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ERRI DE LUCA

MONTEDIDIO

й Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Prima edizione "I Narratori" settembre 2001

Quinta edizione nell'"Universale Economica" maggio 2004

'"A iurnata è 'nu muorzo," la giornata è un morso, è la voce di mast'Errico sulla porta della bottega. Io stavo già là davanti da un quarto d'ora per cominciare bene il primo giorno di lavoro. Lui arriva alle sette, tira la serranda e dice la sua frase d'incoraggiamento: la giornata è un morso, è corнta, diamoci da fare. Ai vostri comandi, gli rispondo, e così è andata. Oggi scrivo la prima notizia per tenere conto dei nuovi giorni. Non sto più a scuola. Ho fatto tredici anni e babbo mi ha messo a lavorare. È giusto, è ora. L'istruzione obbligatoria va fino alla terza elementare, lui mi ha fatto stuнdiare fino alla quinta perché ero maialino e poi così avevo un titolo di studio migliore. Qua intorno i bambini vanno a laнvorare pure senza scuola, babbo non ha voluto. Fa lo scariнcatore al porto, non ha studiato, solo adesso sta imparando a leggere e scrivere alle lezioni serali della cooperativa degli scaricatori. Parla il dialetto e ha soggezione dell'italiano e della scienza di quelli che hanno studiato. Dice che con l'itaнliano uno si difende meglio. Io lo conosco perché leggo i liнbri della biblioteca, ma non lo parlo. Scrivo in italiano perнché è zitto e ci posso mettere i fatti del giorno, riposati dal chiasso del napoletano.

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Finalmente lavoro, anche a pochi soldi, però il sabato porto una paga a casa. È inizio d'estate, la mattina alle sei fa tresco, facciamo colazione noi due e poi metto pur'io la giacнca di lavoro, esco insieme a lui, l'accompagno per un poco poi torno indietro, la bottega di mast'Errico sta nel vicolo sotto al nostro palazzo. Babbo al compleanno mi ha regalato un pezzo di legno curvo, si chiama bumeràn. Lo tengo nella mano, senza chiedere, mi passa un solletico, una piccola scossa di corrente. Babbo spiega che si lancia lontano e quelнlo torna indietro. Mamma è contraria: "Ma addò l'adda auнsa'", dove lo devo usare? Ha ragione, sopra questo quartiere di vicoli che si chiama Montedidio se vuoi sputare in terra non trovi un posto libero tra i piedi. Qui non c'è spazio per stendere un panno. Va bene, dico, non lo posso lanciare però posso provare la mossa di tirarlo. È pesante, pare ferro. Mamma mi regala un paio di calzoni lunghi, li ha presi al mercato di Resina, roba buona, americana. Sono duri, scuri, me li metto e faccio la mossa di aggiustarmeli sul ginocchio. "Mò si' ommo, puort' e sorde a casa," sì, porto la paga il saнbato, però da qui a essere uomo, ommo, ce ne manca. Intanнto se n'è andata la voce e parlo rauco.

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Babbo ha avuto il bumeràn da un marinaio suo amico. Non è una pazziella, un gioco, è l'arnese di un popolo antiнco. Mentre spiega piglio confidenza con la superficie, struscio la mano sopra, l'accarezzo a verso. Da mast'Errico imнpuro le linee del legno, hanno un pelo e un contropelo. Al liscio il bumeràn secondo la sua fuga e quello trema un poco in mano a me. Non è un giocattolo, ma nemmeno un arnese da lavoro, è una cosa di mezzo, è un'arma. La voglio imparaнre, mi voglio allenare per fare un lancio, stanotte quando mamma e babbo pigliano sonno, suonno. Ho visto che in italiano esistono due parole, sonno e sogno, dove il napoletano ne porta una sola, suonno. Per noi è la stessa cosa.

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Ho spazzato il deposito del legno e m'è successo l'assalto delle pulci. Mi hanno attaccato alle gambe, sul lavoro porto i calzoni corti, erano diventate nere. Mast'Errico mi ha lavato nudo con la pompa davanti alla bottega. Ci siamo fatti un sacco di risate. È buono che è estate. Abbiamo messo la polнvere velenosa, nel deposito c'era pure qualche topo, "'o sùrece, 'o sùrece", ha strillato il mastro, gli fanno impressione, a me no. Poi ho avuto la paga, mi ha contato i soldi e me li ha dati. La sera comincio a allenarmi col bumeràn. Ho saputo che non viene dall'America, ma dall'Australia. Gli americani sono pieni di cose nuove, i napoletani stanno intorno a loro quando sbarcano per vedere le novità. È arrivato un cerchio di plastica, si chiama ulaòp, ho visto Maria che lo faceva giнrare intorno ai fianchi senza farlo cadere a terra. Mi ha detto: "Prova", le ho risposto no, che non mi pare una cosa da maнschi. Maria ha fatto tredici anni prima di me, abita all'ultimo piano, è la prima volta che mi parla.

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Stringo il bumeràn, sento la scossa. Ho cominciato a fare la mossa del lancio. Lo carico dietro la spalla, lo spingo avanti per lasciarlo andare ma non lo tiro. La spalla è svelta, come Maria nei fianchi. Non posso provare il volo del bumeràn, stiamo troppo stretti in cima a Montedidio. La mano trattiene il legno all'ultimo centimetro e lo riporta indietro. Faccio così avanti e indietro, si scioglie la schiena, sudo, tengo stretta la presa, basta un poco di giro di polso per sfilarlo dalle dita. Dopo un poco vedo che la destra è più grossa delнla sinistra, cambio mano. Così una parte del corpo raggiunнge l'altra, pareggia sveltezza, forza e stanchezza. Gli ultimi lanci fermati hanno più spinta a volare, il polso soffre di più a trattenere, allora smetto.

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Non ci volevo stare a scuola, troppo cresciuto per i banchi della quinta elementare. All'ora della merenda certi bambini tiravano fuori dalla cartella i loro dolci, a noi iscritti alla povertà il bidello consegnava il pane con la cotognata. Quando veniva caldo i bambini poveri venivano a scuola coi capelli tagliati a zero, a melone, per via dei pidocchi, gli altri bambini restavano pettinati. Troppe specialità di differenze, loro poi continuavano a studiare, noi no. Io ripetevo le classi per via delle febbri, poi mi sono passate e non volevo più fare scuola, volevo aiutare, lavorare. Mi basta lo stuнdio che ho fatto, so l'italiano, una lingua quieta che se ne sta buona dentro i libri.

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Da quando lavoro e mi alleno col bumeràn mi aumenta l'appetito. Babbo è contento di fare colazione con me, alle sei la prima luce striscia sulla strada e si infila pure dentro i piani bassi, non accendiamo la lampadina. D'estate la luce cammina fresca rasoterra prima di salirsene a fare il forno sopra la città. Metto il pane dentro la tazza di latte scurita col surrogato di caffè. Si è svegliato da solo per tutte le mattine e adesso gli piace che ci sto pur'io, per dire una parola, uscire insieme. Mamma si alza tardi, è spesso debole. A ora di pranzo vado su io ai lavatoi a stendere i panni, poi li ritiro la sera. Non c'ero stato ancora là sopra, sul terrazzo, è alto sopra Montedidio, piglia un po' di vento la sera. Nessuno mi vede e mi alleno là, il bumeràn all'aria aperta freme, il manico si torce quando lo stringo per non lasciarlo scappare. E' legno cresciuto per volare. Mast'Errico è un bravo falegname, dice che il legno è buono per il fuoco, per l'acqua e per il vino. Io so che è buono pure per volare, ma non lo dico se non lo dice lui. Ho pensato che voglio tirare il bumeràn dai lavatoi, la terrazza più alta di Montedidio.

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Stanco di braccia, sudato, mi stendo un poco sul lastrico dove stanno i fili dei panni. Sopra di me non c'è più neanche un pezzo di città, chiudo l'occhio buono, guardo in alto con quello mezzo aperto, il cecatiello. Subito il cielo diventa più scuro, spesso, più vicino, addosso. L'occhio destro è scarso, vede però il cielo meglio di quello buono, che serve per la strada, per guardare in faccia, per fare il mestiere a bottega. L'occhio sinistro è dritto, svelto, capisce al volo, è napoletano. Il destro è lento, non mette a fuoco niente. Invece di nuvole vede i fiocchi sparsi dal materassaio quando per strada sopra un lenzuolo steso pettina e rigira la lana e la scombina a fiocchi.

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Torno dai lavatoi, porto i panni nella cesta, nel buio delle scale qualcuno spia il passaggio. Li sento pure nello scuro gli occhi degli altri, perché quando guardano toccano, fanno un poco di corrente d'aria che passa sotto una porta. Mi viene il pensiero che è Maria. Il palazzo è vecchio, per le scale di sera passano gli spiriti. Senza il corpo hanno nostalgia solo delle mani e si buttano addosso alle persone per desiderio di toccare. Con tutta la rincorsa che ci mettono a me arriva uno sfioramento. Ora che è estate si strusciano in faccia, mi asciugano il sudore. Nei palazzi vecchi gli spiriti si trovano bene. Quando qualcuno però dice che li ha visti è bugia, gli spiriti si possono solo toccare, quando vogliono loro.

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Mast'Errico tiene ospite in bottega uno scarparo che si chiama don Rafaniello, io faccio pulizia anche nel suo posto, intorno al bancariello e al mucchio delle scarpe che aggiusta. È venuto a Napoli da qualche pizzo d'Europa dopo la guerнra. E salito dritto sopra Montedidio da mast'Errico e si è messo a sistemare scarpe ai puverielli. Le fa tornare nuove. Lo chiamano Rafaniello perché è rosso di capelli, verde negli occhi, è piccolo e porta una gobba a punta in cima alla schieнna. A Napoli come l'hanno visto gli hanno attaccato addosso il nome di ravanello. Così è diventato don Rafaniello. Non sa neanche lui da quanti anni sta al mondo.

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I bambini non capiscono l'età, per loro quarant'anni o ottanta sono lo stesso guaio. Ho sentito una volta per le scale Maria chiedere a sua nonna se lei era vecchia. Quella ha riнsposto di no, Maria ha chiesto se il nonno era vecchio e la nonna ha risposto di no. Allora Maria ha chiesto: "Ma i vecchi non esistono?", e si è presa uno schiaffo. Io li capisco gli anni delle persone, ma quelli di Rafaniello no. In faccia ha vent'anni, nelle mani quaranta, nei capelli venti, tutti rossi a cespuglio. Nelle parole non so, parla poco a voce fina fina. Canta in una lingua straniera, quando spazzo il suo angolo mi fa un sorriso e si muovono le rughe e le lentiggini, pare il mare quando ci piove sopra.

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È bravo assai, Rafaniello, aggiusta le scarpe ai puverielli e non si fa pagare. Arriva pure uno che vuole un paio nuovo. Piglia la misura con un pezzo di spago, ci fa dei nodi che sa lui e poi si mette a fare. Quello torna per misurarsele e si troнva giuste le scarpe, meglio dei guanti. Vuole bene ai piedi della gente. Rafaniello non fa male a una mosca e nessuna mosca lo disturba. Gli volano intorno ma non si poggiano addosso, pure se ce ne stanno assai. Mast'Errico invece scuote il collo come un cavallo di carrozza per togliersele di faccia mentre le mani sono impegnate. E sbuffa pure come un cavallo. Gli sbatto intorno lo straccio e quelle lo lasciano stare per un secondo.

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Io porto i sandali pure d'inverno, il piede cresce e può pure sporgere un poco senza bisogno di comprare un paio nuovo. Mi stanno piccoli, Rafaniello se li è presi mentre spazzavo scalzo, per non consumarli. Non si è fatto accorgeнre da me. Quando li infilo a mezzogiorno mi vanno giusti, comodi che mi sono preoccupato di avere sbagliato sandali. L'ho guardato e lui ha fatto sì, sì con la testa. Gli dico grazie don Rafaniè, lui risponde: "Niente don", ma voi siete un bravo cristiano, fate la carità ai piedi dei puverielli, ve lo meritate il don. "No, no, il don va bene per gli altri e poi io non sono nemmeno cristiano. Dalle mie parti mi chiamavo con un nome quasi uguale a Rafaniello." Mi sono stato zitto, non avevo ancora scambiato dieci parole con lui. Il cuoio dei sandali era profumato, risuscitato in mano sua. A casa mamma mi ha detto bravo che mi faccio volere bene dalle persone. Con Rafaniello non vale, quello vuole bene a tutti.

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Sento strilli e voci napoletane, parlo napoletano, però scrivo italiano. "Stiamo in Italia, dice babbo, ma non siamo italiani. Per parlare la lingua la dobbiamo studiare, è come all'estero, come in America, ma senza andarsene. Molti di noi non lo parleranno mai l'italiano e moriranno in napoleнtano. È una lingua difficile, dice, ma tu l'imparerai e sarai italiano. Io e mamma tua no, noi nun pu, nun po, nuie nun putimmo." Vuole dire "non possiamo" ma non gli esce il verbo. Glielo dico, "non possiamo", bravo, dice, bravo, tu conosci la lingua nazionale. Sì la conosco e di nascosto la scrivo pure e mi sento un poco traditore del napoletano e alнlora in testa mi recito il suo verbo potere: i' pozzo, tu puozze, isso po', nuie putimmo, vuie putite, lloro ponno. Mamma non è d'accordo con babbo, lei dice: "Nuie simmo napulitane e basta". Ll'Italia mia, dice con due elle di articolo, ll'Italia mia sta in America, addò ce vive meza famiglia mia. '"A patria è chella ca te dà a magna'," dice e conclude. Babbo per scherzare le risponde: "Allora 'a patria mia si' tu". Lui non vuole dare torto a mamma, da noi non si alza la voce, non si litiga. Se lui è contrariato mette la mano sulla bocca e si coнpre mezza faccia.

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Mast'Errico mi ha messo a stendere il turapori e a carteggiare. Alliscio le ante di un armadio per vestiti. Ma quanti vestiti tiene questa famiglia? Stiamo facendo otto porte, due piani, si chiama "quattro stagioni". Oggi ha provato la chiusura della prima anta e quella ha combaciato così bene che ha fatto il rumore del soffio, l'aria se n'è scappata da dentro. Mi ha fatto mettere la faccia vicina al battente, ho sentito una carezza d'aria. Si strusciano così gli spiriti in faccia a me. Poi mast'Errico l'ha smontato e l'ha coperto, è un'opera importante, aggiusta tutta un'annata. I cassetti soнno di faggio, gli incastri a coda di rondine, una soddisfazioнne vederglieli uscire da sotto le mani. Controlla gli squadri molte volte, ingrassa le guide, sfila e rinfila i cassetti senza rumore, come la lenza in mare, dice, che sale e scende muta in mano a lui. Mast'Errì, dico, siete un fenomeno, unТebaninista pescatore.

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Mast'Errico ogni giorno compra "Il Mattino". È una spesa, sono trenta lire, dice che un uomo deve sapere che succede nel mondo. Legge a voce qualche notizia per noi: se n'è caduta la spada di mano alla statua di Ruggero il Norнmanno davanti Palazzo Reale. A Genova grandi mazzate tra la polizia e gli operai. La voce di mast'Errico è forte, mi restano impressi i fatti che legge. La domenica se ne va a peнscare, a remi davanti al porto con un filo di lenza. Sta quieto in mezzo al traffico dei bastimenti fino a sera. Tanto aspetta fino a che il sarago si fa pigliare. Un sarago, davanti alla diga del porto, non si crede, sotto la sfoglia nera dell'acqua. Ce ne stanno, dice, sono smaliziati come scugnizzi, e ci vuole arнte a rubarli al mare. Per esca ci vuole la cozza, una volta me l'insegna, lui dice: "Te l'imparo".

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A tavola nostra il sarago non sale, noi siamo mangiatori di alici. 'O sarago, costa caro, ma lui se lo porta a casa ogni domenica e se lo cuoce all'acqua pazza. "Col permesso del cielo e del mare," dice. Campa da solo, a sessant'anni non porнta occhiali, si sforza la vista, deve prendere molte volte la misura dei tagli, stare più accorto. Il garzone che teneva prima era bravo ma è cresciuto con la guapparia e adesso sta rinchiuso. Perciò sono arrivato io, gli presto gli occhi, gli segno i millimetri. Lui poi calcola quanto ruba il taglio e corregge

la misura.

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Passo le giornate a pulire gli arnesi, le macchine, levo trucioli, segatura. Mi sto facendo robusto con l'esercizio del bumeràn. Le spalle spingono contro la camicia, un ventaglio di muscoli urta contro la stoffa sulla schiena e una linea di callo passa in mezzo alle mani dove stringo il manico del legno. La sera ai lavatoi forzo il lancio, faccio tutta la mossa di tirarlo e poi lo stringo all'ultimo, alla fine di corsa della spalla e del braccio. La spinta si rafforza, il bumeràn freme di voglia. Sudo nel palmo, un odore di legno amaro, più amare del castagno. Nessuno mi vede, solo gli spiriti mi soffiano in faccia qualche carezza asciutta. La strada fa chiasso anche di sera, ma io sto più in alto di tutti, sul terrazzo dei panni e il rumore più forte è lo spigolo del bumeràn che taglia l'aria al passaggio dietro le orecchie.

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Rafaniello è stanco, dorme agitato, gli brucia la gobba, Pero è contento, buon segno, dice. Mi cerca confidenza quando mast'Errico è fuori a comprare legname. Mi ha fatto il suo racconto. È venuto a Napoli per sbaglio, voleva andare a Gerusalemme dopo la guerra. È sceso dal treno e ha visto il mare per la prima volta. Una sirena di bastimento ha suonato e lui s'è ricordato di una festa al paese suo che comincia con un suono uguale. Ha guardato i piedi, quanti scalzi, bambini assai come al paese suo, secchi, svelti, gli sembrano i suoi. Lui viene da un paese inguaiato che ha perso tutti i bambini, la folla di Napoli glieli riporta a mente. Al paese suo sono diventati così pochi che non si salutano più, a Napoli invece uno può passare la giornata solo a salutare e poi si va a coricare stanco solo per quello.

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Rafaniello se ne camminava per la nostra città straniera e pure mezza uguale alla sua di prima della guerra, uguale per le facce, gli strilli, gli insulti, le iettature e gli pareva strano di non capire manco una parola. Si toccava le orecchie per vedere se c'era un guasto, mentre me lo racconta ride. Si è rassegnato, la città era straniera. Dev'essere per via del mare che la trattiene e non la fa partire, così pure lui si deve fermare, non può proseguire a piedi per Gerusalemme. I bastimenti vanno in America non in terrasanta. Perciò resta, dice: resto un poco. È la fine del quarantacinque, c'è bisogno di scarpe, la gente si vuole sposare, Napoli è piena di nozze, Rafaniello si ferma e aspetta. M'incanto in bottega a sentire i suoi fatti, mi devo dare dei pizzichi per rimettermi al lavoro.

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Ognuno di noi sta con un angelo, così dice, e gli angeli non viaggiano, se parti, lo perdi, ne devi incontrare un altro. Quello che lui trova a Napoli è un angelo lento, non vola, va a piedi: "Non te ne puoi andare a Gerusalemme", così gli disse subito. E che devo aspettare, chiede Rafaniello. "Caro Rav Daniel, gli risponde l'angelo che conosce il nome originale di Rafaniello, tu andrai a Gerusalemme con le ali. Io vaнdo a piedi pure se sono un angelo e tu andrai fino al muro occidentale della città santa con un paio di ali forti come quelle dell'avvoltoio." E chi me le dà, insiste Rafaniello. "Già le tieni, gli dice quello, stanno nella custodia della gobba. Rafaniello è triste di non partire, felice della gobba che è stata un sacco di patate e ossa sulla schiena da non potere scaricare mai: sono ali, sono ali, me lo racconta e abbassa ancora di più la voce e le lentiggini si muovono intorno agli occhi verdi fissati in alto verso il finestrone.

