurito ritraendosi. Non disse altro ma si
sentiva lo stesso la sua delusione.
“Che
cosa ti eri messo in mente? Che cosa credevi che diventassi? Mi volevi veder
vestito da generale? O con la mitria da vescovo?” imprecò, cercando però sempre
di dominarsi. “Non so perché tu faccia quel muso! Potresti ringraziare il
ciclo, mi pare. Non sei soddisfatto, eh? Non ti piacciono le mie mani, eh?”
Gustava
ora la gioia di far paura, di veder terrorizzato l'insolente bambino. Ma
l'altro era retrocesso rapidamente e non si distingueva quasi più, tanto era
buio.
“Sisto!”
per la prima volta il ragioniere pronunciò il proprio nome, che risuonò
sgradevole e infausto. “Sisto, dove sei?... Ho da farti vedere i francobolli,
ho una magnifica raccolta” aggiunse in tono mellifluo, affinché il bimbo non
cercasse di fuggire.
Attraversò
la soffitta, badando a non inciampare nei travi che la interrompevano di
traverso, giunto in fondo si chinò a esplorare gli angoli oscuri, si guardò
attorno, crescendo l'orgasmo. Il ragazzo sembrava svanito.
“Sisto,
Sisto!” fece ancora, sussurrando poiché il suono della propria voce cominciava
a dargli disagio. Ma nessuno rispose. L'immagine antica si era dissolta
nell'ombra e nella soffitta non restava assolutamente altri che il ragioniere
Sisto Tarra, di 47 anni, assalito da inquieti pensieri.
Solo,
nella soffitta buia. La notte lo aveva sorpreso come egli non aveva mai creduto
possibile. Pensò fortemente alla propria carriera, alla Promozione, alla nuova
carica, ma tutto questo non gli diceva più niente. "vano cercava la
contentezza di prima. "Chissà che bei cavalli che bei cavalli... neppure
uno neppure uno..." sentiva ancora la voce del bimbo sussurrare
tutt'attorno dagli angoli neri. Gli venne in mente che fuori era già venuta la
notte, fuori continuava l'esistenza degli uomini, migliaia di creature intente
alla vita, che ignoravano chi fosse Sisto Tarra; uomini e donne disseminati
sulla terra che lavoravano e soffrivano insieme, commisti fra loro in turbe,
inghiottiti nelle città, mediocri o abbietti forse ma non soli. Non soli come
lui che ne aveva sempre disprezzato la vita e a poco a poco se ne era straniato
pretendendo di fare tutto da sé. E cominciava a nascergli il dubbio, come
minuscolo barlume, di essersi completamente sbagliato, che ci potessero essere
al mondo altre cose che il posto all'ufficio, i ruoli, gli stipendi, la società
anonima Troll; cose che un giorno lontano aveva intraviste, stupidaggini
naturalmente, fantasie senza costrutto, poi lasciate andare nell'avida fatica
quotidiana.
Fu
dapprima un dubbio remoto, poi lo prese un'acuta smania come di sete: poter
tornare indietro, diventare ancora bambino, ricominciare tutto da capo, fare
tutto diverso da com'era stato, il mestiere, gli amici, la casa, perfino gli
abiti, perfino la faccia. Ed era terribile che fosse ormai troppo tardi, che
l'ombra lo avesse sorpreso e mai più ci sarebbe stato rimedio. All'estrema luce
del crepuscolo, entro cui i veli della notte si sovrapponevano lentamente, il
ragioniere Sisto Tarra, brancolando per non urtar contro le travi, cercò la
porta per uscire. Sciocchezze, sciocchezze, mormorava con impegno per
richiamarsi alla solida e piacevole realtà della vita; ma non gli bastava. Udì
sulle tegole dei leggeri colpetti, che si facevano sempre più fitti, un rumore
quieto: le nuvole dovevano aver riempito il ciclo e pioveva.
17. VECCHIO
FACOCERO
Occorre
considerare la psicologia del vecchio facocero. Giunto a una certa età, il
cinghiale africano spesso è portato a considerare con disdegno le miserie della
vita. Le gioie della famiglia si appannano, i facocerini irrequieti e famelici,
sempre tra i piedi, divengono un continuo fastidio; e non parliamo della
invadente alterigia dei giovanotti ormai fatti, convinti che il mondo e le
femmine siano tutti per loro.
Adesso
lui crede di essersene andato a vivere da solo per impulso spontaneo, di avere
raggiunto il vertice della maestà belluina, vuoi convincersi di essere felice.
Eppure guardatelo come si aggira irrequieto tra le stoppie, come ogni tanto
annusa l'aria sorpreso da improvvise memorie e come risulta sfavorevolmente
asimmetrico nel grande quadro della natura che ha fatto tutte le vite a due a
due. In realtà ti hanno cacciato via dalla tua famiglia patriarcale, vecchio
facocero, perché eri diventato scorbutico e pretenzioso; i giovani avevano
perduto ritegno, ti davano colpi di zanna per spingerti da parte, e le donne
hanno lasciato fare, segno che anch'esse ne avevano di tè abbastanza. Così per
giorni e giorni, fino a che tu li hai abbandonati al loro destino.
Eccolo
qui, nel mezzo della piana di Ibad, mentre si avvicina la sera, intento a
spiluzzicare entro una specie di vecchio canneto secco. E attorno non c'è
nulla, eccezion fatta per la desolazione del piatto deserto, con aridi termitai
qua e là, e qualche piccolo misterioso cono nerastro a fior di terra. Verso il
sud, tuttavia, si possono scorgere alcune montagne, veramente troppo lontane;
ma sconsigliamo dal crederci, probabilmente si tratta di parvenze vuote, nate
solo dal desiderio. Del resto lui non le vede perché gli occhi dei facoceri
sono diversi dai nostri. Invece poiché il sole discende, il verro scruta
soddisfatto la propria ombra farsi di minuto in minuto più oblunga" e
avendo poca memoria, come succede ogni sera, monta in superbia, per l'illusione
di essere diventato grande in modo meraviglioso.
No,
non è specialmente grande rispetto ad altri giovani compagni, ma in un certo
senso è magnifico, lui che è una delle bestie più brutte del mondo. Perché
l'età gli ha generosamente allungato le zanne, gli ha donato una importante
criniera di setole gialle, gli ha inturgidito le quattro verruche ai lati del
muso, lo ha trasformato in un mostro corporeo di favola, inerme pronipote dei
draghi. In lui ora si esprime l'anima stessa della selva, un incanto di tenebre,
protetto da antiche maledizioni. Ma nella testa immonda dovrà pur esserci un
barlume di luce, sotto il pelame scabro una specie di cuore.
Un
cuore che si è messo a battere essendo nel pieno deserto comparso una sorta di
mostro nuovissimo e nero; il quale mugola lievemente e si avvicina in modo
strano, ne correndo ne strisciando, come non si era mai visto. Questo mostro è
grandissimo, forse più alto di una gazzella, ma il facocero aspetta, fermo, e
lo guarda con intenzioni malvage (benché tutt'attorno, dalle solitudini, stia
nascendo un avverso presagio).
Anche
la nostra automobile si è adesso arrestata.
“Che
cosa guardi?” faccio al compagno. “Perché hai fermato? Non vedi che è un bue?”
“Anche
a me pareva” dice lui “ma è un facocero, invece. Aspetta che sparo.”
Lo
strano mostro che mugola si è taciuto ed è fermo, apparentemente privo di vita.
Eppure il facocero ha sentito di improvviso un colpo tremendo; poi un rumore
secco e sinistro come di antico albero che crolli, o di certe frane. “Bravo,
perdio, l'hai preso!” grido io. “Guarda come si rivolta per terra, guarda che
polverone!”
Proprio
così: attraverso i resti del vecchio canneto, il bestione è stato visto
compiere una specie di capriola e rotolarsi in furore. “Macché” fa il mio
compagno. “Non vedi che scappa?”
Fugge
infatti il cinghiale, con la zampa posteriore destra spezzata. Assume un
piccolo trotto ostinato, in direzione di est, allontanandosi dal sole morente,
quasi timoroso di questa siderale allusione. E il mostro "metallico
riprende il mugolìo di prima, si mette a corrergli dietro, ne guadagnando ne
perdendo terreno, per via di certi ciuffi di erba morta che Stacciano il
cammino.
Ora
lui è solo e perduto. Ne dal ciclo vuoto, ne dagli ermetici termitai, ne da
alcuna parte della terra potrà venire il soccorso. La sua ombra personale lo
precede, trottando di conserva, sempre più mostruosa ed ambigua; ma oramai essa
non serve, l'orgoglio di poco fa gocciola fuori, col sangue, dalla ferita, e
resta seminato per via.
Ed
ecco, ma quanto lontana, al limite di congiunzione fra terra p ciclo, mentre la
luce lentamente declina, ecco una striscia scura, le acacie spinose, il fiume.
Laggiù sono gli altri, lui lo sa bene, tutta la patriarca!? famiglia, le mogli,
i giovanotti brutali, gli antipatici facocerini. Oh è inutile negare, forse
senza che se ne rendesse ben conto, anche nei giorni scorsi lui ha continuato a
seguirli, a distanza, curando di non farsi vedere Ed è ridicolo, certo, ma lui
provava piacere ad annusare le loro peste recenti, a riconoscere le orme di
questo o di quello; ecco, qui devono essersi azzuffati, là hanno fatto scorpacciata
di radici, non me ne hanno lasciata neppure una. Reietto, non aveva potuto
staccarsi, non era stato capace di vivere solo, presuntuoso vecchio, e adesso
l'unica speranza superstite deriva ancora da loro.
Ma
una seconda fucilata l'ha preso a metà di una coscia, il sole tra poco
affonderà sotto terra e dal fiume troppo lontano si avanzano a imbuto tetri
abissi di buio. Vediamo, dall'automobile, che il suo trotto si è fatto in un
certo senso svogliato e pesante, come se l'istinto ancora lo traesse alla fuga,
ma non più sincera velleità di vita. Il deserto del resto sembra divenire
sempre più sterminato, allontanandosi anziché approssimandosi il verde segno
del fiume.
Io
dico al compagno: “Guarda, si è fermato, è stanco. Fatti sotto, ci sono ancora
pochi minuti di luce”. E siccome noi possiamo continuare la strada (su di noi
nessuno ha sparato a tradimento colpi di Mauser con pallottole dilaceranti)
siccome noi ci avviciniamo, il facocero comincia a farsi più grande, scorgiamo
finalmente il laido volto, le orecchie irte di setole, la molto nobile
criniera. Esso è immobile, in piedi e ci guarda con due occhi a spillo. Deve
essere oramai esausto, ma può darsi anche sia stato un solingo dio dancalo a
trattenerlo, col vitreo scettro di sale, rimproverandogli la viltà della fuga.
La
canna dello schioppo è già stata disposta secondo l'esatta linea di mira; a
questa breve distanza sbagliare sarebbe impossibile, il dito indice si appoggia
all'incavo del grilletto. Ed allora (mentre i draghi della notte sopraggiungevano
dalle spente caverne d'oriente con la precipitazione di chi teme d'arrivare in
ritardo) allora lo vedemmo volgere lentamente il muso in direzione del sole, di
cui restava sopra il deserto soltanto una piccola fetta purpurea. C'era una
pace immensa e ci nacque l'immagine di una villa ottocentesca alla medesima
ora, con le vetrate già accese e affacciata una vaga figurina di donna che tra
echi di musica mandasse un sospiro, mentre i cani viziati chiacchierano al
cancello del giardino su aneddoti nobiliari e di caccia.
Il
mugolìo del motore si spense e forse allora, per misericordioso fiato di vento,
giunse al facocero la voce dei compagni liberi e felici, rintanati sulle rive
del fiume. Era però troppo tardi. Intorno a lui stava per calare l'estremo sipario.
Ne gli restava più nulla se non dare uno sguardo al sole residuo, come
positivamente fece; non già per sentimentali rimpianti, né per succhiarne con
gli occhi l'ultima luce; solo per chiamarlo a testimone dell'ingiustizia che si
compiva.
