Premessa[1]
Contos de fuchile - racconti da focolare -, con questo dolce nome che
rievoca tutta la tiepida serenità delle lunghe serate famigliari passate
accanto al paterno camino, da noi vengono chiamate le fiabe, le leggende e tutte
le narrazioni favolose e meravigliose, smarrite nella nebbia di epoche diverse
dalla nostra. Il popolo sardo, specialmente nelle montagne selvagge e negli
altipiani desolati dove il paesaggio ha in se stesso qualcosa di misterioso e
di leggendario, con le sue linee silenziose e deserte o con l'ombra intensa dei
boschi dirupati, è seriamente immaginoso, pieno di superstizioni
bizzarre e infinite. Nella stretta mancanza di denari in cui si trova ha
bisogno di figurarsi tesori immensi, senza fine, nascosti sotto i suoi poveri
piedi, sicché, dando retta alle dicerie vaghe, susurrate a mezza voce,
con un tremito nell'accento e un lampo negli occhi, si crederebbe che il
sotto-suolo di tutta l'isola è sparso di monete d'oro e di perle
preziose.
Ogni montagna, ogni chiesa di campagna, ogni rudere di
castello, ogni bosco ed ogni grotta nasconde il suo tesoro. Posto da chi?... Se
fate questa domanda vi si dànno delle spiegazioni plausibilissime. Si ha
un vago ricordo delle guerre, delle escursioni, dei saccheggi sofferti in ogni
tempo dalla Sardegna, e specialmente dai Saraceni, dai Goti e dai Vandali, e si
dice che i nostri antichissimi avi nascondessero in siti impenetrabili i loro
tesori - denaro, gioielli e pietre preziose -, per scamparli dall'espilazione
degli invasori, e che la maggior parte di questi tesori, rimasti nei
nascondigli per volontà o contro la volontà dei primi possessori,
sussista ancora. Sin qui il naturale. Il sovrannaturale è la credenza
radicalmente invalsa che a guardia dei tesori vigili il diavolo: il diavolo
che, se alla fine di un certo tempo gli uomini non ritrovano il tesoro, se ne
appropria lui stesso e se lo porta all'inferno, lasciando nelle anfore o negli
scrigni contenenti l'oro e le perle, tanta bella quantità di carbone o
di cenere. La leggenda dei tesori ha così profonde radici da noi che non
appena un individuo è riuscito, col suo lavoro e con la sua
intelligenza, o magari con l'inganno e la perversità, ad acquistarsi
qualche fortuna, subito la voce del popolino afferma che egli ha trovato un aschisorgiu,
cioè un tesoro.
Mille ricordi mi si affollano su tal proposito al
pensiero, e rammento tanti fatti accaduti nella mia infanzia. Anche la gente un
po' colta e spregiudicata crede, senza confessarlo, ai tesori, e più di
un proprietario fa, all'insaputa, degli scavi nelle sue terre, in cerca di
queste ricchezze meravigliose.
Ogni fiaba ed ogni leggenda è a base di tesori
nascosti: e tradizioni antichissime indicano con precisione dei siti misteriosi
nelle nostre montagne ove indubbiamente esiste dell'oro coniato.
Ma il più delle volte questi siti - rocce o
grotte - sono guardati con un vago terrore anche dagli uomini più forti
e coraggiosi il cui fucile ha già segnato più di una vendetta.
È la sottile paura del sovrannaturale, il terrore di cose che non si
possono vincere né col fucile, né col pugnale.
Perché, come ho già detto, si crede che
molti aschisorjos sono custoditi dal diavolo, e in tal caso il posto
è fatale, e sventura incoglie a chi penetra là dentro. Gli esempi
abbondano: sono uomini morti di ferro poco tempo dopo aver passato una notte
entro una di queste grotte; pastori che hanno perduto tutto il gregge di
malattia misteriosa, banditi di cui non si trovarono che le ossa spolpate dalle
aquile e dai falchi, giovinotti condannati innocenti alla reclusione a vita...
E tutto per aver dimorato vicino a quei luoghi fatali.
Più di un vecchio pastore, scampato
miracolosamente dalle disgrazie, afferma di aver veduto il diavolo, che assume
forme umane o di animale.
Nelle piccole montagne di Nuoro, le verdi e granitiche
montagne di Orthubene, che sono forse le più belle del Logudoro, v'ha
una grotta misteriosa e profonda, di cui nessuno, si dice, abbia mai potuto
esplorare l'immensità oscura che mette capo all'inferno. Un pastore si
provò una volta a visitarla sino in fondo, ma vide i demoni e
fuggì.
Laggiù v'ha un tesoro immenso, miliardi e
miliardi in oro e in perle, e una piccola dama che tesse sempre dell'oro, in un
telaio d'oro, vestita d'oro e coi capelli d'oro, lo custodisce. Oh, piccola
aurea dama! Quante volte l'ho veduta in sogno, col suo strascico lucente e coi
suoi capelli di sole, nella mia infanzia!
I diavoli sono indispensabili nelle leggende sarde:
anche nelle fiabe hanno grandissima parte, ed in talune anzi sono gli eroi
principali. Però i sardi, da buoni cristiani, assegnano sempre un posto
odioso e spesso ridicolo allo spirito dell'inferno, e si vendicano con
ciò del terrore e della paura che il diavolo inspira. Senza dilungarmi
oltre sulle superstizioni del popolino sardo, passo subito alle leggende,
dirò storiche, che corrono di paese in paese, di monte in monte. Talune
sono lunghe e spaventose; altre brevi, vaghissime, senza profilo deciso; tutte
però hanno la calda impronta meridionale.
Il diavolo cervo
Nei monti di Oliena, nei contrafforti calcarei dai
picchi acuti di un azzurro latteo che si confonde col cielo, esistono grandi
crepacci - ricordi di antichissime convulsioni vulcaniche - di alcuni dei quali
non si distingue il fondo. Vengono chiamati sas nurras, e volgarmente si
crede che sieno misteriose comunicazioni dell'inferno col mondo. Di là
escono i diavoli per scorrazzare sulle bianche montagne in cerca di anime e di
avventure. Fra le altre leggende riguardanti le nurras ho trovato
questa, molto bizzarra, e, pare, non molto antica.
C'era dunque un pastore di Oliena, molto devoto e pio
e perciò malvisto dal demonio che, riuscitegli vane tutte le tentazioni
per condurlo al male, si vendicò di lui in questo modo. Nei giorni un
po' tranquilli il pastore, affidata la greggia ad un suo compagno, si recava
alla caccia del cervo e del muflone su per i monti. Un bel giorno d'inverno,
mentre cacciava, vide un magnifico cervo poco distante da lui: lo sparò,
e lo ferì leggermente, ma non poté pigliarlo. E si mise ad
inseguirlo. Il cervo balzava di rupe in rupe, velocissimo; ma il pastore non
meno agile, si teneva sempre sulle sue orme, deciso a ucciderlo. Arrivarono
così in cima della montagna. La neve copriva i picchi, le rocce, i
precipizi; ma il cacciatore, esperto dei luoghi, continuava la sua caccia senza
inciampare in una sola pietra, affascinato dal cervo meraviglioso, bellissimo,
le cui corna ramate erano alte più di sei palmi. A un tratto l'animale
sparì, improvvisamente, sprofondandosi nella neve.
Il cacciatore raggiunse il posto e si trovò
sull'orlo di una nurra spaventosamente profonda.
Il cervo non si vedeva più, ma dal fondo della nurra
saliva un'eco tetra di sogghigni infernali. Il misero pastore comprese allora
che il cervo era il diavolo in persona e cercò di fuggire, ma la neve su
cui posava i piedi sprofondò e prima ch'egli si fosse fatto il segno
della croce precipitò nell'immensità dell'abisso...
Il suo compagno lo attese due giorni, ma non vedendolo
tornare temé qualche disgrazia e si diede a cercarlo pei monti. Le orme
lasciate dal disgraziato sulla neve gli indicarono la triste sua fine.
Tornò nel villaggio e presa una grande quantità di corde si
avviò con altri tre pastori alla nurra. Là giunti unirono
le corde e, legato alle ascelle il compagno del caduto, lo calarono nella
nurra. Ma per quanto le corde fossero lunghissime lo strano palombaro non
toccò il fondo. I pastori lo trassero e quando egli venne fuori era
livido in volto e tremava verga a verga. Un profondo terrore gli sconvolgeva i sentimenti,
ma sulle prime non volle rivelarne la causa. Portato sulle spalle dai compagni
tornò a casa sua, e appena arrivato fu colto da una febbre violentissima
che tre giorni dopo lo condusse alla fossa... Prima di morire rivelò la
causa misteriosa del suo spavento. A misura che scendeva entro la nurra
gli appariva sulle pareti scabrose un omino nero con le corna e con una falce
in mano. E ogni tanto stendeva questa falce verso la corda minacciando di
romperla e di far precipitare il pastore nell'inferno, insieme al suo compagno!
La leggenda di Aggius
Al finire del secolo XVII c'erano in Aggius - piccolo
villaggio della Gallura - due ragazzi, figli di due famiglie nemiche, che, come
accade sovente in Sardegna, ed anche altrove, facevano all'amore.
Lei aveva tredici anni, egli quindici; ma
benché così giovani sembravano, forti e belli entrambi, grandi di
vent'anni, e si amavano perdutamente, con tutta la passione indomita degli
abitanti della Gallura, bizzarra regione montuosa al nord dell'isola, che ha,
nel paesaggio e nella natura dei nativi, molta rassomiglianza con la vicina
Corsica.
