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sergio corazzini

poesie

 

Edizione di riferimento:

Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi 1968.

 

       L’amaro calice

 

                                  a Cesare Chiappa

 

Invito

 

Anima pura come un’alba pura,

anima triste per i suoi destini,

anima prigioniera nei confini

come una bara nella sepoltura,

 

anima, dolce buona creatura,

rassegnata nei tristi occhi divini,

non più rifioriranno i tuoi giardini

in questa vana primavera oscura.

 

Luce degli occhi, cuore del mio cuore,

tenerezza, sorella nel dolore,

rondine affranta nel mio stesso cielo,

 

giglio fiorito a pena su lo stelo

e morto, vieni, ho spasimato anch’io,

vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.

 

Rime del cuore morto

 

O piccolo cuor mio, tu fosti immenso

come il cuore di Cristo, ora sei morto;

t’accoglie non so più qual triste orto

odorato di mammole e d’incenso.

 

Uomini, io venni al mondo per amare

e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti

vostri e ho cantato tutti i vostri canti!

Io fui lo specchio immenso come il mare.

 

Ma l’amor onde il cuor morto si gela,

fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano!

Come un’antenna fu il mio cuore umano,

antenna che non seppe mai la vela.

 

Fu come un sole immenso, senza cielo

e senza terra e senza mare, acceso

solo per sé, solo per sé sospeso

nello spazio. Bruciava e parve gelo.

 

Fu come una pupilla aperta e pure

velata da una palpebra latente;

fu come un’ostia enorme, incandescente,

alta nei cieli fra due dita pure,

 

ostia che si spezzò prima d’avere

tocche le labbra del sacrificante,

ostia le cui piccole parti infrante

non trovarono un cuore ove giacere.

 

Cappella in campagna

 

I

Giù dall’antica grata, estenuati

i fiori morti, su l’altare, il Santo,

dolcissimo nel suo nitido manto,

con gli occhi un po’ velati, un po’ velati

 

forse, chi sa, da qualche umano pianto;

due ceri gialli, senza fiamma, a i lati,

due ceri senza fiamma, inanimati,

come i cuori che mai sepper lo schianto.

 

La ghirlandetta d’una verginella,

sfiorita a pena a pena, intorno a i biondi

capelli di una nitida madonna;

 

nel mezzo, una colonna; una colonna

sfinita, in essa un pio nido di rondini,

solo, coperto d’erba tenerella.

 

II

Venni non so per quale sogno assai

dolce al mio cuore umile; fu ieri

mattina; volli portare due ceri

nuovi, due ceri bianchi come mai

 

e due rose — ho i miei piccoli rosai

anch’io — due rose bianche come i ceri;

sembravano fiorite in monasteri

chiuse, le rose, in languidi rosai.

 

Oh la fiamma purissima, oh il profumo

novo ch’io seppi nella breve stanza

che la mano soave ricompose!

 

La Madonna, un po’ triste fra le rose,

disse: Che vale tua dolce esultanza

s’io per dolore sempre mi consumo?

 

III

Su i candelabri, i ceri arsero in pura

fiamma, come due cuori amanti; tutti

arsero, e per un poco su i distrutti

avanzi andò la fiamma malsecura.

 

Nell’aria fu un odor di sepoltura

e il cuore ripensò tutti i suoi lutti,

come il pesco ripensa i dolci frutti

nella feconda estate moritura.

 

Le rose giovinette, ne la pia

solennità, esalarono la breve

anima; oh gli atti e le preghiere vane!

 

Quanta tristezza scese nella mia

anima, quando da non so qual pieve

giunse pei cieli un suono di campane!

 

IV

Una fascia di sole, ancora; una

striscia, un filo sottile, una chiarezza

indefinita, un’ultima allegrezza

di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,

 

più nera. Ho nel cuore una tristezza

intensa immensa come mai nessuna

tristezza; oh non potrebbe ora la luna

scendere un poco da la dolce altezza?

