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sergio corazzini

poesie

 

Edizione di riferimento:

Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi 1968.

 

Dolcezze

 

Per Alfredo Tusti — e per Sandro Benedetti — che più dolce fanno — la mia giovinezza.

 

Il mio cuore

 

Il mio cuore è una rossa

macchia di sangue dove

io bagno senza possa

la penna, a dolci prove

 

eternamente mossa.

E la penna si muove

e la carta s’arrossa

sempre a passioni nove.

 

Giorno verrà: lo so

che questo sangue ardente

a un tratto mancherà,

 

che la mia penna avrà

uno schianto stridente...

...e allora morirò.

 

La gabbia

 

Ben salda era di grétole e di staggi

la gabbia, a primavera, se di fuori

benigno sole offriva a’ bei canori

pennuti la dolcezza di suoi raggi;

 

ma poi che nostalgia di viaggi

tenne i cari a Leonardo cantori,

fuggiron via pei cieli ampi e sonori,

desiosi di più limpidi maggi.

 

Or fatta muta de’ suoi canti onde era

superba, come di sue corde, lira,

la gabbia triste e pur fidente sta:

 

come l’anima mia che più non spera

e continuamente si martira

in un desio di giocondità.

 

Acque lombarde

 

Acque serene ch’io corsi sognando

ne la dolcezza de le notti estive,

acque che vi allargate fra le rive

come un occhio stupito, a quando a quando,

 

o nostalgiche acque di sorgive

mormoranti nel verde un sogno blando,

acque lombarde ch’io vo’ sospirando

sempre, tanto il ricordo in cor mi vive,

 

di voi l’anima dice acque stagnanti

ne’ verdi piani de la Lombardia,

di voi fonti gioconde scintillanti

 

a’ dolci soli del fiorito maggio

e su voi la sognante anima mia

muove per suo spiritual viaggio.

 

La Madonna e il suo lampioncello

 

I

Umilmente la Vergine pregava,

e ne la voce avea tanto dolore,

e il suo cuore, trafitto, sanguinava:

 

«O lampioncello, fallo per mi’ amore,

tu se’ il compagno mio, tu sei la stella

che mi dà pace con il pio chiarore;

 

tu sei fratello, io sono tua sorella,

senti: ho paura di stare all’oscuro,

senza il raggietto de la tua fiammella!

 

Ardi, ed il cuor dolente rassicuro,

ardi, ti prego, lampioncello rosso,

come il cuor di Gesù, tremante e puro...»

 

Ma il lampioncello sospirò: «Non posso».

 

II

E Maria seguitò umilemente:

«Perché non puoi? Se tu sarai buono,

come una stella ti faccio splendente

 

e il tuo disobbedire ti perdono.

O lampioncello, o lampioncello mio,

mi sembra di sentir, lontano, il tuono!

 

Qui sono sola ed assai lunge è Dio!

Qui sono sola, assai lunge è il mortale;

sono fatta d’oblio, d’oblio d’oblio...

 

Non un passero batte la su’ ale

contro il mio volto, o lampioncello rosso,

ardi! Ho tanto timor del temporale...»

 

Ma il lampioncello spasimò: «Non posso».

 

III

La sera dopo, era una sera mite,

piena di trilli, piena di fiammelle,

di voci mai prima d’allora udite,

 

umilmente, una mano, una di quelle

mani che sanno spesso l’altra mano,

una mano tranquilla che il ribelle

 

gesto non seppe mai, piano piano,

il solitario lampioncello accese:

s’udì una prece, dolce, un passo umano

 

lontanare, laggiù, verso il paese

che dormiva da tempo, ne la sera.

Invano, invano il lampioncello prese

 

fuoco: Maria suavissima non c’era...

 

IV

Umilmente chiamò, umilmente

attese. Pensò perché mai Maria

fosse fuggita senza dirgli niente,

 

la sua dolce compagna, la sua pia

sorella! Aveva dunque una sì folle

paura de la solitaria via?

 

E il lampioncello, disperato, volle

giungere al cielo con la sua fiammella...

Ah, se fosse mai nato su quel colle!

 

Pregò ancora: «Maria, buona sorella,

ti farà luce il lampioncello rosso,

oh vieni, vieni, la serata è bella!»...

 

Ma la Madonna singhiozzò: «Non posso».

 

Cremona

 

Cremona, non è Antonio Stradivari

oggi ne l’aria con i violini

maravigliosi? — palpitano fini

melodie per i cieli — o da li altari

 

osannano i soavi cherubini

del Boccaccino che ne li occhi ignari

hanno l’azzurro tremulo dei mari

e sanno i regni che non han confini?