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L'angelo glielo ha ripetuto, perché agli uomini si devono dire le cose due volte: "Volare volerai con ali tue a Gerusalemme e farai scarpe insieme a Rav Iohanàn hassàndler", che da noi sarebbe don Giuvanne 'o scarparo. Com'era l'angelo del paese suo, gli ho chiesto. Uno che sapeva fare la vodka con la neve, mi ha risposto. La conosco la neve, è caduta nel cinquantasei e ha pulito la città, Napoli non è mai stata così bianca. "La neve non pulisce, copre, lascia tutto uguale, non scopa niente," mi insegna Rafaniello e mi sto zitto.

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Ascolto i fatti suoi, gli vorrei dire che pur'io so volare, ma solo su Napoli. Gli vorrei dire come si fa, come deve mettere il corpo, che tutta la guida sta negli occhi, quando li alzi ti sollievi, quando li abbassi scendi. Gli vorrei dire quello che ho imparato in suonno, ma mi sto zitto, io so solo galleggiaнre in aria, a lui tocca la serietà delle ali. Poi torna mast'Errico, scarico le assi che sono grezze ma le schegge non mi fanno niente, ho fatto il cuoio sulla pelle. I fatti di Rafaniello mi portano allegria, aria nelle ossa, un'allegria di volatore. La sera ai lavatoi il braccio se ne vuole partire dietro al bumeràn. Rallento la spinta e il freno indurisce il muscolo nuovo, lo fa diventare a forma di fionda.

29

 

Mast'Errico dice che i pescatori non sanno nuotare, che quella è roba di villeggianti che in mezzo alle onde ci vanno per sfizio e si mettono a posta sotto il sole. Il sole è buono per chi lo piglia da fermo, sdraiato. Per chi lo porta sulla schiena da prima luce fino a sera, il sole è un sacco di carbone. Come la gobba di Rafaniello, penso ma non lo dico, sono un guaglione di bottega e non posso dire la mia al mastro. Poi se sto zitto lui continua a raccontare e la giornata i più svelta. I pescatori vanno sul mare dentro il gozzo a motore oppure a remi e non si bagnano nemmeno la faccia. In testa si rincalcano un basco che non si stacca neanche contro vento. Ai vecchi della marina senti il tabacco, il sudore, non il sale. La domenica escono governati con la camicia bianca. Ci sta poca presa di pesce nel golfo, per portare a riva qualcosa stanno in barca tutto il giorno. Mi interessano le notizie di mare, io non lo conosco, lo vedo ma non lo so. Mast'Errico mi parla volentieri, l'altro aiutante lo ascoltava con fastidio. Lui starebbe a parlare, ma 'a iurnata è 'nu muorzo, sospira e dice per finire che il sale di mare è amaro come quello del sudore e tutt'e due non sono buoni per l'acqua della pasta.

30

 

Dal buio dei lavatoi spunta Maria. I tredici anni suoi sono più cresciuti dei miei, lei già sta in un corpo arrivato. Tre diнta sotto il ciuffo dei capelli neri, corti, c'è la sua bocca veloce con le parole, le vedo uscire fuori dallo scivolo delle sue labbra grosse. Il sorriso le taglia la faccia da un orecchio all'altro. Maria sa le mosse delle donne. Sto davanti a lei e mi sento le viscere vuote, una fame di pane, di dare un morso alla stessa fetta di pane e burro. Me l'offre, dico no. Ha scoperto che mi alleno col bumeràn, è curiosa. Mi sente salire, passare davanti alla sua porta. Si avvicina, la sera è calda e porta i suoi odori, cioccolato, origano, cannella, lo tiro col naso, è profumo francese, dice, tirando la erre dalla gola.

31

 

È buio, stringo il legno del bumeràn, glielo presento. Ma- ria lo conosce, sa che cosa può fare. "Ma tu non lo fai volare. Perché non lo lanci?", lo perdo. "Non serve se non vola," non so rispondere, io vengo qua sopra a caricare la molla di un lancio solo. Una sera il braccio sarà forte e non lo potrò fermare e allora volerà il bumeràn. Penso un poco poi dico: "Tu tieni i canarini sul balcone e non li fai volare, io tengo prigioniero un bumeràn". Quelli cantano, dice Maria. Queнsto fischia, dico io e le faccio sentire vicino all'orecchio il vento tagliato dal lancio. Non si spaventa, ride. Maria mi apre la mano stretta sul legno, mi tocca le dita, inghiotto la saliva. Sta nelle sue mani, il bumeràn. Accidenti quanto peнsa, dice, e me lo rende. Pesa? È un'ala di legno, come può pesare? Insiste che pesa e scotta pure. Capisce perché mi alнleno, mi tocca la spalla: "Da quando lavori sei diventato forte". Abbasso gli occhi. Maria mi piglia i capelli della fronte e me li tira in alto: "Guardami in faccia quando ti parlo". È buio e Maria fa la guappa con me. È un poco più alta, ha già il petto sporgente. Sto fermo un poco, poi vado a sciogliere le sue dita rimaste sui capelli. Si allontana, si volta, dice: "Domani a quest'ora torno, ti devo raccontare un segreto". Resto da solo, rinfresca la sera ai lavatoi risciacquati dai saнponi a scaglie. Le mamme ci lavano i panni e pure le ferite dei figli quando esce sangue. Raccolgo la roba dallo stendiнtoio e scendo.

32

 

Mamma dorme molto, da un giorno all'altro si è ammalata di itterizia, è gialla come l'aglio vecchio. Spugno il pane nel latte freddo, non ho il permesso di accendere il gas, babbo è andato in cerca di medicine, prima che trova una farmacia aperta alle dieci di sera fa il giro di Napoli. Tengo il bumeràn vicino sul tavolo da cucina, sta sempre con me, anche addosso, me lo tengo sul lavoro sotto la giacchetta. Cose nuove si fanno sotto, Rafaniello, Maria, la forza che mi viene ai lavatoi. Il bumeràn viene dal mare, deve volare, intanto fa crescere i muscoli a un guagliunciello che puzza ancora d'inchiostro di scuola, lavora da giugno per un falegname e scrive i fatti della sua nuova vita con una matita sopra un rotolo regalato dal tipografo di Montedidio, un avanzo di bobina. E il rotolo gira e già vedo scritte le cose passate, che subito si arrotolano.

33

 

Mast'Errico canta. Quando fa una fatica si mette dietro a una canzone e non la lascia, la consuma. Pure Rafaniello canta ma zitto, dentro la gola. Muove poco le labbra, a un lato della bocca tiene una decina di chiodini da suola. Io lo sento anche sotto la voce di mast'Errico che cresce con la giornata e smette a mezzogiorno che è ora di mangiare e lo stanzone si illumina con un taglio di sole che lo spacca in due. E la segatura se ne sale in aria inconнtro alla visita della luce.

Canta aggraziato Rafaniello, anche quando va la sega al nastro o la pialla a spessore, io so se lui sta cantando o no. Che canzoni sapete, don Rafaniè, chiedo. Ne sapeva molte, ora ne canta una, solo quella. Sono stato educato a non fare troppe domande e mi tengo la curiosità. Lui fa passare un poco di silenzio, quello che poteva servire alla mia seconda: domanda e poi risponde lo stesso. Rafaniello risponde pure a domande che non ci sono state. Dice che canta una canzoнne sola, poche strofe. Le parole sono un augurio per la coнstruzione di non so quale casa dove si prega. Una chiesa, diнco io. No, è una casa dove si legge, si studia e si dice una preнghiera. Rafaniello fa un sorriso e questo sta per chiusura delнla nostra conversazione. La giornata è un morso e assai le scarpe da riparare.

34

 

Mast'Errico stringe gli occhi per la polvere, per il rischio delle schegge e ha uno zampillo di rughe dagli occhi a forza di chiusure. Gli occhi di Rafaniello sono umidi, se li asciuga col dorso della mano. Ho preso un poco di confidenza con lui: don Rafaniè, voi pare che piangete. "È l'aria di qua dentro, dice, è la colla, è Montedidio che mi spreme gli occhi." E se li asciuga. Dice che tutti gli occhi per vedere hanno bisogno di lacrime, se no diventano come quelli dei pesci che all'asciutto non vedono niente e si seccano ciechi. Sono le lacrime, dice, che permettoнno di vedere. Vengono senza spinta di piangere. Faccio di sì con la lesta e sento due lacrime pizzicare in cima al naso per uscire. Mi fanno il solletico di piangere, mi volto svelto, mi soffio il naso nelle dita poi lo butto a terra nella segatura, ci passo la scopa, faccio forza nelle mosse per vergogna e ci carico sopra pure un poco di napoletano, sempre buono in caso di bisogno: che chiagne a ffà, mi dico e sputo in terra, ma si spiccicano lo stesso le due lacrime, se ne accorge mast'Errico, "guagliò ti scorre la parpétola", la valvola della palpebra perde, mi dice di non stare in fondo alla bottega, mi manda a chiedere un mezzo barattolo di grasso per macchine alla tipografia di don Liborio. E per la strada vedo più chiaro sulla buccia della frutta, nelle branchie dei pesci, nel pescespada spaccato a metà e nel piatto di stagno del puveriello che sta in piedi la giornata sana e non si siede perché i passanti stanno in piedi e si schifano di uno che aspetta l'eнlemosina seduto comodo in terra. Ha ragione Rafaniello, due lacrime bastano a fare buona la vista.

35

 

Don Liborio mi dà il grasso e pure una toccata al piscitiello. Non ci posso fare niente, me la devo tenere, tanto più di così non mi può fare, sono forte e me n'esco dalle sue mani con due salti. Lui è pesante, lento e tocca i piscitielli ai guaglioni. Si fa una risatella che è più quella di un colombo che di un uomo. In tipografia fa tutto da solo, i garzoni non vogliono stare da lui. La gente lo sa, ma si fa i fatti suoi e poi don Liborio fa opere di bene, ha pagato il vestito da sposa a un'orfana senza dote. E poi la gente dice che di quello non è mai morto nessuno. "Quanno è pé vizio, nun è peccato," questa è la sentenza. Mast'Errico mi manda da lui perché sa che don Liborio il grasso me lo dà. Però mi dice: "Torna presto, nun perdere tiempo cu ddon Libborio". E io torno presto. Don Liborio si piglia lo sfizio della toccatina e questo va per quello. Mi ha pure regalato il rotolo di carta di bobina che vado scrivendo. Per strada l'effetto delle lacrime è finito, vedo più sporco. Mi tengo il bumeràn in petto, chissà che toccava don Liborio se me lo mettevo nei calzoni. La sera la casa è quieta, mamma dorme, io mangio una mollica dentro il latte, senza di lei non si fa cucina, babbo mastica pane, olio e pomodoro, io lo saluto e salgo ai lavatoi a fare alнlenamento e a ritirare i panni.

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Sale pure Maria, ci sediamo sotto i fili vuoti, sono sudato e il bumeràn è caldo per tutta l'aria tagliata. Maria mi tocca, non dice niente, mi tocca, prima in giro per il corpo e dopo sui calzoni. Io non so fare nessuna mossa, solo guardare, lei mi piglia in un punto e io fatico a tenere gli occhi aperti. Mi viene di chiuderli, di respirare forte, però mi faccio forza e non mi arrendo a chiuderli, li tengo fermi per ricambiare alнmeno con gli occhi, visto che non so fare niente. È buio, guardo la sua faccia seria, lei muove la mano nel mio punto, io non capisco cosa sta succedendo là, lei non mi guarda, io non mi muovo dalla sua faccia, non cerco dove lei mi tocca, sta su una parte mia, non è il piscitiello toccato da don Liborio. Sta nello stesso posto ma è un'altra carne uscita da me incontro alle sue mosse che impastano col liscio delle dita, Poi Maria non guarda più la sua mano, guarda me che la guardo e piano piano le viene un sorriso e quando glielo vedo, vengono dei colpi in fondo all'intestino, una tosse dentro la carne, un tiro di bumeràn che se n'è scappato di mano e mi svuota.

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Lo cerco e sta posato lì per terra, vicino. Maria si ferma prende un fazzoletto, si asciuga la mano, di cosa non so, di sudore forse come faccio io dopo l'allenamento. L'occhio destro cecatiello si è bagnato pure lui per lo sforzo di restare aperto. Poi guardo giù e vedo una carne mia mai vista prima, un pezzo secco e lungo, un poco storto al posto del piscitiello, non ci fosse Maria che è tranquilla, griderei per l'impressione. Però c'è e mi posa un bacio sul labbro sotto il naso. Io sto buono con lei, zitto, non chiedo cos'è stato. Sopra di noi i fili del bucato fanno a strisce il cielo del mese di agosto. Mi piace che non ci sono sopra di noi lenzuoli né balconi, stiamo sul lastrico più alto di Montedidio.

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"Faccio questo al padrone di casa," dice. Questo che? Mi urta sentirlo nominare, il padrone di casa, la persona più scocciante di quelle che incontro. Chiede agli inquilini: "Quando mi pagate?", e glielo chiede quando ci sta intorno gente che sente. "Quando mi pagate?" dice forte, così li fa vergognare.

"Quello che ho fatto a te lo faccio a lui," dice Maria. Sto zitto per non dire fesserie. "Stasera volevo toccare un corpo pulito, guardare una faccia che mi guarda, che mi rispetta, Tu sei adesso il mio fidanzato e io non mi faccio più toccare dal padrone di casa. Non gli faccio più niente, nemmeno se ci accia dal palazzo." Così ti ha detto, chiedo, che ti caccia? "No, lo dice mamma, perché abbiamo i debiti, viene la gente a casa a chiedere soldi." Mi sto zitto, pure se non capisco tutto, vedo Maria contenta di stare con me ai lavatoi, le piace pure il bumeràn, fa una mezza mossa di lanciarlo, sente una scossa, grida allegra di meraviglia, come faccio io a giocarci se è così pesante? Ma se è fatto per volare, le dico, non può essere pesante. "Tu lo fai volare?", sì le dico, chiede quando, ancora non lo so. "Quando sarà, io ci posso stare?", non rispondo, il bumeràn non è un gioco, è un grande segreнto.  Volerà staccandosi dal braccio, con un addio di tutti i muscoli che ha fatto crescere e farà rumore e spavento, colнpirà forse qualcuno, cercheranno il colpevole, di chi è il bumeràn? E verranno qua sopra sulla cima di Montedidio e io risponderò che sono stato io, sono io il lanciatore di bu-

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meràn. Sono pensieri zitti, Maria non li può sapere. Mi prende la testa con le mani, se la poggia sul petto, io sento sotto il gonfio della sua carne sporgente il fiato e poi il battito duro del cuore che pare uno che bussa e a me viene di rispondere: avanti.

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Maria tira fiati profondi, la mia testa si alza e si abbassa sul suo petto. Dice che adesso va bene, che ora fa quella cosa, del piacere degli uomini, per me, così è bello, non la schifezza del corpo vecchio del padrone di casa, le sue mosse adнdosso a lei. Maria fa una scossa con il corpo, una scrollata, una scotoliata di tovaglia. Apre gli occhi, vedo la sua faccia intristita. Allora piglio il bumeràn e lo metto con la punta delle ali in giù e pure i lati della mia bocca li spingo con due dita in giù, così faccio la caricatura della sua faccia. Poi rigiro il bumeràn con le punte in sopra che diventa una bocca che ride e ci aggiungo la mia e Maria viene dietro a noi, al bumeràn e a me, la becca si allunga e le apre la faccia, mi abbraccia la testa. Quando la scioglie dalle braccia, se ne va.

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Rafaniello struscia la gobba contro il muro, gli prude. Lavora svelto, deve finire di aggiustare molte scarpe di puverielli, agosto è già capo d'inverno, si dice da noi. Le scarpe sono importanti per la salute. Vengono da lui con delle ciabatte sfondate, spaiate, lui aggiusta e raccomanda di lavare i piedi, coi piedi puliti le scarpe durano di più. Va bene pure se li lavano a mare, a Napoli sono poche le fontane. Rafaniello non soffre la puzza di cuoio marcito, di piaghe di piedi anneriti, il suo naso dev'essere santo. MastТErrico invece non vuole sentire e gli fa spostare il sacco delle scarpe da una parte all'altra. Lo aiuto io, ma quando me lo carico sulla spalla mi tengo il respiro chiuso.

Lavora fitto, il rosso delle lentiggini è più vivo mentre gli occhi verdi sono calmi. Mi dice che di notte dentro la gobba scricchiolano le ossa delle ali, provano a muoversi e fanno male. Sta succedendo.

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Ha fatto il conto che da Napoli a Gerusalemme ci vanno duemila chilometri di volo. Voi pensate di volare sopra il mare fino a là? Non mi risponde. Voi vi dovete sostenere, dovete mangiare come fanno gli uccelli migratori prima di partire. Poi penso, non glielo dico, che se va bene arriva fino a Castellamare di Stabia dall'altra parte del golfo, lo scamнbiano per un grifone e gli sparano per impagliarlo. Che schifezza di pensieri, no, no, Rafaniello con le ali fresche fa il giнro del mondo, ce la fa, basta che mangia sostanzioso. Fatevi due uova sbattute, con un poco di zucchero fanno venire la forza di volare pure a me. Rafaniello mi guarda col verde degli occhi larghi: "Da come si muovono devono essere ali grandi". Ci rimettiamo al lavoro, lui coi chiodini in bocca, io con la scopa, pulisco il posto suo e mentre gli sto dietro sento uno scrocchio di ossa nella gobba e penso al bumeràn. Pure lui freme nella mano per volarsene in cielo. Glielo devo presentare. Lui mi ha detto il segreto della gobba e io non gli ho ancora ricambiato la confidenza.

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Dove sta lui di casa, una camera che era un ripostiglio non c'è luce elettrica. La sera accende una candela. La poggia su una sedia, dice che deve stare bassa perché la luce vuole salire. Dice pure che la candela illumina il buio, non lo scaccia. Al fuoco dello stoppino il bicchiere di vino nel vetro piglia luce dentro, l'olio splende, O pane sente il fuoco e si mette a profumare. Che altro vi mangiate, chiedo. La cipolla, dice, quant'è bella vicino alla candela, viene voglia di baciarla anziché di tagliarla. Poi ci mette l'origano, il sale luccica mentre lo fa cadere dal pizzico di dita sul piatto davanti al lume. Mentre dice queste cose conosciute mi capacito che non le ho ancora viste sotto una candela. Sembrano più buone. Sono sostanziose, gli basteranno per volare a Gerusalemme. Poi dice che la stanza diventa più grande con una fiammella sola, sui muri si muovono le ombre e gli tengono compagnia e dice che d'inverno una candela scalda pure. A fine sera scrivo queste notizie di Rafaniello poi spengo la luce. A babbo e mamma non piacciono le candele, si usavano durante la guerra.

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Mamma è stata portata all'ospedale. La casa è zitta, immobile, non ci so stare. Lavo per terra, macino un poco di caffè per babbo, per fare un mio rumore. Ho il permesso di accendere il gas, cucino una pasta, così se la trova pronta stasera quando torna. Ho pure la chiave della porta di casa. E' bastato arrivare a tredici anni e subito sono stato messo tra gli uomini, ho perduto la puzza di bambino. Anche la voce, ora ho un fiato rauco, lo gratto in gola ma non esce sonoro, Sta sotto la cenere della voce di prima, provo a liberare la canna, niente, esce una voce di suonno, di quand'uno si sveglia e dice la prima parola della mattina. Sono rauco fisso.

