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sergio corazzini

poesie

 

Edizione di riferimento:

Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi 1968.

 

Le aureole

 

L’anima

                 a Guido W. Sbordoni

 

Tu sai: l’anima invano si martòra

di sogni; al mar non più le fragorose

acque dei fiumi giungon desiose

di confondere lor voce sonora

 

con quella che sì forte le innamora

da farle di ogni immagine obliose,

ma van per l’onda petali di rose

come se Ofelia vi dormisse ancora.

 

Tu sai: l’anima ben vide cadere

tutte le foglie e in ogni foglia un puro

desiderio, fin che, in suo tormento,

 

le parve dolce figurarsi in nere

vesti, per sempre crocifissa al muro

di un lontano antichissimo convento.

 

Il fanale

                          a Alfredo Tusti

 

Torbido e tristo nella solitaria

via, davanti la porta del postribolo,

s’affioca e il buono incenso del turibolo,

forse, è la nebbia che fa opaca l’aria.

 

Mai sacerdote curvo per i sacri

facili gradi d’un superbo altare

seppe con dolce sapienza fare

omaggio a i freddi e vani simulacri.

 

Per i vetri malchiusi, a tratti, un grido

fugge e ne trema il cuore del fanale

e pensa la corsia d’un ospedale

e un vuoto desolato nel suo nido.

 

Nido, ché, all’alba, sempre una leggiadra

bocca una cara nostalgia d’aprile

diffonde, giù, nel piccolo cortile

che sogna il sole e fosche nubi inquadra.

 

Forse è la stessa che l’ombra di rauchi

singhiozzi seminò, forse è la stessa

che fredda rise a una volgar promessa

e spasimò sotto i grandi occhi glauchi.

 

La notte, oh, quale triste cantilena

langue per le tre camere fumose

in fin che al suolo cadano le rose

disfatte sulla lunga veglia oscena,

 

in fin che su la solitaria via

strida la chiave dell’antica porta

e che la tua, fanal, fiamma sia morta

di passione e di malinconia.

 

Stelle! Non forse nell’orror notturno

di una turba briaca o di una muta

breve agonia, non forse t’è venuta

dolce una voglia, fanal taciturno,

 

di stelle? e non ti tenne un’amarezza

grande e un odio pel tuo triste destino

e non ti parve poi, spento, al mattino,

di sentirti morire di tristezza?

 

Cuor che ti duoli, soddisfatto mai,

della vacuità de gli orizzonti,

oh, bevi alle tue buone e chiare fonti,

oh, cogli rose a’ tuoi bianchi rosai,

 

ma non guardare, non udire, va’

dolce e solingo e la tua lampa rechi

luce a te solo e invano gli altri, ciechi,

implorino la buona carità.

 

Spleen

 

Che cosa mi canterai tu

questa sera?

Amica, non voglio pensare

troppo: la prima canzone

che ricordi, antica,

non importa;

una di quelle canzoni

che non si cantano più

da tanto,

che non fanno più schiuder balconi

da un secolo. Vuoi

darmi la nostalgia

di una canzone morta?

 

Sei triste, mi dai pena

questa sera; non canti, non mi parli...

Che hai? malinconia

di morire? Ti duoli

perché siamo soli?

Ricordi l’ultimo ballo

nel tuo salotto giallo

roso dai tarli?

Sai che è primavera?

Io non me n’era accorto;

non ho rosai,

non ne ho avuto mai

nel mio triste orto.

 

Perché non suoni? Langue

di desiderio

quel tuo piccolo pianoforte esangue,

nell’ombra; o non così,

amica,

l’anima ci sospira nell’attesa

di chi

sappia farla vibrare?

 

Oh, che tristezza! Pare,

nel biancore lunare,

malata di etisia,

con tutte le sue porte

chiuse, la nostra via

diserta e quel fanale

solo e torbido pare

che attendendo la morte

ne vegli l’agonia.

 

Sonetto della neve

 

Nulla più triste di quell’orto era,

nulla più tetro di quel cielo morto

che disfaceva per il nudo orto

l’anima sua bianchissima e leggera.

 

Maternamente coronò la sera

l’offerta pura e il muto cuore assorto

in ricevere il tenero conforto

quasi nova fiorisse primavera.