Ma, come accennai, le famiglie dei due amanti erano
nemiche. Pare che tutto il villaggio fosse diviso in due fazioni, e l'odio il
più mortale soffiava negli animi di entrambe: ad una apparteneva la
famiglia del giovine, all'altra quella della fanciulla. Ciò non impediva
che essi si adorassero e che si dessero frequenti convegni notturni nella
stessa casa di lei. Usavano le più fini prudenze, la vigilanza
più intensa, ma alla fine furono scoperti e il padre di lei, ardente
d'ira e d'odio, una notte solenne, una notte di Pasqua, trucidò il
misero amante. L'inimicizia allora fra le due fazioni si rinfocolò tanto
che li costrinse ad aperta battaglia. E scesero in campo! Schierati in una
piccola pianura sottostante ai monti rocciosi e desolati, gli abitanti di
Aggius, armati di carabine e di pugnali, stavano per azzuffarsi,
allorché al primo colpo di archibugio, tirato dal padre della povera
innamorata, s'udì un terribile rombo che echeggiò per tutta la
Gallura.
Erano rovinate le montagne, ed erano cadute sui
maledetti guerrieri, seppellendoli sotto le rocce immense donde nessuna forza
umana poteva più trarli.
Scamparono solo pochi abitanti, vecchi, donne e
fanciulli che non avevano preso parte alla battaglia. E la causa di tanta
rovina, oltre quella innocente dei due giovani amanti, era stata il diavolo, il
diavolo che abitava sulle vette dei monti. E qui copio dal triste e fremente
romanzo di Enrico Costa Il Muto di Gallura:
лEgli - il diavolo - di tanto in tanto si piaceva
affacciarsi ai massi di granito per guardare con occhio di fuoco il sottostante
villaggio.
In quei giorni nefasti sentivasi soffiare un vento
gagliardo che, pur venendo da levante recava dal Limbara ricoperto di neve il
suo alito glaciale. E mentre gli abitanti di Aggius sentivano il corpo
intirizzito, il diavolo soffiava sulle anime loro, suscitandovi pensieri di
odio, di vendetta e di sangue! Si diceva che gli aggesi fossero in origine
d'indole serena e tranquilla; ma lo spirito infernale, volendo dannare le loro
anime, aveva preso stanza sulla reggia di granito, ch'era la cima del monte, e
si compiaceva nelle notti insonni di tribolare quei poveretti.
Le vecchie tremavano di paura nel loro letto, e dicevano
il rosario sotto le coltri, mentre il vento furioso urlava dalle fessure delle
imposte. Era il figlio dell'inferno che, non potendo dormire, si divertiva a
turbare il sonno dei figli della terra. E ogni tanto si affacciava alla rupe, e
dopo aver annunziata la sua presenza con un rullo sordo e prolungato gridava
per tre volte rivolto al villaggio:
"Aggius meu, Aggius meu, e candu sarà
la di chi ti n'aggiu a pultà in buleu?"[2].
La minaccia infernale era il pronostico della
distruzione del paese; e il rullo prolungato che la precedeva significava che
un uomo era designato a morire di morte violenta. Così almeno diceva la
tradizione.
Figurarsi lo sgomento della popolazione! Si ricorse al
parroco, si chiamarono a consulta i ragionanti del paese, ma sempre
invano! Il diavolo non si dava per inteso e continuava a tormentarli.
Verso la metà del secolo XVIII ad uno zelante
missionario, capitato ad Aggius, venne l'ispirazione di piantare una croce di
ferro sul monte (che perciò venne chiamato poi il Monti di la cruzi)
per far fuggire il diavolo. E in quella notte spirò un vento così
gagliardo che sradicò molte querce secolari, e fece precipitare dai
monti più di un masso di granito. Tutte le case tremarono dalle
fondamenta, ma la croce stette salda sulla punta del monte.
Udendo quel baccano infernale i popolani corsero al
Rettore, che li rimandò a casa tranquilli dicendo loro: "Non
temete, è il diavolo che prepara le valigie per tornarsene all'inferno.
Non verrà più a tormentarci!". Pare però che il
diavolo non volesse rinunziare alle anime di cui aveva giurato la perdizione.
Aveva bensì abbandonato il monte della Croce, ma forse per ricoverarsi
sul monte Fraile o sul monte Pinna, donde, come per lo passato, continuò
a soffiare il livore sulle anime dei buoni aggesi, i quali, alla lor volta,
continuarono a dilaniarsi l'un l'altro, spargendo il terrore nella Gallura. La
croce del missionario è sopra un masso gigantesco, quasi isolato, che
misura da venti a trenta metri di altezza, e che forma il cucuzzolo del monte,
bersagliato dai fulmini e dai venti. In origine quella croce era di ferro, e vi
durò oltre mezzo secolo, finché un giorno, schiantata dalla
folgore, fu sostituita con un'altra di legno, che viene rinnovata ogni due o
tre anni╗.
La Conca della Madonna è una specie di
nicchia naturale scavata nel sasso. Dicesi che la Madonna vi abitasse qualche
volta per tener lontano lo spirito delle tenebre.
Il gran tamburo (su tamburu mannu) è una
gran lastra di granito a base convessa la quale posa sopra un blocco spianato.
Basta salire sull'orlo e far forza col corpo, perché la pietra oscilli,
dondoli, e produca un rullìo cupo, sordo, continuo, come il mugolìo
di un tuono in lontananza. Il gran tamburo di Aggius ha molta analogia colla
famosa pietra ballerina di Nuoro; la differenza è una sola:
quest'ultima, da parecchi anni, non balla più, - quello invece continua
a suonare - perché i curiosi che la tentano sono pochissimi. A memoria
dei più vecchi questo tamburo è sempre esistito; e gli si
annettono ancora non so quali malefici influssi. Dicono, per esempio, che
allorquando si ode il suo rullo è indizio certo che una persona è
morta, o deve morire di morte violenta!
La leggenda di Castel Doria
Interessanti sono le leggende intorno a Castel Doria;
e specialmente quella dell'ultimo principe.
Pare che questo misterioso maniero sia stato edificato
dai Doria verso il 1102, quando cioè i Genovesi fortificarono tutti i
loro possedimenti al nord dell'isola, e specialmente l'attuale Castel Sardo.
Esiste tutt'ora un'alta torre a cinque angoli, di
pietre rettangolari saldate l'un l'altra a cemento. Edificato su alte rocce
poco distanti dalla riva del Coghinas, il castello godeva di un grande
panorama, e verde ai suoi piedi si stendeva la pianura. La leggenda dice che un
condotto sotterraneo conduceva dal castello alla chiesa di San Giovanni di
Viddacuia, sita all'altra riva del Coghinas, e che questo sotterraneo i Doria
lo avessero scavato semplicemente per recarsi alla messa nei giorni di festa.
Un marciapiede conduce dalla torre alla Conca di la
muneta, dove, si dice, i Doria battevano denaro. Questa Conca, a
quanto ne ho potuto capire, pare sia una grande cisterna di una immensa
profondità: nel fondo esisteva una campana d'oro, e i passanti gettavano
una pietra, per farla suonare, talché ora la cisterna è piena in
fondo di pietre, e quindi la campana è invisibile e non suona più.
Una volta uno - è sempre la leggenda che parla
-, prima che le pietre dei curiosi avessero riempito di sassi il fondo della
cisterna, vi scese e trovò una porta che lo introdusse in quattro stanze
sotterranee, grandi e misteriose. In una trovò una verga d'oro, ed in
un'altra vide una grande porta di ferro serrata: questa porta doveva condurre
ad altri sotterranei dove i Doria tenevano nascosti i loro immensi tesori, e
dove battevano moneta, ma l'esploratore non poté neppure smuovere la
porta ferrea, come nessuno poté aprirla dopo la morte dell'ultimo
castellano. Talché i tesori ci si trovano ancora!
A ponente poi del castello si dice esistessero
altissimi bastioni, ombreggiati da alberi dove i Doria passeggiavano nelle ore
inerti della loro battagliera esistenza, e dove le castellane sognavano nelle
sere azzurre profumate dal fieno della pianura e dai giunchi del melanconico
Coghinas.
E tutto questo, il condotto sotterraneo che
attraversando il sotto letto del fiume conduceva a San Giovanni di Viddacuia,
la zecca dalle porte di ferro e l'alto bastione inalberato, tutto si collega
alla leggenda dell'ultimo principe.
I Galluresi dicono si chiamasse Andrea Doria, e forse
è il forte ammiraglio che nel 1527 riacquistò i possedimenti
occupati dagli Spagnoli, quello che la leggenda fa morire in modo così
strano.
Dunque, mentre il principe passava l'inverno nel
castello, una dama, moglie o figlia non so, di un cavaliere al servizio dei
Doria, e abitante nello stesso maniero, si innamorò perdutamente di
Andrea. Ma per quante moine, per quante appassionate dichiarazioni ella gli
facesse, egli non la volle sentire mai, anzi una volta, infastidito dall'amor
suo, per quanto ciò ripugnasse al di lui carattere cavalleresco e
gentile, la respinse rudemente, minacciando di espellerla dal castello se non
lo lasciava in pace.
Arsa dall'amore e dall'odio, dall'umiliazione subita e
dall'amore respinto, la dama si invocò ad una famosa maga côrsa,
che dall'alto delle rocce desolate dominava le due isole vicine - la Corsica e
la Sardegna - con le sue magie ed i suoi incantamenti. лMadonna╗, rispose la
maga, sentita la questione, лio non posso far nulla per voi. Il cavaliere
è devoto a San Giovanni, e San Giovanni lo preserva dagli incantesimi
d'amore. Nessun filtro e nessuna magia può influire nel suo cuore...
però, Madonna, io posso mettervi in comunicazione con qualcuno che ne
può più di me!...╗
La dama acconsentì: la maga allora la pose in
corrispondenza col demonio, e il demonio, in cambio della nobile anima sua, le
diede la potenza di trasformarsi, di fare dei malefizi e delle stregonerie.