Più del resto cambiano le mani, ora sono capaci di tenere, si sono allargate per stringere il bumeràn. Il legno perde peнso, lo consegna alle braccia, ai pugni, alle dita. Io non ho un bersaglio, non devo colpire, ho l'aria aperta, il cielo tiepido con l'odore del sapone a scaglie. Una sera di autunno quando rinfresca e le case chiudono i vetri, farò il lancio, non vedrò neanche un centimetro di volo, però ogni sera lo preparo cento volte per braccio.

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Col buio Maria sale ai lavatoi, non mi tocca, non mi chiama il piscitiello fuori dalla pelle. Ha detto basta al padrone di casa, quello l'ha presa male, ha fatto la minaccia dello sfratto, i genitori di Maria gli devono le mensilità arretrate. Maria gli ha sputato davanti ai piedi e se n'è andata. Butta fuori il coraggio, è femmina appuntita e già conosce  lo schifo. È finita la commedia, dice, che lui la chiama principessa, la fa vestire coi panni della moglie morta, le mette le cose preziose e poi la tocca e si fa toccare, ora lei non vuole più perché ci sto io. Ci sto io: tutt'insieme divento importante. Finora la mia presenza, c'era o non c'era, non spostava niente. Maria dice che io ci sto e così ecco qua me n'accorgo pur'io che ci sto. Mi chiedo da solo: non me ne potevo accorgere per conto mio di esserci? Pare di no. Pare che ci vuole un'altra persona che avvisa.

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Seduti a terra sotto il davanzale dei lavatoi Maria mi fa tenere le mani sul suo petto. Sto un poco storto, scomodo, però le lascio lì. La frangia nera sulla fronte sua piglia un poco di ventariello fresco di ponente, le asciuga la faccia, ci guardiamo zitti per dei minuti sani. Non sapevo che è così bello guardare, guardarsi vicino. Stringo l'occhio buono, con l'altro vedo meno preciso però si sveglia il naso che tira a bordo l'odore sudato di Maria e l'amaro del legno del bumeràn che sta in braccio a me. Lei pure chiude un poco un occhio, poi fa a cambio con l'altro e ci guardiamo fìtto e poi scappa da ridere per certe smorfie di cambiare luce agli occhi. Stasera ha detto: "M'importa di te". Pur'io ci tengo, ma non lo so dire così giusto e neanche posso rispondere: pur'io. Così mi sto zitto.

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Il padrone di casa è andato a bussare da Maria, lei ha aperto e quello l'ha pregata, pregata che si buttava in ginocchio di andare da lui. Maria gli ha fatto "ntz" con la testa all'indietro, uno sputo di no. Dalla cucina la madre ha chieste chi era. allora il padrone di casa ha fatto la scena che mandava gli uscieri del tribunale a pignorare i mobili e la madre a pregare di no e pure lei si voleva buttare in ginocchio e solo Maria non si buttava e sapeva che le loro erano tutte ginocchia inutili, tanto lei non ci torna più dal vecchio. Chiedo se sua mamma sa niente delle visite, non risponde, apre le mani e mi posa un bacio sotto il naso: "Tu sei il mio fidanzato, la mia famiglia, se ci danno lo sfratto scappo e vengo da te". A stare fidanzati vengono pensieri tosti.

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Ci sono dei panni ancora stesi, qualche donna può salire a ritirarli. "Sono miei, dice Maria, li ho portati per una scusa di uscire. Mi sono messa a lavare, stirare, così mamma può andare a cercare i soldi per l'affitto." Com'è che la tua famiнglia non riesce a pagare la pigione e sta meglio della mia, chiedo. S'inguaiano col gioco, il lotto, la sisàl, il totip, stanno coi debiti, dice. "Ma io non ci vado più a portare i soldi mancanti al padrone di casa, che li conta e dice che sono pochi. Li portasse lei."

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Maria non va in chiesa la domenica, dice che non può diнre al confessore quelle cose delle visite, non può chiedere la comunione. Le dico che il padrone di casa ci va, si confessa e piglia l'ostia. "Il prete tiene la stessa età, tra loro s'aggiustano. A me ci vuole un confessore di tredici anni che capisce lo schifo, l'età nostra, che siamo pupazzi in mano ai grandi, non contiamo niente." Il padreterno vede tutto Maria, le dico. "Sì, vede tutto, ma se non ci penso io a aggiustare le cose, se ne sta a guardare lo spettacolo." Inghiotto la bestemmia di Maria, divento rosso, manco fossi io il padreterno che ha visto e non ha aiutato.

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Si fanno duri i muscoli del lancio, adesso ci sto io per te, siamo fidanzati, dico e anzi, a proposito, Maria, che fanno i fidanzati? "Fanno l'amore, si sposano, scappano insieme," dice sicura. Non chiedo ancora, mi basta che lo sa lei. Ci guardiamo, gli occhi sono larghi per il buio. Lei apre il sorriнso e la punta del piscitiello si muove da sola. Quando apre la bocca e spuntano i denti mi pizzica e mi viene caldo proprio Passo il braccio intorno alla sua spalla, stringo un poco. È la prima volta che la tocco io, che una mossa comincia da me. Maria appoggia tutta la testa sul braccio, non le vedo più la faccia, si calma il prurito al piscitiello. Che razza di forza mi sento, la carica dei lanci ha fatto pure il muscolo per tenere Maria. Si alza, raccoglie in petto i panni stesi e per saнluto o spinge il collo in avanti per un bacio. Allora vado con la bocca precisa incontro alla sua così siamo pari. I fidanzati fanno mosse pari.

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A bottega mi levo il bumeràn da sotto la giacca e lo lascio in vista. Mast'Errico lo stringe, lo gira, lo annusa. "E spesso," dice, poi ci sputa sopra e sfrega lo sputo col pollice. Mi spavento della sua confidenza, il bumeràn è antico, è stranieнro, è un'arma, come si azzarda a fare così? Mi fa vedere il punto che ha strofinato, butta un colore viola, ci mette la bocca sopra: "È pieno di tannino, è acacia". Gli racconto come l'ho avuto. Non è buono da lavorare, è troppo duro, ci puoi rompere la pialla sopra, non ci cavi manco una stamнpella, non è buono per la stufa. A qualcosa deve pure serviнre, ma lui non lo sa. Mentre me lo rende gli brucia al passagнgio di mano una scossa elettrica, fa uno scatto di meraviglia: porta corrente? Io non l'ho sentita, dico per bugia, perché mi sono abituato al brivido del bumeràn. Mast'Errico fa 1a faccia scura di quando non capisce un guasto, poi se n'esce : con la sua strofa: "Iamme, vuttammo 'e mmane, 'a iurnata è 'nu muorzo".

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Lascio il bumeràn vicino a Rafaniello. Il mucchio di scarнpe rotte cala, sotto le sue mani camminano da sole, il grasso le fa splendere, si sente profumo di cuoio felice. A mezzoнgiorno quando mast'Errico va a pranzo, passano a ritirare le riparazioni. Con le prime notti fresche i puverielli sembrano più inguaiati ancora, si mettono addosso una coperta di lana dell'esercito, due giacchette oppure tutte le camicie, se non tengono altro. "Don Rafaniè, o pateterno v'adda fa' diventa' ricco comm' 'o mare," gli dicono a compenso del lavoro che non possono pagare, insieme alle benedizioni sulla salute, contro le malelingue e il malocchio. "Possiate scampare dal fuoco, dalla terra e dalla gente malamente," "possa uscire l'oro dalla gobba vostra", Rafaniello è contento, dice che le benedizioni valgono più dei soldi perché sono ascoltate in cielo. E pure le maledizioni sono ascoltate, dice e sputa a terra per sciacquarsi la bocca dalla parola triste.

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Uno che fa il pettinalo ambulante gli aveva lasciato scarpe e se n'era andato scalzo. Torna per ritirare il paio, si siede, libera i piedi fasciati dalle pezze sporche. Rafaniello tira fuori le scarpe, quello non le riconosce per quant'erano nuove, allora se l'abbraccia con tutta la gobba e lo stringe e Rafaniello soffre per via delle ali che gli premono dentro. Il pettinaio ha portato una bacinella, ci mette l'acqua e si lava i piedi inguaiati di sporco e se li fa tornare puliti per il rispetto di metterli dentro al paio di scarpe profumate di grasso e cromatina. Lo fa per Rafaniello che raccomanda sempre la pulizia. Gli vuole regalare un pettine di osso, ma per il rosso fitto arrabbiato dei capelli di Rafaniello ci vuole almeno un pettine di rame. Se l'abbraccia e bacia un'altra volta e poi se ne va strillando per Montedidio quella sua gridata del mestiere che mi fa ridere: "Pièttene, pettenésse, pièttene larghe e stritte, ne' perucchiù, accattàteve 'o pèttene", che va bene in napoletano che sta comodo dentro un'insolenza, ma in italiano non vende neanche una forcina uno che va in giro per l'Italia a dire: "Pettini, pettinini, larghi e stretti, ne' pidocchiosi compratevi il pettine". La voce è forte e aggiunge in fondo alla gridata: "Don Rafaniello 'o scarparo è 'o masto 'e tutt'e maste e fa cammena' pure li zuoppe".

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Altri puverielli fanno meno chiasso di ammuina, però dalle loro voci rauche, fini, spuntano benedizioni potenti coнme le cannonate. Rafaniello risponde: "Mirzashè" che in linнgua sua vuoi dire: se Dio vuole. Nessun principe tiene le beнnedizioni che stanno nelle ossa della povera gente, che partono dai loro piedi, pigliano la rincorsa per tutto il corpo e spuntano fuori dalla bocca. Tengono una gratitudine i puverielli che nessun re ha mai sentito, e gli danno la spinta per Gerusalemme: così dice e io gli credo. A ora di pranzo chiuнdo la bottega, Rafaniello si toglie la giacchetta, mi chiede cosa vedo sulla gobba. Vedo una ferita, un punto viola in cima. Si comincia a spaccare, dice, come il guscio dell'uovo. Infilo il bumeràn nel pezzo di corda che ho cucito sotto la giacca e me ne salgo a casa.

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Per le scale passo vicino al padrone di casa, mi mordo la lingua per non salutare, non si accorge di me, sale svelto, affannato, supera il piano del suo appartamento, va da Maria, vedo che porta un pacchetto di pasticceria. Per la prima volta penso al bumeràn che ho addosso come un'arma, gliela tirerei. Il cattivo pensiero fa diventare pesante il legno. Rientro a casa, è vuota, zitta, apro le finestre e faccio entrare l'aria di autunno fradicia di libeccio. Mamma non torna, babbo gira per casa muto, non entra a vedere se sto in camera se dormo, ci siamo staccati. Gli apparecchio la cena coi soldi che mi lascia sul tavolo, su una carta segno le spese e lascio il resto. La paga di mast'Errico per ora la tengo io. Mi ricordo le strofe di mamma che si fermava un minuto seduta a cantarle sul mio letto dopo le preghiere: ''Oi suonno vieni da lo monte / vienici palla d'oro e dagli 'nfronte / e dagli 'nfronte senza fargli male". La musica pesava sugli occhi e li chiudeva. Ora mi metto giù senza buonanotte, mi spedisco da solo su un fianco, così dice Rafaniello quando va a dormire.

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Dico ancora le preghiere. Dentro il ripostiglio dove dormo non c'è finestra e mentre mi dico l'Angelo Custode mi pare di stare sui lavatoi con tanto di cielo aperto al posto del soffitto. Non credo che questa è una fede, lo faccio per abitudine, per non togliere le ultime parole della sera. Rafaniello dice che a forza di insistere Dio è costretto a esistere, a forza di preghiere si forma il suo orecchio, a forza di lacrime nostre i suoi occhi vedono, a forza di allegria spunta il suo sorriso. Come il bumeràn, penso: a forza di esercizio si prepara il lancio, ma la fede può uscire da un allenamento? Ripeto le sue parole per iscritto, più avanti forse le capirò. Lui dice pure di cantare per dare aria ai pensieri, se no chiusi in bocca fanno la muffa. Se mi metto a cantare pur'io con la voce spenta che tengo, qua dentro facciamo il festival. Mast'Errico ci tiene a farsi sentire sopra la pialla a spessore. Don Rafaniè, chiedo, non è che a forza di stare a Napoli siete diventato napoletano? No, dice per scherzo, è che i napoletani sono forse una delle dieci tribù perdute di Israele. Come? Vi siete perduti dieci tribù? E quante ve ne restano? "Solo due, una è quella di Giuda che ci da il nome di giudei, un nome che viene dal verbo ringraziare." Allora voi giudei vi chiamate: grazie? "Questo dice la parola, ma tutti i vivi si dovrebbero chiamare così, con una parola di ringraziamento."

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Oggi col solicello tiepido di novembre il vicolo si sporge fuori, spingeva le sedie in strada vicino al bastone dei panni e al braciere. "È asciuto, 'o paté d'e puverielle," dice mast'Errico, è uscito il padre dei poveri. E il sole dei mesi freddi che mette la sua coperta addosso a quelli che non la tengono. Sono salite a Montedidio le voci degli ambulanti che approfittano delle finestre aperte per chiamare dalla strada nelle stanze. "Olive di Gaeta, tengo olive pietr' e zucchero, calate 'o panaro." Parte una forza dalle gridate che fa affacciare la gente. Cogli occhi sono stato dalla parte della strada mentre lavoravo. Avevo desiderio, non di olive, di uscire. Imparo, il lavoro e questo, starsene buono a farlo quando fuori passa un sole basso che subito finisce, viene sera e uno sta ancora chiuso nella bottega e l'ha visto passare senza fargli un saluto. Canta, dice Rafaniello, i pensieri devono sfogare, devono trovare un buco per uscire, faccio sì con la testa ma di bocca non mi esce manco un soffio rauco. Se sto là fuori in mezzo ai piedi degli altri allora una canzone mi può pure uscire, ma fuori ci posso mettere solo gli occhi. La porta è aperta, il vento di mare arriva a scaricare odore di porto fino a qua sopra, mi pare di sentire 1a giacca di babbo, ingrassata, salata, ruggine e catrame. Mi toglie la malinconia. Invece di cantare, di buttare fiato, tiro su nel naso aria di marina e vento. La gridata delle olive si avvicina. Penso a babbo che sta dentro le stive e forse pure lui sente desiderio di uscire all'aria. Se lo merita più di me che sto alla prima malinconia.

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D'estate con mamma andavamo fuori al cancello per aspettare la sua uscita dal turno. Non si sapeva se finiva in orario o se gli toccavano altre ore. Stavo là fuori, guardavo la gente sul molo Beverello salire sui battelli bianchi della Span. Andavano alle isole, salivano e sbarcavano coi cappelнli di paglia. Ce n'era qualcuno arrostito crudo dal sole, mamma rideva per la somiglianza con il pomodoro: "Sbarcano 'e pummarole". Lei non si è mai messa al sole, mai andata a una spiaggia. Io non sono salito ancora su un battello, ma se ci vado non mi metto un cappello di paglia. Aspettavamo babbo e quando usciva con la giacca buona e la camicia bianca abbottonata fino al collo e si era lavato e pettinato, eravamo la più bella famiglia della marina. Passeggiavamo fiнno a Mergellina passando per Santa Lucia, mi comprava un tarallo di Castellammare. Mamma gli dava il braccio, io stavo dall'altra parte dentro la sua mano aperta. La gente si scansava per non disturbare la nostra formazione. A Napoli si porta rispetto alle famiglie, due che s'incrociano si salutano.

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Babbo è alto quanto l'armadio e passa di poco sotto le stipite della porta, per strada fa impressione vicino agli altri, anche mamma è alta, nera cupa di capelli. È magra, in faccia si vedono i nervi. Quando le scappa un gesto brusco è pericolosa, la sua mossa è una molla, rompe le cose intorno. Piega la forchetta quando mangia se le viene un pensiero storto. Io non le davo più la mano a passeggio, qualche volta soprapensiero me l'ha stretta da farmi piangere. Babbo dice che ha più forza di lui. Non ci può essere stato bambino più fiero di me sulla marina. Pure davanti ai circoli marinari dove vanno i signori che hanno le ricchezze, io sotto i miei due giganti mi sentivo una fortuna addosso che non sì poteva pareggiare.

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Sul lungomare della villa comunale passavamo all'ora che i pescatori da terra tiravano i due capi di fune della rete grande. Erano sei uomini per capo, davano il colpo tutti insieme, il più vecchio chiamava il momento dello strappo. La fune girava sulle spalle, il corpo spingeva coi piedi incrociati, trascinavano il mare a terra. La rete s'accostava larga, lenta mentre le due funi s'ammucchiavano a anelli sulla strada. Qund'arrivava sotto, i pesci facevano scintille, tutto il bianco che avevano saltava, battevano code a centinaia, il sacco rovesciava sull'asciutto il mucchio della vita scippata alle onde, babbo diceva: "Ecco il fuoco del mare". L'odore della marina era il nostro profumo, la pace di un giorno d'estate a sole calato. Ce ne stavamo zitti, vicini, è durato fino all'anno scorso, fino all'anno scorso ero ancora un bambino.

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È salito l'odore del porto fino al vicolo e mi scordo del malincuore. Mast'Errico mi ha visto spaesato e mi dice di bere il brodo del polpo: "Te magne 'a capa e metti giudizio". Un venditore di polpi sta in cima al vicolo dirimpetto, vende solo quello, 'e purpe. Mast'Errico lo conosce, sa che li cerca tra le pietre squadrate della diga foranea. "Non è che li pesca, dice, li va a pigliare con le mani, come uno che tiene n'allevamento 'e purpe. Li cresce con le cozze, 'o purpo si consola, lui apre i gusci, si mette le cozze sulla mano e quelli vanno a prendersele da lui. Li conosce uno per uno, li chiama coi numeri, va coi piedi nell'acqua, dice un numero e un purpo si accosta e s'attacca alla mano. L'accide senza fargli male e i purpe che te venne nun s'anna sbattere, sono tenerelli pure i gruossi. Da lui non trovi i purpetielli, i piccerilli, solo quelli cresciuti. Va' da isso e bivete 'o brodo."

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Rafaniello a ora di pranzo mi conta di quando stava al paese suo e si chiamava mastro Daniele, Rav Daniel. Da ragazzo andava pure lui a garzone da un calzolaio. Era un uoнmo aspro, niente a che vedere con mast'Errico. Non gli insegnava il mestiere, anzi glielo nascondeva. Rafaniello un poco sbirciava, il resto lo imparava in sogno da un calzolaio che sta nelle scritture sante della sua gente. Di notte veniva e gl'insegnava l'arte calzolaia. Rafaniello da ragazzo dopo il lavoro studiava le cose della fede, si addormentava sui libri aperti. Così era facile che da dentro usciva qualche santo che l'aiutava. Il calzolaio del sogno si chiamava Rav Iohanàn hassàndler, mastro Giovanni lo scarparo, e gli faceva vedere l'arte che l'uomo non gli insegnava. "Ho imparato il mestiere delle scarpe nel talmùd," un librone di cose sante del paese suo. Don Rafaniè, voi andavate a scuola pure 'nsuonno, non vi riposavate mai. Io la notte non sento ragioni, pure se viene la fortuna coi numeri del lotto in bocca io le dico: ripassa domani. Io la notte non ci sono per nessuno, dormo come un morto, come chiudo gli occhi, così li riapro, nella stessa posizione. Ogni mattina è una resurrezione.

