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sergio corazzini

poesie

 

Edizione di riferimento:

Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi 1968.

 

Poemetti in prosa

 

Soliloquio delle cose

...Je crois que nous sommes à l’ombre.

Maeterlink

 

Les choses ont leur terrible «non possumus».

Hugo

 

            Dicono le povere piccole cose: Oh soffochiamo d’ombra! Il nostro amico se ne è andato da troppo tempo: non tornerà più. Chiuse la finestra, la porta; il suo passo cadde nel silenzio del lungo corridoio in cui non s’accoglie mai sole, come nel vano delle campane immote, poi la solitudine stese il suo tappeto verde e tutto finì.

 

            Qualche cosa in noi si schianta, qualche cosa che il nostro amico direbbe: cuore. Siamo delle vecchie vergini, chiuse nell’ombra come nella bara. E abbiamo i fiori. Egli avanti di andarsene, per sempre, lasciò sul suo piccolo letto nero delle violette agonizzanti. Disperatamente ci penetrò quel sottile alito e ci pensammo in una esile tomba di giovinetta, morta di amoroso segreto. Oh! come fu triste la perdita cotidiana inesorabile del povero profumo! E se ne andò come lui, con lui, per sempre. Noi non siamo che cose in una cosa: imagine terribilmente perfetta del Nulla.

 

            Qualche volta le campane della piccola parrocchia suonano a morto. Tutto ciò sarebbe tristissimo per noi, povere piccole cose sole, se egli fosse qui. Ma è lontano e le campane non tarlano il silenzio per lui, povero caro.

 

            Un tempo lo vedemmo e l’udimmo piangere senza fine: volevamo consolarlo, allora, e mai ci sentimmo così spaventosamente crocefisse. Oggi, oh, oggi è un’altra cosa: dove piange? perché piange?

 

            Allora lacrimò desolatamente perché una sua piccola e bianca sorella non veniva, a sera, come per il passato, a farlo men solo... o più solo. Così egli le diceva mentre l’abbracciava. E soggiungeva: «Noi ricordiamo e nulla come il ricordo è simbolo di solitudine e di morte». Rievocavano molte liete fortune e molte tristi vicende, anche, ma non troppo di queste si amareggiavano.

 

            Una sera il nostro amico attese inutilmente. Attese fino all’ora delle prime rondini e delle ultime stelle... Oh, egli ci voleva bene: qualche volta ci parlava a lungo, come in sogno. In sogno parlava. Avanti di dormire, accendeva un piccolo lume giallo, sospeso al muro. Forse aveva paura. È una così dolce cosa, la paura, appunto perché è dei fanciulli!

 

            Noi non dormiamo; noi siamo le eterne ascoltatrici, noi siamo il silenzio che vede e che ascolta: il visibile silenzio.

 

            La casa dev’essere molto vasta. Udiamo a tratti delle voci lontanissime e che pensiamo non vengano dalla piccola piazza. Oh, la finestra, se si spalancasse e facesse entrare un poco di sole, un poco di vento! oh, nulla è simile al cuore perduto come il sole che vuole entrare, e tutti i giorni domanda e tutte le sere, triste e bianco, smuore di rinunzia. Un convento, una chiesa, un lungo muro basso, interrotto da due piccole porte, la cui soglia allora era sempre verde. La neve restava intatta, davanti a quel muro, un tempo interminabile. Il nostro amico diceva che una porta chiusa è figurazione di gran gioia. Noi siamo semplici, non abbiamo mai comprese queste parole, sarà, forse, perché siamo così sole e così sconsolate, da tanti anni, in questa camera chiusa!

 

            Oh, gli occhi aperti smisuratamente nell’ombra terribile, sono così simili a noi! Sanno vedere ma non possono vedere.

 

            Per quanto ci disfaceremo nel buio come le stelle dietro le nuvole? Per quanto la nostra cecità apparente, ci vieterà il sole, o, forse anche, un poco di dolce luna?

 

            Come tante piccole monache in clausura, noi, povere cose, viviamo e morremo. Pietà! Pietà!