Quando
tacque il colpo della fucilata, esso giaceva sul fianco sinistro, di occhi già
chiusi, le zampe abbandonate. Sotto i nostri occhi - in alto accendevansi le
prime stelle - esalò gli ultimi respiri: due borbottii a sfondi da
vecchio, commisti ai rigurgiti sanguigni. E non successe P n non i} più sottile
spirito si involò dal mostro defunto per navigare nei cicli neppure una
minuscola bollicina. Perché il sapientissimo Geronimo che di queste cose se ne
intende, è disposto ad ammettere un'anima, sia pure rudimentale, al leone,
all'elefante e ai più eletti carnivori; nei giorni di ottimismo si mostra
benevolmente disposto perfino col pellicano ma col facocero mai, assolutamente;
per quanto insistessimo, egli ha sempre rifiutato di concedergli il privilegio
di una seconda vita.
18. IL
SACRILEGIO
Domenico
Molo, di 12 anni, figlio del ricco industriale, sedeva nella chiesa, di fianco
a un confessionale, preparandosi a dire i suoi peccati. Era un tepido
pomeriggio di primavera e il tempio appariva quasi deserto.
L'indomani,
per Domenico, sarebbe stato un grande giorno: la prima Comunione. Oltre alla
poetica letizia del rito che lui, così piccolo, solo confusamente avvertiva, ci
sarebbero stati molti regali, una piccola festa in casa. Una giornata di pura
felicità, senza pensieri di scuola e di compiti. Anche la confessione, a cui si
accingeva, non gli dava, come le prime volte, la tormentosa sensazione di
affrontare un difficile esame. I suoi peccati, dall'epoca della Cresima, due
anni prima, erano sempre gli stessi e don Paolo oramai li conosceva a memoria.
Così Domenico pregustava in un certo modo quel senso di misteriosa leggerezza
che seguiva ogni volta l'assoluzione dei peccati e intanto sfogliava
distrattamente il suo nuovo libro da messa, dono di un parente. Don Paolo stava
ancora ascoltando, dietro la grata, le colpe della signora Rop, la governante
di Domenico, donna alta, severa e religiosissima.
La
confessione della signora Rop durava solitamente a lungo e Spettarne la fine,
le altre volte, metteva il bimbo in uno stato di progressiva inquietudine, come
se proprio in quegli ultimi minuti le tentazioni del male si accanissero
improvvisamente contro di lui, per rendergli più difficile e mortificante
l'accusa dei peccati. Ma stavolta Domenico si sentiva calmissimo, le pie frasi
del suo libriccino gli rivelavano una "sospettata dolcezza, un raggio di
sole batteva su uno dei grandi sportelli dell'organo, facendo risplendere il
volto di un vecchio santo. Buono era il vago odore di incenso diffuso fra le
navate.
A
un tratto gli occhi del bimbo, scorrendo il libro da messa, caddero su una
specie di questionario, nuovo a lui, attinente proprio alla confessione.
Comandamento per comandamento, venivano citati tutti i possibili peccati di un
giovanotto.
"Hai
mai mentito?" chiedeva per esempio il libretto. "A chi? Ai tuoi
genitori? Ai tuoi insegnanti? Per nascondere un altro peccato? Per procurarti
un premio non meritato?" eccetera.
Questa
requisitoria, così serrata e minuziosa, diede al bimbo una impressione
sgradevole. Ebbe il timore, leggendola tutta, di poter scoprire in sé colpe
insospettate. Meglio non leggere, si disse, lo farò se mai la prossima volta.
Ma subito intuì come questo ragionamento fosse poco cristiano. Sarebbe stata
una viltà tale da compromettere l'efficacia della confessione.
Perciò,
vincendo l'istintiva riluttanza, prese a leggere fin da principio il
questionario. Le prime domande lo tranquillizzarono. Erano tutti peccati
ch'egli aveva già passato in rassegna nell'esame di coscienza, alcuni non li
aveva mai commessi, altri si apprestava appunto a rivelarli. Riprese con più
coraggio la lettura fino a che incontrò la frase: "Sei superstizioso? Dai
importanza o credi ai sogni?".
Superstizioso?
pensò, e un sottile brivido lo fece trasalire. Domenico in verità non era più
superstizioso di qualsiasi altro ragazzo; ma naturalmente anche lui aveva le
sue particolari manie. Diceva per esempio: se da qui al fondo del marciapiede
incontro un numero di persone pari mi andrà bene, se dispari mi andrà male.
Oppure: se riesco a camminare senza mai pestare le giunture fra pietra e pietra
del selciato, buon segno; in caso contrario, cattivo. Restava pure
profondamente impressionato dai sogni, specialmente di sciagure riguardanti le
persone di casa e gli amici.
Mai
aveva pensato che simili debolezze potessero costituire peccato. Ora la secca e
precisa domanda del questionario gli faceva capire che quella doveva essere
anche una colpa grave, specialmente in un ragazzetto. Cercò invano di
persuadersi che le sue non erano superstizioni, che non aveva mai creduto ai
sogni; quanto più si sforzava, sempre maggiore gli appariva il proprio peccato.
Non fece però in tempo a risolvere il dubbio. La signora Rop si era scostata
dalla grata con le mani giunte e veniva a inginocchiarsi al suo fianco,
facendogli un piccolo cenno col capo, come per dirgli che toccava a lui.
Meccanicamente, Domenico si accostò al confessionale, appoggiò le ginocchia
nude al gradino, giunse le mani. Il cuore gli batteva affannosamente.
La
sua bocca pronunciò le solite frasi, elencò i soliti peccati, ma Domenico aveva
l'impressione che fosse la voce di un altro, tutto il suo pensiero era
concentrato sulle colpe di superstizione, che gli parevano vergognosissime e
non trovava il coraggio di confessare. Don Paolo per fortuna non pareva affatto
notare il suo turbamento; assentiva col capo austeramente ad ogni frase di
Domenico, come immagazzinando materia per il monito conclusivo.
In
breve Domenico ebbe esaurito l'elenco dei propri peccati. Allora sentì ch'era
venuto il momento decisivo. Si irrigidì tutto per dominare la cocente vergogna,
cercò di profferire la terribile frase: "Sono superstizioso". Ma non
riuscì a emettere parola. Don Paolo già cominciava le sue pie raccomandazioni.
Le
parole del sacerdote gli giunsero all'orecchio lontane, senza senso, monotone.
Il volto del bimbo si era fatto pallido, gli occhi luccicavano intensamente, ma
nel confessionale la penombra era densa. Finalmente celi udì la penitenza
stabilitagli dal sacerdote: tre Poter, tre Ave, tre Gloria
Insieme pronunciarono a bassa voce l'atto di contrizione. Don Paolo lo salutò
con un sorriso e accennò a togliersi la stola.
Appena
Domenico fu di nuovo a fianco della signora Rop, la coscienza della colpa
commessa gli incupì l'animo di sgomento: egli aveva taciuto un peccato per
vergogna. Si guardò attorno, quasi cercando un aiuto una consolazione. Le
statue dei santi, le alte colonne, il Cristo sospeso in mezzo all'arco del
presbiterio non erano più immagini amiche, parevano essersi chiusi in un
impenetrabile sdegno. Sentì la voce sottile della signora Rop che discorreva
con don Paolo. Un desiderio di liberazione lo colse, quel peso lo soffocava.
Toccò un braccio alla governante.
“Senta,
signora,” le disse “mi sono dimenticato di dire una cosa.” “Di dire una cosa a
chi?” chiese la signora Rop lievemente seccata. “Alla confessione, mi sono
dimenticato,” fece il bimbo. “Bisogna che la dica a don Paolo.”
Suo
malgrado, la signora Rop ebbe un sorriso, si rivolse al sacerdote, gli disse
qualcosa sottovoce. Anche don Paolo sorrise benignamente. “Vieni, vieni allora”
fece al bimbo. “Siamo qui per questo.”
Come
a fonte che gli avrebbe spento la sete, Domenico ritornò al confessionale, si
inginocchiò, fece il segno della croce. “Reverendo,” disse senza misurare
esattamente il significato delle parole nella furia di sfogarsi “prima non
avevo detto una cosa: credo di essere superstizioso.”
“Superstizioso?”
domandò il sacerdote leggermente stupito di tanto scrupolo.
L'animo
del bimbo si era già istantaneamente sollevato. Oramai il più era fatto. La
tentazione peccaminosa era vinta. Che importava adesso specificare le minute
circostanze?
“Credo
qualche volta ai sogni,” disse. “Qualche volta penso che le cose mi andranno
male se non faccio una cosa, oppure se si rovescia il sale.”
“Ho
capito” fece il sacerdote, severo. “Guai a essere superstiziosi. E segno di
ignoranza, perché equivale a credere in potenze occulte al di fuori di Dio.
Lasciamola ai popoli selvaggi la superstizione.” E spiegò al nimbo i danni di
quel peccato.
Sul
sagrato della chiesa risplendeva il sole, gli alberi avevano messo fuori
bellissime foglie verdi, la gente che passava sembrava molto più lieta del
solito. Il bimbo chiacchierava sereno con la governante, l'animo assolutamente
sgombero. "Che sciocco" pensava perfino fra sé e sé "non doveva
essere poi questo grande peccato, la mia superstizione. Don Paolo non ci ha
dato nessuna importanza!" Solo adesso capiva come tutti probabilmente
anche la signora Rop, fossero più o meno superstiziosi' Persino il papa, sempre
così ottimista, diceva sempre che di venerdì non viaggiava mai, sebbene quel
giorno i treni fossero quasi vuoti e le strade molto meno battute dalle auto.
Quante volte del resto anche i suoi compagni di scuola, interpretando certi
piccoli fatti casuali, prevedevano di essere interrogati o no e si regolavano
in conseguenza. Che stupido era stato a spaventarsi così.
Pure,
avanzando la sera, la serenità d'animo andò inesplicabilmente offuscandosi. Il
bimbo aveva come l'impressione che nella duplice confessione di quel giorno
qualcosa fosse rimasto ancora insoluto, ma non riusciva a capire il motivo.
Alle nove, dopo aver lietamente cenato con il padre, i fratelli e un vecchio
amico di casa, Domenico, quando fece per andare a letto, ebbe l'idea di
rileggersi il questionario dei peccati nel nuovo libro da messa.
"Tanto," pensò, "tutto quello che sapevo l'ho confessato; se
esistono altri peccati a me sconosciuti, e oggi non li ho detti a don Paolo,
questo non costituisce colpa."
Aveva
appena tratto dal comò il libretto, che la verità gli si rivelò improvvisamente
in tutto il suo gravissimo peso. Egli aveva sì confessato di essere
superstizioso, aveva dominato la vergogna di rivelare questa sua colpa, ma non
aveva detto al sacerdote la colpa maggiore: quella di aver taciuto per
vergogna, nella prima confessione, il peccato di superstizione.
Ora
rievocava nella memoria, parola per parola, ciò che aveva detto a don Paolo.
Sì, adesso ricordava: aveva detto esattamente così: "Reverendo, prima non
avevo detto una cosa: credo di essere superstizioso".
Prima non aveva detto una cosa. Perché non aveva detto invece: "Reverendo: prima
non ho avuto il coraggio di confessare..." questo sì sarebbe bastato a
scaricarlo. Invece era ricorso a una frase sibillina: "Non avevo detto una
cosa", senza spiegare il perché. Don Paolo aveva certo creduto in una
semplice dimenticanza e come dimenticanza l'aveva assolta in nome di Dio.
La
superstizione, la paura del sale rovesciato, la credenza nei sogni, risultavano
adesso a Domenico mancanze assolutamente trascurabili; quasi ridicole. Di ben
altro delitto egli si era macchiato.
Assediato
dal panico, il bimbo provò, per giustificarsi, il seguente ragionamento:
"Se la mia superstizione, come è risultato evidente dalle parole di don
Paolo, era solo un peccato veniale, anche il tacerlo per vergogna dovrebbe
essere colpa trascurabile".
Niente.
Il ragionamento non serviva: Domenico si ricordava benissimo che, al momento
della seconda confessione, la superstizione gli sembrava colpa gravissima,
prova ne era che aveva sentito il bisogno di liberarsene. Non c'era stata
insomma la buona fede.