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Ci mettiamo seduti al bancariello delle scarpe, lui si strofina la gobba contro il muro, io gliela massaggio un poco. Sotto la giacca le ossa si muovono, ossa di ali. Stiamo in confidenza, gli dico: le donne partoriscono davanti e voi di dieнtro. "Gli uomini non hanno l'onore di partorire," risponde. Mangiamo seduti vicino, si sciacqua la bocca, sputa, fa così quando viene a dire di cose sante: "Al mio paese leggevo i salmi, dove sta scritta la domanda: 'Chi salirà nel monte di Dio?', e la risposta dice: 'Chi ha le mani innocenti e il cuore puro'. Poi la guerra ha colpito le mie parti, veniva da Ovest, passava addosso a noi, bruciava viva la terra e la gente. Erano dei nemici che non sapevo di avere. Mi sono nascosto sotto lo stereo degli animali, sotto un pavimento, in una cava di calce abbandonata, resistevo, senza sapere perché volevo vivere mentre tutti morivano. Ero un ribelle a non morire pure io, un bestemmiatore a vivere. Mi sono nascosto, ho mangiato e bevuto ogni genere di sostanza, ho bollito corteccia di alberi, ho rubato miele agli alveari, ho bevuto la mia urina mischiata con la neve. La moglie di Giobbe gli dice: 'Maledici Dio e muori', non l'ho fatto, e neanche Giobbe. Non ho maledetto e non sono morto. La guerra mi ha pulito il cuore e lavato le mani con la calce. Quand'è finita ero pronto a salire nel monte di Dio".

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Il resto me lo racconta il giorno dopo, mentre fuori piove tutto lo spreco dell'acqua, buona e pulita che finisce a mare senza che nessuno mette fuori una pentola per farci la pasta. Donna Speranza la portiera raccoglie quella di maggio, dice che fa bene agli occhi. La voce fina di Rafaniello si accompaнgna alla discesa d'acqua lungo il vicolo, scorre pure lei. "Insieme a me uscivano dai nascondigli altre persone del mio popolo, anche loro erano state strofinate a calce e fatte pronte alla salita. Ci avviarne a Sud, scendendo nell'Italia lunga in mezzo al mare, così bella che è peccato che finisce, non arriva più lontano. Cerchiamo d'imbarcarci per la terra scritta nei nostri libri santi, siamo senza passaporto, senza diritti, siamo dei vivi rifiutati dalla morte. Gli inglesi chiudoнno il mare, non ci fanno andare. Ho un cattivo pensiero: 'Tiètelo il tuo monte, tieniti gli inglesi a Gerusalemme, piнgliati quello per popolo'. Così lui ci ripensa, leva gli inglesi e a me da un castigo sotto la specie della presa in giro: monte di Dio, sì, ma a Napoli. È vero che qui sanno rifare tali e quali i mobili antichi, gli orologi di lusso e i pacchetti di sigarette americane, ma rifare il monte di Dio è troppa imitazione, quello sta solo a Gerusalemme. Qua in cima alla salita dove si vede il mare e la gobba del vulcano ci può stare una terrazza panoramica, non lo sgabello dei piedi di Dio. E invece hanno voluto chiamare questa collina Montedidio e già che c'erano, quella vicina la vanno a chiamare Montecalvario, e così fa due," dice Rafaniello e la piglia a scherzo, per-

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che bisogna accettare i castighi scherzosi, che alle volte Dio rigoverna gli uomini con qualche pernacchia, così dice. "Con il dovuto rispetto, la terrasanta non ha succursali. Intanto io sono rimasto qua, sulla salita di un altro Montedidio, come un turista che ha sbagliato prenotazione." Dev'essere la sua voce fina, dev'essere lo sforzo di sentire bene che le fa uscire un'altra volta e io le scrivo a orecchio sul rotolo di sera, insieme alla pioggia che insiste e non mi fa salire ai lavatoi.

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Un calzolaio straniero sa parlare così preciso in italiano che io mi commuovo per babbo che si sforza d'imparare e non sa la metà delle parole di Rafaniello. Avete avuto in soнgno pure il vocabolario italiano, gli chiedo. No, dice che l'ha preso dai libri, leggendo molte volte Pinocchio. Anch'io l'ho letto, gli dico per contentezza di una cosa che abbiamo fatto insieme. Dice che al suo paese Pinocchio si chiamerebbe Iòsl e resterebbe di legno tutta la vita per fedeltà al suo creatore. "Adesso conosci i fatti miei di quand'ero Rav Daniel e quelli dei miei paesani che non ci sono più. Chi muore lascia la storia in eredità ai figli, ai parenti. Il mio popolo l'ha lasciata a me e a qualcun altro. Io te la dico perché parto tra poco, quando si crepa questa gobba di ossa e di piume." Don Rafaniè com'è questa Gerusalemme, che non la possiamo imitare? Lui si pulisce la bocca, sputa, poi dice che non la conosce ancora, ma uno gli ha detto: "In quella città la morte ha paura di essere inghiottita dalla vita. È l'unica città del mondo in cui la morte si verнgogna di esistere". Chiude gli occhi, dondola il collo, già sta là. Deve essere assai speciale quel paese, a Napoli la morte non si vergogna di niente.

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A Rafaniello piace l'aglio, l'olio, il pomodoro no. L'ora di pranzo se ne passa tra il suo pane con la verdura e il mio con le alici. Dice che io tengo dei segreti. Mi sa indovinare, io non dico niente. Chiede come sta mamma. È un mese che non la vedo, babbo non vuole, dice che sta sotto una tenda coi tubi attaccati e solo lui può andare. Per cambiare discorso gli dico: sapete don Rafaniè, voi avete fatto il viaggio di santa Patrizia. Pure lei voleva andare a Gerusalemme e una tempesta l'ha fatta sbarcare a Napoli. Gli racconto la storia della santa, è morta giovane a Napoli e ha lasciato un sangue miracoloso, si squaglia e riquaglia in continuazione, assai più di quello di san Gennaro. Rafaniello s'interessa. Volete sapere com'è uscito il sangue di santa Patrizia? Una notte un devoto ha sforzato la sepoltura e con una pinza ha cavato un dente alla santa per tenerselo come reliquia e quella, dopo cent'anni ch'era morta, si è messa a sputare sangue dalla gengiva, l'hanno raccolto nel vetro e così è cominciato il miracolo. Don Rafaniè qua succedono cose che a dirle uno passa per scemo, però succedono lo stesso. Questa città è tutt'un segreto. "Questa è una città dei sangui, dice, come Gerusalemme." Sì, sì, qua sono fissati col sangue, la gente lo mette dentro le bestemmie, dentro gli inнsulti, se lo mangia pure cotto e poi lo va a venerare dentro 1e chiese. Specialmente le donne tengono la frenesia di nominarlo, 'o sang. E pure il sugo della domenica è così scuro, spesso, che gli rassomiglia. Rafaniello si diverte alle mie chiacchiere a voce misteriosa, per via che è rauca.

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Ai lavatoi Maria racconta che il vecchio è salito coi dolci, mamma sua è scesa per comprare il caffè e lui ha attaccato con le preghiere, che se non va da lui muore. "Allora gli ho detto: muori. Muore tanta gente più giovane di te, puoi moнrire pure tu. Quello da grigio è diventato rosso, ha fatto la mossa di acchiapparmi, io ho girato intorno al tavolo e non mi poteva prendere. Sei cattiva, diceva e sbuffava che gli usciva lo sputo. Poi s'è fermato, si è messo una mano sulla fronte, si è calmato e se n'è andato. I dolci li ha lasciati e ce li siamo mangiati." Maria dice che muore, che lui ha visto la morte in faccia, quando gli ha detto: muori. Basta una parola e puoi stracciare un uomo. Maria sa molte cose, per esemнpio sa di essere più forte di un adulto. A me danno soggezioнne, a lei no, lei può pure attaccarli. Dev'essere perché è femнmina e ha conosciuto lo schifo. Ha tredici anni e il seno le cresce più svelto dei miei muscoli di bumeràn. Me li fa toccare, sono duri, dice: "Sono tuoi". Mi viene il piscitiello apнpuntito e lo sputo in bocca. Chiede se voglio le sue mani, io dico no Maria, non mi fare le cose del vecchio. Dice va bene, hai ragione, noi dobbiamo fare all'amore, me lo dice però in napoletano: "Avimma fa' ammore", con due emme perché così è più tosto, più materiale. E io dico: già lo facciamo, lei dice no, è un altro amore, tutti e due nudi dentro il letto coнme gli sposi.

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Fa fresco la sera sui lavatoi, in cielo le nuvole si allungano a spina di pesce, sotto i colpi di vento di là sopra. Aumento le giravolte dell'allenamento, così mi scaldo. Già si affaccia il mese di Natale, a Montedidio di giorno salgono gli zampognari. Maria porta in terrazza una coperta, ci mettiamo seduti a terra al riparo. Quando finiamo di parlare spinge la bocca dritta in bocca a me, questo è il saluto, non ci diciamo buonasera, arrivederci, a domani, niente, un bacio di muso e siamo d'accordo. Mi alleno ancora un poco, il bumeràn subito si scalda. Il legno trema pronto, taglia l'aria, spinge contro il ciclo, io tengo i piedi larghi e non mi faccio spostare dalla corsa del braccio che scatta e blocca secco il freno del volo. Il braccio destro e sinistro crescono pari, come i seni di Maria. Il rotolo cresce dalla parte scritta, non vado a rileggere indietro, vedo che pesa. Si fa leggera la parte rimanente. Maria non sa che dentro un rotolo sta scritto di lei.

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Il padrone di casa è passato a riscuotere la pigione da MastТErrico. L'ha visto venire e ha detto: "Vene chillo che tene", viene quello che tiene, per dire che ci sono uomini che lavorano e fanno, e poi ci sono quelli che tengono, sono proprietari e non fanno niente. "Vene chillo che tene." Non dice una parola, sta avvilito, la faccia spenta di uno che ha scansato il letto. Nemmeno mast'Errico dice altro che "bongiorno", paga con le lire che teneva pronte, poi quand'è uscito dice: "Al vecchio gli prode il coperchio, con tutta l'aнvarizia che tiene è la prima volta che non si mette a contare i soldi". Chiedo se è davvero una persona avara. "Avaro è mente, chillo è vergine di mano, nisciuno l'ha potuto arapi' 'e ddeta," nessuno gli ha potuto aprire le dita. A nome di Maria mi sono azzardato pur'io a dire la mia, che è un uomo cattivo. Mast'Errico subito mi ha ripreso: "Guagliò, chi parla areto se fa' risponnere d'o culo", chi parla dietro, alle spalle di un altro, si fa rispondere dal culo. Mi sono dato un pizzico in faccia per la vergogna di avere parlato dietro. O si dice in faccia o si sta zitti.

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Per il resto del giorno ho pensato a zio Totò che non ho conosciuto. E stato ammazzato davanti alla posta centrale a mezzogiorno da una bomba di aereo. Babbo gli era fratello maggiore, andava a scaricare al porto e zio Totò usciva con lui, si fermava sul marciapiede di via Medina a pulire le scarpe della gente. La bomba lo ha tagliato in due pezzi. Babbo è uscito di corsa dopo il bombardamento e lo ha trovato al suo posto, il bancariello di lustrascarpe era rimasto sano, zio Totò tagliato in due. Era luglio, sopra i corpi dei morti ci stava tanta polvere e nessuna mosca, erano morte pure quelle. Questo particolare gli è rimasto in mente e lo ripete quando si vuole ricordare di zio Totò. Ogni anno babbo mi porta a mettere un fiore sulla fossa comune, il cimitero è il giardino zoologico dei morti. Stanno rinchiusi là dentro. Sono andato con babbo e mamma allo zoo una domenica di autunno. Abbiamo portato il pane secco, l'ho dato all'elefante che lo pigliava dalla mia mano con la proboscide e faceva così delicato che era una carezza. Babbo era contento di sentirmi dire i nomi difficili delle bestie. Altro pane andava all'ippopotamo che apriva un armadio di bocca e io gli calavo il pezzo dentro. Babbo faceva raccolta di bacche di eucalipto, un nome che non sa pronunciare, calìppeso dice. Le conserva in tasca, gli piace il profumo, le annusa quando sta nelle stive.

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Le gabbie hanno i nomi fuori, le bestie dentro, ferme. È la loro resistenza contro di noi, starsene ferme senza dare soddisfazione. Solo il lupo gira su e giù per nostalgia e ginnastica dentro il reticolato e guarda in lungo, un punto lontano, pure se non c'è davanti a lui nessun lontano. Aspetta correndo l'arrivo di un cacciatore, di un salvatore, così penso io. I morti sono bestie rinchiuse, aspettano la resurrezione. Zio Totò è un lupo, smania di scappare lontano da via Medina, dal giorno in cui l'hanno rinchiuso. Sono più vecchio di lui che si è fermato prima dei dieci anni, il giorno prima. Non è stato a scuola, perciò babbo tiene assai all'istruzione, per non farmi costringere dalla strada, per non doverci stare.

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Vengono belle sere fredde, sbattute dal vento che scavalca il Vomere e san Martino e passa sopra Montedidio prima di strofinare il mare. Aspetto che sale Maria, mi alleno e guardo il ciclo per trovare un bersaglio. Lancerò il bumeràn chiudendo l'occhio buono e aprendo il cecatiello che può fissare il lontano senza lacrimare. Poi con Maria ci mettiamo a scorrere col naso in aria la stellata, lei dice che è un coperchio, io dico che è una rete, ogni stella è un nodo. Lei dice che noi ci stiamo sotto, io dico che siamo alla stessa altezza, pure noi della terra siamo galleggianti in ciclo, come le boe.

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Viene Natale, a casa sua bussano i creditori, fanno scene, per le scale si sentono strilli, la mamma non apre, il padre se n'è andato. A casa vedo babbo alle sei quando gli scaldo il caffè, ne bevo pur'io, non dice niente. Finché c'era mamma pigliavo il surrogato, ora se mi metto a fumare neppure se ne accorge. I grandi vanno dietro ai loro guai e noi restiamo nelнle case sorde che non sentono più un rumore. Solo il nostro sentiamo e fa un poco paura. Gli spiriti si strusciano sulla faccia nella cucina vuota e mi calmano. Il bumeràn sta semнpre a contatto e mi scalda, il suo legno dev'essere cresciuto sotto una padella di sole, tanto che ne conserva. Maria si copre dal freddo con un cappotto e con me. Io sto sopravvento a lei e la riparo. Viene Natale, dice Maria, compriamo un pollo e ce lo cuciniamo, facciamo senza di loro. Sarà il più bel Naнtale di tutti, faccio i biscotti al forno, dice e mi mette un bacio sui capelli freddi. Piovono baci dalla tramontana.

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Babbo mi avvisa che la sera di Natale starà con mamma all'ospedale. È una cosa loro questa malattia, la mia parte è di badare alla casa e di aspettare, io aspetto. Che venga il volo del bumeràn, che si stacchi dal lancio della spalla e si perda al buio, che vada a sbattere contro le stelle, contro il loro coperchio secondo Maria, dentro la loro rete secondo me. Mi sento la forza di buttarlo alle nuvole. Il bumeràn è più leggero, pronto. Dev'essere tra poco. Intanto Rafaniello somiglia a un uccello, diventa magro, in faccia gli spuntano le ossa. Don Rafaniè voi dovete mangiare, pane olio aglio e cipolla non vi bastano, il viaggio è lungo e lo fate d'inverno. Gli altri uccelli sono già partiti e arrivati. Lo so, risponde. Al suo paese a settembre vedeva le cicogne riunirsi in cielo per andare in Africa, passano pure vicino a Gerusalemme. "Dentro la testa mi spunta un occhio di cicogna che sa la via." Quando sarà, chiedo. "Quando volerà il legno dell'arca dell'alleanza, questo mi ha detto l'angelo. Mi tengo pronto per la notte dell'ultimo dell'anno. I napoletani buttano di sotto le cose vecchie. Uno di loro butterà senza saperlo un pezzo di legno dell'arca." Poi dice con una vocina d'uccello: "Lo butterà perché dentro l'arca non ci sono più tavole della legge, niente comandamenti". Giusto, penso io, quella notte nessuno si accorge del volo di Rafaniello.

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Resto con la scopa in mano, soprapensiero, mast'Errico rientra in anticipo, fa: "Già stai qua? Ti piace il lavoro?", sì, dico, mangio insieme a don Rafaniello. Mast'Errico si ricorнda che a casa mia non ci sta nessuno e m'invita da lui a mezzogiorno per mangiare cucinato. "Domani mi arriva la treccia di Agerola, l'hai assaggiata mai, guagliò? È speciale, Agerola sta in alto, le mucche là mangiano 'e ffoglie de' chiuppe," i chiuppe sono i pioppi. "Le foglie de' chiuppe danno quel poco di sapore amaro, alla treccia, speciale. Vuo' veni'?" Ringrazio, ma la cosa sta bene così, mi fermo volentieri in bottega per il mezzogiorno. "Fa' comme vuo' tu, nun t'o ddico doie vote," fa mast'Errico, accende il mezzo toscano e fa partire la sega. Tra lui e Rafaniello ci sono solo i saluti ma se li scambiano bene, con intenzione. Si rispettano: "Don Rafaniello ha fatto le scarpe a tutta Montedidio, prima andaнvamo scalzi". "E voi mi avete dato legna per scaldarmi e un posto per dormire, senza di voi mi perdevo nei vicoli del porto"; "Vuie cu' chella capa rossa che lenite nun ve spedнte manco int' a 'na sporta 'e purtualle", manco in una cesta d'arance, gli traduco.

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A bottega mastТErrico ci legge sul giornale la notizia di un signore che porta la nominata di iettatore e che per diнsperazione decide di buttarsi dalla finestra e va a cadere addosso a un povero sfortunato che sta passando in quel punto. Il passante muore e lo iettatore, che s'è iettato, si rompe due cestole. "Quagliò, chiste so' nnummere," dice, bisogna giocarli a lotto e intanto va a toccare il corno rosso che sta appeso all'ingresso della bottega. Rafaniello borbotta uno scongiuro nella lingua sua e sputa in terra. A casa mia la superstizione non è entrata, babbo dice che è cosa di donne, mamma dice che sono fesserie e che gli uomini sono più fissali delle femmine. Noi, dice mastТErrico, già siamo vivi per sbaglio e campiamo di nascosto a Dio, ci manca pure l'occhio che guarda storto, che porta invidia e siamo rovinati. Da noi non si trova uno che dice a un altro: "Beato a te", passa subito per iettatore se a quello capita qualcosa di male. Prende una storta al piede e gira la colpa a quello che gli ha detto la frase. E così comincia la nominata. Rafaniello dice che al paese suo il malocchio si dice "anóre". Ricorda che sua madre era bella, le facevano i complimenti pure quando era incinta e lei se li teneva, non faceva scongiuri, e così l'è nato il figlio gobbo. In casa la rimproveravano, se diceva "cananóre" il figlio nasceva sano. L'occhio invidioso sciupa, dice mastТErrico.