 

Distinguo a pena la Madonna, ha immoti

gli occhi lucidi come lame, come

le sette spade che le stanno in cuore;

 

intorno, un po’ d’argento luce: i voti

de gli umili, de i buoni senza nome

ch’ebbero ancora fede nel dolore.

 

Il cuore e la pioggia

 

O mia piccola dolce casa, vergine rossa

c’hai vergogna e ti celi in un manto di foglie

qua e là strappato, ancora nell’occhio si raccoglie

un pianto triste e il cuore prova una fredda scossa

 

s’avvenga che ripensi le tue diserte soglie,

il tuo muto giardino, la terra non rimossa

da tempo grande, come la terra d’una fossa,

la fossa ch’ogni mia dolce speranza accoglie.

 

Piccola casa rossa che il molle abbraccio tenta

del fiorito viale con mille incantamenti,

nell’ora triste in cui mi parve uscir di vita,

 

non io rossa ti vidi, ma come se una lenta

lagrima assai t’avesse corse le guancie ardenti,

mi sembrasti d’immenso dolore impallidita.

 

St. Moritz.

 

Ballata del fiume e delle stelle

 

L’antichissimo fiume nella sera

estiva si sentì stanco di andare;

era tanto lontano ancora il mare,

e quella notte così dolce era!

 

Le luminose vennero al notturno

appuntamento e, come se uno strano

desiderio superbo le tenesse,

convennero sul fiume taciturno

 

ove come in un ciel novo e lontano

tutte si rimirarono riflesse.

L’orgoglio suo, l’alta sua gioia espresse

 

il fiume: «Ben divenni un cielo anch’io!»

All’alba, come pianse quando il pio

lume svanì nella cinerea sfera!

 

A Carlo Simoneschi

 

Carlo, malinconia

m’ha preso forte, sono

perduto; così sia.

 

Carlo, un giorno ch’io sia

più tenero, più buono,

più docile al perdono,

che in un lungo abbandono

ancora ignoto io dia,

malinconico dono,

tutta l’anima mia,

quel giorno, amico, prono

mi vedrai nella via

morto di nostalgia

e di malinconia.

 

Poi che, Carlo, ben sono

perduto, così sia.

 

Toblack

 

I

...E giovinezze erranti per le vie

piene di un grande sole malinconico,

portoni semichiusi, davanzali

deserti, qualche piccola fontana

che piange un pianto eternamente uguale

al passare di ogni funerale,

un cimitero immenso, un’infinita

messe di croci e di corone, un lento

angoscioso rintocco di campana

a morto, sempre, tutti i giorni, tutte

le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno

di speranza e di consolazione,

un cielo aperto, buono come un occhio

di madre che rincuora e benedice.

 

II

Le speranze perdute, le preghiere

vane, l’audacie folli, i sogni infranti,

le inutili parole de gli amanti

illusi, le impossibili chimere,

 

e tutte le defunte primavere,

gl’ideali mortali, i grandi pianti

de gli ignoti, le anime sognanti

che hanno sete, ma non sanno bere,

 

e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile

e di perduto è in questa tua divina

terra, è in questo tuo sole inestinguibile,

 

è nelle tue terribili campane,

è nelle tue monotone fontane,

Vita che piange, Morte che cammina.

 

III

Ospedal tetro, buona penitenza

per i fratelli misericordiosi

cui ben fece di sé Morte pensosi

nella quotidiana esperienza,

 

anche se dal tuo cielo piova, senza

tregua, dietro i vetri lacrimosi

tiene i lividi tuoi tubercolosi

un desiderio di convalescenza.

 

Sempre, così finché verrà la bara,

quietamente, con il crocefisso

a prenderli nell’ultima corsia.

 

A uno a uno Morte li prepara,

e tutti vanno verso il tetro abisso,

lungo, Speranza! la tua dolce via!

 

IV

Anima, quale mano pietosa

accese questa sera i tuoi fanali

malinconici, lungo gli spedali

ove la morte miete senza posa?