Tentò
allora una seconda scusa: quando era tornato al confessionale - pensò, o meglio
cercò di persuadersi - egli era convinto che bastasse accusare la
propria superstizione, senza bisogno di aggiungere che prima l'aveva taciuta
per vergogna; tanto era vero che sul momento si era sentito liberato
completamente. Il difficile era di vincere la vergogna e questo l'aveva fatto.
La frase: prima non avevo detto una cosa" si disse il bimbo
"non era frutto di malizia". Forse era stata un'espressione infelice
- poteva ammettere - ma maligna no. Se gli fossero venute alla mente parole più
precise ed esaurienti, senza dubbio le avrebbe pronunciate con uguale facilità.
Qui però cominciava il dubbio: era proprio sicuro Domenico che sarebbe sfato
proprio lo stesso? Non era stato il demonio, anche senza che ne rendesse ben
conto, a suggerirgli quella confessione abilmente elusiva?
Da
nessuna parte il bimbo trovava uno scampo. Un orribile peccato naie contaminava
la sua anima e il mattino dopo egli avrebbe dovuto "costarsi alla prima
Comunione. Ma come poter liberarsi? Avvertire la Priora Rop che egli doveva
confessarsi ancora? E in che modo giustificarle questa strana necessità? A don
Paolo certe cose poteva dirle. Ma a lui solo, mai alla governante.
Aprì
affannosamente il libro da messa nella estrema speranza di trovarvi qualche
motivo di sollievo. Lesse avidamente il capitolo della confessione, cercando il
caso che lo riguardava. Ecco, aveva trovato: "Chi nella confessione tace
per pura dimenticanza qualche peccato mortale e qualche circostanza necessaria,
ha fatto una buona confessione. Chi per vergogna o per altro motivo non giusto
tace colpevolmente un peccato mortale, non fa buona confessione, ma profana il
Sacramento e si fa reo di un grave sacrilegio".
Sacrilegio.
La parola tuonò nel cuore del bambino. Fino allora sacrilegio era stata
per lui una nozione vaga e teorica, senza alcun addentellato con la sua vita:
delitto assurdo e terribile, da medioevo, più grave di un assassinio, che
doveva ricorrere ben raramente nella vita degli uomini e nei tempi moderni
forse mai si verificava. Una colpa spaventosa che Dio non aveva l'abitudine di
perdonare.
Rilesse
la frase e gli parve di trovare la salvezza. "Chi tace colpevolmente un peccato
mortale..." Diceva il libro. La sua superstizione certo non era di
questa categoria. Dunque anche l'averla taciuta non era sacrilegio.
La
consolazione fu breve. Ripensandoci, si accorse che questo era un ragionamento
falso. Nel libro l'ipotesi di un peccato veniale taciuto per vergogna
non veniva neppure considerata; evidentemente non si riteneva possibile che uno
si vergognasse di un peccato veniale. Il fatto stesso della vergogna implicava
dunque la gravita del peccato, vera o presunta che fosse; che poi il peccato
fosse veramente mortale o invece soltanto creduto mortale, questo al giudizio
di Dio non aveva importanza. Era il fatto di tacere per vergogna e non la
gravita intrinseca del peccato taciuto che Profanava la Confessione.
Egli
era poi riuscito a confessarlo, il peccato, era vero; ma in fondo rimanevano
due confessioni distinte; era lo stesso che, due anni dopo per Tempio, egli si
fosse accusato di superstizione dinanzi al sacerdote, senza pero far cenno del
peccato commesso nella confessione precedente tacendo per vergogna. Aveva
saputo insomma vincersi, ma parzialmente, non in modo da poter sanare la prima
colpa.
Moltiplicata
dalla notte, l'idea del sacrilegio si trasformava leni mente in condanna senza
rimedio. L'anima del fanciullo, per la prima volta, urtava contro la squallida
muraglia della vita. Invano Domenico s diceva che tanta vergogna era troppa per
un ragazzo; sì e no la avrebbe potuta sopportare un uomo adulto; e gli pareva
che ci fosse sotto una profonda ingiustizia. Invano si domandava: per un attimo
di smarrimento, per un istante di paura, la maledizione di Dio?
Il
ragazzo si sentiva perduto. Mai e poi mai, gli pareva, sarebbe riuscito a
confessare il sacrilegio. Dure punizioni ne sarebbero seguite - don Paolo certo
non rivelava agli altri ciò che gli si confessava, ma in un caso così grave
avrebbe sentito il dovere di avvertire suo padre. Così immaginava il ragazzo.
Il disprezzo di tutti sarebbe caduto su di lui. Fra l'altro sarebbe stato
mandato a un collegio. E non pensarci nemmeno alla meravigliosa nave a motore
che il papa gli aveva promesso se avesse passato bene l'anno scolastico.
Ma
che gli importava più della meravigliosa nave in quella notte di tormento?
"Bisogna che riesca a confessarmi prima di far la Comunione, se no il
peccato si raddoppia", pensò il fanciullo, ma era un progetto teorico,
senza profonda convinzione. Capiva benissimo, Domenico, che sarebbe occorso
confessare tutto anche ai suoi e ne sarebbe nato uno scandalo.
Solo
nel mondo, il bambino smaniava nel letto; nessuno, assolutamente nessuno,
all'infuori di Dio, sapeva del suo delitto. Il giorno dopo tutti gli avrebbero
parlato con il solito affetto, il papa gli avrebbe consegnato il famoso
orologio d'oro a polso, molti altri regali sarebbero giunti dai parenti. Tutto
inutile tutto inutile, per lui la vita non poteva offrire più nulla di buono.
Fino
a che giunse il pietoso sonno e, vinto dalla stanchezza, il ragazzo giacque
immobile sul letto, dimenticando ogni cosa.
Oh
non fosse mai andato a svegliarlo il servitore Pasquale, il mattino dopo.
Vecchio di casa Pasquale adorava Domenico e quel giorno ci tenne a portargli il
primo saluto. “Svelto svelto, signorino” gridò gioiosamente aprendo le imposte
“è già tardi, avete appena il tempo di vestirvi. La signora Rop è già pronta.”
Domenico
balzò a sedere sul letto, sentiva che una cosa importantissima era cambiata per
lui in male. Per qualche istante non riuscì a rintracciarla. Poi la coscienza
del sacrilegio gli affiorò nell'animo con potenza maligna, se pur alquanto
spogliata degli orrori notturni, "i sedette sul letto, vide, piegato con
cura sullo schienale di una sedia, il suo vestito nuovo, con attaccata alla
manica sinistra una fascia candida di seta e la frangia d'oro, simbolo della
sua presunta purezza.
Rispetto
alla sera prima, la freschezza del mattino gli aveva dato nuove forze contro la
sciagura. E con gioiosa sorpresa egli si trovo fermamente deciso a chiedere una
confessione supplementare. Due o tre minuti sarebbero bastati, prima della
cerimonia collettiva. Sarebbe an-?1" lui direttamente da don
Paolo, senza neppure avvertire la governanti avrebbe affrontato l'eroico
rimedio, costasse quel che costasse; adesso, ripensandoci, capiva che don Paolo
probabilmente non avrebbe rivelato il segreto a nessuno; forse non avrebbe
preso la cosa neppure sul serio.
Perché
allora Domenico, in quell'improvviso slancio di coraggio, Ile confidarsi a
Pasquale? Quale insidioso desiderio lo fece parlare?
“Pasquale”
disse improvvisamente il ragazzo, tentando un tono quasi scherzoso, “tu vai mai
a confessarti?”
“Ogni
settimana, signorino.”
“E
dimmi una cosa. Hai mai taciuto un peccato per vergogna?”
“Oh,
non saprei, signorino. Spero di no.”
“Ma,
dico, allora” fece Domenico con un ritorno di apprensione “è molto grave tacere
un peccato per vergogna?”
“Certo,
signorino, è peccato mortale.”
“Pasquale!”
esclamò il bimbo (mortagli la mamma nei primi giorni di vita, il servitore era
l'unica persona al mondo con cui egli avesse vera confidenza) “Ieri ho taciuto
un peccato per vergogna!”
“Oh,
signorino, non sarà stato un gran peccato.”
“Sì,
ma dopo son tornato da don Paolo e l'ho confessato.”
“Ma
allora non c'è niente di male. Allora tutto è a posto.”
“Gli
ho detto il peccato” specificò il ragazzo “ma non gli ho detto che prima
l'avevo taciuto per vergogna.”
“Quante
complicazioni!” rispose Pasquale ridendo, poiché cominciava a non capirci più
niente. “Quante complicazioni inutili. Se l'avete confessato, non ci pensate
più, signorino. Cosa andate a mettervi in mente? Su su, presto, a lavarsi.”
“Ma
dici sul serio che non può essere un peccato mortale?”
“Macché
peccato mortale!” fece Pasquale, inconsapevole di cosa potesse essere un'anima
umana. “Non ci pensate nemmeno. Guai a sofisticare in queste cose. E allora che
si finisce per far peccato!”
Oh
quanto volentieri Domenico si lasciò persuadere da così semplice ottimismo.
Certo Pasquale non immaginava neppure che il suo padroncino potesse macchiarsi
di una colpa grave; a quell'età, pensava, tutti i bambini sono di per se stessi
innocenti; qualsiasi cosa facciano, in fondo la colpa non è loro, Dio non può
che perdonarli.
Così
il proponimento di confessarsi prima della comunione svanì in Pochi istanti
dalla mente di Domenico. Il ragazzo benedì in cuor suo Pasquale che aveva
risolto con tanta bontà e saggezza il problema. Si vestì con esagerata
animazione. Corse a salutare la signora Rop, la baciò sulle guance come da parecchie
settimane non faceva.
“Ci
voleva la prima Comunione perché tu ritornassi gentile” gli disse a
governante, severa ma compiaciuta.
Il
rito in chiesa si svolse rapidamente fra raggi compatti di sole eh penetravano
dalle vetrate, fumate di incenso, solenni boati d'organo. Domenico seguì la
Messa col massimo scrupolo, osò ringraziare il Signor che lo aveva liberato
dall'affanno della sera prima, si avvicinò con la massima compunzione
all'altare per ricevere il Sacramento, fu un ragazzo modello. Ma, sebbene
cercasse di agire in modo da guadagnarsi il favore di Dio e degli uomini, egli
attendeva invano la sperata letizia Guardando i compagni, non riusciva più a
considerarli uguali a sé; cari finalmente che li invidiava. Invidiava la loro
spensieratezza, il loro sorriso sincero, i loro regali, la loro giornata di
festa. I doni, il rinfresco organizzato in suo onore, il pomeriggio di giochi
con i compagni, tutto era ormai per lui avvelenato.
Mentre
usciva dalla chiesa dando la mano alla signora Rop, cominciava a dubitare che
Pasquale avesse avuto ragione. Che ne poteva sapere lui, così ignorante? E poi
la questione non gli era stata spiegata con esattezza. Era probabile che il
servitore avesse non capito. Sì, sì, era certo:
Pasquale
aveva parlato leggermente, tanto per fargli un piacere, e lui ci aveva creduto
troppo volentieri. Nelle parole di Pasquale aveva creduto di trovare una scusa
che in verità non valeva niente.
Giunse
a casa che il mondo attorno gli appariva immerso in una nebbia. L'orrendo
segreto! Aveva fatto la Comunione con un peccato gravissimo sulla coscienza; il
sacrilegio si era moltiplicato. Rispose meccanicamente ai complimenti dei
familiari, meccanicamente sorrise, meccanicamente trangugiò le paste e i
gelati, che gli parvero nauseabondi. Ricordò un libro, una storia poliziesca,
in cui l'assassino recitava fino in fondo la parte del poliziotto. Gli pareva
di essere come lui, anzi peggio. Rispondendo ai saluti, mangiando le paste,
ricevendo i regali, non faceva che ingannare il padre, la signora Rop, gli
amici che lo credevano un ottimo figliolo. Oh, se avessero saputo!
Visse
quella giornata come in un torbido sogno. Arrivò alla sera estenuato dalla pena
e dalla continua finzione. “Non sta bene questo ragazzo,” disse la signora Rop
all'ing. Molo, mentre il bimbo andava a dormire. “Deve avere mangiato troppo.”