 

Cremona, evvi un’assai dolce malìa

oggi ne’ tuoi rosai, dolce così

ch’io ne sento vanir l’anima mia

 

beata sognatrice intenerita

de l’azzurro che a’ miei occhi fiorì

come ne li occhi d’una sulamita.

 

Ballata della Primavera

 

O Primavera, Sandro Botticelli

sentì fiorire in cuore i tuoi rosai

poi che ti seppe come niuno mai

ne la soavità de’ suoi pennelli.

 

Ancor io, giovinetta, una fiorita

di mammole e di rose ebbi nel cuore

e m’era dolce assai tuo venimento

e m’era triste assai tua dipartita;

 

non oggi, o Primavera, ché il Dolore

come tarlo nel cuor rodere io sento

quasi per demoniaco incantamento;

 

non oggi, o Primavera, ché di spine

fatte del mio buon sangue porporine

come Cristo ho corona ai miei capelli.

 

I solchi

 

Un desiderio di seminagione

teneva i solchi aperti ne l’attesa

de la buona promessa; oh la tua rude

mano, figlio de’ campi, che si schiude

al seme come il labro a la parola,

ancora è lunge da la sacra impresa,

ma verrà come il grano a la sua mola.

 

Soavità de la dedizione!

I solchi aperti — (ha bene le sue culle

la terra madre) — te buon seme avranno!

Vi sarà un po’ di biondo anche quest’anno

intorno a la tua casa e larghi lampi

avran le falci mietitrici sulle

spighe ben colme, o nato sacro ai campi!

 

O lontananza de’ seminatori!

Quante albe passate in una vana

speranza e quanta disperazione

di tramonti! Fioriva la canzone

su le bocche giulive ampia e serena,

o solchi, ma fioriva assai lontana

tanto lontana che giungeva a pena.

 

E l’ansia d’un mattino?! Eran le cose

bianche e quiete come ne l’indugio

un po’ triste de l’alba, tanto che

pareva un’alba. I solchi aperti ne

gioirono. Sarà fra poco, forse

adesso! Oh l’interminabile indugio!

Un brivido la Terra avida corse.

 

Bocche d’umani aperte ne l’attesa

d’un puro bacio ignoto, mani aperte

da l’imo d’un abisso tenebroso,

pupille aperte senza mai riposo,

cuori aspettanti, cuori doloranti

ne l’attesa di gioie ultime e incerte...

O trascorrere lento degli istanti!

 

Pace, il seme verrà! Eccolo, o solchi

su di voi ne la mano che lo serra

tenacemente; il seme buono è raro

e ben colmo dev’essere il granaro

anche quest’anno! Fra le dita buone

ecco già scorre e cade su la terra

aperta per la fecondazione...

 

O solchi, il seme è sacro ora che in voi

s’accolse, il seme è sacro, poi che un giorno

sarà spiga, sarà forse farina

e pane! O solchi aperti a la divina

opera, penso — (o come il cuor mi preme

acuta doglia!) — penso e vedo intorno

a me fratelli chiusi ad ogni seme!

 

Dolore

E sol melanconia m’aggrada forte.

Cino da Pistoia

 

I

Voglio dirti in segreto

de la dolce follia

che mi fa triste e quieto

 

tanto; vedi, la mia

anima è nel mio cuore,

il cuore è nella mia

 

anima, e se dolore

l’anima un poco sente,

soffre un poco anche il cuore,

 

bimbo, quietamente.

 

II

Io, vedi, soffro molto,

e più soffro e più sento

che soffrirei; se ascolto

 

il mio vaneggiamento

continuo, senza tregua,

senza un breve momento

 

di pace, e se dilegua

poi non so come, pare

che l’anima lo segua

 

oltre il cielo, oltre il mare.

 

III

Io porto tanto amore

a una crocetta d’oro

che s’apre, sul mio cuore.

 

È un tenue lavoro,

non è un ricordo, no,

come l’ebbi, l’ignoro.

 

Io l’amo perché so

che croce fu dolore,

e assai ne spasimò

 

un mio dolce Signore!

 

Chiesa abbandonata

 

Din, dan, don, dan, o la piccola voce,

Santa Maria de la Concezione,

o, sapiente lunga orazione

sotto immobili cieli, ferrea croce;

 

altari bianchi come anime, buone,

o santi lieti nel martoro atroce,

o Gabriel, sotto il cui piè, feroce

ghigna il ribelle con le luci prone;

 

corone d’oro, manti di broccato,

cuori trafitti, bocche dolorose,

occhi con occhi in adorazione,

 

oh nulla, nulla sopravisse al fato

ne la tetra rovina de le cose,

Santa Maria de la Concezione.