Invasa dallo spirito infernale la innamorata dama
tentò ancora, in ogni modo, di procacciarsi l'amore d'Andrea Doria: ma
San Giovanni preservava il cavaliere dagli amori colpevoli, e vane riuscirono
quindi le ultime lusinghe di lei. Allora l'amore si trasformò in odio e
la dama si diede tutta al male e alla perversità. Un giorno fece
cambiare il suo volto in quello di una vecchia, si vestì da maga e si
introdusse nel sotterraneo che conduceva dal castello alla chiesa.
E mentre Doria, con qualche cavaliero di seguito, si
recava alla santa messa, la maga lo fermò e gli disse:
лNobile Messere, mi ha mandato a te San Giovanni di
Viddacuia, per dirti; bada, ti sovrasta una grande disgrazia! Il giorno che
vedrai i campi del Coghinas ricoperti di cavalli e cavalieri verdi, quel giorno
il tuo castello sarà espugnato e tu con la tua corte sarete appiccati
per la gola su gli spalti di Castel Doria!..╗.
Ciò detto sparì! Non è a dire
quale stupore e qual vaga paura invadesse l'animo dei cavalieri a tale arcana
profezia. Andrea Doria, specialmente, fu colto da una grande melanconia, ma si
fece animo, fortificò il castello e attese, sicuro di non lasciarsi
vincere. Per ogni caso mandò le chiavi del sotterraneo, che racchiudeva
i tesori, ad una sua sorella abitante in Genova, e, ridente in Dio e in San
Giovanni, aspettò.
La perfida donna, intanto, lavorava lavorava... Venuto
il mese di maggio, allorché i campi del Coghinas erano coperti di
asfodelo e di fieno altissimo, ella compì la sua magia. In una notte
trasformò tutti i fusti dell'asfodelo e i flessuosi gambi del fieno
fresco in tanti cavalli verdi, montati da guerrieri armati di scudi e di lancie
verdi, vestiti da tuniche e da corazze verdi! Quando all'alba Andrea Doria
scese sui bastioni per aspirare la fresca brezza dell'aurora floreale,
impallidì mortalmente.
Egli vedeva!... Vedeva il suo castello assediato da
quell'armata verde, immensa, che si perdeva nell'orizzonte, e sentiva che fra
poco questo immane e misterioso nemico, venuto all'improvviso da terre ignote -
senza che i messi e gli araldi spediti in tutte le corti italiane e straniere
perché lo avvisassero se mai qualche esercito si muoveva, avessero dato
nessun allarme -, avrebbe invaso e debellato il suo forte.
E la terribile profezia della maga gli tornava al
pensiero: Sarai appiccato per la gola su gli spalti di Castel Doria!...
Mai! Mai! Mai! Prima sarebbe morto di mano sua! E
infatti, vista la verde armata avanzarsi sempre più numerosa e
minacciosa, il prode Doria si precipitò dal bastione e morì
sfracellato sulle rocce sottostanti! Lui morto l'esercito verde sparì, e
tornò l'asfodelo e tornò il fieno nei campi del Coghinas. E nella
fresca serenità della azzurra mattina echeggiò un riso diabolico,
un triste riso di anima dannata. Era la dama-maga che dall'alto del suo
ballatoio aveva veduto compiersi la vendetta!...
Saputa la morte del fratello, la sorella di Genova,
che conservava le chiavi dei tesori e della zecca, si imbarcò per la
Sardegna, onde aprire i sotterranei e trasportare i tesori al Continente, ma in
mare fu colta da una terribile malattia.
Prevedendo la sua morte si fece trasportare in coperta
e all'entrare in agonia gettò le chiavi in mare, con gli occhi morenti
fissi nella fatale e affascinante isola lontana ove dormiva l'ultimo sonno il
suo beneamato e infelice fratello.
Anch'essa morì: sepolta nelle tombe di smeraldo
del Mediterraneo, nessuno seppe più aprire la Conca di la muneta,
e i tesori dei Doria splendono ancora laggiù, nell'ombra del sotterraneo...
Molti anni dopo la morte di Andrea, un pecoraio,
passando una notte vicino a Castel Doria, vide sulla muraglia del bastione una
porta illuminata. Entrò e vide uno splendido negozio, immenso, ripieno
di tutti i generi che si possano immaginare: stoffe, tele, broccati,
chincaglierie, mobili meravigliosi, fiori, marmi, dolci, cristalli, perle ed
oro.
D'oro c'erano anche grandi statue e lampade accese, e
una bellissima donna, vestita di veli bianchi e piena di gioielli, stava dietro
il banco di alabastro. лPiddani e lassanni╗[3],
disse ella al pecoraio, con un dolce sorriso, additandogli ogni cosa. Ma
quell'imbecille, ricordandosi che aveva molto bisogno di biancheria, non prese
che una pezza di tela e se ne andò. Tornò subito da sua madre e
dai suoi fratelli e raccontò la sua avventura. L'intera famiglia si
avviò la stessa notte a Castel Doria: videro da lontano l'intensa luce
della muraglia, ma a misura che si avvicinavano la luce sparì. Arrivati
ai piedi del castello videro solo la muraglia nera e triste nella notte scialba
e silenziosa!
Il castello di Galtellì
Una notte dello scorso dicembre restai più di
due ore ascoltando attentamente una donna di Orosei che mi narrava le leggende
del castello di Galtellì[4].
Il suo accento era così sincero e la sua
convinzione così radicata che spesso io la fissavo con un indefinibile
sussulto, chiedendomi se, per caso, queste bizzarre storie a base di
soprannaturale, che corrono pei casolari del popolo, non hanno un fondamento, e
qualcosa di vero.
Il castello di Galtellì - la Civitas
Galtellina, altre volte così fiorente e popolata, ora decaduta in
miserabile villaggio - è interamente distrutto; restano solo i ruderi
neri e desolati, dominanti il triste villaggio, muti e severi nel paesaggio
misterioso.
La leggenda circonda quelle meste rovine con un
cerchio magico di credenze strane, fra cui la principale è che l'ultimo
Barone, ovvero lo spirito suo, vegli giorno e notte sugli avanzi del castello,
in guardia dei suoi tesori nascosti.
Di giorno è invisibile, ma nella notte, sia
calma o procellosa, chi si azzarda a visitare le rovine vede il Barone
passeggiare lentamente, intorno intorno, vagando per i roveti e i massi, o
lungo le nere muraglie, ricordando i giorni fastosi della sua esistenza.
È giovine ancora, tristissimo in viso, vestito alla medioevale, con la
spada al fianco e il collo circondato dal vaporoso collare di lattughe
trapuntate. Qual fato lo ha condannato a vagare così, sempre, per secoli
e secoli, sulle rovine del suo superbo maniero, ritrovo un giorno di letizia e
di splendida potenza? Non si sa; forse è una scomunica del papa, forse
una maledizione particolare. Oltre a lui si crede che altri spiriti, ancora in
forma umana, esistenti nel castello, vaghino in sotterranee stanze, ma che non
escano mai.
È la famiglia dell'ultimo Barone: la moglie, la
figlia, il genero ed un nipotino, nato, quest'ultimo, nel modo strano che
racconterò poi.
Come in Castel Doria si dice che anche qui ci sia un
condotto sotterraneo, però questo conduce assai lontano, sino ai
castelli del sud dell'isola, sino a Cagliari anzi, attraversando grandi catene
di montagne, fiumi e pianure!...
Lo spirito del Barone è mite e generoso. Non ha
mai fatto del male a nessuno, anzi ha spesso beneficato dei poveri viventi.
Una volta un misero contadino del villaggio, mentre
ritornava dalla campagna con un fascio di legna sulle spalle, sopravvenutagli
la sera in cammino, si fermò un momento ai piedi del castello rovinato.
La notte era freddissima, ma la luna splendeva
vivamente, e il contadino poté distinguere un signore che passeggiava
sulle alture vicine. Curioso e coraggioso il contadino salì un poco
più su e guardò questo bizzarro signore che si permetteva di
passeggiare tranquillamente in tal luogo e così tanto freddo.
Il signore allora si accorse di lui e si fermò.
Era biondo e soave di volto, con due grandi occhi vitrei ed appannati, immersi
nel dolore di una eterna tristezza. лChi sei?╗, chiese dolcemente al viandante.
Sentita la risposta, guardò fissamente il fascio della legna che il
contadino aveva deposto nel sentiero, e disse: лMia figlia e mia moglie hanno
tanto freddo, tanto! Vuoi tu darmi la tua legna?..╗.
лE perché no?╗, esclamò l'altro conquiso
dalle belle maniere del misterioso signore. E trasportò il fascio sulle
rovine, e non volle accettare la piccola ricompensa che il signore voleva
dargli.
Ma poco tempo dopo tutti nel villaggio videro una cosa
sorprendente. Il povero contadino acquistava terreni, case, pascoli e spendeva
come un riccone. In breve egli diventò il più benestante del
paese, e per liberarsi dalla fama di ladro o che, dovette rivelare la
verità. Dopo la prima notte egli era ritornato molte volte al castello e
aveva provveduto di legna, per tutto l'inverno, gli abitanti invisibili e
spirituali di quelle rovine. In cambio il Barone gli aveva donato molte e molte
borse piene d'oro!...
La leggenda poi, o la tradizione, che pare
recentissima, del nipotino del Barone è questa.
Una notte una donna del villaggio sentì
picchiare alla sua porta, e apertala vide un cavaliere magnificamente vestito,
che le disse: лPresto, venite con me. Si ha bisogno di voi!╗.
Essa, che era poverissima e che trovava pochissime
occasioni di tentare la fortuna, non si fece pregare. Vestì la sua
tunica e seguì il cavaliere, che camminava rapidamente, senza fare il
minimo rumore, davanti a lei. Attraversarono il villaggio e uscirono in
campagna. La donna, inquieta, chiese:
лMa per dove mi conduce, monsignore?╗.