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Don Liborio si spaventa pure del buon augurio. La settiнmana di ferragosto chiude la tipografia e se ne va a respirare aria sul Matese. Mentre sta caricando la valigia sul taxi per andare alla corriera incontra don Ferdinando, quello delle pompe funebri, che gli manda i clienti per gli avvisi di lutto e è pure buon amico suo. Quello vede la valigia e gli dice: "Don Libò, fate buon viaggio", e don Liborio risponde: "Grazie, ma io non parto, sono appena arrivato", scarica la valigia dal taxi e se ne torna a casa. È partito il giorno dopo. Lui stesso l'ha raccontato a mastТErrico che la sera ha visto la tipografia aperta e gli ha chiesto com'è che stava ancora in città. "E ppe fforza, comme partivo co' ll'augurio d'o schiattamuorte?" Poi mastТErrico ha levato di mezzo il giornale e le chiacchiere e ha fatto un suo scongiuro da falegname: "San Giusè, passace 'a chianozza", per dire: passaci sopra la pialla, a questi discorsi.

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Ho detto a Rafaniello di Maria e del padrone di casa. Lui è stato zitto per un poco, poi ha chiuso gli occhi stretti e ha detto: "Sia sua la sorte del cane che lecca la lima". Gli è spuntata la voce fredda come il vento di tramontana, m'è passato un brivido nei reni. Che dite don Rafaniè? "Una maledizione," ha risposto, però con la voce sua tornata. "Io la dico, ma non è mia, si serve di me per uscire. La tua storia è stata ascoltata ed è piovuta una palla di grandine contro quell'uomo." Molte cose non capisco, neppure quella del cane. Don Rafaniè, è brutta la maledizione del cane? "Brutta, il cane che lecca la lima sta leccando il suo sangue, però gli piace più del dolore e continua fino a dissanguarsi." È venuta sera, ora di chiudere, ho finito le pulizie, do una mano a Rafaniello a mettere a posto il suo bancariello. C'è rumore di ossa nella gobba, lui guarda in alto spingendo indietro il sacнco delle ali. I suoi occhi verdi tondi cercano in aria un punto per salire, la città è alzata a muri e balconi, cielo non ne pasнsa. Ma lui ora trova da orientarsi anche nel chiuso, ha in testa la bussola delle cicogne. Calo la saracinesca, ci salutiamo, dice che è bello avere le ali, ma è stato più bello avere mani buone per lavorare.

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MastТErrico ha fatto rigirare il vicolo con la sua voce. Si è arrabbiato, ha messo fuori il brutto. Un operaio lavorava soнpra un balcone dell'ultimo piano, aggiustava un cornicione. A un momento si è sentito un botto nel vicolo, mastТErrico è uscito di corsa e ha visto i calcinacci. Si è messo a strillare all'operaio che sotto ci stanno i bambini, la gente. Quello ha risposto che lui deve lavorare, allora mastТErrico ha messo fuori il brutto e ha urlato: "Scinne", scendi. Scendi e vattene a casa con le gambe tue se no salgo io e te le spezzo. L'ha detto napoletanamente così forte che si è zittito il vicolo. L'operaio ha visto la mala giornata e se n'è sceso, la gente stava affacciata e mastТErrico stava in mezzo al vicolo. Io sono uscito per spazzare i calcinacci: "Statte fermo tu, mi ha detto, l'adda fa' chillo". La cosa si metteva seria. "Nun date retta, mast'Errì, nun ve pigliate veleno, lasciate fare 'o guaglione," la voce di don Liborio il tipografo ha calmato mastТErrico. "Venite, pigliammoce nu cafè," se l'è messo sottobraccio e l'ha portato in cima alla strada. Io ho spazzato i calcinacci, l'operaio se n'è potuto andare.

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Le donne parlavano tra di loro, dicevano che aveva fatto giusto. Le donne a Napoli non mettono pace tra gli uomini. La più anziana diceva che mastТErrico è carattere cammurrista e quando ci sono state le giornate di settembre contro i tedeschi s'era portato dietro tutto il vicolo per cacciarli da Napoli. Un'altra ha detto che quando in un vicolo ci sta uno come mastТErrico i delinquenti non si fanno vedere. Le donne parlavano, così ho saputo i fatti passati. Babbo in quelle giornate stava al porto a difendersi il lavoro. La gente di Napoli si era scatenata, stava in mezzo alla strada, gridava "iatevenne", andatevene, e gl'insegnava l'uscita a forza di fuoco. Era pure morta per quello. Così nel pomeriggio ho chiesto a mastТErrico. Mi ha risposto che stavano tutti per strada, don Liborio, don Ciccio 'o guardaporta, le femminei i guagliuni, tutt'una mappata. "I tedeschi ci davano il guasto, ci facevano piovere le bombe in casa, all'ultimo si volevano portare tutti i giovani in Germania a lavorare per loro e chi non si presentava era fucilato. Per le strade si vedevano solo i vecchi e le donne. Noi li volevamo cacciare, non volevamo stare nascosti. Gli americani non entravano a Napoli, aspettavano, e nuie ce simmo scucciate d'aspetta'."

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Volevo sentire ancora, dopo un poco ho insistito a chiedere. MastТErrico stava di genio: 'Pure don Petrella il parнroco è sceso in mezzo. Sotto i bombardamenti s'era imparaнto a dire la messa svelta, un quarto d'ora al massimo. Gli è riнmasto l'uso, tant'è che lo chiamano don Frettella. Suonò una sirena d'allarme proprio mentre stava finendo la funzione, dopo la comunione. Invece di dire il solito: 'Ite, missa est', disse: Fuìte, missa est!'. Lui per primo fuieva come un leнpre, inaugurava il ricovero correndo con la tonaca in mano, inseguito a poca distanza dal padrone di casa che arrivava secondo, terzo il generale De' Frungillis, in pensione. Nelle giornate di settembre scese in mezzo al fuoco pure don Petrella, non per fare male ai tedeschi, ma per conforto a noi, dava l'assoluzione a quelli che morivano sparati, pure a un soldato tedesco. Tutta Montedidio, un quartiere sano era sceso  fuori, quand'è finita ho detto: mo' chesta città è 'a mia". Rafaniello sentiva e teneva le lacrime dentro gli occhi tondi, ma non uscivano, si affacciavano e tornavano indietro.

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Babbo mi ha parlato, hanno dato qualche speranza mamma. Davanti al caffè alle sei col vicolo zitto e buio si è spiegato. Quest'anno Natale manca. "Tengo solo a lei, e 1ei sta appoggiata a me con tutta la forza rimasta. È debole, ma nelle mani no, stringe forte, ha pure scassato un bicchiere e si è tagliata. Stiamo facendo una fatica insieme. Non ti mettiamo in mezzo, è una cosa tra noi, una cosa antica di quando andavamo al ricovero sotto i bombardamenti e ci facciamo il giuramento di non farci dividere manco dalle bombe: nisciuno c'adda spàrtere. Quando uno scoppio era vicino, lo spostamento d'aria la faceva vomitare, le tenevo la testa, lei rovesciava tra i miei piedi, io ero contento che l'amore nostro sapeva fare pure quello. Eravamo fidanzati allora e stavamo stretti più degli sposi. La guerra ci dava il permesso di fare così. Se lei se ne va, io resto una maniglia senza porta." Si è sforzato di usare l'italiano, mi ha voluto parlare, mi ha dato importanza. Non ho detto niente, l'ho guardato dritto in faccia. E poco, solo stargli dirimpetto e dargli tutto l'ascolto che potevo, fermo e con gli occhi. Poi ha scacciato i pensieri: "Torneremo tutti e tre, come niente successo, torneremo a fare le nostre domeniche. Ti ricordi la solfatara?" Era ora di uscire ed è finita qua, si è alzato, ha sciacquato 1a sua tazza nel lavandino. È la prima volta che lo fa, si è schizzato, asciugato, mi ha fatto un sorriso.

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E' stata assai la sua confidenza, mi ha spiegato bene, metнtendoci tutta la pazienza di italiano imparato. In bocca a lui è una lingua della domenica. E quando gli manca la parola si fa rosso per lo sforzo e se gliela trovo, subito dice: bravo, e la ripete, pure se non è quella che voleva lui. Sì, ci penso alla domenica della solfatara. "Ci pensi eh? 'A tieni mente?", sì, la tengo a mente. Al Vesuvio pure vorrebbe salire, una domenica d'inverno quando sopra c'è neve. "E t'a ricuorde 'a neve?" qualche volta mi chiede e io faccio sì con la testa e adesso davanti agli occhi che guardano fuori nel buio passa la neve del '56, la pioggia moscia del Nord, bianca, zitta. E ce la raccontiamo ancora e lui dice ogni inverno: "Quest'anнno fa la neve pure a mare", per desiderio di rivederla. Il porto diventa pulito, non si vede lo sporco, l'olio, la ruggine e che silenzio piglia la città, pure il tram si scorda che è di ferro passa zitto come un filobus. "E pure 'e muntune 'e munnezza, i mucchi della spazzatura, parono aggraziati." E i lecci della villa comunale stanno sotto una papalina bianca e io penso: come fanno i ciechi senza il bianco?

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Babbo è uscito con un ricambio di biancheria di mamma incartato sotto il braccio, spengo la lampada, sto solo, fa freddo, stringo in mano il bumeràn e mi riscaldo. Sicuro, babbo, che mi ricordo della solfatara a Pozzuoli. Mi hai portato una domenica, senza mamma che non sopporta gli odori forti e non si mette un profumo. Il tram fino a Bagnoli, poi a piedi, pioveva sottile, gocce a capocchia di spillo, faceva il solletico al mare calmo, alla spiaggia ammuffita di catrame. Sotto l'ombrello andavo al tuo passo, mi spicciavo, non badavo all'acqua, mi bagnavo i piedi. Già fuori dall'ingresso l'aria era soffritta a zolfo. Siamo entrati, babbo, ti sei messo a leggere il cartello della spiegazione, che "la solfatara è una esaltazione vulcanica". La parola buona era "esalazione", ma non te l'ho aggiustata. Quando un vulcano muore, sfiata per ultimo calore il sale verde dello zolfo. È il colore degli occhi di Rafaniello. Arriviamo al cratere che sta infossato in una pianura, dalle croste del terreno sale un fumo quieto. Un pozzo di fango cuoce a bolle grosse, babbo chiude l'ombrello, il vapore della solfatara ferma la pioggia, l'asciuga in aria. Fanno rumore solo le scarpe sul terreno. Senza il movimento della città intorno mi gira un poco la testa.

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Vedo una farfalla nera, leggo i nomi scritti sotto le piante vicine al cratere: lauro, mirto, corbezzolo. A una fumarola mi tolgo le scarpe, faccio asciugare i calzini, la terra è calda, mette piacere nella schiena. Un odore di bruciato viene dal fondo dei pantaloni, mi accorgo tardi che si sono arrostiti sul sedere, babbo ride, poi pensa a mamma che li deve aggiustare e smette. Giriamo intorno al cratere, raccolgo pietruzze verdi buone per scrivere come i gessi della scuola. Credo che le conservo ancora, se le trovo le porto a Rafaniello per vedere la somiglianza con gli occhi. Di ritorno babbo compra un taglio di musso, il labbro bollito del vitello. Piace a mamma, così le chiediamo scusa per i pantaloni. Poi saliamo Montedidio e passano vicini a noi degli allievi della scuola militare della Nunziatella, i bottoni dorati della divisa, lo spadino col manico bianco, appeso alla cintura. In mezzo ai panni sciupati della folla, i loro brillano, sono ragazzi, qualche anno più grandi di me, camminano impettiti senza guardare in faccia. Dev'essere brutto distinguersi così dalle persone, scansarsi da loro. A casa mamma non dice niente del pantalone e del musso, né rimproveri né grazie, abbiaнmo pareggiato.

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Rafaniello ha la faccia stropicciata, non ha dormito, le hanno rotto il guscio della gobba. Si è crepata come un uovo senza sangue, la giacca è più gonfia. Dice che le ha aperte, sono più grandi di quelle di cicogna. Ha deciso che aspetta 1a notte dei fuochi di artificio, intanto la sera si allena nella sua stanza. Una volta i botti di Napoli gli facevano paura, gli veniva il chiasso della guerra: "Stavolta saranno fuochi di saluto". Gli dico che pur'io ho deciso, lancio il bumeràn quella stessa notte, pure il bumeràn ha le ali pronte. "Quanti manca?" chiede, due settimane. Dalla tasca tiro fuori la pietruzza di zolfo, è il colore degli occhi vostri, dico. La mette contro luce: "Zolfo e fuoco, piovono zolfo e fuoco nel giorno di Sodoma e Gomorra. Occhi verdi, capelli rossi, il padreterno mi ha fatto come un tizzone d'incendio". Mi chiede se davvero i suoi occhi sono così verdi. Di più, dico, tengono 1a luce delle lacrime, lo zolfo no. Rafaniello sta completando il mucchio delle scarpe, la gente viene a ritirarle, lui non se ne fa lasciare altre. A Napoli ora si cammina calzati.

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Aiuto mastТErrico a passare alla pialla delle tavole di legno di larice, esce odore di resina, un profumo che allarga il naso. MastТErrico guarda la prima piallatura, scuote la testa: " Non si può fare a macchina, dice, le dobbiamo finire a maнno". Mi fa vedere i grumi della resina, dice che sono induriti e possono spezzare la lama della piallatrice, la resina del larice quando è secca è pietra. Così imparo a muovere la pialla a mano seguendo mastТErrico. I trucioli di larice sono biondi, poco arricciati, mi pare di fare il barbiere al legno. A mezzoнgiorno sotto il bancariello di Rafaniello mi accorgo che è caнduta una penna, la alzo, è leggera, dentro il palmo non la sento. Don Rafaniè, questa me la tengo per ricordo vostro. "Fai bene a dire tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora. Tieniti la penna per ricordo." Penso al bumeràn, lo tengo stretto, poi lo devo lasciare. Lo levo dalla giacca di laнvoro, guardate don Rafaniè com'è fatto bene per volare pure lui. Mastichiamo il pane coi friarelli e guardiamo il bumeràn. Lui si ferma di mangiare, mi chiede serio di che legno è fatнto. Di acacia don Rafaniè, un legno tosto. Gli scappa un sinнghiozzo, una tosse forte, sputa pure qualche friarello e poi si calma e muove da seduto il corpo avanti e indietro e ripete "acacia, acacia", con le lacrime, la faccia rossa come i capelli e un rumore di ossa dietro la schiena.

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Mentre scrivo il rotolo non mi ricordo come si dice in italiano: è scoppiato in lacrime oppure sono scoppiate le lacriнme. Insomma è stata una confusione a mezzogiorno, io non ci ho capito e non ci ho potuto niente, e ho aspettato vicino a lui senza mangiare. Non lo guardo, aspetto, dopo un poco lui cambia rumore ai colpi di tosse, diventano risate, ride più zitto delle lacrime di prima, ride e mi piglia a ridere pure a ' me a vedere come si scompiscia a ripetere la parola acacia, con le "a" che gli escono strozzate, ride, ride, non si ferma e io rido appresso a lui pensando che se entra mastТErrico e ci trova così, ci tira un secchio d'acqua addosso per farci smetнtere. Rafaniello si calma e sono contento di quella risata che mi dà il permesso di avere appetito e finisco il pane coi friarelli in quattro morsi. Sistemo il bumeràn sotto la giacca viнcino alla penna caduta dalle ali di Rafaniello.

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Ai lavatoi a dicembre il vento fa il guappo, spazza la polнvere in terra, lucida la notte in cielo, si porta via il caldo dalнle case. Il bumeràn è scatenato, brucia l'aria che gli regge il volo e le mie braccia non lo governano, è un'ala con le piuнme. Carico la molla del tiro duecento volte per braccio e non mi stanco, sono un lanciatore e mi sforzo di aspettare. C'è il manco della luna, Maria guarda incantata il coperchio sopra Montedidio. Io sono fissato con il mare e piglio tutti quei punti lucenti là sopra per un branco di alici e rifaccio con la mia voce spenta il grido del pescivendolo: "'O ppane d'o mare", quando passa con la sporta in testa e la bilancia a traнcollo. "Zitto che mi fai pensare alla puzza di pesce," dice Maria che non lo sopporta e lo lascerebbe stare tutto a mare. Lei e io sul tetto più alto del quartiere siamo le sentinelle della città. Seduti vicini a terra contro il parapetto, al riparo della coperta passiamo il tempo, compari del vento che sfotte i fili vuoti degli stenditoi e le antenne delle televisioni. Ci fischia sopra, trova il nostro riparo e ci dà una spinta, tanto per farci stare più stretti.

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Maria mi abbraccia, la sua testa si appoggia sopra la mia gola, parliamo soffiando le parole, lei dice: "Tu cresci ogni giorno e io mi agguanto a te per crescere anch'io così in fretta. Ancora ieri questo muscolo sul tuo petto non c'era, ancora ieri non eri così giusto per me". Non so dire di ieri, già oggi è passato e piallato coi trucioli biondi del larice e la forma della pialla nella mano, il rumore a soffio del taglio che spella il millimetro del legno. E solo in fondo al giorno la mano ritrova il suo posto intorno al bumeràn e sulla spalнla di Maria. Ieri è il pezzo di bobina già scritto e arrotolato. Maria, chiedo, è questo qui l'ammore che sta nelle canzoнni? "No, dice, quello è ammore di malinconia, uno strofiнnaccio di lacrime e sospiri, uh quant'è scocciante. L'ammoнre nostro è un'alleanza, una forza di combattimento." Lei nostre chiacchiere strette scappano nel vento che ce le scipнpa dalle bocche.

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Al buio indoviniamo la figura di una persona sul terrazzo che si muove sbattuta dal vento, chiama Maria, Maria. È il padrone di casa, lei s'indurisce addosso a me, non risponde, mi sfilo dalla coperta, tengo la forza del bumeràn nelle bracнcia, piglio di petto il vecchio lo spingo indietro mentre lui chiama sempre Maria e urta contro di me come contro il vento, come se non vede, viene avanti, dice Maria, rimbalza contro le mie mani che lo pigliano a spinte senza dire niente, solo buttandolo via con la forza che mi cresce e il bumeràn sotto la giacca spinge pure lui. Intorno, il vento mi piglia alle spalle e mi manda addosso a lui, lo urto, lo sposto all'indietro con un singhiozzo di sforzo e lui respinto dal colpo ritenta di avanzare, io già sono ripartito e lo carico curvo come l'arco del bumeràn. Non gli vedo la faccia, guardo fino alla giacca, punto al petto. Con l'ultima spinta lo sbatto contro la porta delle scale che si apre alle sue spalle e allora capisce che non c'è niente da fare, si piega, per 0 dolore delle spinte in petto, per Maria, non so, si piega, si mette a scendere, a piangere, vedo un vecchio battuto, sbattuto da fuori e da dentro e lo stesso non trovo pietà. Torno da Maria che sta in piedi, mi abbraccia gelata, mi spinge un bacio di neve a forza dentro la bocca, denti contro denti, si calmano i brividi.

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Il vecchio è ammalato perso, gli è arrivata la maledizione del cane che lecca la lima. L'ho visto piangere, Maria. "Anнch'io l'ho visto piangere: sopra le mie cosce." Raccogliamo la coperta, lasciamo il tetto, ci chiudiamo il vento alle spalle. Dice: "L'hai scacciato per sempre". La sua voce senza l'aria aperta squilla dura nella tromba delle scale. La sera di vigiнlia, dice, stiamo insieme a casa tua e faremo la nostra festa senza gli adulti, noi due alleati e basta. Va bene, dico, con la paga di mastТErrico compro il cappone e le patate. "Io facнcio i biscotti e mi vesto da sera." Apre la porta sua con le chiavi, io scendo, passo davanti all'appartamento del padroнne di casa, mi scottano ancora le mani, mi accorgo di un botнtone rimasto impigliato in mezzo a quelli della mia manica, lo lascio per terra davanti alla sua porta.