“No,
no, sto benissimo” fece il bimbo, che pure si faceva di ora in ora più pallido.
Passando
i giorni, alternandosi le lezioni a scuola e i giochi con i compagni nelle ore
di libertà, il tormento non accennò a calmarsi. Domenico non aveva neppure il
coraggio di interpellare il libro da messa, certo avrebbe trovato nuove parole
che lo condannavano alla pena eterna. Gli esperimenti in classe, i giocattoli,
i libri d'avventure, gli incontri con gli amici al Parco, i giri in auto con
suo padre, non avevano ormai per lui " minimo interesse. Domenico si
lasciava trascinare dal ritmo giornaliero della vita, unicamente preoccupato di
non tradirsi. E infatti nessuno sembrò accorgersi della sua angoscia.
Un
giorno, entrato per caso nella camera della signora Rop, scorse sul tavolino da
notte un libro. Breve trattato di religione era il titolo. Il primo
impulso fu di avversione come se fra quei fogli lo attendesse un agguato.
'"Ti stesso tempo il libro lo attraeva potentemente. Senza rendersene
conto, egli l'aveva già preso in mano, già lo sfogliava, già cercava lo
spaventoso argomento.
Misterioso
influsso guidò i suoi occhi, li arrestò sulla pagina 190, li condusse al punto
fatale. "Chi sa di essere in peccato mortale" era scritto "deve
fare una buona confessione prima di comunicarsi. E se si accostasse a ricevere
la S. Comunione sapendo di non essere in grazia di Dio, riceverebbe Gesù
Cristo, ma non la sua grazia, e commetterebbe un orribile sacrilegio rendendosi
così meritevole di dannazione."
Scosso
da un tremito mai prima provato, Domenico lasciò cadere a terra il libro, uscì
dalla stanza, girò senza requie per la grande casa a Quell'ora deserta. Le cose
più care, gli oggetti più desiderati, i progetti più audaci di viaggi e di
successi gli erano diventati odiosi. Il suo animo chiedeva soltanto un po' di
riposo.
Ma
come? Alla sola idea di confessare l'orrendo peccato, l'animo di Domenico si
ribellava. A costo di affrontare duri castighi egli avrebbe evitato, con
qualsiasi pretesto, alla prossima scadenza mensile, di andare a confessarsi. E
il mese dopo lo stesso; mai più avrebbe potuto farlo.
Cominciò
allora a pensare: rimanderò di mese in mese, di stagione in stagione, non andrò
più in chiesa, (come del resto fa anche mio padre) passeranno interi anni, pure
verrà bene un giorno in cui mi dovrò confessare. Altrimenti l'inferno, la
dannazione eterna. Pensò a una caldaia di pece bollente, lui Domenico
completamente immerso, un dolore spaventoso da fare impazzire, eppure non
svenire mai, giorno e notte quell'atroce supplizio, e domani ancora, e ancora
il giorno dopo, sempre avanti così, mai, neppure per un istante una diminuzione
di sofferenza, questo per interi anni, per centinaia di anni, per milioni, inutilmente
aspettare la morte, sempre così, sempre così, per l'eternità dei secoli. Gocce
di sudore scendevano dalla fronte del ragazzetto, gli occhi si erano accesi di
febbre.
"Ecco,
quando sarò in punto di morte" concluse "allora finalmente avrò il
coraggio di confessare." E fece una specie di giuramento con se stesso, un
impegno solenne, l'unica superstite via di salvezza.
Questo
progetto, meditato con ferrea determinazione, servì un poco a tranquillizzarlo.
Con l'andar del tempo anzi divenne l'idea fissa, l'appiglio a cui Domenico si
aggrappava nei momenti di maggiore pena, il motivo più profondo e vivo
dell'anima sua. La morte, pensiero così '"adatto ai bambini, si
trasformava così in una specie di rimedio, pur non assumendo nessuna
particolare consistenza. Domenico, come tutti alla ^a età, la considerava un
fatto strano e lontanissimo, che per decine "anni non lo avrebbe potuto
riguardare personalmente. Si era così Procurato una lunga tregua, che almeno
gli permetteva di vivere.
Neppure
quando si ammalò, circa un mese dopo la prima Comunioni Domenico pensò
seriamente alla morte. Si mise in letto con forti dolori di ventre e alta
febbre, il medico dichiarò che era una semplice colica consigliò un purgante e
il riposo. Il giorno dopo però la febbre salì ancora fin dal mattino. I dolori
erano cessati, ma uno strano sfinimento diffondeva in tutte le membra.
“Signora
Rop” chiese a un tratto il bimbo alla governante che sedeva ai piedi del letto,
nella camera in penombra, con le mani incrociate sul grembo, immobile e
silenziosa, “signora Rop, credete che io possa morire?”
“Morire?”
fece la signora Rop. “Sono discorsi da fare alla tua età? E poi, dimmi, avresti
paura di morire?”
“No,
paura no” osò dire il bambino. “Ma vorrei allora confessarmi ” E aggiunse con
qualche ipocrisia: “Mi hanno detto alla dottrina che si va in paradiso solo se
si muore in grazia di Dio”.
“Basta,
adesso, con questi sciocchi discorsi” fece la signora; “cerca piuttosto di
dormire.”
Nel
pomeriggio la febbre continuò a salire. Domenico sentiva nella testa un fondo
ronzìo, gli oggetti attorno tremolavano, come d'estate le case sotto il sole.
Udì senza invidia, attraverso la porta della stanza, il rumore delle stoviglie
dei suoi che mangiavano. Si lasciò passivamente esaminare dal dottore, invece
di uscire, come faceva di solito dopo pranzo, si era seduto in un angolo della
stanza, come aspettando qualcuno. Si accorse pure che i medici erano due, sentì
che parlavano, udì ad un certo punto una strana parola; peritonite.
“Papa”
chiese allora con un grandissimo sforzo, perché la boccagli si era tutta
impastata, “papa, credi che io possa morire?”
“Macché
morire!” anche lui rispose. “Che cosa ti salta in mente? Domani starai meglio.”
Le
ultime parole il bimbo non le udì neppure, perché era entrato in delirio.
Verso
le undici - i due medici stavano discutendo con un terzo in un salottino, a
bassa voce - verso le undici l'ing. Molo, che fino allora si era mostrato
ottimista, disse:
“Signora
Rop, non sentite un rumore?”
“Un
rumore? Che rumore?”
“Un
rumore come di un uccello che batte le ali.”
La
signora Rop credette ch'egli facesse allusione alla morte.
“No,
signor ingegnere” rispose urtata “non sento proprio niente.” "Tutta
letteratura!" mormorò fra sé. "Possibile che con il figlio in quelle
condizioni lui abbia ancora voglia di dire certe cose?"
“Come
avete detto, signora?” chiese l'ing. Molo.
“Niente,
non dicevo niente,” mentì la governante.
Allora
l'ingegnere Molo disse al servitore, pure in attesa in un angolo della stanza:
“Pasquale,
mentre i dottori decidono se portarlo in clinica o no, va un momento a vedere
sul balcone. Continuo a sentire quel rumore, ci deve essere qualche bestia.
Qualche rondone, può darsi; ma da fastidio.”
Pasquale
uscì sul balcone, vide la notte, i lampioni nella strada, qualche passante,
tutto come al solito. Tese le orecchie, non c'era che il consueto silenzio
della città, con quel continuo brontolìo in fondo.
Tornò
dentro, disse; “Non c'è niente, signor ingegnere, neanche io sento
niente".
“Possibile?”
fece l'ingegnere allarmato. “Adesso poi è ancora più f tè È proprio come un
battere d'ali. Ci deve essere pur qualche cosa.”
Oh,
se c'era qualche cosa. Mentre nel salotto addobbato in stile Luigi XV i tre
medici stavano discutendo se convenisse tentare o no l'operazione, mentre la
signora Rop guardava severamente le boccette di medicinali e le scatole di
iniezioni allineate sul comò giudicandole inutile spreco, mentre il padre, allo
strano rumore d'ali, finalmente ne capiva lo spaventoso significato, la
testolina di Domenico, che era ritta contro un cumulo di cuscini, si piegò
leggermente da una parte, si abbandonò a se stessa, rimase ferma.
Ecco
adesso una immensa città sulla riva del mare, così immensa che sembra non
finire mai: case, viali e ordinati giardini distesi sulla scalinata dei monti
attorno, fin dove arriva la vista. Domenico, cosa strana, si trovò
improvvisamente a metà di una scala e ignorando dove fosse, non sapeva se
andare in su o in giù. Pure trovava naturale la cosa, perché si rendeva conto
di essere morto, e qualsiasi avventura non l'avrebbe gran che stupito. Si
guardò prima di tutto le mani, cercò poi la propria immagine riflessa in una
porta a vetri, riconobbe se stesso, identico, vestito come il giorno della
prima Comunione, solo che al braccio sinistro non aveva la fascia di candida
seta.
Una
giovane e bella donna, dalla faccia dipinta, gli si fece vicina, scendendo
dalla scala:
“Sei
appena arrivato?” gli chiese. “Oh povero bambino, così presto?”
“Sì”
fece Domenico che solo lentamente prendeva coscienza del nuovo stato, “e qui
dove siamo?”
“Non
ha nome questa città” disse la ragazza cordialmente. “Si viene qui per il
giudizio. Poi saremo spediti dove ci tocca.”
Alla
parola "giudizio" si ridestò impetuoso in Domenico il ricordo del
sacrilegio, delle pene trascorse, della malattia, della inaspettata morte, così
repentina che non aveva fatto in tempo a confessarsi. E il ragazzo si sentì
ancora una volta perduto.
“Anch'io
sono arrivata oggi,” disse ancora la giovane, vedendo che il bimbo non
rispondeva. “Ma è inutile che tu faccia il muso. Il peggio è Passato. Che paura
vuoi avere tu, così piccolo? Tu certo sarai perdonato.”
“Oh,
mio Dio!” esclamò, sopraffatto dall'angoscia, Domenico, scoppiando in
singhiozzi e si aggrappò alla sconosciuta, cercando in lei un aiuto.
La
giovane si sedette su uno scalino, prese il bimbo sulle ginocchia, cercò di
consolarlo, si fece spiegare - e fu lungo perché i singhiozzi lo scuotevano tutto
- il motivo di tanto dolore, infine tacque, meditabonda non sapendo che dire.
“Usciamo,
intanto” propose dopo qualche minuto e, preso Domenico per una mano, lo
condusse giù per le scale.
Uscirono
in un viale larghissimo, pieno di gente e inondato di sole Nella maggioranza
erano uomini e donne anziani, molti pure i vecchi rarissimi i bambini. Domenico
si accorse che parecchi lo fissavano con curiosità e si scambiavano pure
commenti, qualcuno scuotendo il capo in atto di commiserazione.
La
giovane, di nome Maria, benché fosse giunta da poche ore, si era già
perfettamente ambientata e si mise a spiegare al ragazzo che razza di città
fosse quella. Gli abitanti erano tutti uomini morti - le loro anime s'intende -
in attesa di essere giudicati. Innumerevoli tribunali, disseminati per la
sterminata città - le loro moli si distinguevano subito campeggianti sopra ogni
altro edificio — funzionavano in permanenza dall'alba alla sera.
Fino
al momento di iniziare la vita eterna, dannazione o salvezza i morti conservavano
ancora la loro umana parvenza, e come uomini ancora vivevano, in case simili a
quelle lasciate sulla terra, con l'unica differenza che tutto era sempre in
ordine, non si formava sporco, niente si logorava per l'uso.
Alcuni
venivano giudicati quasi subito dopo il loro arrivo, altri invece dovevano
aspettare. Moltissimi erano in attesa ancora da migliaia di anni - così almeno
raccontava Maria, e a questo punto la sua voce si era fatta come misteriosa. —
Si diceva che fossero i cattivi, gli uomini destinati alla pena eterna, a cui
si concedeva una specie di rinvio senza fisso termine. Non che molti non
venissero giornalmente mandati alla dannazione; ma era certo che la precedenza
toccava alle anime sante; poi ai meritevoli di salvezza con pene temporanee;
infine ai casi dubbi; i malvagi, era fama, passavano in coda a tutti.