лVenite e non temete di nulla!╗, rispose lui. La sua
voce era così gentile e soave che la donna si rassicurò e
continuò a seguirlo in silenzio. Il cavaliere la condusse alle rovine
del castello e pigliandola per mano l'introdusse nelle sale sotterranee di cui
essa aveva tante volte sentito parlare.
Queste sale erano uno splendore di lusso e di
magnificenza. Coperte di arazzi e di cortinaggi di broccato, ammobigliate come
deve essere ammobigliato il Paradiso, venivano illuminate da grandi candelabri
d'oro e di perle preziose. In una di esse v'era un letto ricchissimo, e su
stava coricata una giovine dama pallidissima e bella, in preda a crudeli
sofferenze. Un'altra dama, più vecchia, bella e soave anch'essa,
l'assisteva, e un giovine cavaliere andava disperatamente da un capo all'altro
della sala.
Più tardi, la donna presentava, affondato fra
nastri e trine, un bellissimo pargoletto, dicendo alla dama attempata:
лEcco un grazioso dono, monsignora!...╗.
Ma la dama, baciato il bambino, sorrise tristemente e
rispose: лMa non è del tuo mondo, buona donna!...╗.
Finito tutto, il cavaliere vecchio riprese per mano la
donna, la condusse fuori e l'accompagnò fino a casa sua. Rimasta sola
essa si meravigliò del come non era stata ricompensata da quella strana
gente, ma l'indomani mattina, aprendo la porta, trovò sul limitare una
gran borsa piena di monete d'oro.
лPer ciò╗, conchiuse la donna che mi
schizzò le leggende del castello di Galtellì, лper ciò ora
i discendenti di quella donna sono fra i più ricchi del paese!╗
La leggenda di Gonare
I santi, Nostra Signora e Gesù stesso in
persona pigliano spesso viva partecipazione in molte leggende sarde. Non
c'è Madonna che non abbia la sua storia, e quasi tutte le chiese,
specialmente le chiesette di campagna, le piccole chiese brune perdute nelle
pianure desolate o nei monti solitari, e che hanno l'impronta delle costruzioni
pisane o andaluse, sono circondate da una tradizione semplice o leggendaria.
Qui ne ricordo due. La prima è della chiesetta edificata in cima al
monte Gonare, presso il villaggio di Orane, a 1120 metri sul livello del mare.
Gonare è una delle montagne più caratteristiche della Sardegna,
ed il suo picco azzurro, in forma di piramide, si scorge da moltissimi punti
dell'isola.
La chiesetta è edificata proprio in cima:
simbolica sfida ai fulmini, ai venti e alle procelle; e la leggenda è
questa: Gonario di Torres, giudice del Logudoro, sorpreso una volta da una
terribile tempesta, mentre navigava sui mari occidentali della Sardegna,
promise alla Madonna di edificarle un santuario su la prima cima di monte che
scorgesse, se lo salvava dal pericolo di naufragare. Fatta appena la promessa,
ecco, come per incanto, la procella si calmò, e tra le ultime nuvole
diradantesi per l'orizzonte, il pio Gonario distinse una montagna azzurra, che
gli dissero esser vicina al villaggio di Orane. L'anno stesso il giudice fece
costruire a sue spese il tempio modesto, e la montagna prese il nome di
Gonario, che a poco a poco si ridusse in quello di Gonare.
La Madonna gradì tanto l'omaggio del nobile
signore che si degnò di scendere nella Sardegna per visitare il suo
nuovo santuario. Mentre saliva a piedi su l'erto sentiero della montagna si
appoggiò, stanca, ad un masso, per riposarsi. E si mostra ancora quel
masso, solcato da una piccola incavazione che, dicesi, sia la traccia lasciata
dalle spalle di Nostra Signora. Le donnicciuole si appoggiano devotamente a
quel masso e raccolgono della polvere raschiata dallo stesso. L'appoggiarsi
così preserva, dicono, dai dolori alle spalle, e la polvere guarisce
dalle febbri!
Mentre la Madonna discendeva dal monte di Gonare,
incontrò Santa Barbara e le disse:
Barbaredda de Orzai,
Ube
tind'ana a ponner
No nor
bidimus mai![5]
Infatti la chiesa di Santa Barbara fu edificata nel
villaggio di Olzai, vicino a Gonare, ma in una bassura che non si scorge tra
l'immenso panorama godentesi dalle cime di Gonare.
San Pietro di Sorres
Questa leggenda la lessi tempo fa in un giornale
letterario sardo, La terra dei nuraghes, diafanamente scritta da Pompeo
Calvia, uno dei più gentili poeti sardi.
È sulla chiesa di S. Pietro di Sorres, vicino a
Torralba: un'antica chiesa storica, ora quasi rovinata, ritenuta, dice il
Calvia, per il più antico monumento dell'arte medioevale che vanti la
provincia. La dolce e misteriosa leggenda narra che viveva anticamente, forse
verso il mille, un giovine mastro di Sorres, artista, poeta gentile; il quale
tornando nel suo paese dopo aver studiato oltremare, presso un pittore ed
architetto famoso, rimarcò nel villaggio una finestra misteriosa лdove
con molta grazia ed abbondanza crescevano le rose, e le campanule
s'intrecciavano alle spirali delle colonnine╗, che non si apriva mai, e tra i
cui fiori non appariva mai nessuna testa. Solo ogni mese un arazzo intessuto di
astri, di figurine e di foglie d'alloro, sventolava leggero sul davanzale, ma
invisibile era la mano che lo spargeva e lo ritirava. Mosso dalla
curiosità il giovane artista chiese informazioni su quella casetta
arcana; ma nessuno gliele seppe mai dare. Il mistero più intenso regnava
là intorno.
Allora il giovine si recò una notte ad
origliare presso quella finestra e sentì solo una soavissima voce di
donna cantare лcome un canto di cigno che muore╗, e sentiva pure il muoversi
leggero delle spole di un telaio.
Arso dalla curiosità l'artista un'altra notte
prese la sua mandola e cantò una triste appassionata canzone sotto la
finestra bizzarra. Poi, siccome la neve cadeva e la notte era cruda,
picchiò chiedendo asilo e dicendosi un viandante smarrito. Ma una voce
soave gli rispose: лIo non ho pane da darti, nel mio piccolo giaciglio non sono
che spine; mille e mille gradini granati devi salire per arrivare a me che
sì vicina ti sembro. Quando vi arrivi sono fredda come la morte.
Viandante, va!╗. E siccome lui insisteva lo consigliò di ricovrarsi
nella chiesa vicina, ma egli replicò che la chiesa cadeva in rovina e
dentro ci nevicava come fuori.
лFatene una voi, allora!╗, esclamò la voce.
лIo farolla se voi m'ispirerete il disegno!╗
лTe lo darò, va!╗ E la voce non parlò
più.
Il giovine se ne andò, e dopo molti mesi vide
nella finestra sparso un magnifico arazzo con una chiesa pisana ricamatavi. Era
meraviglioso: vi si scorgeva tutto l'interno, coi più minuti
particolari, e l'artista capì subito e si scolpì in testa quel
disegno. Ma abbisognavano molti denari per costrurre un simile tempio e il
paese era poverissimo. Come fare? Il giovine, innamorato perdutamente della
misteriosa abitatrice di Sorres che gli aveva proposto la costruzione della
chiesa, deciso di adempiere la sua promessa pur di giungere a conoscerla,
dipinse una Madonna in campo d'oro, con un mandorlo fiorito in mano, e regalò
la squisita sua dipintura alla vecchia chiesa cadente. Tutti ammirarono il
quadro, e una mattina videro che la Madonna invece del mandorlo teneva in mano,
una chiesa. Era simile a quella dell'arazzo, ed era stato il giovine che,
introdottosi furtivamente nella notte in chiesa, l'aveva dipinta, cancellandovi
il mandorlo. Si gridò al miracolo, e si disse subito che la Madonna
voleva una chiesa così! Allora un fraticello prese il dipinto miracoloso
e corse per i castelli ed i contadi e le ville raccogliendo denari e offerte
per la costruzione della chiesa. E quando ebbe riempito d'oro molti forzieri
propose al giovine mastro di Sorres di edificare il tempio. Egli
accettò: molti operai vennero chiamati all'opera e in breve - non
ostante i mali spiriti che ogni notte distruggevano il fabbricato -, la chiesa
sorse, bella e ricca come nel disegno dell'arazzo!
Nella notte precedente il dì della
consacrazione, mentre tutto il villaggio, animato dalle genti dei villaggi
vicini, festeggiava il grande avvenimento, il giovine mastro si recò
alla casetta misteriosa e batté alla porta.
лChi sei tu?╗, chiese la dolce voce incantatrice.
лSon venuto a prendere un fiore dalle tue mani e porlo
alla Madonna, sospirò il giovine, aprimi!...╗
лBene sta, vengo.╗ La porta si aperse per incanto ed
il giovine si trovò dinanzi alla misteriosa, che pareva vestita
d'argento, con una stola nera sulla veste, sparsi i biondi capelli sulle spalle
e pallidissimo il viso che spiccava nettamente innanzi ai ricami delle pareti,
i quali sempre s'andavano cangiando, in intrecci di rabeschi e figure
perfettamente intessute e disegnate. Nel mezzo di dette stoffe, immutabile
campeggiava la chiesa di San Pietro di Sorres. In un canto stava il telajo, e
d'oro tutti parevano i fili. La bella accennò con gli occhi sereni,
senza mutamento, tutta composta nella soavità dell'atto come le figure
che si vedono nei mosaici bizantini. Aveva al piedi ramoscelli d'olivo e nelle
mani rami di alloro con le bacche d'oro.