 

Il fanciullo suicida

 

«A Torino, un fanciullo di quindici anni si gettava dalla finestra, disperando di raggiungere i suoi alti ideali».

 

I

I suoi compagni non avean chimere,

non nutrivano in cuore ardite voglie,

erano tante piccolette foglie

fiorite in un medesimo verziere.

 

Ma il fanciullo, sdegnoso, nelle altere

luci sognava di abbaglianti soglie,

ed attendea la pura man che coglie

fiore da fiore ne le primavere.

 

O il sogno vano! L’anima impotente,

ruggiva de la sua tetra sconfitta,

e il cuore, oh il cuore, lagrimava sangue!

 

Il bimbo disperò perdutamente,

e la debole fibra derelitta

sentì costretta da insaziabil angue.

 

II

Oh, la gloria e la morte, in loro arcano

fascino hanno le illusioni istesse!

Quanta di sogni ardimentosa messe

nasce in un cielo e muore in un pantano!

 

Quietamente il bimbo a morte elesse

la giovinezza sua fiorente in vano

ne l’estasi d’un sogno sovrumano

che la fantasiosa anima eresse.

 

Una sera, s’uccise. Ne l’azzurro

passava e ripassava un’allegria

di rondini. S’udì nell’aria un pianto,

 

un grido, un tonfo sordo, un gran susurro

di popolo dolente... Ne la via

come il suo sogno, egli si giacque, infranto.

 

Follie

 

Madonna, in vano anelo

vostre dolci parole;

per me non v’è più sole,

per me non v’è più cielo.

 

Io sono come avvolto

in un sogno, in un sogno

triste; io non agogno

più nulla; io non ascolto

 

più nulla. Il cuore trema

a volte, forte: io penso

che sia la fine, io penso

l’unione suprema.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

Oh la piccola bara,

ricordo, i tetri cerei

e gli arazzi funerei,

e poi la folla ignara

 

e la dolente, l’organo

molle e profondo, i chini

frati benedettini

che par da terra sorgano

 

ne la penombra delle

colonne, fra gli altari

fiammeggianti, con vari

aspetti; e le sorelle

 

candide, per i banchi

lunghi, oranti, soave

coro, ne la lor grave

veste e la corda ai fianchi,

 

e tu, e tu, mio amore,

piccola, fra le rose

che la mia mano pose

su la fronte, su ’l cuore,

 

ne le mani conserte,

sopra i piedini lievi

— e tu non le vedevi

con le pupille aperte —

 

rose dovunque, fra i

capelli ch’io non sciolsi,

capelli per cui colsi

rose odorate mai,

 

su la bocca che rise,

che rise e poi si tacque

come gorgoglio d’acque

d’un sùbito divise,

 

su gli occhi dolci, avvinti

da una visione

ignota e poi corone,

di gigli, di giacinti,

 

una pioggia di petali,

e tu, e tu, mio amore

che godevi nel cuore

d’una gioia secreta

 

intensa, immensa e pura!

O morta ch’eri in cielo

e nel mio cuore anelo

di te, di te, creatura,

 

per cui arsero tutte

le mie fiammee voglie

e cadder come foglie

le speranze distrutte.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

E poi la terra breve,

il cipresso diritto

come lancia, lo scritto

sopra il marmo di neve,

 

la croce che non seppe

Gesù, le spine, i chiodi,

i pianti che non odi

di chi, di chi non seppe

 

adorarti a bastanza

e le tombe e i cipressi

immobili lungh’essi

i viali ove danza

 

monna Morte ghignando,

e i cancelli che stridono

a ogni bara, a ogni grido

lugubre a quando a quando,

 

i fiori gialli che

il morto volle seco

per dirsi: «altrove io reco

fiori di terra», e

 

le lampadette, stelle

di cimitero, tetre

su le gelide pietre,

lugubri sentinelle,

 

e le grandi, notturne

ali, solcanti l’ombra

paurosa che ingombra

le tombe, i marmi, le urne...

 

Madonna, perdonate

se vi pensai, se forse

troppo il pensiero corse.

Madonna, perdonate.