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Mentre mi conta in mano i denari della settimana mastТErrico chiede se mamma sta meglio, se torna per Natale, facнcio no con la testa. "Allora niente capitone?", no mastТErrico, è troppo difficile, se ne scappa, pure dopo che è tagliato. Compro il cappone. Gli chiedo se l'indomani va a pesca. "Eh, deve decidere il tempo." Rafaniello poi mi dice di non chiedere a un pescatore se va, sono gelosi dei loro progetti, se ne parlano porta male. Dicono dopo del pesce pescato. Rafaniello sa il napoletano, dice che somiglia alla sua lingua. L'italiano gli sembra una stoffa, un vestito sopra il corpo nuнdo del dialetto. Dice pure: "L'italiano è una lingua senza saнliva, il napoletano invece tiene uno sputo in bocca e fa attacнcare bene le parole. Attaccata con lo sputo: per una suola di scarpa non va bene, ma per il dialetto è una buona colla. Anнche nella mia lingua si dice la stessa cosa: zigheclèpt mit shpàiecz, incollato con la sputazza". Me lo faccio ripetere così lo posso scrivere sul rotolo. Gli chiedo che cosa fa la seнra di vigilia. Non fa niente, non è cristiano, l'invito a casa, gli cucino il cappone, senza dire di Maria. Ringrazia, sorride con le grinze della faccia smagrita, in mezzo al rosso delle lentiggini c'è il verde fresco degli occhi. Il sorriso gli esce per pareggiare l'invito e dire di no.

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Chiudo bottega all'ultim'ora, un poco prima dei comнmerci, vado a cercare il cappone dal beccaio e le patate dal carretto di verdure. "È scesa Napule 'nterra," dice la lavanнdaia affacciata alla finestrella del suo basso. Ha ritirato i panнni stesi, la folla li andava a urtare, li sporcava. "Simme assaie, nuie simme tropp'assaie," dice il professore di musica De Rogatis fuori della pescheria aspettando il suo turno per farнsi incartare il capitone vivo. "Lo devo scegliere io, no tu," protesta una signora con il pescivendolo. "Signò, so' tutt'eguaglie, tutt'o stesso," dice sbrigativo lui tenendo per la testa il pesce che si torce. Una signora è passata con la macchina per il vicolo e si è portata don Gaetano il sarto che stava riнparando un pantalone sulla sedia in punta al marciapiede, sotto il lampione per risparmiare corrente elettrica. Se l'è portato con tutta la sedia facendolo rotolare per la strada. Strilli, la signora è svenuta, tutti a dare una mano a lei, e don Gaetano rimaneva a terra mezzo stordito, non aveva ancora capito niente e diceva: "Ma che è, che è stato?". In questa folla non si sente il freddo, è meglio di un cappotto. Sul porнtone donna Speranza la portiera mi saluta lei per prima: "Buon Natale, guagliò", migliore a voi donna Speranza, riнspondo e le faccio vedere che bel cappone ho comprato.

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Entro in casa, un freddo ferino, zitto, da mettersi a dorнmire. Traffico il cappone a sale e pepe, lo metto al forno con le patate, è una presa di calore. In cucina mi arriva la radio di una casa dirimpetto. A via Santa Maria della Neve un'anнziana mendicante è uscita in strada e ha buttato tutte le moнnete raccolte con l'elemosina, si è fatta la folla, è intervenuta la forza pubblica. Si è squagliato il sangue di sant'Andrea Avellino. Fuori Napoli, in America, hanno fatto presidente un giovanotto. I russi hanno mandato un cane dentro un lazzo, gli americani invece hanno mandato una scimmia. Spengo la luce, guardo fuori. È Natale, stanze illuminate, le famiglie si mettono a tavola. Sulla mia è apparecchiato il poнsto per il bumeràn, per il cappone e per Maria coi biscotti. L'anno passato non mi sognavo di chiedere questo, è succesнso da solo, senza un desiderio. Il corpo cresciuto, la bocca di Maria, le ali di Rafaniello, quanta abbondanza è arrivata senza chiedere, fuori di Natale. A luce spenta passa qualche carezza di spiriti sopra la nuca, al buio si muovono meglio. Apнprofitto del lampione di strada per scrivere appoggiato al parapetto della finestra, il rumore della matita sopra la carta fa il riassunto del chiasso del giorno.

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Quando bussa la porta metto via il rotolo e accendo la luce, entra tutt'insieme il suo vestito rosso, un profumo che si è messa addosso e il caldo dei biscotti sfornati da poco. "Stasera facimm' ammore," dice, ho cucinato il cappone dico io, con le patate novelle. Punta il naso verso la cucina e mi spinge davanti a lei da quella parte. La stanza è scura, Maria mi abbraccia da dietro, mi tiene fermo così, non mi fa girare. Mi mette baci sulla collottola dove si afferrano i cuccioli, mi fa solletico, me lo tengo. Poi me li mette sulla gola, mi pizzicano da dentro, nel naso sale il suo profumo di albero di Natale, più forte di quello del cappone al forno. Mi viene la saliva in bocca, mi vergogno che mentre lei mi bacia in giro per il corpo io sto a inghiottire e neppure tengo appetito, da dove mi viene l'acquolina? Maria mi tiene da dietro e muove le mani sul mio lato davanti, me le passa dalla faccia alla gola, sul petto e poi nel basso dove non mi azzardo a guardare, intanto inghiotto e spero che non se ne accorge. Respira forte, stringe, sfoga la sua bella forza sopra il mio corpo, scarica la freschezza delle mani sui posti induriti dei muscoli che stanno tesi per rispondere a lei.

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Lei dice: "Carne tosta", mi tiene abbracciato e strofina la f accia contro la mia schiena, poi mi gira di fronte, mi accosta al muro, sbatto contro una padella appesa, lei ride, spinge, adesso la posso abbracciare pur'io. Si è lavata i capelli, cadoнno sulla mia faccia, sto sotto il bucato steso dei suoi neri sciolti, le sue mani mi tengono la faccia e ci spingono i baci contro, nella mia bocca aperta. Non so che fare con le bracнcia, cerco di staccarmi un poco da lei, gliele metto sul petto, le sue sporgenze si strusciano contro le mie mani, allora non la spingo, la massaggio, lei si accalora e succede che ci toнgliamo i vestiti e siamo ignudi sopra il pavimento della cuciнna e faccio in tempo solo a spegnere il forno per non bruciare il cappone. Maria fa, io seguo. Mi mette addosso a lei coнme vuole e mi trovo che non so più dove sta il piscitiello, se l'e preso lei, se lo dondola nelle gambe, io non lo posso raggiungere. Mi faccio portare da lei, mi alza e mi abbassa, fa l'onda, apro gli occhi e vedo i suoi chiusi sotto di me, la bocca aperta, i capelli neri sparsi intorno e l'onda si agita e io cerco di stare in equilibrio, quanta forza di stringere e tenere, questa dev'essere bellezza, poi sento un caricamento in punta al corpo, mi pare che se ne scappa il bumeràn da dentro il piscitiello, m'esce un "uh" di meraviglia, lei si afferra ancora più forte alla mia schiena e soffia soffi secchi nell'orecchio e io scarico mosse che non sono mie.

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Maria si ferma poco a poco, l'ho stancata, le ho fatto male, che ne so. Che abbiamo fatto Marì? "Ammore," dice. E' questo? Questo mi hai insegnato? "No, dice, non te insegno, io lo comincio, il resto lo fai tu." Fare ammore dev'essere misterioso, succede da solo, penso io. Intanto è ritornato il piscitiello, sta al solito posto. Arò si' gghiuto, dove sei andato mi viene di chiedergli in napoletano, però non lo dico. "Mi sono consolata per tutte le volte che questo mi fa va schifo," dice Maria con una voce piccola, senza la guapparia che le pesa in gola e l'indurisce le parole. Le è venuto appetito, ci stacchiamo dal pavimento, ci mettiamo i panni, lei si aggiusta i capelli, non accendo la luce. La cucina ha un poco di calore di forno e noi siamo ancora tiepidi di ammore. Ci serviamo il cappone con le patate, seduti vicini, di fianco, mangiamo con le mani, urtandoci col gomito per guardarci e ridere di noi due al buio che pigliamo luce quella che c'è fuori. Ci siamo messi i tovaglioli al collo, ci scappano i rutti, il bumeràn è a tavola con noi. Mi ficca le patate novelle in bocca, io faccio finta che mi strozzo, ripuliamo il fondo della teglia con la mollica di pane.

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"È bello essere noi due e basta," dice Maria con la bocca piena. Abbiamo fatto gli occhi per il buio, basta una candela di luce che viene da fuori, ci siamo messi una coperta sulle spalle e mangiamo i biscotti alla mandorla, tanti ne ha fatti e tanti ce ne mangiamo, non avanza niente. "La prossima volta faccio la crostata," dice, intanto da una casa vicina comincia una canzone di zampognari, una famiglia li ha chiamati a fare un poco di musica, a noi arriva chiara, in quella casa dev'essere potente da proteggersi le orecchie. Teniamo pure la banda stasera, le metto un braccio sulla spalla, ci tiriamo la coperta sulla testa, ci strofiniamo le bocche unte, ci lecchiamo come i gatti. Più tardi ci mettiamo nel letto, quello piccolo mio del ripostiglio, ci addormentiamo intrecciati che se uno si sveglia deve svegliare pure l'altro per sciogliersi. I nostri corpi alleati fanno i nodi.

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Don Ciccio il portiere parlava con un inquilino, diceva che il padrone di casa stanotte ha fatto il pazzo, ha bussato un'ora alla porta di casa di Maria. I vicini si sono svegliati e hanno bisticciato con lui. Noi al primo piano non abbiamo sentito niente. Anche se è Natale vado Io stesso a aprire la bottega, i mobili verniciati di fresco si asciugano meglio all'aria. Rafaniello arriva dopo di me e si mette al bancariello Le ali gli riempiono la giacca, sono più grosse della gobba, come ci stavano chiuse là dentro? Nessuno si accorge, nessuno lo misura cogli occhi, mastТErrico che a colpo sicuro vede il millimetro di fuorisquadro in uno spigolo vivo, non fa caso neppure se Rafaniello un giorno viene senza gobba. Stiamo soli nella bottega, la giornata è bella e mastТErrico è, andato sicuro a pescare. Rafaniello mi chiede come sta il bumeràn, me lo sfilo dalla giacca e glielo do, fa finta di odorarlo e ci mette sopra un bacio. Vedo, ma non dico niente. Si è fatto ancora più leggero il legno e pure Rafaniello.

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Metto i mobili all'aria, donn'Assunta la lavandaia apre il basso e comincia la stesa dei panni, stamattina la gente è poca, ci sta il sole e si asciugano presto. Buongiorno le dico, lei chiede com'è che stiamo aperti per Natale. Si devono asciuнgare pure i mobili, donna Assù, non solo i panni, rispondo. È stata alla messa di mezzanotte, don Frettella ha fatto un bel discorso, ha detto che i razzi che sparano nello spazio non vanno da nessuna parte, si perdono in mezzo al cielo. Invece la stella cometa è scesa lei vicino alla terra per avvisaнre la nascita d'o bambeniello: "Più di questo, che andiamo cercando dalle stelle? Ha parlato bene guagliò, svelto svelto come fa lui, ma bene assai e tu devi venire alle funzioni, non devi crescere come un galiota. L'altro giovane di mastТErrico nun senteva maie 'a messa e mo' sta a Poggioreale, fatte capace guagliò", dice donna Assunta con le mani gonfie di geloni, rosse bruciate, attaccando i panni alle mollette lungo mezzo vicolo. Faccio di sì con la testa, cerca delle parole buone per me. Poi s'allontana e io dico lo scongiuro per Poggioreale: sciòsciò, sciòsciò, e dico pure cananóre, che ho imparato da poco.

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Parlo con Rafaniello, oggi abbiamo tempo, non vi viene] la mancanza del paese vostro, chiedo. Il suo paese non c'è più, non ci sono rimasti i vivi e neppure i morti, li hanno fatti sparire tutt'insieme: "Non sento la mancanza, dice, sento la presenza. Nei pensieri o quando canto, quando aggiusto una scarpa, sento la presenza del mio paese. Mi viene a trovare spesso, ora che non ha più un posto suo. Dentro la chiamata dell'acquaiulo che sale col carretto sopra Montedidio a vendere l'acqua zurfegna, solforosa nelle terracotte, pure dalla sua voce mi arriva qualche sillaba del paese mio". Se nel sta zitto per un poco coi chiodini in bocca e la testa china sopra una suola. Vede che sono rimasto vicino e continua: "Quando ti viene una nostalgia, non è mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi, da lontano e ti tenнgono un poco di compagnia". Allora don Rafaniè, le volte che mi viene il pensiero di una mancanza la devo chiamare presenza? "Giusto, così a ogni mancanza dai il benvenuto, le fai un'accoglienza." Così quando sarete volato io non devo, sentire la mancanza vostra? "No, dice, quando ti viene di pensare a me io sono presente." Scrivo sul rotolo le parole di Rafaniello che hanno rivoltato la mancanza sottosopra e ora sta meglio così. Lui fa coi pensieri come con le scarpe, le mette capovolte sul bancariello e le aggiusta.

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Babbo è venuto per cambiarsi la camicia e ha trovato Maria. Lei gli ha detto che viene a rassettare a casa per darнmi una mano, lui l'ha ringraziata, ha preso il cambio di bianнcheria per mamma e se n'è andato. È passato in bottega a saнlutarmi, non ha detto niente di Maria, teneva gli occhi fissi di sonno. Non chiedo, lui non dice, la sua alleanza con lei si è indurita e io sto fuori. Pure la mia alleanza con Maria è una chiusura. Succedono cambiamenti, ma a noi di più. Nessuna faccia degli altri è appassita come quella di babbo. Da nessuna gobba spuntano ali, nessun corpo è così pronto a lanciare un bumeràn e Maria proprio adesso doveva toнgliersi di dosso l'unto di mani vecchie e farsi tenere dalle mie lisce di segatura nel più alto terrazzo di Montedidio. La rete quando si avvicina a riva pesa di meno e si tira più veloнce, così succede a noi. Pure il rotolo gira più svelto, tirato dal peso della parte scritta.

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Accompagno Rafaniello sul tetto ai lavatoi, per le scale saltella, non sa camminare. Si affaccia al parapetto, guarda a Sud e a Est. Apre il bianco degli occhi, spicca il cerchio del verde che fissa la rotta, presto ci salutiamo, gli chiedo i penнsieri. È mezzogiorno di Natale, tutti stanno in casa, noi soli all'aperto e splende l'aria a mare. Dice così, affacciato senza guardare me: "Da noi un proverbio dice: 'Questo è cielo e questa è terra' per indicare due punti opposti. Qua sopra soнno vicini". Sicuro, don Rafaniè, da sopra Montedidio con un salto già state in cielo. "Ce ne vorranno diversi, molta spinta. Quando sogni di volare non porti peso, non devi convincere la forza a tenerti sollevato. Ma quando arrivano le ali e il corнpo si deve fare pronto per salire l'aria, allora serve una vioнlenza per staccarti da terra, un salto come un coltello che deнve strappare dal suolo con un taglio. Sono un calzolaio, un sàndler, si diceva al mio paese. Aggiusto scarpe, m'intendo di piedi, capisco il loro appoggio, come fanno a tenere in equilibrio tutto un corpo alzato sopra di loro, capisco l'utiнlità dell'arco, la durezza del calcagno, la molla che sta nelнl'osso astragalo che accompagna i salti in lungo, in largo, in alto. Conosco i dolori del piede e la felicità di reggersi su ogni superficie, pure su una corda tesa. Una volta ho fatto un paio di scarpe in pelle di daino a un funambolo del circo. Qui a Napoli ho imparato che i piedi sanno navigare, ho agнgiustato scarpe di marinai che devono pareggiare il pendolo del mare. I piedi mi hanno portato fino a questo Montedi-

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dio, loro mi hanno salvato. Da noi si dice che i piedi, non i denti, danno da mangiare al lupo. Ho pure una gobba che mi spinge verso il basso e allora uno così terrestre che ci fa in cielo a sbattere ali sotto le stelle?"

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Scrivo le sue parole perché le sento ripetere, non per ricordo. Chiudo l'occhio buono e mentre vado storto con la matita sul rotolo la voce di Rafaniello fruscia di nuovo, insieme allo struscio degli spiriti. "Vanno bene per gli angeli le ali, a un uomo pesano. A un uomo per volare deve bastare la preghiera, quella sale sopra nuvole e piogge, sopra soffitti e alberi. La nostra mossa di volo è la preghiera. Io ero curvo, un chiodo ribattuto, girato verso terra. Un'altra volontà contro natura mi rivolta e mi spinge verso l'alto. Adesso ho le ali, ma per volare bisogna nascere da un uovo non da un grembo, covato già sui rami, non per terra." Si sporge dal parapetto, le ali sbattono contro la giacca, mi scappa la mossa di fermarlo. Toccato, si volta, si rimette giù, sorride con tutta la faccia, con gli occhi no, che sono quelli di un uccello, stanno fermi, lontani in piena faccia. Sotto la mia giacca il bumeràn è caldo, bravo legno.

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Mentre scendiamo arriva il rumore dei piatti scassati nell'appartamento del padrone di casa. Rafaniello si ferma e senza sapere chi abita in quella casa dice: "L'uomo si è ubriaнcato del suo stesso sangue". È la maledizione del cane, don Rafaniè? Dice sì e mi passa una scossa di freddo dentro i reнni. Io l'ho spinto via dalla terrazza per le scale, io l'ho colpiнto a mani aperte e braccia tese. L'ho scacciato e mi spetta il freddo nella schiena. Scendo le scale dietro i salti di Rafaнniello mentre continua regolare il rumore di piatti scassati. Maria in casa si è messa un grembiule, aspetta O mio rientro, sta preparando un sugo con le cipolle, ha gli occhi sciacquaнti di lacrime e ride. Alla porta bussa don Ciccio il portiere, lo facciamo accomodare in cucina, si siede con noi, si mette a parlare: "Le vostre famiglie si scassano e voi vi mettete insieнme. Siete ancora creature ma fate bene, uno si deve aiutare e da noi a Napoli si cresce in fretta".

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Parla quieto don Ciccio, con le mani intrecciate sul tavolo e il basco fisso in testa pure in casa. "A te Maria ti conosco dalle fasce, so quello che hai già passato," Maria lo guarda fisso, soffia dura nel naso, segno di collera. "Marì, se dentro casa tua non c'è chi ti protegge, anzi t'inguaia, nessuno ti può aiutare. Nella mia famiglia è successo lo stesso, era tempo di guerra, si mangiava poco, mia sorella più piccola saliva a quel tale appartamento di questo palazzo e portava il pane a casa. Marì, non mi guardare storto, non ti fare saliнre il sangue in capa se ti dico di sapere quello che hai passato. Ora ci sta questo ragazzo, un bravo giovane, lavoratore, che rispetta gli anziani, tiene confidenza pure con quello scarparo straniero, don Rafaniello 'o scartellato, con quello scartiello sulla schiena grande quanto lui. Fate bene a metнtervi insieme. Però fate le cose giuste, non correte, non vi potete sposare, vivere nella stessa casa. Cominciate a stare fidanzati, fate conoscere le vostre intenzioni, se no date
scandalo e i genitori vostri devono intervenire. Pure se adesнso non si ricordano se esistete, quando uscite sulla bocca della gente si metteranno contro di voi. Vi parlo così perché
vi voglio bene e state facendo bene. Marì, sono contento che tu non scendi più a  quell'appartamento." Don Ciccio dice queste ultime parole con un poco di strozzo nella gola e si fa i rosso in faccia.