La bella lasciò andare una foglia di lauro, ed
egli si chinò per raccoglierla, e come vide che la donna accennava
d'avvicinarglisi, bella così come i sogni dell'ideale, il giovine si
avvicinò ed un bacio pose su quelle labbra divine. Ma non appena ebbela
baciata, che tutto si sentì un gelo come di sfinimento per le membra, e
cadutole ai piedi, dolcemente guardandola morì!
La scomunica di Ollolai
Radicatissima è ancora nel popolino sardo la
credenza che la scomunica del papa o magari di un semplice sacerdote, apporti
davvero maledizione su chi è lanciata e sulle sue generazioni.
A tal proposito ho trovato fra le altre questa
leggenda. In un villaggio del circondario di Nuoro c'era un ricco monastero i
cui frati spadroneggiavano non solo sulle loro proprietà e sui loro
sottoposti, ma in tutte le terre e gli abitanti vicini. Perciò erano
sommamente malvisti, e già, segretamente, gli abitanti del villaggio
avevano inviato molte suppliche al Santo Padre perché mettesse un freno
alle angherie loro. Ma a Roma si pensava ad altro che al piccolo villaggio
sardo: allora un gruppo di giovini un po' scapestrati e senza pregiudizi decise
di far qualche tiro ai monaci, che li screditasse presso il papa e segnasse la
loro rovina. L'occasione li favorì stranamente. Un giorno di festa, in
cui nella chiesa del monastero si facevano solenni funzioni, morì
improvvisamente un bambino, forse figlio d'uno dei congiuranti contro i monaci.
Senza che nel villaggio se ne spargesse la notizia quei giovanotti presero il
cadaverino e lo gettarono, di notte, in un pozzo del chiostro.
L'indomani tutto il villaggio commentava la scomparsa
del fanciullo, che il giorno prima era stato veduto aggirarsi, sano e lieto,
con gli altri bambini della sua età, per le navate della chiesa dei
monaci. E cerca e cerca e cerca fu finalmente ritrovato il cadavere nel pozzo!
Figurarsi l'indignazione e il furore del popolo! Perché subito si disse
che il bimbo era stato trucidato dai frati, chissà perché. A
stento se la scamparono, ma giunta la notizia dell'immane delitto alla corte
del Giudice di Logudoro questi, d'accordo col papa, mandò un bando, che
il monastero venisse distrutto e i monaci cacciati in esilio.
Invano i poveretti cercarono giustificarsi; né
a Roma né in Ardara, sede allora dei Giudici, fu concesso loro né
ascolto né pietà. Il convento venne diroccato e i monaci,
già sì forti ed opulenti partirono raminghi. Ma prima di
andarsene essi scagliarono le loro più formidabili scomuniche su gli
abitanti del villaggio e sui loro discendenti. Infatti, d'allora in poi, la maledizione
gravò su questo villaggio: le pestilenze, le carestie, le disgrazie
più inaudite piombarono in ogni tempo su di esso, e, ciò non
bastando, gli abitanti, rôsi dagli odi e dalle inimicizie più
funeste, si dilaniarono tra loro, massacrandosi e sperdendosi a vicenda.
Madama Galdona
Pare ci fosse a Sassari una ricca dama, molto pia e
devota, chiamata madama Galdona, la quale, venuta a morire, testò un suo
possedimento ai frati di non ricordo più qual ordine. Spossessati questi
dei loro beni dal Governo, si dice, sparsero la scomunica sul podere. E infatti
tutti coloro che l'acquistarono, uno dopo l'altro, subirono molte disgrazie. E
la dama (prima possessora) ovvero il suo spirito, vaga di tanto in tanto fra
gli alberi del podere borbottando maledizioni e scongiuri contro gli
spogliatori dei suoi benamati e prediletti eredi.
Queste le leggende sarde serie e tradizionali.
Come ho già detto, in Sardegna le leggende sono infinite, tutte
improntate dalle fantasticherie meridionali dei popoli che in ogni tempo
vennero a mescolarsi col nostro. A raccoglierle tutte se ne formerebbero dei
grossi volumi, ed io qui ne ho esposto solo qualche esemplare, scelto fra le
più corte, le più gentili e le meno intrecciate.
Prologo[6]
Oggi io voglio narrare due graziosissime leggende
nostrane alle spirituali lettrici di Vita Sarda. Ora le leggende sono di
moda, e nella rinascente fioritura degli studi popolari, verso cui tutti,
pensatori, scrittori, poeti, volgono lo sguardo, quasi ad un fresco lido ove
approdare, dopo tante oscure tempeste letterarie, la leggenda ha il primo posto,
senza parerlo. La leggenda è aristocratica, è artistica, è
volgare e popolare nello stesso tempo; desta lo stesso interessamento nello
spirito fine della signora colta e nella fantasia rozzamente poetica della
popolana; nell'animo sognatore dell'artista e nella percezione spregiudicata e
indagatrice dello scienziato. La leggenda richiama l'attenzione del poeta e
dello storico, che la sfronda per trovare nel suo fusto le tracce delle
generazioni sepolte, l'indole delle generazioni viventi e il germe di quella
delle generazioni future.
Può destare lo stesso fremito nei circoli gai
dei salotti eleganti, e negli intenti animi dei pastori riuniti intorno al
triste focolare - nei fanciulli e nei grandi -, e può, infine, fornire i
materiali per un volume serio, dotto, scientifico, e per un volume di amena
lettura, spumoso, elegantemente inutile.
Ho studiato altrove, benché rapidamente, il
carattere della leggenda sarda, che, all'infuori dei cicli di leggende
sarcastiche, vòlte a porre in satira un dato personaggio o un dato
villaggio, ha il profilo serio e melanconico delle tradizioni meridionali.
Dirò qui alla sfuggita che la Sardegna, terra
per sé stessa leggendaria e misteriosa, è piena di leggende. Ogni
chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia
(tratto di regione che ha un dato nome), ogni grotta, ogni dirupo, ogni
montagna, ogni landa ha la sua leggenda. Talune leggende si incrociano e si
confondono con le fiabe, - ed una di queste è la prima delle due che
oggi ho il piacere di narrarvi, - al verosimile mescolando il fantastico, con
lontane reminiscenze delle leggende nordiche, delle saghe, delle fiabe
fiamminghe o alemanne, - ma la miglior parte ha una esplicazione tutta locale,
che ne delinea nitidamente il carattere.
Sono personaggi storici che si mescolano coi diavoli,
con le fate, con le streghe e le janas; sono i giganti, da cui il popolo
sardo crede fossero abitati i nuraghes, sono i Saraceni, i Pisani, i
Genovesi, gli Spagnoli, i Giudici, i Vescovi che in ogni tempo, - dopo la
dominazione romana, di cui soltanto i Sardi, pur restando tanto profondamente
latini, negli usi e nella favella, non si ricordano quasi, - fecero del bene e
del male all'isola. Sono i Doria e i Malaspina, sono i giudici di Torres, i vicerè
aragonesi, i frati, le maliarde fiorite nel medio-evo, sono le scorrerie e le
avventure dei pirati saraceni, negli ultimi secoli prima del mille, sono
artisti ignoti, forse del trecento e del quattrocento, non ricordati neppure
dalle scarse cronache sarde, e dame misteriose e santi e guerrieri, e talvolta
lo stesso Gesù o la stessa Maria.
Molte poi delle leggende sarde hanno un vero valore
storico, specialmente quelle di talune chiese e di qualche montagna. Senza
ombra di fantasticheria, senza fronde, senza personaggi sovrannaturali,
formerebbero, se ben raccolte e ben studiate, degli elementi, dirò anzi
dei documenti vivi, utili per la storia sarda.
I tre fratelli[7]
Nella catena di monti che circondano Nurri, e
precisamente nel monte chiamato Pala Perdixi o Corongius,
c'è una grotta naturale, assai ampia e interessante, dove i contadini e
i pastori si rifugiano per riposarsi, e talvolta per passarvi la notte. Una
volta tre fratelli, tre buoni abitanti del villaggio, stanchi di aver raccolto
olive tutta la giornata entrarono, verso sera, per riposarsi in questa grotta.
Mentre stavano ragionando tranquillamente fra loro di cose di campagna, e
cenando con del pane e del magro companatico, videro entrare tre donne, che si
fermarono dubbiose sull'ingresso, guardandoli con diffidenza. Ma subito essi,
da buoni giovani che erano, le invitarono gentilmente ad avanzarsi ed a prender
parte alla loro cena. Le donne accettarono. Finito il pasto, dopo molti inutili
ragionamenti, esse chiesero ai tre lavoratori chi fossero e come si chiamavano.
лSiamo tre fratelli orfani╗, risposero essi con buona grazia,
лe lavoriamo per vivere. Siamo tanto poveri che se sapessimo come migliorare la
nostra condizione davvero che lo faremmo volentieri.╗
Le tre donne che erano tre streghe (orgianas) o
meglio tre fate, si consultarono con lo sguardo, prima; poi parvero combinare
qualcosa fra loro, con uno strano linguaggio che sembrava piuttosto un
miagolio.
Quindi la più vecchia si levò di tasca
una tovaglia e la diede al maggiore dei fratelli dicendogli:
лBuon giovine, prendi questo dono che ti faccio da
vera amica. Tutte le volte che vorrai mangiare, tu, i tuoi fratelli e tutta la
compagnia, non avrai che da sbattere tre volte questa tovaglia, stendendola
poscia dove tu vorrai. E sopra di essa ti comparirà ogni ben di Dio╗.
La seconda delle fate si rivolse al secondo fratello e
gli offrì un portafogli dicendogli:
лE tu prendi questo. Tutte le volte che lo aprirai ci
troverai denaro a tua volontà╗.