 

Ma poi che l’alba insidiò co’ ’l lieve

gesto la notte e, per l’usata via,

sorrisa venne di sua luce chiara,

 

parve celato come in una bara

l’orto sopito di melanconia

nella tetra dolcezza della neve.

 

La finestra aperta sul mare

                   a Francesco Serafini

 

Non rammento. Io la vidi

aperta sul mare,

come un occhio a guardare,

coronata di nidi.

Ma non so né dove, né quando,

mi apparve; tenebrosa

come il cuore di un usuraio,

canora come l’anima

di un fanciullo. Era

la finestra di una torre in mezzo al mare, desolata

terribile nel crepuscolo,

spaventosa nella notte,

triste cancellatura

nella chiarità dell’alba.

 

Le antichissime sale morivano

di noia: solamente l’eco delle gavotte,

ballate in tempi lontani

da piccole folli signore incipriate,

le confortava un poco.

 

Qualche gufo co’ i tristi

occhi, dall’alto nido

scricchiolante incantava

l’ombra vergine di stelle.

E non c’era più nessuno

da tanti anni, nella torre,

come nel mio cuore.

 

Sotto la polvere ancora,

un odore appassito, indefinito,

esalavano le cose,

come se le ultime rose

dell’ultima lontana primavera

fossero tutte morte

in quella torre triste, in una sera triste.

 

E lacrimava per i soffitti

pallidi, il cielo, talvolta

sopra lo sfacelo delle cose.

Lacrimava dolcemente

quietamente per ore

e ore, come un piccolo fanciullo malato.

Dopo, per la finestra

veniva il sole, e il mare,

sotto, cantava.

 

Cantava l’azzurro amante,

cingendo la torre tristissima

di tenerezze improvvise,

e il canto del titano

aveva dolcezze, sconforti,

malinconie, tristezze

profonde, nostalgie

terribili... Ed egli le offriva i suoi morti,

tutte le navi infrante,

naufragate lontano.

 

Una sera per la malinconia

di un cielo che invano

chiamava da ore e ore

le stelle, volarono via

con il cuore

pieno di tremore

le ultime rondini e a poco

a poco nel mare

caddero i nidi: un giorno

non vi fu più nulla intorno

alla finestra. Allora

qualche cosa tremò

si spezzò

nella torre e, quasi

in un inginocchiarsi lento

di rassegnazione

davanti al grigio altare

dell’aurora,

la torre

si donò al mare.

 

Dai «soliloqui di un pazzo»

 

Sbarrò nell’ombra i grigi occhi perduti:

l’alba coglieva con le dita bianche

le ultime stelle per i cieli muti.

 

Egli pensò che il cuor tremi alle soglie

dell’anima così, come le stelle

treman la notte, alle divine porte

fin che la pietosa alba le coglie.

«Hai visto tu passare le barelle,

o pazzo insonne, con le stelle morte?»

 

Chiarità di una lama, o tu che fendi

l’ombra maligna: io t’offro il mio cervello

oscuro e tristo per disegni orrendi.

 

Io non ho pace, l’anima è un pantano;

nell’anima stagnarono i ricordi,

subitamente; oh quante volte, pietre

vi hanno scagliato con secura mano!

Dopo, il silenzio per i tonfi sordi

sé avvolse in bende assai più gravi e tetre.

 

Un ragno tesse la sua tela folta

per il mio teschio e nella tela stanno,

morte stecchite, le idee d’una volta.

 

Mai più, mai più! su le terrene cose

l’occhio non sosta, l’occhio si dispera,

come un’ala ferita ai cieli tende.

Io voglio la tristezza delle rose

morte all’inizio della primavera

per farne una corona alle mie bende.

 

Il mio cortile con un po’ di cielo,

con poche stelle, a me sembra uno strano

fiore: corolla azzurra e grigio stelo.

 

Il mio cortile è triste molto, come

il suono di una placida campana

sotto un cielo di nuvole e di pioggia.

Una bianca tristezza senza nome

veste i muri, e nell’alto, una lontana

luce, su li orli, un oro dolce sfoggia.

 

Tu che mi ascolti non aver pietà,

non lacrimare delle mie sventure

come quel Cristo nell’oscurità.

 

Ah, quel Cristo, lo vedi? egli moriva

così, come ora, desolatamente,

quando venni alla cella che mi chiude.

Avea negli occhi una gran fiamma viva,

la fronte dolce e pur sanguinolente

e piaghe orrende per le membra ignude.