Non
vi era comunque una netta discriminazione, tanto più che il giudizio non poteva
essere anticipato: le eccezioni a questa specie di regola erano di tutti i
giorni. Le anime in attesa restavano così sospese a un continuo dubbio, si
logoravano nell'incertezza, non sapevano se fosse meglio affrontare o rimandare
la fatale sentenza.
Meravigliosa
era la vista della città, quale mai nessun uomo, sulla povera terra, avrebbe
potuto immaginare. Meravigliosa per architetture, alberi immensi, fiori
infiniti, il mare di un azzurro sconosciuto, il ciclo limpido, con nuvole
bianche di pittoresca forma che non toglievano mai il sole. Pure Domenico,
avvelenato dal rimorso, non ne traeva alcun piacere e come lui, visibilmente,
restavano affatto freddi moltissimi altri, seduti sulle panchine, o sdraiati
sui prati, o affacciati pensosamente alla finestra, tutti esprimenti infinita
noia e nessuna speranza: forse i malvagi, il cui giudizio non si
faceva mai.
Erano
giunti in un bellissimo giardino, pieno di fontane e di uccelli-“Sediamoci qui”
disse Maria accennando a una lunga panchina all'ombra, “tanto, se è il nostro
turno, ci verranno a chiamare.”
Sedettero,
e un signore sulla cinquantina vestito molto distintamente, vedendosi accanto
Maria, dopo averla lungamente squadrata, lasciò il suo posto con aria sdegnosa,
trasferendosi a un'altra panchina più in là, vicino a due pacifiche vecchie.
"Perché?"
chiese Domenico alla sua protettrice. “Lo conosci?”
“Mai
visto” rispose la ragazza, oscuratasi in volto. “Ha fatto così perché io...”
"Dovrebbe vergognarsi" mormorò poi fra sé e sé "come se anche
lui non fosse morto!"
Domenico
non capì perché il distinto signore se ne fosse andato, ma tacque, nuovamente
assorbito dalla propria sciagura. Maria adesso lo guardava con grande pietà, ne
sapeva come consolarlo perché la colpa di Domenico, così come lui gliel'aveva
spiegata, le sembrava realmente di una gravita estrema.
“Quando
ero viva” disse Maria, tanto per provare un argomento, quando ero viva mi
chiamavano Mèri. Ma adesso sarebbe poco serio...” e aggiunse un timido sorriso.
Ma
Domenico pareva non la sentisse. Sedeva immobile, lasciando penzolare le gambe,
gli sguardi fissi dinanzi a sé, privi di vita.
“Mi
sarei levato anche questo rosso” continuò Maria, pur di non lasciare dominare
il silenzio, e così dicendo si passava le dita sulle labbra, cariche di
carminio; “me lo sarei levato, ma, non so come, da che sono morta, non riesco
più a mandarlo via, ho un bei fregare, sembra entrato nella pelle.”
Ancora
rise la ragazza, questa volta più vivamente, ma Domenico non mosse ciglio.
Tristissimo egli teneva gli sguardi fissi dinanzi a sé, senza la minima
espressione di vita.
Fu
lieta quindi Maria quando due uomini, due tipi grossolani di operai, si
sedettero accanto a loro, chiacchierando animatamente. Forse i due sarebbero
riusciti a distrarre il ragazzo.
“E
come dico io” sosteneva uno dei nuovi venuti. “E questa la pena. Restare ad
aspettare in eterno, sempre col dubbio di poter essere chiamati.”
“Magari!”
esclamò l'altro, che evidentemente doveva avere grossi pcs! sulla coscienza.
“Magari! ma sarebbe troppo comodo. La chiami punizione questa?”
“Parli
così perché sei qui da poco” ribatté l'altro con un'espressione indefinibile
nella voce. “Cosa vuoi di peggio? Questa maledetta vita, non avere mai un'ora
tranquilla, sempre la paura che ti chiamino. Vorrei vedere tè, dopo
quarant'anni, come io adesso. Ogni giorno gli altri che se "e vanno al
paradiso, ogni giorno a migliaia, e dover restare inchiodati I"1)
a fare niente, senza poter neanche lavorare, e di minuto in minuto per paura
che ti chiamino, lo capisci?” E pareva agitato da infrenabile smania. “E sapere
che se ti chiamano sei perduto e invece nessuno viene, nessuno si ricorda di
noi, nessuno in tutto l'universo, neppure Dio più ci Scorda. Soli come cani,
capisci?”
“Basta
adesso!” lo interruppe il compagno con ira. “Basta, adesso. Ho capito. Che
bisogno c'è di tormentarsi ancora?”
“Che
bisogno c'è... che bisogno c'è... che bisogno c'è...” fece l'alta
rinchiudendosi a poco a poco in un cupo mutismo.
Tacquero
così i due uomini, taceva Domenico, sempre immobile taceva pure Maria che
guardava pietosamente il bambino, senza preoccuparsi dei propri peccati;
pura incoscienza o sfrenata fiducia nella misericordia di Dio?
Stettero
in tal modo fermi e silenziosi per parecchi minuti senza speciale fatica,
perché il tempo pareva sospeso; mancava stranamente come prima laggiù sulla
terra, il senso delle ore che fuggono, fuggono e non si riesce a star dietro.
Finalmente
uno dei due uomini parlò, quello che aspettava da quarant'anni.
“Di'”
fece all'altro improvvisamente “non ce l'avresti mica ancora una sigaretta?”
L'altro,
senza muovere il volto torvo e brutale, trasse fuori di tasca un pacchetto di
"popolari", lo allungò al compagno. Entrambi accesero e cominciarono
a fumare. Quello dalle sigarette parve però esser preso da un improvviso
sospetto:
“Ehi”
chiese con risentimento “mi avevi chiesto se avevo ancora delle sigarette?”
“Sì,
e con questo?” fece l'altro.
“Se
avevo ancora delle sigarette? Perché "ancora"?”
“O
bella!” disse l'altro “perché qui non se ne trovano. Pensavo che le avessi già
finite.”
L'uomo
dal viso torvo si rivoltò, imbestialito:
“Come?
Non se ne tro...”
Non
poté finire la frase. Il compagno gli diede un secco colpo di gomito in un
fianco, facendogli un segno col capo, come a dire che stesse attento, che non
era il momento di sbraitare. Attraverso il viale avanzavano infatti verso la
loro panchina, a colere passo, due giovani in uniforme, due specie di valletti.
“Vengono
a chiamare uno di noi” avvertì a bassa voce quello che aspettava da
quarant'anni. “Vengono per il giudizio.”
Entrambi
impallidirono orribilmente. Per uno di loro era dunque giunta l'ora fatale. Non
pensarono che potesse trattarsi della giovane donna o del bambino seduti al
loro fianco. Ed era invece proprio cosi:
“Maria
Ferri! Domenico Molo!” chiamarono quasi contemporaneamente i due strani
valletti. “Presto, presto! Tocca a voi!” E lo dicevano con voce cordiale, come
se recassero una lieta notizia.
Maria
e Domenico si alzarono e si fecero incontro.
“Siamo
insieme?” domandò subito la donna a uno dei valletti con stupefacente disinvoltura,
quasi parlasse a un cameriere.
“No,
mi dispiace,” disse il messaggero. “In due tribunali differenti.”
Dovettero
separarsi. Il bimbo si abbrancò al collo di Maria, scoppiò in un lungo pianto,
non voleva abbandonarla.
“Ci
rivedremo dopo” diceva la donna amorosamente. “Partiremo insieme, vedrai. Ti
aspetterò qui. Non aver paura.”
Sempre
singhiozzando, ma sempre più debolmente, il bimbo a poco a poco si accorse di
camminare tenuto per mano da uno dei valletti. Erano usciti dal parco e si
dirigevano verso uno degli immensi tribunali, una specie di torre mozza, di
incalcolabile ampiezza, priva di tetto.
Nelle
vicinanze dell'edificio era raccolta una stragrande folla, che urgeva agli
ingressi, ansiosa di poter entrare. Non si udivano però urli incomposti, imprecazioni,
proteste, come avviene nella solita vita; soltanto un brusìo si levava, un
diffuso stormire di gente che parli fitto e sottovoce.
II
messaggero condusse Domenico a una porticina chiusa, a cui la folla non badava,
la aprì con una chiave, entrò con il bambino, richiuse la porta, cominciò a
salire una stretta scala illuminata da lampadine elettriche.
Domenico
già ansimava dalla fatica quando sbucarono all'aperto, nella cavea dell'immenso
tribunale. Il bimbo si ricordò certe fotografie di stadi americani dove si
facevano i grandi incontri di pugilato; ma questo era infinitamente più grande;
a milioni dovevano essere gli uomini che gremivano le scalinate, erigentisi
ripide verso il ciclo. Pure vi era un grande silenzio.
Domenico
vide, nel centro, una specie di palco dove sedeva, isolatissimo, un signore
anziano vestito di scuro. Di fronte al palco si ergeva il trono - non si poteva
dire altrimenti per la sua regale solennità - il trono del giudice. Era una
persona giovane, dal volto bellissimo, vestito di un manto rosso; di un colore
meraviglioso, quale sulla terra non si conosce, che risplendeva nello smisurato
circo e pareva illuminarlo più del sole. Due altri personaggi, con un mantello
nero e uno bianco rispettivamente, sedevano a fianco del giudice, a un livello
alquanto più basso.
Era
strano come, nonostante le proporzioni vastissime del tribunale, le voci
giungessero distintamente anche agli estremi punti perimetrali. In quel momento
il signore sul palco si era alzato in piedi e parlava.
Domenico
e il giovane in uniforme erano intanto scesi verso la platea, avvicinandosi al
centro. Il bimbo con stupore riconobbe nell'uomo sul palco, probabilmente in
procinto di essere giudicato, il signore che si era alzato sdegnoso dalla
panchina quando lui e Maria gli si erano seduti vicini. Ora Domenico sentiva
benissimo le sue parole.
“Io
davo lavoro a 2300 operai” diceva in orgoglioso tono cattedratico” tornendo le
frasi, come se tenesse una conferenza. “In fondo ho dedicato tutta la vita per
loro. Senza di me avrebbero fatto la fame; le loro donne avrebbero popolato le
prigioni. Con la mia paga potevano invece vivere bene. Temo anzi che fosse
eccessiva...” qui fece un risetto significalo “Be', del resto non avevo niente
in contrario che anche loro, di tanto in tanto, andassero a divertirsi!”
Disse
questo con un compiaciuto sorriso e si guardò attorno, prima verso il giudice,
poi verso l'immensa folla, persuaso evidentemente di aver guadagnato il
generale favore. Ma il giudice lo fissava senza batter ciglio e il pubblico non
gli si mostrava certo amico. Invano si sarebbe cercato un solo sorriso di
simpatia.
Il
distinto signore sembrò non accorgersene; la certezza in un giuri' zio
favorevole continuò a trasparire dalla sua soddisfatta espressione '
“Ho
poi sempre fatto anche beneficenza extra” disse a un certo punto
sottolineando la parola extra. “Sorvolando le cariche più onerose eh
onorifiche” anche qui fece un piccolo riso che pareva meccanico “in molte
società filantropiche, solevo da molti anni elargire lire 20.000. Certo il
vizio non l'ho mai voluto finanziare!” disse ancora, quasi fosse uno specifico
motivo di benemerenza. Si guardò nuovamente attorno II giudice non batteva
ciglio, la gente lo fissava con sguardi vitrei.
L'uomo
parlò ancora per qualche minuto finché, ad una sua breve pausa, si udì una voce
di timbro sovrumano, voce ferma e pacata, al cui confronto quella baritonale
del distinto signore era abbietto suono. “Basta,” disse la voce.
Due
specie di inservienti, come quello che era andato a prendere Domenico,
comparvero allora sul palco, a fianco dell'industriale e lo trassero giù per la
scaletta, benché lui si dimenasse, facendo segno che aveva ancora molto da
dire. Dalla bocca che si apriva e chiudeva rapidamente non usciva più alcuna
voce umana.