 

            Quante rughe ci solcano! Siamo vecchie, oh così vecchie da temere la fine improvvisa. E la polvere che noi pensavamo cipria, ci seppellisce cotidianamente come un becchino troppo scrupoloso.

 

            Come ci carezzavano le tende, piene di vento a primavera! Ella doveva carezzare così il nostro amico, doveva farlo morire di spasimo, così. Ora, anch’esse, come le vele di una decrepita barca inservibile, chiusa nel vano di un piccolo porto solitario e triste, pendono flosce e vecchie: oggi una loro carezza ci farebbe pensare alle mani di un agonizzante.

 

            Un passo. Una mano tenta la chiave... oh, non spasimiamo: è un bambino, è il solito bambino di tutti i giorni, che passa lungo il corridoio per andare chi sa dove; non spasimiamo, è inutile.

 

Esortazione al fratello

Ma nella croce delle tribolationi et delle afflitioni ci possiamo gloriare, però che questo è nostro.

San Francesco

 

Ma un giorno voglio sradicarli dal suolo e disporli in modo che ognuno stia da sé, affinché apprenda la solitudine.

Nietzsche

 

            Giovine, se amor di perfetta letizia in te sia, vigila affinché la mala femina cui gli umani dicono Speranza non adeschi l’inesperto Desiderio.

            Sii semplice e puro come un fanciullo; non altra ombra godere se non quella generata dal prezioso lume della tua anima.

            E questo lume, assai dolce, sappia tu nutrire di olii non vani e curare affinché il suo raggio non sia parte di un tutto, ma un tutto, per se stesso. Ama, dunque, l’ombra e fuggi la luce ché, a simiglianza del tempo, essa è ingenuamente maligna e terribilmente giusta.

            E, con l’ombra, ama il silenzio, poiché l’ombra delle tue parole è il silenzio.

            Amalo come Calvario delle tue Imagini, come Croce del tuo Sogno, come Tomba della tua Anima. Saprà darti una stella per una parola, un’aquila per un grido, un pianto per un ricordo, sempre. Tu non vivrai che di Passato: ti sarà, in tal modo, assai men grave fuggir la speranza e la vana felicità.

            E dovrai viverne fino a morire. Lo spasimo bianco sarà per tenerti ognuna ora: tutto che di più infantile e di più lontano verrà a battere alla tua porta, dovrai accoglier nel profondo e goderti.

            La tua tristizia sarà quella de l’uomo che sempre ritorna: tristizia e letizia maggiore tu non saprai, né mai sapesti.

            Or tu voglia, nell’ombra e nella solitudine, morir questa morte. Sudario dell’agonizzante sia il Silenzio.

            E l’anima tua non più possederà il brivido libidinoso della Speranza, ma ogni Suo gesto sarà di rassegnazione come il chiudersi delle vetrate, a sera.

            Allora che lungamente la tua vita per il deserto del Dolore tratta sarà e non tu la gola arida — in udendo le fonti della caduca felicità cantare — lusingata avrai di Piacere; allora che l’anima si sarà cibata, divotamente dell’ostia del Silenzio, prona all’altare della Solitudine, lo spasimo gaudioso vorrà tenerti tutto, in fino a che la Morte non a te si figuri come il meraviglioso fiorir di un seme ignoto e divino.

            E in te sarà, veramente, la gioia e la dedizione de la corolla che s’apra, nel mattino, al sole.

            Giovine, io ti esorto a considerare e meditare la mia volontà. Non temer dell’umano; anzi, se avvenga che tu gli mova riso, godi e sappi che nello spregio degli altri è la vera felicità del solitario. Felicità di esaltazione che non vorrai disdegnare come quella che, sola, vana non sia e cresca in te il desio della solitudine.

            Getsemani!

            Oh, che tu debba inginocchiarti e orare e sudar sangue, novizio, in fin che una sua cantilena, incomprensibile e monotona come le parole di un folle, ti lacrimi la Morte, dolce sorella, e tu a lei ti doni a simiglianza dell’esule che ritorni e all’anima delle vecchie cose tutto se stesso affidi, colmo il cuore di una mortale felicità.

 

 
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