La più giovine intanto porgeva un piffero (sas
leoneddas) al terzo, con queste parole: лQuesto strumento da fiato che io ti
do servirà non solo per te, ma per tutti coloro che lo suoneranno e lo
udranno. Va', caro fanciullo, io non ho altro di meglio, ma vedrai che questo
umile dono ti renderà un servigio maggiore di quello che renderanno ai
tuoi fratelli la tovaglia e il portafogli╗.
Dopo tutto questo i giovani e le tre fate si
congedarono amabilmente, ringraziandosi scambievolmente e dicendosi il rituale teneis'accontu
(tenetevi bene) dei sardi meridionali.
I tre giovani, possessori di quei talismani
meravigliosi, non avendo più bisogno di lavorare, presero a viaggiare
per le città dell'isola in cerca di avventure e di piaceri.
Da per tutto lasciavano tracce di beneficenza e di
generosità - giovani di buon cuore come erano -, ma un giorno un prete
potente e strapotente intimò loro di lasciar l'uso dei loro talismani,
pena la scomunica e il carcere.
Qui (apro una parentesi) la leggenda non parla chiaro,
ma probabilmente questo brano è un vago ricordo dell'Inquisizione
impiantata in Sardegna verso la metà del secolo XV, ma esercitata anche
prima d'allora da alcuni frati minoriti, e importata naturalmente dalla Spagna.
I tre fratelli risero per l'intimazione del prete. I
talismani erano invisibili a tutti, tranne che ai loro possessori; quindi essi
non avevano di che temere. Alle replicate minacce del prete il più
giovane dei fratelli si pose a suonare il piffero, che aveva l'incanto di far
ballare con la sua musica tutti coloro che la sentivano, tranne i tre fratelli.
Ed ecco il prete che, contro volontà, si diede a ballare con uno slancio
proprio ridicolo e irrefrenabile.
Accorse molta gente; ma a misura che si accostavano e
che sentivano distintamente il magico suono, tutti ballavano senza potersi mai
fermare. In breve la strada fu piena zeppa di gente che pareva impazzita, che
saltava smaniando, contorcendosi, chiedendo grazia al misterioso suonatore.
Costui però si divertiva molto nel veder ballare il prete, che grasso e
tondo soffriva più degli altri in quella danza infernale, e non smise
finché non lo vide cadere a terra sfinito e svenuto.
I tre fratelli, dopo tutto ciò, si diedero alla
fuga, ma ben presto furono raggiunti, legati e gettati in fondo ad una torre.
Ma anche laggiù essi si divertivano suonando,
ballando e mangiando insieme con gli altri prigionieri ed ai custodi della
torre.
Perciò il loro processo fu presto sbrigato, e,
condannati a morte, furono dopo pochi giorni condotti alla forca. Una fiumana
immensa di gente, anche dei paesi lontani, si accalcava intorno intorno per
godersi lo spettacolo dell'impiccagione dei tre fattucchieri.
Sul punto di morire i tre condannati chiesero ai
magistrati presenti di accordar loro una grazia per uno. E siccome ai
condannati non viene negata un'ultima grazia, tranne quella della vita, i tre
fratelli ebbero ciò che chiedevano.
Il primo chiese di offrire un pranzo a tutta la
moltitudine, compresi i giudici.
La proposta fu accolta con entusiasmo dalla folla, e
subito il giovine stese la sua tovaglia sul palco. Ogni sorta di pietanze, di
frutta, di dolci e di vini squisiti compariva sulla strana mensa.
La gente mangiava e beveva a crepapelle, ma più
se ne consumava più grazia di Dio abbondava sulla tavola.
In breve tutti, sgherri, carnefici, popolo e
magistrati furono ebbri e sazi a più non posso. Allora il secondo
fratello chiese la grazia di distribuire del denaro. Figuriamoci se fu
concessa! Aperto il portafogli incantato, il condannato distribuì enormi
somme, in monete e lettere di cambio (i biglietti di banca non esistevano
ancora) a quei poveri diavoli di soldati, di contadini e di pastori che mai
avevano veduto una simile meraviglia.
Mentre tutti si abbandonavano ad una pazza allegria -
come avremmo fatto anche noi, scrivente, lettrici e lettori, non ostante la
nostra serietà e il nostro nobile disprezzo per il denaro -, il terzo
fratello chiese, così tanto per formalità, la grazia di suonare.
Sperando un altro benefizio, i giudici e la folla accordarono a grandi voci
quest'ultima grazia. Il giovine ritto sul palco fatale, si mise a suonare e immantinente
tutta la folla briaca, i giudici, le soldataglie e i carnefici si diedero ad
eseguire una danza furiosa, macabra, spingendosi gli uni sugli altri,
pestandosi, urtandosi, cadendo a terra chi svenuto, chi ferito e chi persino
morto. E nella terribile confusione i tre condannati poterono svignarsela e
porsi in salvo coi loro talismani.
Monte Bardia
Questa leggenda risale all'ottavo o nono secolo. Dopo
l'insurrezione dei sardi contro la dominazione bizantina, fuggiti i fiacchi
Greci da Cagliari, l'isola si resse da sé per qualche tempo, governata
dal famoso re Gialeto, ch'era già stato capo dei rivoluzionari. Ma venne
tosto infestata dai Saraceni, che la sbranarono con ogni sorta di scorrerie, di
espilazioni, di saccheggi e di rovine. Le coste dell'isola erano costantemente
piene di pirati e di guerrieri saraceni, e i villaggi marittimi erano quelli
che più certamente ne soffrivano. Gli abitanti di Dorgali, grosso
villaggio nel circondario di Nuoro, vicino alla costa orientale, ma difeso da
un'alta montagna calcarea, tenevano sempre un gruppo di uomini forti e valorosi
sulla cresta del monte, in guardia contro tutti i movimenti dei saraceni
accampati sulla sottostante costa. Era una specie di assedio.
I saraceni spiavano il momento di poter passare sui
monti senza pericolo, ma i Dorgalesi stavano fermi alla guardia. Così
scorreva il tempo inutilmente, allorché i saraceni fecero una falsa
ritirata.
Ingannati da ciò e spinti dalla loro profonda
fede religiosa, un giorno di festa solennissima i Dorgalesi della guardia
abbandonarono i loro spalti naturali e scesero al villaggio per assistere alle
sacre funzioni. Tosto i saraceni sbarcarono e salirono sul monte, ma mentre
stavano per piombare sul villaggio si fermarono paurosi a guardare. Vedevano
una immensa fila di persone vestite a vivaci colori, con in mano strani
bastoncini bianchi e croci e randelli e bandiere, sfilare per le vie di
Dorgali, incamminandosi come alla montagna. Era una processione. Ma ai
saraceni, per volere della Madonna, la processione, così veduta
dall'alto e da lontano, parve un esercito di soldati armati che si preparasse
ad inseguirli e disperderli. Perciò si diedero a precipitosa fuga e
qualcuno restò appiccato per i capelli agli alberi della montagna. Uno
di questi alberi mi pare anzi che si chiami ancora ed appunto del saraceno.
Questa è la leggenda gentile dei monti di
Dorgali, immortalata da una delle punte principali, che in memoria di tal fatto
si chiama della guardia (de sa Bardia).
La nascita delle leoneddas (vecchia leggenda
musicale)[8]
Poco distante dalla riva del mare un antico pastore
pascolava le sue gregge.
Era in un tempo lontanissimo, in una primavera quasi
preistorica; ma il paesaggio era quale ancora si ammira adesso, una fresca
pianura verde, chiusa da montagne quasi nere sul cielo d'un azzurro chiaro, e
lambita dal mare; la capanna del pastore era eguale alle odierne capanne dei
pastori sardi; e lo stesso era il pastore, vecchio ma ancora possente, coi
lunghi capelli e la lunga barba gialla, gli occhi neri circondati di rughe, e
vestito di rozzi pannilani e di pelli.
Il vecchio si chiamava Sadur, (ed io non so
l'etimologia di tal nome, ma ritengo che da questo provenga il moderno Sadurru,
che poi vuol dire Saturnino) e viveva con la moglie ancor giovane e la figlia
Greca.
Qua e là per la pianura sorgeva qualche altra
capanna e viveva qualche altro pastore.
Donde venivano quei primi sardi, con le loro donne
piccole e brune, e con le gregge ancora selvatiche?
Forse i padri loro erano venuti anch'essi dalle coste
d'oriente, con barche di predoni; e dico anch'essi perché, di tanto in
tanto, sul mare argenteo disegnavasi l'ala rossastra di qualche vela fenicia,
sbarcava un gruppo d'uomini pallidi, vestiti di corte tuniche grigie, coi
sandali ai piedi e in testa un berretto a cono. E si spandevano sulla pianura
come un turbine e incendiavano le capanne, predavano ciò che potevano,
sgozzavano le pecore e banchettavano sotto gli alberi.
Sadur nutriva un odio feroce contro questi sgraditi
visitatori, che l'avevano più volte rovinato. Spesso s'era salvato con
le donne e il gregge sulle montagne, ritornando alla pianura quando le vele
rosse sparivano lentamente all'orizzonte, nei violacei crepuscoli marini; ma
ora vedeva avvicinarsi con dolore l'estrema vecchiaia e sentiva tristemente
svanir le sue forze.
Chi avrebbe salvato oltre le sue donne e le sue
gregge?
Egli sedeva melanconicamente sul limitare dell'ovile,
e guardava inquieto la linea chiara del mare.
Da qualche tempo, però, anzi da qualche anno,
nessuna disgrazia aveva turbato la vita di quei primi pastori sardi. Solo,
dall'interno dell'isola, giungeva, di quando in quando, qualche negoziante
primitivo. Recava frumento, legumi, pannilani, frutta secche, armille e altri
gioielli di bronzo: in cambio riceveva lana, miele, formaggio, unghie di
pecora, e ripartiva.
Le donne macinavano il frumento fra due pietre, cuocevano
le focacce, cucivano le vesti.