Sbigottito,
Domenico si volse al messaggero, chiedendo: “E allora? Va all'inferno?”.
“Credo
di sì” rispose l'altro. “Di solito è brutto segno quando finisce così. Ma
andiamo: tocca a tè, adesso.”
Al
paragone del corpulento signore che lo aveva preceduto, Domenico, in cima al
palco, circondato dalla sterminata folla, sembrò piccolo piccolo, debolissimo,
indifeso, un cosino da niente. Avrebbe voluto stare in piedi in segno di
rispetto, ma le forze non lo sostenevano più e dovette abbandonarsi sulla
sedia. Il sole brillava fra i suoi capelli. La gente, alla sua vista, si era
visibilmente rianimata; molti sorridevano bonariamente, qualcuno agitò le mani
in segno di saluto. Era un tenero bambino - pensavano - una piccola anima pura,
e sarebbe stata certamente salva.
Anche
il giudice - così almeno parve a Domenico - gli fece un dolce sorriso, mentre
prendeva in mano un grosso libro, portategli da un inserviente. Poi cominciò a
sfogliare il volume, lo richiuse di scatto, disse con voce grave:
“Non
è il suo, questo libro. Avete sbagliato. Non può essere di un bambino, questo.”
“E
proprio il suo” disse l'inserviente. “Domenico Molo, di dodici anni; non ce ne
sono altri.”
Vi
fu un lungo silenzio. Domenico capiva il perché di quel dubbio” anche l'ultima
speranza abbandonava il suo cuore.
Poi
il giudice alzò il capo e fissando il bambino disse: “Qui è segnato un
sacrilegio” confermò il personaggio ammantato di nero, l'accusatore, alzandosi
in piedi. “Un duplice sacrilegio; egli ha profanato il Sacramento tacendo per
vergogna alla confessione il fatto di aver taciuto, pure per vergogna, a una
precedente confessione, un peccato creduto mortale; una seconda volta ha
sfidato la collera di Dio, ricevendo la Santa Comunione mentre sapeva di essere
colpevole di sacrilegio.”
“Non
era sacrilegio” ribatté dignitosamente l'altro personaggio, vestito di bianco.
“Il peccato da lui taciuto non aveva alcuna importanza.
“Forse
non aveva importanza” fece l'accusatore “ma è un fatto che lui lo credeva
gravissimo, tanto che nella prima confessione non ha avuto il coraggio di
rivelarlo. Egli aveva dunque coscienza di tacere un peccato mortale e in ciò
sussiste la grave colpa iniziale.”
“Anche
ammettendo questo” disse il personaggio in bianco, il difensore “il male è
stato sanato, perché subito dopo egli ha saputo vincere la vergogna,
confessando il peccato.”
“Non
bastava” replicò l'altro, “non bastava: egli ha confessato il peccato ma si è
guardato bene dal dire che prima l'aveva taciuto per vergogna.”
“In
quel momento” disse il difensore “lui non si rendeva conto della necessità di
specificare. In buona fede credeva che bastasse ciò che ha fatto.”
“Non
è vero! Prova ne sia che subito dopo egli è stato assalito dal rimorso.”
Domenico
ascoltava il dibattito senza riuscire a seguirlo. I suoi occhi spaventati
giravano sulla folla e non più incontravano sorrisi e cenni affettuosi, bensì
sguardi colmi di esecrazione e stupore. Mostruoso appariva quell'esile bambino
che aveva saputo offendere così gravemente Iddio. Doveva essere - pensava la
gente - un ragazzo orribilmente precoce, contaminato oramai fino in fondo.
Nessuno osava parlare, ma in tutti covava una sorda agitazione, un desiderio di
fuga, come se fosse troppo crudele assistere fino in fondo. E il cielo, per
ravvicinarsi del tramonto, si faceva sempre più azzurro.
Parlò
ancora il difensore: “Egli avrebbe confessato tutto il giorno dopo, prima della
Comunione. Era oramai deciso - diceva - ma fu mal consigliato. A quell'età
manca una completa consapevolezza”.
“Troppo
volentieri ha obbedito a quel consiglio” replicava l'accusatore. “Nel fondo
dell'animo egli sapeva benissimo che la scusa era insufflante. Ha creduto di
poter scherzare con Dio.”
“Ma
poi si è pentito” esclamò il difensore. “La voce della coscienza lo ha
tormentato giorno e notte. E aveva fatto proponimento fermissimo di rimediare,
aveva scritto questo suo giuramento anche in un quadernetto, Infossando tutto
quanto.”
“Un
proponimento troppo vago. Aveva rimandato la confessione a quando fosse stato
in punto di morte, perché era sicuro che sarebbe me solo a tarda età. Troppo
comodo! Sapeva bene che dopo tanti anni non sarebbe costata alcuna fatica
confessare anche un sacrilegio.”
“Ma
come può pensare un bambino a queste cose?” domando il difensore. “Un'astuzia
da Lucifero in un bambino? Aveva rimandato I confessione perché il peso del
peccato, di ciò ch'egli riteneva gravissimo peccato, gli aveva tolto
ogni forza. Già egli aveva espiato abbastanza nelle notti di disperazione.”
“Soffriva
soltanto per paura” disse l'accusatore, “non per il rimorso di aver offeso Dio.
Temeva l'inferno e questo solo gli toglieva la pace. Troppo poco per la
remissione dei peccati; non basta l'attrizione, come dicono gli uomini. Il
dolore perfetto, la contrizione, il dispiacere di aver insultato Dio non lo ha
affannato neppure un istante. Il fatto che sia.. ”
Sospese
la frase notando qualcosa di strano che stava succedendo Da un punto
dell'estremo culmine dell'arena, proprio di fronte a lui un uomo scendeva a
precipizio, facendosi violentemente strada fra la densa folla; e gridava parole
incomprensibili, agitando in una mano dei fogli bianchi. La sua marcia
impetuosa lasciava nella moltitudine una visibile scia a zig zag, come canotto
in acqua stagnante.
Taciutosi
l'accusatore, le grida dello sconosciuto si fecero più distinte: “Adagio!
Adagio!” gridava. “Aspettate, aspettate un minuto!” E scavalcando persone
sedute, scostando gli indifferenti a colpi di gomito, agitandosi come un pazzo,
scendeva sempre più verso il centro del tribunale.
Anche
Domenico finì per voltarsi. E quando riconobbe chi era quell'uomo, quando lo
vide avvicinarsi ai piedi del suo palco e arrampicarsi su per la scaletta,
allora il bimbo mandò un altissimo grido.
Era
Pasquale, il vecchio Pasquale in persona. E aveva come al solito la sua
simpatica e buona faccia, il suo aperto sorriso, come al solito, sollevò da
terra il bambino e se lo prese in braccio, assolutamente incurante della maestà
del luogo.
Solo
dopo qualche istante Domenico si domandò come mai Pasquale potesse averlo
raggiunto. Anche lui morto? Stava per chiederglielo quando notò sul suo collo,
tutt'attorno, un segno regolare fra il paonazzo e il nero, che non gli aveva
mai visto.
“O
Pasquale” gli domandò spaventato Domenico, con un terribile sospetto.
“Pasquale, che cosa hai fatto?”
“Niente,
signorino, è stato un accidente.” E rideva felice. “Sono caduto malamente in
cantina e una corda mi ha preso qui al collo. Uno stupido accidente.”
“Perché,
perché Pasquale? Che cosa è successo?”
“Niente,
signorino. Lo sapevo, l'avevo sempre detto, con quelle corde lasciate là in
cantina, un giorno o l'altro succede un accidente. Lo dicevo sempre...”
A
questo punto si guardò attorno, ebbe un attimo di vergogna vedendosi addosso
gli occhi della moltitudine, depose a terra il bambino, si rimise un po' in
ordine la giacca, alzò i fogli, rivolgendosi istintivamente al giudice e disse:
"Sono
venuto apposta, signore. È garantito che se non vado finiscono per condannarlo,
mi son detto; loro non sanno. Ma io ci ho qui la confessione".
"Che
confessione?” domandò l'accusatore. Il giudice ascoltava immobile.
“Non
ha potuto confessarsi al prete, il signorino,” esclamò vivamente Pasquale. “Ma
aveva confessato tutto in questo quaderno. E io l'ho trovato in un cassetto.
L'ho portato qui perché serva da prova. Volete che legga?”
Il
personaggio col mantello nero accartocciò le labbra in segno di sprezzo: “Lo
sapevamo già, è tutto inutile” disse, “non ha nessuna importanza. È una
confessione senza nessun valore”.
“Ma
la colpa era stata mia!” gridò Pasquale “Ero stato io a dirgli ch'era una
sciocchezza! Non l'avevo preso sul serio. Soltanto quando il signorino è morto
ho capito.”
“Tu
hai la tua parte di colpa” disse l'accusatore “ma non è sufficiente a scusarlo.
Due sacrilegi ha commesso. A lui il fuoco della geenna!”
“No,
no, signore!” protestò Pasquale “è impossibile! Un bambino di dodici anni! Non
avete cuore voialtri? Un bambino di dodici anni! La pena eterna a un bambino di
dodici anni!” Così esclamava fuori di sé e la smise soltanto quando si accorse
che il giudice si era alzato in piedi.
“Già
viene la sera” disse con la sua voce sovrumana. “Rimando la sentenza a domani.”
Scendeva
infatti la sera. Il sole non illuminava più che le ultimissime file del
favoloso circo, nuvole sottili e bianche si erano irraggiate nel cielo,
annunciando le prossime tenebre. Una grande dolcezza era nell'aria, ma Domenico
non la poteva sentire.
Pasquale,
prendendolo per mano, lo accompagnò giù per la scaletta. In silenzio entrambi
si incamminarono verso una delle uscite, indifferenti al fatto che la gente si
scostasse al loro passaggio come fossero lebbrosi.
Pasquale
scuoteva il capo. Tutto era stato dunque inutile? La notte stessa in cui il
padroncino era morto, oppresso dal dolore, egli si era rintanato nello studiolo
di Domenico, si era messo a rimestare fra i libri e i quaderni che non
sarebbero mai più serviti. Si era ricordato allora che un giorno, un giorno
lontano, almeno due anni prima, il bambino gli aveva parlato di una specie di
cassetto segreto, che aveva scoperto nello scrittoio antico: segreto per modo
di dire perché bastava far scorrere uno sportello u1 legno,
apparentemente unito al resto del piano.
Chissà
che cosa teneva là dentro il signorino. Chissà quali innocenti segreti. E
Pasquale aveva così trovato il quaderno con la confessione.
Ora
Pasquale era religiosissimo, tutte le domeniche andava a messa e due volte al
mese si comunicava, non aveva il minimo dubbio sulla infinita potenza e
sapienza di Dio. La sua fede era ingenua e profonda, ma non gli sembrò
assolutamente possibile che Dio potesse conoscere l'esistenza di quel piccolo
quaderno, rintanato nel nascondiglio dello scrittoio. Non che Dio non ne avesse
la possibilità - pensava - certamente Dio può penetrare dappertutto, leggere i
pensieri di qualsiasi uomo e probabilmente anche bestia, se le bestie riescono
a pensare. Non era proprio questione di fede. Pasquale però non capiva perché
mai il Signore potesse aver voglia di gettare uno sguardo anche in quel
minuscolo ripostiglio. E se Domenico, timido com'era, non avesse
parlato? Se la sua anima fosse arrivata nell'aldilà con la macchia di quel
brutto peccato? Bisognava salvarlo, bisognava raggiungerlo senza perdere tempo.
E perciò si era tolto la vita.
Ora
soltanto capiva come tutto fosse stato vano e cominciava ad agitarsi al
pensiero che il suicidio è condannato da Dio, che la sua bella trovata non era
servita a salvare il padroncino, ma piuttosto aveva rovinato lui stesso.