 

Vidi lungo la via della Certosa

passare funerali e funerali;

disperata etisia degli Ideali

anelanti la cima gloriosa!

 

Ora tutto è quieto: nelle bare

stanno i giovini morti senza sole,

arde in corona la pietà de’ ceri.

 

Anima, vano è questo lacrimare,

vani i sospiri, vane le parole

su quanto ancora in te viveva ieri.

 

La chiesa venne riconsacrata...

al poeta Carlo Govoni

 

Il sagrestano pazzo

traversò la chiesa oscura,

lentamente, con il mazzo

delle chiavi appeso alla cintura.

 

I frati, ne le piccole celle,

dicono le orazioni

de la sera, poi, quando le stelle

prime de l’Ave Maria

stanno su le cose terrene,

ogni monaco viene

al suo piccolo letto,

nitido come un altare,

e accende il luminetto

a la Vergine Maria,

che non fa che lagrimare

perché ha sette spade in core

che le dànno acerba doglia,

sempre acerba e sempre lenta!

Poi ognuno si spoglia,

e ognuno s’addormenta

nella pace del Signore.

 

L’acquasantiera di bronzo, tonda,

sembra un occhio lagrimoso

che il suo pianto silenzioso

a stille su le fronti de gli uomini diffonda.

 

I confessionali, con le loro

tendine verdi un po’ sciupate,

con le piccole grate

gialle che ne l’ombra sembrano d’oro,

sonnecchiano allineati,

ognuno con le sue due candele

spente a i lati.

Sono essi, alveari ove ronzino, api, i peccati,

e l’assoluzione sia miele?

 

Un rosario di granatine

a i piedi del Crocifisso morente

sembra sangue gocciato lentamente

dalla fronte coronata di spine.

 

Un piccolo libro delle

Massime Eterne fu dimenticato

sopra una sedia, aperto.

È logoro. Certo,

è d’una delle solite beghine

che vengono la sera.

Fra le pagine c’è un Santo:

san Giovanni decollato;

dietro il Santo, una preghiera.

Il libro dimenticato

aperto, è l’unica bocca che parli

nella chiesa silenziosa,

è l’unico occhio che veda,

nella chiesa oscura,

la morte della creatura.

 

Il sagrestano recise la grossa

corda per cui pendeva davanti la figura

di Cristo, la lampada rossa

con la sua fiamma quieta e pura.

La lampada cadde con sorda

percossa su le pietre sepolcrali;

l’uomo con tre moti uguali

girò intorno al collo la corda

e penzolò nel vuoto.

Davanti il Crocifisso

sembrò un macabro voto

improvvisamente sorto

fra il Cielo e l’Abisso.

 

Poi che la lampada non c’era più

biancheggiò d’avanti Gesù,

piamente la cotta del sagrestano morto.

 

Sonetto d’autunno

 

Foglie e speranze senza tregua, foglie

e speranze; non hanno rami e cuori

cadute eguali allor che i primi ori

Autunno triste su la terra accoglie?

 

L’anima poi che nell’audaci voglie

si disfece con gli ultimi rossori

della sua giovinezza, in foglie e fiori

malinconicamente si discioglie.

 

E resta il cuore e resta il ramo: soli

sospiranti in un intimo richiamo

la rossa estate e il suo vivere corto.

 

Ma se tornino i buoni e dolci soli

primaverili, rinverranno il ramo

pien di speranza e il cuore, invece, morto.

 

Isola dei morti

 

Il lampione di San Bartolomeo

non si rassegna alla sua mala sorte;

il tragico fanale della Morte

rinnovella il martirio prometeo?

 

Veglia se vada il funebre corteo

del morto ignoto oltre le fosche porte

ove già tante creature morte

stanno come in un fetido museo.

 

Su le pietre, dai luridi lenzuoli

cola il sangue nerastro degli umani

che agonizzaron, nella notte, soli.

 

Ritto, immoto, su l’isola terribile,

per i fratelli che sono lontani

arde il fanale d’odio inestinguibile

 

 
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