Sadur guardava le gregge, e fissava gli occhi nel
mare. Nonostante la pace di quegli ultimi anni, non si sentiva tranquillo. I
suoi occhi si indebolivano, i suoi denti ferini si muovevano entro le gengive,
le sue mani cominciavano a tremare.
Ciò era ben triste. Il suo unico conforto,
spesso, era di suonare certi flauti di canna, molto rozzi e primitivi. Ne
veniva fuori una melodia monotona, ma flebile, soave, che si smarriva come un
lamento nel gran silenzio della pianura.
Quando suonava i suoi flauti di canna, Sadur
dimenticava ogni sua tristezza; gli occhi suoi si raddolcivano, su tutta la sua
selvaggia fisionomia si spandeva un'espressione di tenerezza e di bontà.
Al suono melanconico del suo flauto, Sadur sentiva il
cuore empirsi di care ricordanze, tutto gli sembrava dolce, sognava di maritar
Greca con qualche giovine gagliardo, di lasciar lei e la madre sotto una forte
protezione, e di morir tranquillo, sotto una quercia, al sole di aprile.
Egli aveva parecchi flauti, più o meno sottili,
e ogni volta che suonava li provava tutti, ad uno ad uno.
Ciascuno aveva un suono particolare, e Sadur sapeva
trarne diverse melodie.
Ora, nell'ultimo anno della sua vita, gli accadde
questo fatto.
Era di maggio: un giorno egli se ne stava vicino al
mare, quando con terrore scorse le vele fenicie a poca distanza dalla costa.
Tutto tremante corse dalle sue donne e disse loro:
лAhimè, succede ciò che io da vari anni
temevo. Non c'è che un mezzo per salvarci. Fuggite voi due con buona
parte della greggia; avviatevi al nascondiglio che sapete. Io rimarrò
qui con quindici o venti pecore: crederanno ch'io viva qui solo e si
indugeranno a banchettare. Intanto voi potrete salvarvi, e, dopo la loro
partenza, ci riuniremo╗.
Le donne partirono, piangendo, spingendo verso i monti
il grosso della greggia; e il vecchio rimase. Finse d'esser quasi cieco e si
mise a suonare.
I fenici lo trovarono così, in apparenza
tranquillo, e credettero ch'egli vivesse solo con le poche pecore smarrite nel
prato vicino. Com'egli aveva preveduto, essi s'indugiarono laggiù:
frugarono la capanna, la distrussero per accender il fuoco coi rami dei quali
era formata, sgozzarono le pecore e banchettarono. Alcuni di loro volevano
legare e bastonare Sadur, ma il capo della spedizione, ch'era un giovine
pallido dai lunghi capelli nerissimi, unti d'olio profumato, vi si oppose.
Solo, finito il banchetto, comandò al vecchio di suonare. Sadur prese i
suoi flauti e suonò. Il giovine capo si mise ad ascoltarlo attentamente,
pensieroso e quasi triste.
Ad un tratto parve preso da un capriccio strano, e
comandò a Sadur di suonare tutti assieme i suoi flauti.
лCome farò?╗, disse il vecchio.
лAccomodati, altrimenti ti farò bastonare.╗
Allora il vecchio cercò certe erbe filamentose
e unì in fila i suoi flauti, formando la prima delle leoneddas
sarde. Prova e riprova, gli riuscì di suonare abilmente una melodia
melanconica, armoniosa, discretamente sonora.
Presi dalla sonnolenza dei meriggi primaverili, dopo
il pasto abbondante, i fenici ascoltavano sdraiati sull'erba, e una grande
dolcezza li invadeva a quel suono.
Il giovine capo, specialmente, pareva incantato. A
poco a poco si addormentò, e gli parve di non aver mai gustato un sonno
così delizioso, in luogo più ameno di quello.
Svegliandosi, disse al vecchio di chiedergli tutto
ciò che desiderava; glielo avrebbe accordato, se era in suo potere.
Sadur tremò, poi disse:
лEbbene, senti. Io ho moglie e una figlia vergine: se
le incontri, non toccarle╗.
лTu puoi farle tornar qui╗, disse il capo, лnon sarete
più molestati.╗
Intanto fece ricostruir la capanna e attese che il
vecchio, andato in cerca delle sue donne, fosse di ritorno.
Desiderava sentire ancora il suono dei flauti riuniti
e di addormentarsi ancora una volta sull'erba.
Sadur e le donne e le gregge tornarono, e il vecchio
suonò ancora, e il giovine si addormentò.
Allo svegliarsi vide Greca, e il luogo gli parve
ancora più ameno.
лVuoi tu darmi la fanciulla?╗, chiese al vecchio. лLa
sposerò e resterò qui coi miei compagni.╗
Così si formò in Sardegna una delle
prime colonie fenicie, ed il vecchio Sadur continuò a suonare, tutti
assieme, i suoi flauti di canna.
San Michele Arcangelo
La mercantessa d'uova, zia Biròra Portale,
viaggiava recando un cesto d'uova da Orotelli a Nuoro.
Era una notte d'agosto, pura e luminosa come una
perla. Sulla grande distesa della pianura di stoppia, la luna gettava una luce
viva ed eguale; il cielo era azzurro quasi come di giorno, e solo ad oriente
l'orizzonte appariva vaporoso, velando le montagne che sembravano nuvole
sorgenti dal mare.
Zia Biròra viaggiava di notte perché
viaggiava a piedi, e viaggiava a piedi perché i guadagni del suo
commercio erano tanto esigui da non permetterle di viaggiare a cavallo.
Figuratevi che tutti i capitali del suo commercio,
assai fragili invero, stavano dentro quel cestino intessuto di canne che ella
recava sul capo: duecento uova. Ogni tre giorni zia Biròra, comprava
duecento uova, le disponeva nel cestino, fra la paglia, e si metteva in viaggio
per Nuoro. Col guadagno viveva tre giorni.
Da anni ed anni ella faceva quel mestiere. A Nuoro,
dove con la scusa di vendere le uova chiedeva qualche volta anche l'elemosina,
tutti la conoscevano, e divenne anche più popolare per il caso strano
accadutole una notte d'agosto.
Ella dunque viaggiava, attraversando la pianura,
illuminata dalla luna, pei sentieri tracciati fra le stoppie, nelle tancas
così melanconicamente poetiche, perfettamente disabitate e deserte.
A che pensava? È un po' difficile dirlo,
perché i suoi pensieri non avevano nesso: erano piuttosto frammenti di
pensieri, brani di idee semplici che si sperdevano in uno sfondo incolore.
Sì, zia Biròra, che non era mai stata
una donna allegra, quella notte provava una grande melanconia; si sentiva
stanca; aveva sonno e non poteva riposare. Era stanca, stanca di quel suo
viaggio che durava da trent'anni e non finiva mai.
Inoltre aveva come il presentimento d'una vicina
disgrazia; ma giammai avrebbe creduto dovesse succederle così presto,
così, fra dieci minuti, fra cento, fra dieci passi. Ecco, nel salire un
piccolo rialzo che dai campi metteva sullo stradale, la vecchia mercantessa
scivolò e cadde. Blum! fece il cestino, e le uova scricchiolarono e una
cascata di paglia bagnata e di gusci bianchi inondò il piccolo rialzo.
La vecchia si rialzò, guardò pallida,
stordita come se avesse ricevuto una mazzata sul capo. Tutto, tutto era
perduto. Ella era rovinata per sempre. Si sedette sul rialzo e cominciò
a piangere accoratamente, come una bimba di dieci anni.
Da qualche minuto stava così immersa nel suo
dolore piangendo e lamentandosi ad alta voce, quando udì una voce sonora
risuonare alle sue spalle.
лDonna!╗, diceva la voce, лChe cosa vi è
capitato? Perché spaventate coi vostri pianti i tranquilli viandanti
notturni?╗
La vecchia guardò e vide, fitto sull'orlo dello
stradale, circonfuso dalla luminosità lunare, un bellissimo giovine
signorilmente vestito. Sulla spalla egli teneva un ricco fucile, la cui canna
arabescata brillava alla luna.
Zia Biròra lo credette un cacciatore e gli
raccontò il miserevole caso.
лDa trent'anni╗, disse, лda trent'anni io viaggio, di
giorno e di notte, per guadagnarmi un tozzo di pane. Ah, come sono misera! Non
mi era giammai capitato di cadere: ma ora invecchio, le gambe si piegano, il
sonno mi sorprende. Come farò ora?╗
лNon avete parenti?╗
лNessuno, nessuno. Vivo sola come le fiere. Come
farò ora? Quando chiedo l'elemosina mi dicono: Perché non avete
lavorato? Ah, non sanno dunque che io ho lavorato più di qualsiasi altra
creatura cristiana? Ecco, vedi i miei piedi? Vuoi vedere i miei piedi, giovine
cacciatore?╗
E preso un piede con entrambe le mani ne rivolse la
palma verso lo sconosciuto. Costui si chinò a guardare, e vide quella
povera palma di piede ridotta ad una specie di cuoio grossissimo, nero,
screpolato, qua e là macchiato di sangue.
лÈ orribile╗, mormorò, come fra
sé, лuna povera vecchia camminare così.╗
Zia Biròra era troppo furba per non profittare
della pietà del viandante, sperando ch'egli le desse una buona
elemosina, e riprese a narrargli le sue disgrazie, esagerandole magari un
tantino. Egli ascoltava, pensoso, pizzicandosi il mento adorno d'una graziosa
fossetta. Ad un tratto s'udì un passo di cavalli, in lontananza, nel
silenzio dello stradale. Lo sconosciuto ascoltò intensamente, mentre
traeva il portafogli dalla tasca interna della giacca. In un attimo prese un
biglietto di banca, lo diede alla vecchia, rimise il portafogli, e
sparì. Parve che il terreno l'avesse inghiottito, e zia Biròra
provò uno strano sentimento di terrore, ma di terrore arcano, misto a
gioia profonda. Senza avvedersene si trovò inginocchiata, col biglietto
fra le mani giunte.