Turbato
da questi tristi pensieri, Pasquale non parlava più e se n'andava a testa
bassa, trascinando per mano il bambino. Giunto alla soglia di uno dei cunicoli
di uscita del tribunale, si voltò indietro a guardare le immense scalinate
circolari, il trono del giudice, il palco su cui aveva trovato Domenico; tutto
oramai era completamente deserto. Soltanto loro due erano ancora rimasti, e non
c'era un cane che li consolasse tutti evitavano persino di accostarsi a
Domenico, il bambino sacrilego! Non c'era bisogno di aspettare il giorno dopo -
pensavano - per sapere quale sarebbe stata la sentenza.
Ciondolarono
raminghi per le vie, mentre il rosso splendore del tramonto si spegneva
lentamente. Fino a che si trovarono sulla riva del mare a sentire quel profumo
di libertà e di salsedine entrambi furono colti da un confuso rimpianto della
prima vita.
Seduti
su di un parapetto, se ne rimasero a guardare. E videro un bastimento
bellissimo, molto più grande di quelli fatti dall'uomo, ma quasi uguale di
forma. Era bianchissimo con solo una striscia azzurra lungo i fianchi, non
portava nome, e gli ultimi raggi del sole lo facevano risplendere contro il
fondo scuro del mare, immagine viva della felicità umana.
Carica
di anime, la nave candida salpava verso il misterioso regno di Dio, al di là
dello sterminato oceano. Dai ponti si udivano liete canzoni intonate in coro,
creature felici salutavano per sempre la vita. L'acqua, sui fianchi cominciò a
ribollire. Il bastimento lentamente si mosse senza alcun rumore. Aveva quattro
grandiosi comignoli, ma si capiva ch'erano stati messi solo per bellezza.
Dalla
riva, proprio sull'estremo molo, un gruppo di gente faceva segni di saluto.
“Arrivederci!” molti osavano gridare. Altri soltanto:
“Addio!”
esclamavano, con voce rotta dal pianto. Il bastimento passo loro dinanzi;
maestoso si allontanò sui flutti azzurri, divenne rapidamente più piccolo,
dirigendosi verso l'ultimo confine dell'orizzonte.
Intanto
Pasquale e Domenico vedevano, lungo tutta la riva, seduti sui gradini, i
parapetti, o distesi anche per terra, silenziosi e tristi come loro, centinaia
e centinaia di uomini e donne. Essi non avevano salutato i partenti, non
avevano agitato fazzoletti ne gridato "Addio!". Sconsolatamente
fissavano il bastimento che se n'andava verso il regno della beatitudine
eterna, ogni sera tornavano al porto per vederlo, molti oramai da molti anni,
si sedevano silenziosi e di minuto in minuto, quanto più si approssimava la
partenza, l'animo loro traboccava di amarezza e di invidia: poi, quando la nave
era scomparsa nell'oceano avvolto dalle ombre notturne, se ne ritornavano a
lenti passi nella città, rassegnati a un'altra notte di solitudine e di dolore.
"
Come
il bastimento non fu più visibile, Pasquale e Domenico si riscossero, si
guardarono a vicenda nella penombra. “Che peccato!” disse Pasquale e prese per
mano il bambino, rimettendosi in cammino.
Costeggiarono
la riva del mare lungo un largo viale alberato, capitarono in uno dei tanti
giardini della città, sentirono musiche uscire da una specie di rotonda di
carpini. Si affacciarono fra i cespugli.
Sparse
su di un prato, alla luce di grandi lampade elettriche e di graziosi lampioni
colorati, centinaia di persone celebravano una festa. Nel mezzo, gruppi di
giovani donne stavano danzando, sul ritmo di chitarre e violini. Musica e danza
tuttavia risultavano profondamente diverse da quelle usate sulla terra, c'era
un'estrema leggerezza, una soavità, e un candore sconosciuti generalmente agli
uomini.
E
Domenico, fra le donne che danzavano, riconobbe ad un tratto la Maria e capì
ch'era stata perdonata, tanto risplendeva di contentezza il suo volto. Con
tutta la sua esile voce chiamò “Maria Maria!” della qual cosa si pentì subito
amaramente, riconoscendosi indegno.
Maria
lasciò le compagne, si guardò attorno, vide Domenico, corse da lui festante.
“Domani partiamo, allora! Oh, pensa, felici per sempre!” Ma si tacque agli
sguardi disperati del giovanotto.
“Sono
contento per tè” trovò la forza di dirle Domenico. “Per me decideranno domani.”
Maria
sapeva, da quanto aveva sentito dire, che solitamente quello era un brutto
segno; ma si guardò bene dal dirlo. Anzi, cercò di interpretarlo
favorevolmente, per rianimare il bambino. Anche Pasquale intervenne per
consolarlo, ma senza successo. Oramai Domenico era sprofondato in una tetra
semiincoscienza, nell'attesa del supplizio eterno.
Povera
Maria, cercava di condividere il suo dolore, di assumersi un po' del suo
tremendo peso, ma oramai non poteva più, oramai la sua anima era per sempre
costretta a una perenne letizia. Solo si meravigliò come dinanzi a quel bimbo,
che pareva contaminato dal sacrilegio, lei non provasse la minima avversione,
come sarebbe stato logico e giusto in "n'anima entrata nella grazia di
Dio.
Danzarono
ancora per circa un'ora le donne, altrettanto continuarono i suoni di violini e
chitarra. Strano, pareva — se pur pensarlo non era profanazione - che in quella
gente, destinata senza più dubbi al paradiso, restasse ancona un vago rimpianto
delle cose umane, e fino all'ultimo essi fossero virtuosamente goderne. E
altrettanto strano fu che quasi tutti se ne andarono a dormire subito dopo,
quasi che potessero aver bisogno di riposare.
No,
non è che avessero sonno, che fossero stanchi, che si sentissero poco bene;
queste miserie non erano più di loro. Pure era l'ultima volt che potevano
dormire su un letto, addormentarsi umanamente, dimenticare tutto, sognare.
Quello sarebbe stato l'ultimo loro sonno, poi basta per l'eternità infinita. Il
letto non era il loro, su cui avevano in vita dormito, amato, patito, od erano
morti, non era il letto familiare eri amico, lentamente allenato a ricevere il
loro corpo; ma era pure un letto con materasso, elastico, coperte di lana e
lenzuoli bianchi, un letto come quello degli uomini vivi: poi non ne avrebbero
veduti mai più, mai più avrebbero chiuso per stanchezza gli occhi, mai più
sarebbero entrati nel misterioso e qualche volta soavissimo mondo dei sogni. Ed
era perciò dolce distendervisi sopra e addormentarsi serenamente, sapendo che
era l'ultima volta.
A
tarda notte Maria e Domenico ritornarono alla loro casa provvisoria,
accompagnati dal vecchio Pasquale. Nessuno per tutta la sera aveva più parlato
del buon servitore. Pure Pasquale si era sacrificato per il padroncino, per lui
ora rischiava la dannazione eterna. Ma, come era suo costume d'umiltà, anche
questa volta portava chiusa in sé la sua pena, senza disturbare gli altri; come
se non fosse successo niente di strano, come se si trovasse sempre nella casa
dell'ingegnere Molo, rincalzò le coperte del letto di Domenico, lo aiutò a
spogliarsi, gli fece fare il segno della croce, gli spense la luce; poi si
ritirò nella sua stanzetta, un piccolo andito all'ultimo piano. Si distese nel
lettuccio, Pasquale, senza neppure svestirsi e poco dopo era addormentato
profondamente. Solo al risveglio, all'ora sua solita, prima dell'alba, ebbe
come il pentimento di aver dormito così bene, minacciato com'era di pena
eterna; gli parve una mancanza di riguardo a Dio, quasi una sfida alle sue
punizioni e per la prima volta ebbe vera paura. Inginocchiatesi sul pavimento,
dopo aver cercato invano sui muri un'immagine sacra a cui rivolgersi, si mise a
pregare.
Aveva
appena giunte le mani che la porta si aprì ed entrò con agitazione Maria: “E
inutile che tu preghi, gli disse, oramai non serve più a niente. Dovevi
pensarci, se mai, prima di morire”.
Pasquale
si volse meravigliato.
“Vieni
giù, piuttosto” fece la donna. “Domenico è scomparso.”
Scesero
alla stanza del bimbo e trovarono infatti il letto vuoto.
Sulla
sedia erano deposti il vestito, le calze, la biancheria, sul pavimento bene
allineate le scarpe, così come le aveva messe Pasquale la sera prima.
“Domenico!
Domenico” chiamarono i due nei corridoi e giù per w. tromba delle scale,
ma non rispondeva nessuno.
“Dimmi”
chiedeva Pasquale a Maria “credi che sia un brutto segno. scomparire così è un
brutto segno?”
“Non
so, non so” faceva la giovane donna. “Qui in genere dicono che brutto segno. Ma
io non ci credo. Non può essere condannato. E poi non c'era nessun'ombra sul
suo taccino.”
“Ombra,
che ombra?”
“È
proprio così” disse la donna. “Tutti quelli che finiranno all'inferno, hanno
tutti una specie di ombra sulla faccia, chi più chi meno. Prima
""'devo che fosse una superstizione, ma poi mi sono dovuta
persuadere.”
“E
lui no, dici?”
“No,
lui proprio non ce l'aveva.”
Uscirono
intanto dalla casa e si misero a perlustrare le strade e i giardini attorno, a
quell'ora completamente deserti. “Domenico! Domenico!” ogni tanto chiamava
Pasquale.
“Domenico!
Domenico:” La voce risuonava con strani echi nelle strade sembrava che non si
estinguesse mai. Mentre la notte moriva e le case proprio come sulla lontana
terra, si facevano livide, i due giravano con affanno alla ricerca del bimbo.
A
un certo punto Maria si fermò: “Aspetta,” disse, “mi pare di udire una voce”.
Da
molto lontano infatti si udiva un fievole richiamo che si avvicinava. Col cuore
in gola attesero fermi. “Pasquale! Pasquale!” a un tratto si udì distintamente,
perché chi chiamava doveva esser sbucato da un angolo.
Ahimè,
non era Domenico. Entrambi se ne resero subito conto. Era una voce maschia e
squillante, piena di mattutina allegrezza.
Finalmente
comparve. Era un giovane in uniforme, un messaggero del tribunale. Annunciò:
“Pasquale, vieni, è il tuo turno!”.
“Vengo,
vengo” fece Pasquale “ma prima devo trovare il padroncino. E scappato dalla sua
stanza!”
Il
messaggero sorrise. “Pasquale, è il tuo turno, devi venire per forza.” Lo disse
con cortesia, ma dal tono. Pasquale comprese che non c'era da fare niente.
“Maria”
non gli restava altro da dire “pensaci tu a cercarlo. Trovalo, per carità,
anche se devi partire.”
“Va'
e sta' tranquillo” gli disse la donna. E il servitore si allontanò a "anco
del messaggero per le strade deserte.
Il
tribunale era lo stesso del giorno prima, solo che per la prestissima ora era
quasi deserto. Pochi uomini insonnoliti punteggiavano le bianche scalinate a
imbuto. Nell'azzurro crepuscolo però il mantello rosso del giudice ancora più
fiammeggiava di propria luce, così da incutere reverenza sovrumana.
“Questo
è il tuo libro, Pasquale” disse il giudice quando il servitore fu salito sulla
cima del palco. “Non ci sarebbe gran che di male se tu non ti fossi tolta la
vita.”
“Sì,
un suicidio!” esclamò, rizzandosi in piedi, avidamente, l'accusatore, ammantato
di nero. “Si è suicidato e avrà...”
Il
giudice fece un cenno severo, quasi di stizza, troncandogli la parola in bocca.
L'altro si sedette, facendo finta di niente, e simula piccoli colpi di tosse.
“Lasciatemi
dire, signor giudice” supplicò Pasquale con la sua solita voce. “Ditemi, che
voi certo lo saprete, ditemi dove è andato Domenico, il mio padroncino, quello
che era qui ieri sera...” '
“Tu
ti sei tolto la vita” disse il giudice con accento alto e bellissimo come se
non avesse sentito “ma...” '
“Signor
giudice” insisté Pasquale “abbiate pazienza, fate di me quello che volete, ma
aspettate un minuto, mandate a cercare...”