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In primavera ero ancora un bambino e adesso sto in mezzo alle cose serie che neanche capisco. Dice bene don Cicнcio, da noi si deve crescere di corsa e io obbedisco, corro. Rafaniello, Maria, il bumeràn, io mi precipito dietro a loro, intanto il rotolo di carta sta finendo scritto e io non vado da don Liborio a cercarne un altro che gli avanza. Maria seduta in faccia a don Ciccio non dice niente, nella pentola il sugo bolle a poco fuoco. Mi piglia la mano da sotto il tavolo e la inette sulla tovaglia insieme alla sua, io la guardo, lei invece guarda don Ciccio. "Adesso me lo dite, don Ciccio, m'o ddicite mò?" Maria scatta dall'italiano al napoletano, che le esce con la forza di uno schiaffo, più è corto il napoletano più piнglia spunto dal rasoio, don Ciccio inghiotte zitto. Maria rientra nel fodero dell'italiano, dice: "Volete favorire con noi don Ciccio? Un piatto di spaghetti", don Ciccio si alza in piedi, ringrazia, deve scendere in portineria: "Fate le cose con giudizio, vi ho parlato da padre, visto che qua non ce ne stanno più". Maria si gira ai fornelli, accompagno don Cicнcio alla porta, gli stringo la mano e lo ringrazio dell'interesнsamento. "Giudizio, guagliò, giudizio," dice e si aggiusta il basco mentre scende la rampa di scale.

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In cucina Maria dice che nessuno si deve mettere in mezнzo a noi. Le racconto dei piatti rotti, "Si vede che ne tiene troppi", Mari, quello è uscito pazzo, "No, sta solo in anticipo, la roba vecchia si scassa l'ultimo dell'anno, lui scassa prima, è il padrone no? Il padrone di tutto il palazzo: che gli costa qualche piatto?", versa sugo sulla pasta scolata, mangiamo seduti fianco a fianco, le gambe si toccano, io capisco che ha ragione lei, nessuno si deve mettere in mezzo a noi.

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In bottega Rafaniello finisce l'ultimo paio di scarpe, non sta fermo seduto al bancariello, alza la testa, la gira per la stanza, gli occhi in allarme, è diventato ancora un poco di più un uccello, rimasto indietro agli altri per migrare. Non scenderà più in bottega, la notte del trentuno ci troveremo sopra ai lavatoi, siamo d'accordo. Mi chiede come sta il bumeràn, sta sempre con me, don Rafaniè, lo tengo pronto per volare. Lo scatto del suo collo si gira verso la porta, mi volto che sta entrando mastТErrico. "'A ricciola guagliò, stamattiнna aggio piscato 'na ricciola davanti Santa Lucia. Era ancora scuro, tenevo 'na lenza moscia a traino e quella m'ha acchiappato, lei a me, 'nu strappo che m'ha tagliat'a mano," e fa vedere il segno rosso a sangue. "Ho mollato per non romнpere l'amo ch'era piccirillo, l'ho fatta sfogare, s'è stancata e intanto a poco a poco la tiravo vicina e quann'è stata sott'a murata d'a varca l'ho alzata con l'arpione, tre chili, tre chili, guagliò, spuntava la prima luce a mare e 'a ricciola era cchiù lucente 'ell'alba. Magno pesce pe' na semmana, lascio in paнce i saraghi fino all'anno nuovo. Stamattina mi cucino la teнsta, 'na capa tanta," e fa la mossa della misura, tra i due palнmi ci lascia l'aria di un pallone da calcio.

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Gli faccio i complimenti, siete una specialità mast'Errì, un ebanista pescatore. Gli fa piacere che lo chiamo ebanista, però non se lo tiene: "So' sulo 'nu falegname che va a pisca', nun ce sta niente 'e speciale. Vuoi sentire una specialità? Papele 'o marenaro, quello che gira con la sporta del pesce che va a pigliare fresco ogni mattina: quello a 'nu bellu mumento durante la guerra usciva per mare e tornava coi polli. Hai capito bene, pescava pollaste. Saliva dai suoi clienti con la cesta carica di polli. Tape avite cagnato mestiere,' gli facevano i clienti. 'No signurì, io esco sempe pe' mmare tutt'e iuorne.' Il fatto stava che erano arrivati gli americani dopo le nostre giornate di battaglia e avevano comandato il fermo della pesca, perché il golfo era pericolante di mine tedesche Papele usciva lo stesso con la barca, andava sotto le navi americane e quelli gli tiravano in mare dei polli che tenevano sotto ghiaccio. Accussì Papele se mettette a fa' 'o pescatore 'e pullaste".

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Sta allegro mastТErrico, saluta in ritardo Rafaniello, dice che gli manda a assaggiare una trancia di ricciola, guarda l'aнsciugatura dell'armadio, è a posto, possiamo avvitare la ferramenta, maniglie, toppe di chiavi, cerniere. Con la fresa prepara l'alloggio delle serrature, io avvicino il pezzo alla macchina, l'occhio buono sta attento, il cecato lo tengo mezzo chiuso a riposare. Consegniamo l'armadio dopo capodanno. Mentre lavoriamo gli chiedo di don Ciccio, se pure lui è un brav'uomo. "Bravo, coraggioso, al tempo della guerнra era un ragazzo e aiutava di nascosto quelli della resistenza. Faceva servizi per loro durante i bombardamenti, quando per strada non girava nessuno, al ricovero non l'ho visto scendere mai." Gli chiedo pure se si ricorda di una sorella di don Ciccio. "Tu che ne sai, guagliò, d'a sora 'e don Ciccio?" Poco, mast'Errì, so quello che m'ha detto lui, che andava a servizio. "Andava a servizio dal padrone di casa ch'era spoнsato e allungava le mani. Era 'na piccerella, guagliò, 'na belнla piccerella." Si accende mezzo sigaro e questo dice che non parla più.

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A fine giornata chiudo la bottega, accompagno Rafaniello a casa, lo piglio sotto braccio, cammina male. Don Rafaniè, in pochi mesi ci siamo messi a correre, voi con la gobba io col lavoro, il corpo cresciuto, la voce che si è fatta scura. Dove stiamo correndo tutti e due. chiedo e lui con la vocina quieta risponde: "Da noi c'è una barzelletta, dice di un cavaliere che non sa stare a cavallo e che sta passando al galoppo per un campo. Un contadino gli chiede dove sta andando e lui grida nella corsa: 'Chiedete al cavallo'". Mi scappa una risata, non ho capito, rido. È leggero Rafaniello, da poterlo sollevare, le ossa si devono essere svuotate, c'è aria sotto la giacca, vedo la curva delle ali piegate, ci passo sopra la mano per coprirle meglio. A Napoli la gente chiama la gobba scartiello e pensa che porta bene di toccarla. Quante volte le persone ci hanno messo sopra la loro mano senza chiederei permesso. Lui lascia fare: "Al mio paese mi chiamavano gorbùn e nessuno mi sfiorava, qua mi fa piacere la confidenza della gente con la mia gobba. Non credo di avere portate fortuna, tutte quelle toccate sono servite più a me, a svegliarmi le ali".

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Don Rafaniè, a me servirebbe qualche toccata alla gola per farmi resuscitare la voce, quella di prima è morta e quella nuoнva sta chiusa. Fa un sorriso, mi dice che la voce mi verrà tutt'in una volta e sarà forte assai. Mi racconta: "Nella discesa in Italia dopo la guerra, cammino per una strada di campagna e sento alle spalle uno strillo terribile, uno strazio di grido, un'implorazione scatenata, da far sanguinare le orecchie. Poнso i bagagli a terra, mi giro e vedo per la prima volta l'asino, al i ramo di un carro, e un uomo lo bastona. La bestia allungava il collo e con le corde tese e il morso in bocca lanciava il più lontano possibile la sua protesta di dolore. Sapessi io pregare così. Nella scrittura sacra si trovano molte notizie sull'asino, una bestia stimata, utile. Il suo grido invece è inutile, giganteнsco, riguarda solo lui e Dio, l'uomo è escluso. Era maggio, vivevo le orecchie piene di guerra, dei peggiori rumori. Il raнglio attirò risposte da altri punti dei campi intorno e dentro la gobba mi sono passate le scosse dei brividi e d'improvviso mi trovo gli occhi inzuppati. Per tutta la guerra sono stati secchi e in una strada di campagna italiana si sono svegliati per riнspondere alla chiamata degli asini. Quando uscirà la tua voce avrà la forza di quella dell'asino". Vi ringrazio don Rafaniè, questa è una benedizione, con la voce scura di adesso pare che faccio il cospiratore. Sapete, don Rafaniè, che la squadra di calcio del Napoli porta un asino sulla sua bandiera, dev'esнsere perché la folla allo stadio strilla forte come un ciuccio, quando fa gol. Io l'ho sentito il grido dello stadio una volta

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passando là fuori e sono venute le lacrime pure a me, senza acнcorgermi. Quello strillo teneva una forza esagerata, era più importante dell'occasione di un gol, più potente. Intanto coni le parole siamo arrivati alla sua stanza, accendo la candela e ci salutiamo con un sì della testa.

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Salgo ai lavatoi per allenarmi, c'è poca luna, una coda di sarago sopra al Vesuvio, è calante. È troppo bassa per tenerнla a bersaglio, punto a una stella più sollevata, chiudo l'ocнchio buono, scaglio a vuoto il braccio contando a mente l'eнsercizio del lancio fino a duecento volte. Il bumeràn è curнvo, la spalla fa una curva e pure il polso ne fa una e tutti inнsieme andranno a combinare una spinta dritta. Da un miнscuglio di muscoli e nervi deve uscire uno schiaffo di tiro, stringere terra e cielo dentro un angolo acuto, il bumeràn è caldo, affilato per tutti i lanci trattenuti, aspetta l'apertura di dita per salire nel buio. L'occhio cecatiello vede il cielo viнcino, che ci vuole a volare? Penso a Rafaniello e già vedo il cielo che cala il ponte levatoio e li lascia passare, a lui e al bumeràn. Ogni sera si abbassa di un poco e poi basterà un salto dalla terrazza per salirci sopra. Le sbatterà lui le ali, il cielo stesso, voi non dovete fare nessuno sforzo don Rafaniè, solo tenerle aperte. Con l'occhio cecatiello si vedono bene le cose di dopo.

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Pure col freddo sudo mentre i muscoli sbattono nell'aria! e qualche carezza veloce mi asciuga la fronte. Agli spiriti piace giocare col sale dei corpi, lo leccano, si gustano la spremuta della vita mossa, sbattuta. Ma quando esce il sangue non vogliono vederlo, corrono a fermarlo, a premere contro la ferita. Mi fanno seccare i tagli in un secondo. L'occhio cecatiello mira il posto di cielo della stella sulla verticale di Castel dell'Ovo per tenerselo a mente, caso mai la rincontra la notte del trentuno.

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Maria vuole andare al cinematografo, al Lux danno una pellicola con Totò. Totò sta nel deserto, grida: "Questo treнmendo sole africano", e noi ridiamo. Perché ridiamo? Perнché siamo al cinematografo seduti in fondo alla sala, perché abbiamo aspettato in piedi che si liberavano due posti, perнché è la prima volta che andiamo insieme da qualche parte, perché il buio ci fa solletico, perché pure la gente ride così ridiamo pure noi alla voce di Totò che quando esce gli spoнsta la bocca e lui deve aggiustarsi il mento dopo lo strillo. Maria ride più degli altri. Quando hanno finito, lei continua ancora e la sua risata fa ridere gli altri. Sulla pellicola non succede niente di spassoso ma gli altri ridono delle risate di Maria che le scarica a mitragliatrice, a colpi corti, spezzati. Un signore seduto davanti a noi attacca a ridere appresso a Maria, pare che si strozza, svuota una risata col risucchio di un fischio, da ricovero in ospedale, "chisto mo' more", dice una donna dietro di noi, niente, non si ferma, si scompiscia e come piglia un poco di fiato, Maria a tradimento da dietro lo attacca con la sua raffica e quello ricomincia con un "iii", un nitrito di dolore e allora la sala riparte alla carica di risate e la pellicola non c'entra più.

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All'uscita tutti sono contenti, pure se sta piovendo e non si è pensato di portare ombrelli. Un anziano ride ripensando alle risate, una donna dice: "Accussì adda essere 'o mbruoglio int'o lenzulo, c'adda fa' spassa"'. L'imbroglio nel lenzuolo è la pellicola, il cinematografo. Lo chiamano così perché la parola è troppo strana, non riescono a dirla bene e si ; vergognano di incacagliare, "cimetanocrafo". 'O mbruoglio int'o lenzulo è più spiccio e spiega bene che si tratta di un imbroglio steso sopra una tela. Maria si mette sotto braccio e ce ne andiamo sotto la pioggia, freschi di risate. A casa sul lettino del ripostiglio stiamo stretti, anche scomodi. Maria dice: "Meglio qua, stiamo caldi". Vuole dire che non approнfittiamo del letto grande, noi ci facciamo posto uno dentro l'altra e ci addormentiamo abbracciati dopo una buona quantità di baci. Imparo a fare le labbra mosce, prima le teнnevo toste come i calli.

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Maria non si disturba della mia voce affumicata, dice che le piace, che la vuole sentire mentre ci diamo i baci. Chiediнmi qualcosa e io ti rispondo, le dico. Lei ride, dice: "Come mi chiamo?", e io rispondo, lei insiste: "Ripeti il nome, ripeнti il nome", e io le do baci e la chiamo per nome e così risucнcede l'ammore e lei fa i colpi e i singhiozzi con tutto il corpo, tanto le piace come io la chiamo per nome. Maria dev'essere un nome magico, lei passa subito dai baci al sonno, il tempo che mi ritorna indietro il piscitiello. Non gli dico più: "Arò si' gghiuto", adesso lo so. Mentre finisco di dire ancora un poco il suo nome, lei tira aria nel naso, inghiotte e russa piano piano.

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Mi sveglio, lei sta già in cucina, ha bollito l'acqua e la fa scendere sul filtro del caffè, A casa sua si fa con la macchiнnetta moka che fa uscire il caffè da sopra. Io l'ho sempre viнsto scendere, il caffè, dico, se va in salita arriva stanco. Maria ride, sei spiritoso, dice. Veramente dicevo solo un pensiero affettuoso per il caffè che conosco da poco e mi piace assai, nero e senza zucchero. Mi metto addosso il bumeràn, la giacca da lavoro e vado a aprire la saracinesca, sul tavolo laнscio i soldi per comprare quello che manca in cucina. Mamнma, penso mentre scendo le scale, sbrigati a tornare che ti devo chiedere qualche notizia sulle donne. Fa freddo, un brivido di tramontana nelle scale mi fa chiudere gli occhi e io capisco che la risposta è no. A bottega arriva babbo, mastТErrico gli va incontro, babbo piange, io sono fermo con la scopa in mano e la stringo forte e tengo chiuso l'occhio buoнno così vedo sfuocato e non guardo la faccia di babbo che si vergogna delle lacrime davanti a me. MastТErrico mi leva la scopa dalle mani, me la leva a forza, usciamo, lui chiude la bottega per lutto, ci accompagna all'ospedale, mamma non c'è, l'hanno chiusa, io tengo le braccia strette al petto così piнglio calore dal bumeràn e c'è anche un odore di sfogliatelle, da un letto vicino un uomo apre per un ammalato un cartocнcio di paste e ne offre pure a noi, allora scoppiano le lacrime, ora so che si dice così in italiano, perché escono e si staccano dagli occhi con uno sparo di dentro, un colpo che le spinge.

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Babbo ha smesso di piangere, spegne tutta la faccia, non c'è un nervo sveglio, non sta attento alle persone che arrivaнno e gli parlano e stringono la mano a lui e pure a me. Io tenнgo mezzo chiuso l'occhio buono e mi faccio fare tutto quello che vuole la processione di persone di Montedidio. Poi arriнva Maria, va dritta da babbo, lo piglia sottobraccio e l'acнcompagna fuori e lui va quieto con lei a pigliare un poco d'aнria e io resto a fare la guardia al nostro corpo di mamma chiusa che non ha voluto farsi vedere nemmeno da me. I geнnitori di Maria sono passati da casa a prendere delle valigie, non l'hanno trovata, le hanno lasciato dei soldi e si sono racнcomandati a don Ciccio di tenersela un poco vicino, loro deнvono fare un viaggio urgente, torneranno presto. "Stanno inнguaiati," dice Maria, che ha saputo di mamma da don Cicнcio. Ha fatto la spesa, è venuta per portarci a casa a mangiaнre cucinato. Ci avviamo a piedi, babbo in mezzo a noi due non alza gli occhi dalle scarpe, noi lo guidiamo nello stretto dei marciapiedi e della gente fitta come le olive nel cartocнcio. È dimagrito, si fa spostare da noi e dal vento che ci piнglia a schiaffi in faccia e ce la fa indurire.

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Maria fa una frittata di maccheroni, io apparecchio la taнvola. Babbo si siede rigido in punta a una sedia. Le mani stanno sulle ginocchia, si tengono ferme così, strusciandosi là sopra. Sta un poco affacciato sulle gambe, la schiena in avanti, dal naso si staccano lacrime che vanno dritte in terra, Maria ribalta la frittata dalla padella direttamente nel piatto, dice: "È pronto", mette a tavola. Babbo avvicina la sedia, mangia zitto tutta la porzione con appetito. Maria vede il piatto vuoto, senza chiedere glielo riempie, lui lo finisce, più mastica e più si rimuovono i muscoli della faccia, i nervi, gli occhi, la fronte. Maria dice che i commercianti aumentano i prezzi a Natale e s'approfittano della gente che una volta alнl'anno vuole fare bella figura: "La spesa la dobbiamo fare a ferragosto". Babbo bada solo al piatto, lo pulisce col pane, poi si alza, dice che va alla cooperativa dei facchini a riprenнdere il lavoro, si era preso dei giorni di ferie. Mi dice di comprare un fiasco di vino, mi lascia trecento lire. Maria sparecchia, lava, mette a posto, Maria fa le cose quiete, fa vedere che lei ci sa stare nelle cucine e pure con la vita triste bisogna darsi da fare, almeno non c'è sporcizia che è una mortificazione in più, ma invece si sta in ordine pure con le lacrime appese.

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Il pomeriggio è libero, dico a Maria di andare insieme a piedi a Mergellina dove c'è il molo allungato sul mare e in fondo al molo c'è un faro e la scogliera, dove uno può stare all'aperto ma senza la città intorno. Voglio andare lì perché le case, le strade smettono tutt'insieme e d'improvviso non c'è più Napoli. Il largo del mare, il suo sconquasso la naнscondono, basta che uno s'incammina sul molo. Maria metнte il cappotto, la sciarpa e già sta sulla porta, la sua prontezнza è una carezza nelle ossa. Sul lungomare le compro il tarallo sugna e pepe, il vento ci porta via il nostro caldo, noi lo riнmettiamo camminando svelti, poca gente s'arrischia al pasнseggio, dei soldati americani con le scarpe di gomma vanno di corsa, la portaerei nel golfo è l'unica nave che non si muove sopra il mare bianco stracciato sulla cresta delle onde. Maria guarda i soldati americani, dice: "È una bella razza, ma corrono, corrono pe' senza niente, senza un motivo. Priнma di metterci a correre, a noi ci deve sbattere fuori di casa un terremoto". Marì, corriamo pure noi. "Noò," fa lei e con il braccio mi riporta indietro al suo passo.