 

Non morì mai, non morrà più: mi guarda

nel buio e trema quando il lume trema

come i fanciulli se la sera è tarda.

 

A poco a poco si dissangueranno

le sue ferite per la doglia atroce

infin che un tarlo, — quando? — lentamente

roda i chiodi terribili che sanno

l’ossa dell’uomo e il legno della croce

e spezzi invano quel suo cuore ardente.

 

Chi mi parla dell’anima? Un impuro

ladro, forse, o un abate incipriato?

L’anima è morta ed io ne son sicuro.

 

Come una fonte semplice e tranquilla

donò la gioia alle riarse gole

degli umani e non seppe, ahimè! tenere

per la sua sete giovane una stilla!

Morì così, come un ignoto sole

spento su le fiorite primavere.

 

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?

Vieni con l’alba alla mia cella triste?

L’inchiodi forse questa grigia bara?

 

Mi ricordo di te, sola; eri bionda,

esile come un sogno giovinetto,

pallida come un astro mattutino;

te sola, nell’oscurità profonda

del mio cuore, t’accogli per diletto;

te sola, con il mio tetro destino.

 

Chi tenta l’ombra che stagnò nei trivi

in cui le donne come idee mal certe

più volte si volgean tentando i vivi?

 

Chi veste d’auree stole anche le immonde

case che il fango d’un amplesso cinge?

Chi l’oro ai figli della terra adduce?

Ah, sei tu, sole, che le più profonde

pupille ferme nell’eterna sfinge

avvivi, anima orgiaca della luce?!

 

Il fanciullo

                        a Guido Ruberti

 

Campane d’oro e tu le vuoi, sì, d’oro,

fanciullo, per il cuore che ti trema

d’ineffabile angoscia, oh, sì, campane

d’oro come i castelli de le fate,

pellegrino che vai senza una meta,

curvo e pensoso di un lontano lume

che brilli sulla porta di una casa

triste ma dolce al tuo martirio... oh, d’oro,

sì, le campane come le alte stelle!

 

Tu le ritroverai le tue sorelle

di un tempo, umili e buone e, forse, è il loro

riso che canta con le fonti e trilla

co’ i nidi e luce in fondo alla tua strada.

 

Fanciullo, apri il tuo cuore e in esso cada

l’ultima foglia dell’autunno: mai

più mortale tristizia accoglierai

lungo la siepe della eterna strada.

Tu vuoi morire, ecco, tu vuoi dormire,

solo, per sempre, con le tue corone

sfiorite e chiudi le pupille buone,

dolce, così, che sembra ti vanisca

l’anima, desolato pellegrino.

 

E sogni... e nella tua casa in un tetro

crepuscolo, le pallide sorelle

vanno inquiete per l’assente, il loro

dolce fanciullo che le consolava

con l’innocenza delle sue parole,

e ti cercano e guardano le stelle

che ti guardano, e toccano le cose

che già toccasti con le timorose

dita e non sanno che tu sei vicino.

 

Vicino sì, ma stanco, ma seduto,

ma ignaro. Oh! Dio, queste campane d’oro

come insistono... chi dunque ti vuole,

fanciullo, se non il tuo sogno?... Loro?!

Loro?! ma dove? non ti sei perduto?

 

Forse: perduto, e non puoi ritornare.

Alle tue fonti più non devi bere,

hai seppellito le tue primavere

per sempre; tu non puoi resuscitare.

 

Domani, se riprenderai cammino

curvo e pensoso di un lontano lume

che brilli sulla porta di una casa,

fanciullo, come il tuo sogno divino

vorrai morire dopo un breve andare,

tanto solo e perduto ti sarai,

pellegrino che vai, che vai, che vai

simile al fiume che non trovi mare,

al seme che non possa fecondare

per un suo malinconico destino.

 

Verranno le sorelle a riguardare

su la soglia deserta se non torni,

dolce il fratello dei lontani giorni

ancora e sempre... e non potrai tornare.

 

Sonetto

                  a suor Maria di Gesù

 

Sorella, dolce riguardare il chiostro

che le vestite d’umiltà rinchiude,

oggi che aprile giovinetto illude

soavemente ogni martirio nostro!

 

E caro m’è pensar dov’io mi prostro

Gesù trafitto per le membra ignude

e ancor vorrei pellegrinare in rude

saio e domar mie carni a più d’un rostro.