“Tu
ti sei tolto la vita” ripeté il giudice con tale solennità da ammutolire
Pasquale, “ma che tu sia benedetto per l'eternità, anima semplice amica di
Dio.” '
Smarrito,
Pasquale si guardò attorno, perché sentiva che succedeva qualcosa di strano. I
pochi spettatori si erano alzati in piedi e lo guardavano fisso. Nella penombra
antelucana, sopra la testa del servitore si era improvvisamente accesa una
sottile corona di luce.
Pasquale
cadde in ginocchio, le mani giunte, la testa china, e sentì nell'aria un
meraviglioso suono di tromba che attraversava sopra di lui il cielo della città
addormentata.
Stette
così qualche istante, vergognoso di tanta grazia, fino a che rialzati gli
sguardi al giudice, osò ripetere ancora:
“Signor
giudice, per la misericordia di Dio: dov'è andato Domenico?”
“C'è
stato uno sbaglio” rispose il giudice. “Domenico ha dovuto ritornare.”
“Ritornare?”
“Ritornare
alla vita di prima.”
Capì
allora Pasquale che Domenico lo aveva lasciato, e probabilmente giaceva nel suo
solito letto, in via di guarigione, con la signora Rop al fianco. Avrebbe fatto
in tempo a confessarsi - pensò - a cancellare la macchia del sacrilegio, un
giorno o l'altro sarebbe anche lui giunto nel regno della felicità eterna, a
bordo della nave meravigliosa. Nello stesso tempo Pasquale pensò che non lo
avrebbe più visto, per molti anni, per molti secoli, forse, se il padroncino da
grande avesse accumulato su di sé molti peccati, lunghi da espiare. E benché
riconoscesse che questo dovesse essere per lui motivo di dispiacere, non
riusciva assolutamente a patirne; anche lui oramai era salvo, per sempre
straniero al dolore.
Il
bambino sacrilego intanto si svegliava in un letto non suo, in una camera
bianca, un fortissimo dolore lo trapassava al ventre se appena tentava di
muoversi. Non capiva che cosa fosse successo, solo ricordava vagamente che la
sera prima, mentre smaniava di terrore sul letto, nella arcana città delle
anime, era entrata una singolare persona; e che era un uomo, dal volto fiero e
nobile, assomigliante moltissimo al giudice del tribunale; che l'uomo gli aveva
detto qualcosa, accennando come a uno sbaglio, e che allora lui, Domenico, non
aveva capito più niente.
Ora
si guardava attorno, un acuto dolore gli trapassava il ventre se appena provava
a piegare una gamba, ma, se stava fermo, niente. Seduta ai piedi del letto vide
la signora Rop, sempre con la sua espressione di sentinella in agguato, che lo
scrutava intensamente.
"Apre
gli occhi" disse qualcuno da un'altra parte della stanza. Voltando le
pupille, perché la testa era come inchiodata al guanciale, Domenico scorse una
ragazza vestita di azzurro e bianco, con una cuffia candida in testa; doveva
essere un'infermiera.
“Apre
gli occhi” confermò la signora Rop. “Ma ce n'ha fatto passar di paura!”
aggiunse come se non volesse lasciarsi sfuggire la minima occasione per fare un
rimprovero, di qualsiasi genere fosse.
Domenico,
semi-intontito, ebbe per un istante l'idea che quello fosse l'inferno. Ma fu un
breve pensiero. Capì invece di essere ancora vivo. Intuì di essere stato
operato e che quello era un ospedale. Non aveva ne la voglia ne la forza di
parlare con alcuno.
Alla
fine, dopo grandi sforzi, riuscì a piegare lentamente la testa da una parte,
fino a raggiungere con gli sguardi la finestra. Vide fuori il ciclo azzurro,
gli alberi verdi, il sole allegro che li faceva scintillare.
Con
la coscienza della vita, entrava in Domenico un sentimento nuovo e profondo.
Ricordando ciò che aveva visto nella città del giudizio, si meravigliò di non
provare speciale sollievo. La dannazione eterna era, almeno per ora, evitata;
forse quello della città poteva essere stato soltanto un brutto sogno, il
peggio della malattia era evidentemente passato, adesso egli avrebbe cominciato
lentamente a guarire, la morte ritornava ad essere un'eventualità remota e
assurda. Pensò a questo, ma ciononostante sentiva come un insistente peso,
simile a quando gli avevano dato a scuola lunghi e difficili compiti. E
Pasquale? - il pensiero si fece vivo in lui come una trafittura - Che si fosse
ucciso veramente?
Il
bimbo aprì a fatica la bocca impastata di febbre e di cloroformio, riuscì a
pronunciare:
“Signora
Rop, dov'è Pasquale?”
“Non
pensare a Pasquale adesso, pensa piuttosto a guarire. Taci, non devi stancarti”
fu la risposta. Ma Domenico sentì l'infermiera che sussurrava alla governante,
credendo di non essere da lui udita: “Ha sentito? Par fino impossibile. Si
direbbe che abbia sentito tutto!”.
"Si direbbe che abbia sentito tutto!" Dunque era vero: Pasquale non
esisteva più, si era tolto la vita per venire in soccorso di lui all'altro
mondo. Per niente, per niente. Lui aveva fatto ritorno e Pasquale invece era
morto davvero, non si sarebbe visto mai più, non sarebbe più venuto a vegliarlo
al mattino. Relegato nella città dei morti, solo nella moltitudine
""le anime, ora attendeva il giudizio di Dio. Povero Pasquale, quanto
era stato buono e balordo!
Allora,
sebbene fosse un bambino, Domenico intuì vagamente per la prima volta che cosa
fosse l'esistenza degli uomini. Diverso ormai in confronto ai compagni, diverso
in confronto a se stesso di ieri, già cominciava dunque a conoscere le scadenze
terribili della vita. Adesso era partito Pasquale, poi sarebbe stata la signora
Rop (e benché fosse un? creatura così noiosa sarebbe pur stato un triste
giorno), poi sarebbe toccato al padre, ad uno ad uno tutti i buoni compagni lo
avrebbero lasciato sempre più solo. Il terrore del sacrilegio era nel ragazzo
del tutto scomparso: gli restava invece quell'arido gusto della vita che
ricomincia. va, come presentimento di lunga fatica.
19. DI NOTTE
IN NOTTE
Me
ne andavo in ferrovia dalla grande città in sul far della sera Partivo per un
lido lontano dove mi attendeva la guerra, partivo e tornavo insieme. Ma sui
sipari violetti delle case - che si erano fatte immense e misteriose a causa
della notte - splendevano centinaia di lumi, finestre e verande accese. Perché
ancora non era cominciata la vera notte regolamentare di guerra, la quale
adesso d'agosto ha inizio notoriamente alle ore ventuno. Così io guardavo con
tristezza quei lumi, considerando ciò che essi dicevano al mio cuore. E il
treno passando tramezzo ai falansteri dei sobborghi, vedevo le case illuminate
e ignare, una donna che lavava i piatti, un uomo che leggeva il giornale, due
vecchie che parlavano tra loro, un bambino che cascava dal sonno seduto a un
tavolo, altri uomini che giocavano a carte, le mille vite! Vedevo anche, nelle
strade buie, duplici ombre quasi immobili e presumibilmente felici; e ogni
tanto pure le luci di un palazzo dove maggiordomi attendevano l'ora prescritta
per far cadere le saracinesche d'argento. La città dunque continuava a vivere
senza sapere di me, di me se ne fregava completamente, non conosceva neanche il
nome. Era piena di esistenze giovani o no, di speranze, malattie, di fasto e di
sogni arcani. E donne belle sparse sotto gli alberi neri, amore che fuggiva
dietro a me restandomi per sempre ignoto. Essa mi lasciava andare senza
rimpianti; non aveva fatto niente per trattenermi, ne un sorriso ne invito di
sorta, non mi aveva neppure dato un saluto. Eppure mi dispiaceva lasciarla, era
triste separarsene, e riusciva amaro pensare a tutte le dolci cose ivi
lasciate, le giornate buone, le sere grandi e poetiche, le primiere illusioni,
le strade dove solevo incontrarla, i favolosi portoni non ancora varcati dove
forse mi aspettano; le occasioni infine vagheggiate e lasciate andare, non
tentate nemmeno, ore, giorni, anni interi della rapida vita buttati via così,
per viltà o per orgoglio. Alla esistenza trascorsa meditavo con la malinconia
di tali partenze, tanto più che il futuro si presentava incerto come una valle
sconosciuta che incanta e impaurisce. Laggiù tra quei lumi lasciavo le immagini
della giovinezza cadente, le sere placide e sgombre di pensieri, gli agevoli
sonni, tante cose infine che non si possono dire.
Ma
nel frattempo sempre più rari facevansi i lumi delle case, sempre meno ombre di
giovani donne, o volti di miei simili intenti a consumare la vita; sempre più
uscendo il mio treno dalla città smisurata.
Finché
anche l'ultima finestra si spense in fuga lontana, il frastuono rotaie divenne
una musica e sopra la terra tenebrosa, la campagna addormentata, le solitàrie
torri, non rimase che il lume delle stelle. Il quale dava però a me assai
minore soddisfazione che le luci della città perché non parlava affatto della
amabile vita, musiche, amori, incanti domestici, segreti antichi. Le stesse
avevano una voce immobile e fredda, non indulgevano alle debolezze della
creatura.
Tuttavia
io rimasi a guardarle, per un vago appello che da loro a me pareva venisse.
Esse non erano presenti quella notte sotto la specie astronomica, non distavano
da noi migliaia o milioni di anni luce, non raffiguravano mostri o deità, ne
orsi ne scorpioni ne delfini ne lire, non ruotavano nell'universo secondo leggi
matematiche e neppure era tetra-dimensionale lo spazio che le reggeva, ma
assomigliava piuttosto allo spazio inesplorato degli antichi maghi. Avevano
dimenticato, penso, anche la forza di gravitazione, per ritornare ad essere
stelle pure e semplici, lumi accesi nel cielo. Non ne derivavano perciò
disperanti problemi di fisica su cui consumare la vita; in compenso da loro
scendeva un flebile e personale richiamo.
Molto
flebile però: mentre ne consideravo con insistenza questo o quel gruppo, alle
volte mi sembrava infatti di avvertire una nuova speranza; altre volte no.
Evidentemente, a differenza del sole che nasce o dello splendore del
plenilunio, così generosi e patetici, esse incoraggiavano ad amare non le gioie
di questo mondo, bensì cose più rare e pretendevano molto di più per rispondere
ai nostri cenni. Tanto che mi chiedevo se non mi fossi sbagliato — forse erano
davvero troppo lontane e io avevo presunto troppo immaginando che potessero
interessarsi di me - quand'ecco mi accorsi che erano le medesime stelle della
mia fanciullezza, lo stesso mitico fiammeggiare; avevano poi scintillato tutte
le notti successive al di sopra di me e adesso le medesime risplendevano sul
mare lontano che mi aspettava. Ed ancora le avrei viste, immutabili, all'arrivo
sopra il mio capo, appena venuta la sera. E poi ancora la sera dopo e la notte
seguente, e avanti avanti, eternamente, fino a che avrò lume degli occhi per
vedere; ancora più in là infine, quando la storia sarà terminata, sul marmo
della mia tomba. Le instancabili, le fedeli sorelle! Loro non mi lasciavano
partire solo, non si allontanavano da me alla velocità di questo treno
notturno, non mi illudevano con ridicole offerte per poi disincantarmi.
Ciascuna di esse, pur minima, era un sempiterno bene di cui nessuno mi avrebbe
mai potuto frodare.
Io
ne fissavo specialmente una, di nome a me ignoto, grandetta e bellissima,
azzurra di colore, che pareva mi sorridesse. Poveri lumi della città al
confronto! Lei - pensavo - non mi tradirà mai, basta che io abbia un'ombra di
fede. Senza farsi notare, con discrezione materna, mi accompagnerà tacita di
notte in notte fino all'ora destinata. E neppure qui essa si stancherà di
scortarmi, neppure in occasione di quella grande partenza. Sopra di me la vedrò
pur sempre tremolare, luce benedetta, io dandomi attraverso le sfere,
lentamente, spirito senza carne.
OCR 11.03.2001