 

Io vi vidi, tranquilla

in una bara, morta,

e vi sognai risorta

e il sogno ancor m’assilla

 

onde vano è il martoro

che l’anima dilania,

insana è questa smania

per le tue ciglie d’oro,

 

per le pupille gravi

di ombre, or nella morte

profondamente assorte

come quando sognavi,

 

per la tua bocca rossa

che non ho mai baciata

e che pure m’ha data

la dolorosa scossa,

 

per le tue mani stanche,

per le tue mani molli

che toccare non volli

(erano tanto bianche!),

 

per la voce che mai

non seppi, per i gesti

ignoti, per le vesti

che avevi e che ora avrai

 

nella semplice bara

fiorita; in somma tutto

amo di te, il mio lutto

sei tu, piccola cara!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

Ohimè, dolce Madonna,

perdonate se forse

troppo il pensiero corse

pensandovi, Madonna.

 

Voi siete il Sole, io sono

un pazzo che lo segue

e non concede tregue

allo spirto mai prono,

 

e come suo bagliore

i cieli azzurri infiamma,

s’agita la gran fiamma

del mio inutile amore!

 

Scritto sopra una lama

 

Lama, fulmin d’acciar, anima tersa

e fredda come un’anima di bianca

sacerdotessa, o lama, dimmi, stanca

non fosti mai di star nel sangue immersa?

 

Io t’odio, t’odio, eppure a questo orrore

un’invidia di pazzo s’accompagna;

sei più grande di me, lama di Spagna,

perché tu forse hai penetrato un cuore!

 

Imagine

da P. Bourget

 

La rondine di mare che ieri, mia dolente,

volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,

 

erra sempre a la sorte del suo tenero volo?

brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?

 

o pur, libera, dopo un lungo palpito d’ale,

giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,

 

ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?...

A me, vedi, la piccola rondinella di mare,

 

stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve,

l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,

 

a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito,

cuore di donna, cuore acceso d’infinito,

 

cuor nostalgico in preda al doloroso senso

di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!

 

Giardini

 

O piccoli giardini addormentati

in un sonno di pace e di dolcezze,

o piccoli custodi rassegnati

di sussurri, di baci e di carezze;

 

o ritrovi di sogni immacolati,

di desideri puri e di tristezze

infinite, o giardini ove gli alati

cantori sanno di notturne ebbrezze,

 

o quanto v’amo! I sogni che rinserra

il mio core, fioriscono, o giardini,

lungo i viali, ne le vostre aiuole.

 

Io v’amo, io v’amo, o fecondati al sole

di primavera in languidi mattini,

o giardini, sorrisi de la terra!

 

Per musica

 

Tu m’hai scritto così: «Or che spezzato

è questo nostro amor fatto di ebbrezze,

io ti rimando i baci che m’hai dato

io ti rimando tutte le carezze».

 

Piccola bimba mia sempre malata,

una cosa ti sei dimenticata.

 

La prima cosa che ti ho data, o amore,

ti sei scordata di ridarmi il cuore!

 

Il campanile

 

I

Il prete bianco s’affacciò, protese

le faticate braccia sì soavi

ai cieli e mormorò: — parvero gravi

le sue parole quanto mai — «Le offese

 

perdono, come già Tu perdonavi,

ho vestito un ignudo, a chi mi chiese

la spiga ho dato il pane, ai venti ho stese

le mani e assai rimproverai gli ignavi.

 

Colmo è l’ovile, ma la porta è aperta!

Un’agnella fuggì ieri — ben sai —

ma stamani tornò nel buono ovile».

 

Disse il vecchio e la mano bianca e incerta

levò per benedire come mai

il villaggio, la chiesa e il campanile.

 

II

Un ruinar precipite di frane

ignote, il lungo rombo nella notte

pallida e il campanile vide rotte

a terra, immote le sue due campane,

 

cadute senza grida e senza lotte,

così, come due stanche anime umane.

Oh non verranno più da le lontane

case le donne per la messa, a frotte!

 

Irto per la sua doglia, muto, solo,

come l’ira che in cuor chiuso si cuoce,

il campanile si pensò usignuolo

 

privo del canto buono e fu maggiore

la pena poi che non avea la voce

onde gridare al mondo il suo dolore.

 

Asfodeli

 

Madonna, se il cuore v’offersi,

il cuore giovine e scarlatto,

e se voi, con un magnifico atto,

lo accettaste insieme a’ miei versi

 

di fanciullo poeta, e se voi

con l’olio del vostro amore

teneste vivo il suo splendore

e lo appagaste de’ suoi

 

capricci assiduamente,

perché ieri lo faceste

sanguinare, lo faceste

lagrimare dolorosamente?

 

Tutte le sue gocce rosse

caddero a terra, mute,

e poi che furono cadute

il cuore più non si mosse

 

e come per incantamento

in ognuna fiorì un asfodelo,

il triste giglio del cielo

da l’eterno ammonimento.

 

 
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