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Al molo di Mergellina fischiano i cavi dei battelli a vela, i cani si spaventano, si nascondono sotto le barche in secca dei pescatori. Noi due soli andiamo sul molo in mezzo al mare scuro. I massi della diga buttano acqua in aria, l'onda sbatte, s'impunta e si spartisce a secchiate. Il bumeràn sotto la giacca freme all'aria potente, mi mette la sua corrente adнdosso, lo vorrei lanciare contro il mare, la tramontana, la portaerei, contro quello che si muove e invece mamma no, non si può muovere. Statevi fenili tutti, statevi inchiodati per un minuto: avessi una scintilla di voce nella gola per farнmi sentire, che il vento la sparge sopra la città e quella si sta ferma per un minuto. Maria mi tiene forte O braccio, non mi sciolgo da lei, non tolgo il nodo della mano dal manico del bumeràn. In fondo al molo il faro è il punto più lontano dalнla città, a guardarla da lì stesa a quarto di luna, pare ferma. Mi fa contento, se ne sta quieta per un minuto. Scintilla qualche luce dall'isola dirimpetto, dai paesi di costiera, alle spalle Napoli è coperta dal vento e non si sente. Inghiotto per lutto aria salata, Maria dice: "Torniamo".

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Babbo rientra per cena, trova il vino e prima di versarsi da bere spiega, cerca l'italiano: "Finché è stata viva ho fatto la guardia alla sua vita, l'ho scippata alla morte giorno e notнte", beve un sorso e dice secco: "Mò nun pozzo fa' niente cchiù". Maria fa sì con la testa, io mi contento che lui cerca pace, ha accompagnato mamma fino alla fine dei respiri, di più non è voluto andare, nemmeno fino al cimitero. Si versa un altro bicchiere, chiede se beviamo pure noi, Maria dice sì, io no. Lei tira su dal bicchiere qualche goccia d'assaggio, babbo le dice: "Chillo nun è 'nu surso, è 'nu respiro, tu accussì sfotti 'o vino", Maria rimedia con un colpo di polso. Mangiamo piano, si sentono i rumori delle altre case, babbo beve, si passa la mano sulla faccia, si stropiccia la fronte, "Grazie della cena", si alza, ci dice buonanotte. A letto ci teнniamo vicini, non abbracciati. Dice che le scorre il sangue, ma non è una ferita, è un ricambio che tengono le donne. Ha bevuto il vino per rimettersi in sangue. Prima di dormire mi dice la sua frase preziosa: "M'importa di te". Come al solito non so che restituire.

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MastТErrico e Rafaniello si sono salutati, non ero presente. È l'ultimo dell'anno, domani è festa perciò oggi si lavora sodo. Passiamo a piallatura tutto il legname grezzo dei prossimi lavori, facciamo rumore ma oggi il vicolo non fa caso a noi. Non si affaccia qualcuno in bottega per chiedere a mastТErrico di fare i più piano, più tardi, perché uno in casa quella notte non ha i dormito, "nun ha potuto azzecca' uocchio". In un vicolo si mandano avanti i macchinali cercando gli orari che non disturbano. Oggi stanno occupati nella festa e non importa il fracasso delle lame che portano via i millimetri alle assi e li sbriciolano in segatura. MastТErrico controlla squadri, aggiusta, salva, divide il materiale lavorato secondo la faccia della venatura. Brontola con chi taglia il bosco, che non l'ha fatto secando la luna e ora il legno è debole e si dissangua di resina. MastТErrico mi dice che Rafaniello parte, si è trovato un biglietto di nave per la terrasanta, perché è devoto di Gerusalemme. Non si riparano più scarнpe a Montedidio, dice, ora se le comprano nuove oppure gliele regala il sindaco per le elezioni, una scarpa prima e una dopo il voto. Mi scordo di tutto, penso a lavorare, mi copro di segatura, mi batte il bumeràn in petto contro il cuore. Non ci fermiamo neanche per il pranzo, finiamo alle quattro che già diventa sera. Ci scambiamo gli auguri, mastТErrico mi dà una paga doppia: "Te la sei guadagnata, guagliò, statte buono". Voi sparate a mezzanotte, gli chiedo, no, dice che si mette al balcone, si fuma il toscano e guarda gli spari degli altri, gli piacciono i bengala: "Don Ciccio appiccia 'e meglio biangale 'e Montedidio".

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Mi scuoto i panni dalla segatura, mi batto come un tapнpeto, urta il bumeràn contro le costole e scrocchia somiнgliante al rumore delle ali sotto la giacca di Rafaniello. Mi riнcordo di lui, stanotte gli accompagno il volo con il bumeràn. A casa scrivo sul fondo del rotolo, qualche girata ancora e niente più, lo devo tenere fermo, che è tirato dalla parte scritta. Faccio la punta alla matita, aspetto Maria che è usciнta. Torna affannata. È salita a casa sua per fare pulizie e camнbiarsi la biancheria. Il padrone di casa l'ha aspettata all'usciнta e si è buttato addosso a lei in mezzo alle scale, lei non ha gridato, gli ha dato un calcio nella caviglia e se n'è scappata: "Se c'eri tu, lo buttavi per le scale", dice. È agitata, s'è presa paura, quello la stringeva forte con le dita e il fiato gli puzzava, è uscito di sentimenti, però lei si è difesa. Io mi faccio triнste di pensieri, si arrabbiano i nervi caricati a bumeràn, voнgliono lanciare spinte e schiaffi a tutti quanti, Maria, nun succere n'ata vota, mi esce a voce napoletana questa parola cupa, metto il brutto in fuori, è la prima volta perciò non caнpisco che faccia tengo, perché Maria se la piglia tra le mani e dice: "Non fare così, è niente, è già passato, è stata una fesнseria, manco te la dovevo dire", e mi cerca gli occhi e io non so dove li ho posati perché lei mi dice: "Guardami, guardaнmi in faccia", e muove la mia finché non mi stacco dai penнsieri tristi e la guardo e prendo i suoi polsi e con quelli mi do due schiaffi in faccia e stringo i denti, allora lei si spaventa e mi abbraccia e adesso sì, adesso è tutto finito.

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Non succede un'altra volta le dico senza napoletano, quieto per darle pace. Oggi so una cosa di me, una cosa triste in mezzo alla fortuna di stare con Maria. Non è tutta] buona la crescita del corpo, la scoperta delle cose nuove che imparo a fare. Cresce insieme anche il malamente. Insieme a me, alla forza del braccio di liberare il bumeràn cresce una forza amara, capace di attaccare. Uno stagno di solfatara si è messo a bollire dentro la testa e mi ha fatto triste di intenzioni. Così sono gli uomini all'improvviso, così? La mossa sbagliata di un altro schioda un coperchio e salta fuori il sangue maligno. Babbo rientra, Maria gli chiede se stasera vuole mangiare una pizza, la andiamo a prendere da Gigino 'o fétente che fa la migliore dei quartieri. Dice subito sì, gusto margherita. Pure per noi, così apparecchiamo la tovaglia sul marmo di cucina, quando torniamo ce la possiamo mangiare ancora calda. È stanco, oggi ha lavorato in fondo alla stiva senza cambio, una cosa che gli operai anziani non fanno. Si mette a sedere col giornale sulle ginocchia, la lampadina è di venti candele, lui si sforza, stringe gli occhi.

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Poi usciamo salutando, non risponde, legge e muove le labbra per seguire le parole. Maria e io sappiamo leggere meglio di lui e questa è un'ingiustizia. Noi ultimi arrivati soнlo perché abbiamo avuto la comodità di studiare, ne sappiaнmo più di un uomo adulto che si è fatto valere a forza di braccia per tutta la vita e non ci ha fatto desiderare il necesнsario e non è mancato di rispetto a sua moglie. Chiudo la porta di casa uscendo dietro Maria e mi capacito di essere onorato di babbo che per leggere deve battere le labbra una contro l'altra e agguantare in età avanzata un poco d'istruнzione. Marì, dobbiamo comprare la pizza più buona di Naнpoli. "Per meno di questo neanche usciamo, almeno la più buona di Napoli, poi vediamo se è pure la più buona del mondo." Maria, le dico, m'importa di te. "Questo lo dico io, tu dici un'altra cosa," risponde e mi lascia scimunito un'altra volta.

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Gigino 'o fetente sta facendo pizze a tutta Napoli, si è fatta la folla davanti al forno. Fa freddo e lui sta a braccia nude a sbatнtere la pasta a schiaffi e giravolte mentre distrattamente si gira verso il fuoco e al volo con la pala rigira dieci pizze in due seнcondi. Per chiamare la gente fa le sue grida: "Song 'e ppizze 'e. sott 'o Vesuvio, nc'è scurruta 'a lava 'e ll'uoglio", per dire che ci mette tanto olio, uoglio, quanta lava scorre dal Vesuvio. La genнte aspetta così più volentieri e si fa venire appetito con le parole esagerate di don Gigino. Lo chiamano 'o fetente perché porta la barba e uno poi trova qualche pelo nero nella pizza. Porta la barba perché tiene la faccia tagliata. Mi metto da una parte sul marciapiede, Maria va sotto al bancone e si fa sentire forte: "Don Gigì, tre margherite vostre che ci dobbiamo arricreare", gli grida in mezzo alla folla, cacciando fuori l'aria guappa e sciantosa. "Nenne', i' m'arricreo quanno te veco," risponde don Gigino al bancone, nero di barba, occhi e capelli e imbiancato a farina meglio di un'alice. E ci sbriga prima degli altri, ci conseнgna le tre margherite una sopra l'altra con la carta da olio in mezzo e strilla per farsi sentire da tutti quanti: "Facite passa' annanze 'a cchiù bella guagliona 'e Montedidio", e Maria si fa straнda e se le piglia dalle mani di don Gigino che le dice pure che le può pagare un'altra volta: "Cheste m'e ppave ll'anno che vene". Maria dritta e sfrontata per l'onore, se ne viene da me, mi mette il braccio sotto e ce ne saliamo a Montedidio con gli occhi della gente sulla schiena. Com'è importante stare a due, maschio e femmina, per questa città. Chi sta solo è meno di uno.

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Per strada già sparano botti, le persone vanno di fretta a casa a chiudersi nella festa. Le pizze incartate fumano in maнno a Maria, i suoi passi fanno un suono di legno, mi accorgo che porta scarpe col tacco. Le cose stanno che io vedo Maria più alta e non guardo le scarpe, credo subito che è cresciuta veloce da un giorno all'altro. Ora li vedo i tacchi, però so lo stesso che è più alta, anche senza. Noi stiamo sotto una spinнta di velocità, ci troviamo in alto sul tetto di Montedidio doнve guardiamo le stelle faccia a faccia. Pure don Gigino se n'è accorto e ci ha fatto passare avanti a tutti i clienti, perché ci vede correre, crescere e correre. Maria è più alta, la figura è scattata da ragazza a donna per quelli che la guardano. Non dico niente, quello che fa, sta fatto bene.

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A casa babbo s'è addormentato col giornale sulle gambe. Glielo levo, si sveglia, si guarda intorno stordito, si passa una mano sulla faccia, a scendere: "Credevo di stare vicino al letto di tua madre", Maria non gli dà il tempo di fissarsi: "È pronto a tavola", grida e fa rumore di piatti. Mi tolgo la giacca, poso il bumeràn sul tavolo. "Lo tieni ancora? Allora ti è ] piaciuto? Me l'ero scordato," e mentre taglia il più gustoso boccone di tutte le pizze, prima di Napoli e poi del mondo, mi chiede se vola. "Come la pizza in mano a don Gigino," gli risponde Maria, ma lui già mastica e dimentica. Gli racconto che don Gigino ci ha serviti prima di tutta la gente che stava aspettando. "Pure con noi faceva lo stesso, a don Gigino fa piacere vedere le coppie maritate," dice per ricordo, senza intenzione. Beve un bicchiere di vino, ne versa uno a Maria, dice che non rimane sveglio per la mezzanotte. Rompe una noce spremendola in mano, la mastica con gusto. A mamma piacevano le mandorle, non ci sono, non le ho comprate. A tavola ci vuole un poco di lutto.

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Si è preso il turno di lavoro di un collega, domani va lui al posto di quell'altro che si fa il Capodanno a casa. Lui vuoнle lavorare e stancarsi e dice che gli fa assai piacere di trovaнre la casa abitata e qualcosa di cucinato. Si alza, dice buonanotte, poi sulla porta della cucina si volta e dice: "Grazie per la pizza", Maria gli fa un sorriso e a me si imbroglia la vista, inghiotto saliva, mi volto, piglio il bumeràn, lo stringo così mi calmo. Vanno troppo in fretta, non ci riesco a correre apнpresso a loro, cambiano da un'ora all'altra, pure "grazie" doveva dire per così poco mentre la sua vita di prima è finiнta e qua fuori sparano e fanno nuovo un anno e buttano via quello vecchio e lui sta con tutto il cuore dentro gli anni pasнsati e buttati tutti insieme. Mi sono messo a sparecchiare la tavola, Maria lava i piatti e fuori cresce la baldoria, la città per una sera fa l'imitazione del Vesuvio a buttare fuoco e fiamme. Spegniamo la lampadina, guardiamo dai vetri le fiнnestre, la strada.

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Sul petto il bumeràn rimbalza contro i colpi del sangue, Maria poggia l'orecchio tra la mia spalla e il collo, ripete piaнno: "Bum, bum, il tuo cuore corre pure se stai fermo, dentro il tuo petto uno scugnizzo tira pietre contro un muro", i Chiudo l'occhio buono, i balconi, le finestre accese dirimнpetto aumentano distanza, diventano lampare sopra il buio, bum, bum, per vivere ci vogliono per forza i colpi, per volaнre pure, per staccarsi da terra, per far salire un legno in aria, ; colpi duri. "Bum, bum, bum," Maria continua, la sua voce mi concentra il sangue nella pancia, la saliva in bocca, Maria, le dico, a mezzanotte salgo ai lavatoi, lancio il bumeràn. "Salgo con te." Volerà Rafaniello e tutti gli spiriti verranno a salutarlo, i nostri spiriti sono curiosi, un calzolaio con le ali lo vogliono sfiorare. Gli spiriti non sanno volare, possono faнre solo un poco di vento. In strada sparano, Maria non sente le cose che dice la mia voce scura, pensa al suo sangue: "Il viнno mi ha fatto bene, è la prima volta che lo bevo, è buono. Mi è piaciuta la mossa di tuo padre, di versarlo. Teneva ferнmo il fiasco pesante e lo faceva uscire piano".

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È bella Maria col sangue che perde e il vino che lo rimpiazza e i capelli neri che mi fanno il solletico sul collo e la bocca che per fare bum, bum, si apre e si chiude con la mosнsa dei baci. Per imitare il rumore del cuore manda baci al buio. Restiamo alla finestra, intanto sale la frenesia degli spaнri, Montedidio prova le micce, fa salire la polvere dei colpi. Arrivano pure da lontano, dalla marina, Rafaniello nel suo ripostiglio sta scaldando le ali, Maria è ora di salire, ci stacнchiamo dalla finestra, il bumeràn si sposta dalla costola del cuore. Saliamo Marì, lei si mette al braccio mio, distratta, sta soprapensiero. Le scale rimbombano di chiasso, una ventata di spifferi ci gira intorno, ci fanno festa e solletico, spingono i loro auguri freddi nelle orecchie. Si sono affezionati, pur'io a loro. Forse ha fatto in tempo pure mamma a venire, anche se per i primi tempi gli spiriti stanno vicino al corpo, gli tenнgono compagnia. Solo dopo si separano e tornano nelle stanze. La porta del padrone di casa non è chiusa, dentro è buio, Maria si appoggia un poco più forte.

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Sopra la terrazza si è allargata una piazza di luci colorate in aria, sparano da terrazze e balconi, sparano e non è ancoнra mezzanotte. Provo a scaldare le braccia del lancio, sono già pronte, non hanno bisogno, il bumeràn scarica scosse, si strofina nel palmo, la sua forza è la mia, ce ne voglio mettere tanta da staccarmi il braccio: quale? Destro o sinistro: siniнstro, dalla parte dell'occhio buono che resterà chiuso. Guarнdo l'affacciata di stelle, cerco quella che ho visto sul vulcano, la riconosco, trema più delle altre. La indico a Maria con la punta del bumeràn, è l'Oriente, tiro da quella parte. Maria va al parapetto s'appoggia coi gomiti sopra, a vedere lontaнno, sente e non sente, dev'essere il vino, la stanchezza, il sanнgue. Arriva Rafaniello, le ali stanno sotto una coperta, nella giacca non entravano più. Don Rafaniè, come state? Non riнsponde, mi abbraccia con un caldo di piume, mi dice pianissimo: ''Blib ghezìnt, statte buono", poi si sfila le scarpe. Don Rafaniè, vedete quella stella, voi e il bumeràn ci passate sotнto, ve l'apre lui la via in mezzo ai botti. Maria sta ferma afнfacciata, non si volta. Ecco che si è spicciata mezzanotte, Naнpoli s'incendia, spara, scassa, butta roba in strada, non si può sentire nessuna voce è tutta una scarica di forza che vuole lanciare in aria, in terra, contro i muri. Stringo il maniнco di legno che non si è consumato in mano mia.

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Mi brucia in mano, lo fa apposta se no all'ultimo non lo tiro, mi scotta le dita per farsi lasciare, ci soffio sopra, è pegнgio, stringo i nervi, la bocca addenta a vuoto, piglio un fiato di rincorsa, carico il bumeràn dietro le spalle, spengo l'ocнchio buono, sbircio un cielo che trema di luci come il mare d'agosto trema di alici, m'esce il fiato per il dolore del fuoco nelle dita, scappa via con la coda in fiamme il bumeràn con uno strappo di ossa, una spinta mai avuta, il legno brucia, galleggia, vola, frusta l'aria, non ho niente in mano. Alle mie spalle sbattono lenzuola, ma non ce ne stanno, mi volto è Raнfaniello, le ali spalancate in tutta apertura, i piedi scalzi si sollevano, ricadono, una volta, due, cresce il vento sbattuto dalle piume, gli spiriti si mettono anche loro a spingere da sotto così al terzo salto Rafaniello sale e va dov'è la traccia infuocata del bumeràn e c'è un chiasso di spari, fischi, trotнtole di spifferi in faccia che si sforzano di farmi festa e io alнzo le braccia per un'ultima spinta di addio.

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Mi tocco la mano del lancio, niente bruciatura, è fresca, a terra la coperta di Rafaniello, due piume e un paio di scarpe in mezzo alla sparatoria, razzi in aria, botte a muro, Montedidio rimbomba, riapro l'occhio buono, Maria strilla per un'ombra addosso, io corro al parapetto, afferro l'ombra alle spalle, le braccia bruciano di forza, la stacco da Maria e da ; terra, la butto via, la butto via così duro che vola, vola di sotнto, vola dalla terrazza di Montedidio sotto il diluvio di vasi e i piatti vecchi gettati dai balconi, tutto vola da sopra Montediнdio, noi due no, noi due abbracciati sotto la coperta di Rafaнniello, Maria trema, io sputo fuori un grumo caldo d'aria dalнla gola, è voce, è la mia voce, un raglio d'asino che mi strappa i polmoni, io grido e per il mio grido non c'è posto sopra il rotolo e sopra Montedidio.

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й Belpaese2000╤.┬.╦юуш° 14.10.2005

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