 

Vorrei morirmi di melanconia,

vedovo di un desiderio, solo,

con l’altissimo sogno che mi tiene,

 

e le anime, sorelle in questa mia

doglia infinita di levarmi a volo,

dissetare col sangue delle vene.

 

Sonetto all’autunno

 

Dorma l’autunno e sogni ancora biondo

il dolce vecchio, e il sonno gli consoli

anche una gioia rapida di voli,

gli ultimi, Santo Stefano Rotondo.

 

Forse, domani non varrà un giocondo

subito trillo a risvegliare i broli,

forse, domani i nostri cuori, soli,

turberanno il silenzio profondo.

 

E noi, dolcezza, non lo desteremo

il soave malato che non ha

più la speranza della guarigione

 

come l’anima nostra senza remo,

e senza vele, che non tornerà

mai più nel porto di salvazione.

 

Alla serenità

 

Io t’ò nel cuore e tu, sole, mi scaldi

e le cose non oggi allo sfacelo

imminente rassegnansi: che cielo,

oggi! e che squilli! Nunziano gli araldi

 

giovinetti l’avvento che sognai?

Come tutto è soave, come tutto

mi canta in cuore! non m’hai tu costrutto

un nido nei novissimi rosai?

 

Stelle! che gioia! Quanto cielo e quanti

voli s’io chiuda gli occhi alla freschezza

di questa sera piena di dolcezza,

accolgo in essi ancor tristi di pianti!

 

Pianti lontani come le tue, nonna,

favole buone, come le mie pure

notti, oh, quiete delle creature

che una fata protegge e una madonna!

 

Serenità, non tu mi riconduci,

nave di sogno, a una perduta riva?

non è forse una luce primitiva

questa che vince tutte le altre luci?

 

E colgo ancora le margheritine

per i capelli de le mie sorelle

e m’inebrio del sole e de le stelle

e piango se mi pungono le spine.

 

Tutto quel che fu mio, teneramente,

mette le foglie, mette i fiori, odora;

oh, mai tramonto si sbiancò in aurora

più di questa soave e più ridente!

 

Serenità, ben tu mi ricomponi

gioie profonde per il mio ritorno,

e suoni tutte le campane a stormo,

le campane già vedove di suoni,

 

entro il mio cuore, e vuoi tu che al fiorito

maggio spalanchi l’umili finestre

e odori il davanzale di ginestre

e canti ancora quello che infinito

 

canto mi parve e non fu che una nota!

Vuoi che l’orto mi dia ghirlande e frutti...

ma non sai farmi libero di lutti,

ma non sai popolarmi questa vuota

 

casa! E allora?... perché farmi tornare?

Serenità: quiete al mio tormento

vana, sono perduto, ora, mi sento

morire e gli occhi s’empiono di bare

 

e questo cielo non conobbe voli

mai, questa casa non s’aprì alla gioia,

serenità, serenità, ch’io muoia

dunque se il cuore tu non mi consoli,

 

se non valse al dolor tua compagnia,

se il passato mi stringe sì che in ogni

luogo ritrovo i miei perduti sogni

pieni di una mortale nostalgia.

 

A la sorella

 

Tu che non hai per la tua doglia viva

una madre serena che consoli,

un orto dolce con i girasoli

e il canto di una limpida sorgiva,

 

tu che, accesa una lampada votiva,

pregavi per i tuoi fratelli soli

e per la doglia di che tu ti duoli

la bocca non ad implorar s’apriva,

 

tu che mi sei tristissima sorella,

batti alla porta del mio cuore vano,

lascia che io senta il tuo cuore tremare

 

nel mio come una stella in una stella

per un cielo più novo e più lontano

sovra il pianto degli uomini e del mare.

 

Sonetto della desolazione

 

Anima, come oggi nessuno arriva,

non tendere le pallide tue mani

a i cieli, troppo noi siamo lontani

e troppo melanconica è la riva.

 

Dici: domani... Oh, non sperar domani

più! La speranza è nel tuo cuore viva

così che l’abbandono la ravviva

con i suoi tristi addii quotidiani?!

 

Ben ora è che di tutto si disperi

e che il rosario dei futuri giorni

ci conduca al più puro dei misteri

 

in queste solitudini malate,

vedove di partenze e di ritorni,

simili a stazioni abbandonate.

 
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