лEgli era un angelo╗, pensava, лera San Michele
Arcangelo. Dio sia lodato: Egli non abbandona i poveretti. Questo è
certamente un biglietto da venticinque lire: io sono salva, la mia vecchiaia
è assicurata. San Michele Arcangelo sia benedetto. Era lui! Era lui!╗
Si trascinò sulle ginocchia, baciò il
suolo dove lo sconosciuto aveva posto i piedi, e pregò.
In questa posizione la sorpresero due paesani che
passavano a cavallo e che la credettero svenuta. La chiamarono, ed uno di essi
smontò da cavallo. Ella si rialzò e raccontò la storia,
dicendo d'aver veduto San Michele Arcangelo che le aveva fatto l'elemosina. La
credettero pazza, le chiesero di far vedere il biglietto, e le dissero,
meravigliati che era un biglietto da cento lire.
Poi passarono oltre.
Cento lire! La vecchia credette d'impazzire davvero:
cominciò a ridere e piangere nello stesso tempo, picchiandosi il petto,
gettandosi per terra e baciando nuovamente il posto ove lo sconosciuto s'era
fermato.
Qualche tempo dopo, zia Biròra, che continuava
a negoziare le uova, viaggiando però a cavallo, si trovò per
caso, a Nuoro, davanti alla Corte d'Assise. Si discuteva un famoso processo contro
un bandito accusato di omicidi, grassazioni, vendette, rapine. La vecchia
mercantessa entrò anch'essa e si mescolò alla folla dei curiosi.
Ad un tratto fra questa folla s'elevarono grida, esclamazioni, mormorii. Che
è, che non è? Era la vecchia che nel bandito crudele aveva
riconosciuto il suo San Michele Arcangelo.
Nostra Signora del Buon Consiglio[9]
Oggi, miei piccoli amici, voglio raccontarvi una
storia che vi commuoverà moltissimo, e che, se non vi commuoverà,
non sarà certamente per colpa mia o delle cose che vi narro, ma
perché avete il cuore di pietra.
C'era dunque una volta, in un villaggio della Sardegna
per il quale voi non siete passati e forse non passerete mai, un uomo cattivo,
che non credeva in Dio e non dava mai elemosina ai poveri.
Quest'uomo si chiamava don Juanne Perrez,
perché d'origine spagnola, ed era brutto come il demonio.
Abitava una casa immensa, ma nera e misteriosa,
composta di cento e una stanza, e aveva con sé, per servirlo, una
nipotina di quindici anni, chiamata Mariedda.
Mariedda era buona, bella e devota quanto suo zio era
cattivo, brutto e scomunicato. Mariedda possedeva i più bei capelli neri
di tutta la Sardegna, e i suoi occhi sembravano uno la stella del mattino,
l'altro la stella della sera.
Don Juanne voleva male a Mariedda, come del resto
voleva male a tutti i cristiani della terra; e, potendo, le avrebbe cavato gli
occhioni belli; ma per un ultimo scrupolo di coscienza non voleva farle danno;
solo, quando essa ebbe compito i quindici anni, pensò di sbarazzarsene
maritandola a un brutto uomo del villaggio.
Ella però non volte acconsentire a questo
infelice matrimonio, e il brutto uomo del villaggio, per vendicarsi
dell'umiliante rifiuto, una notte sradicò tutte le piante del giardino
di don Juanne e pose sulla soglia della casa, ove Mariedda e lo zio abitavano,
un paio di corna e due grandissime zucche; e ogni notte passava sotto le
finestre cantando canzoni cattive.
Impossibile descrivere l'ira di don Juanne, e
l'avversione che d'allora cominciò a nutrire contro la povera Mariedda.
Basta dire che un giorno la prese con sé nella stanza più remota
della casa, e le disse:
лTu non hai voluto per marito Predu Concaepreda
(Pietro Testadipietra). Beh! Ma siccome tu devi assolutamente maritarti,
preparati a sposare me╗.
La poveretta rimase, come suol dirsi, di stucco, poi
esclamò:
лMa come va quest'affare? Voi non siete mio zio? E da
quando in qua gli zii possono sposar le nipoti?╗.
лTu sta zitta, fraschetta! Io ho dal papa il permesso
di sposarmi con chi voglio, anche senza prete. E ho deciso di ammogliarmi con
chi mi pare e piace. Tu pensa bene ai fatti tuoi. O quell'uomo del villaggio, o
me. Ti lascio una notte per deciderti.╗
E se n'andò chiudendola dentro.
Appena sola, Mariedda si mise a piangere e a pregare
fervorosamente Nostra Signora del Buon Consiglio, perché l'aiutasse e la
ispirasse.
Ed ecco, appena fatto notte, le apparve una donna
bellissima, tutta circondata di luce, vestita di raso e di velo bianco, con un
mantello azzurro e un diadema d'oro simile a quello della regina di Spagna.
Donde era entrata?
Mariedda non poteva spiegarselo, e stava a guardar a
bocca aperta la bella Signora, quando questa le disse con voce che sembrava
musica di violino:
лIo sono Nostra Signora del Buon Consiglio, ed ho
sentito la tua preghiera. Senti, Mariedda: Chiedi a tuo zio otto giorni di
tempo, e se in capo a questi egli non avrà deposto il suo pensiero,
chiamami di nuovo. Conservati sempre buona, e mai ti mancherà il mio
aiuto e il mio consiglio╗.
Ciò detto sparve, lasciando nella stanza come
una luce di luna e un odore di gelsomino.
Mariedda, che provava una viva gioia, pregò
tutta la notte; e il domani chiese a suo zio otto giorni di tempo. Sebbene a
malincuore, don Juanne glieli concesse; intanto, perché non fuggisse, la
teneva sempre rinchiusa in quella stanza remota, nella quale perdurava la luce
di luna e l'odore di gelsomino. Passati però gli otto giorni, le chiese
se si era decisa, ché lui voleva assolutamente sposarla il giorno dopo.
Rimasta sola, Mariedda si rimise a piangere e pregare,
ma tosto ricomparve quella Celeste Signora, che ora aveva un vestito di
broccato d'oro e un diadema di perle come quello della Regina di Francia.
лDormi, Mariedda, e non temere╗, le disse con voce che
pareva musica di rosignuolo. лPrendi questo rosario, che ha virtù di
guarire i malati, e nella fortuna non dimenticarti di me, se non vuoi che
t'incolga sventura.╗
E sparì, lasciando nella stanza una luce
d'aurora primaverile e una fragranza di garofani.
Mariedda non aveva potuto dire una sola parola.
Speranzosa ed estasiata baciò il rosario di madreperla lasciatole dalla
divina Signora, se lo pose al collo e si addormentò tranquillamente
senza chiedersi che cosa l'indomani sarebbe avvenuto.
Ma l'indomani ella si svegliò sotto un roveto,
vicino ad una palude; e tosto pensò che colà doveva averla
trasportata, durante il sonno, la sua Santa Protettrice.
Levatasi, recitò la solita preghiera, poi si
avviò verso una città che si scorgeva in lontananza, tra i vapori
rosei del bellissimo mattino.
Cammina, cammina, vide un piccolo pescatore che, a
piedi scalzi e con la lenza sulla spalla, si recava a pescare in certi piccoli
stagni azzurreggianti là intorno. Gli chiese:
лBel pescatore, in grazia, come si chiama quella
città?╗.
Il pescatore non rispose, ma si mise a cantare:
Io pesco anguilla, e do la caccia all'oca;
Quella città laggiù si chiama Othoca[10].
лBe'╗, pensò Mariedda, лsiamo ad Oristano.╗
Cammina, cammina, entrò in città, e
subito si diede a cercar una casa in cui potesse entrar come serva; ma
inutilmente. Dopo tre giorni e tre notti di viavai da una porta all'altra,
morente di fame e di stanchezza, non aveva ancora trovato padrona. Ma non
disperava; e pregava, pregava sempre la bella Signora del Buon Consiglio,
perché l'aiutasse.
Ora, al quarto giorno, passando davanti al palazzo
reale, vide molta gente che parlava sommessa, pallida in volto e piena di
dolore.
лBel soldato╗, chiese ad un giovine armigero, triste
anch'egli come il resto della folla, лche cosa avviene?╗
лSta per morire il figlio del Giudice di
Arboréa, e nessun medico può più salvarlo.╗
Il Giudice era il re di Arboréa; quindi il
figlio era il principe reale, il più bel cavaliere di tutta la Sardegna.
Mariedda fu scossa dalla dolorosa notizia e stava per
dire un'Ave per il principe moribondo, quando, toccando i grani del suo
rosario si ricordò con gioia che questo possedeva la virtù di
guarire i malati.
Senza dir nulla, attraversò la folla e
riuscì a penetrare nel reale palazzo; ma un capitano delle guardie la
fermò, e le chiese con arroganza cosa voleva.
лVengo a guarire don Mariano, il principe malato╗,
ella rispose umilmente. лHo una medicina meravigliosa che fa guarire anche i
moribondi.╗
Allora il capitano arrogante la introdusse presso il
Giudice, un vecchio re dalla barba lunga fino alle ginocchia, al quale Mariedda
dové ripetere le sue parole. Il Giudice restò commosso dalla
bellezza della piccola sconosciuta, e più per la sua promessa, ma le
disse:
лBada, fanciulla dagli occhi di stella, se tu
c'inganni, noi ti troncheremo la testa╗.
лE se salvo il principe?╗
лTi daremo ciò che vorrai.╗
Ciò detto introdusse egli stesso Mariedda
presso il principe morente. Era tempo. Ancora pochi istanti e tutto era
perduto.
Ma la nipote di don Juanne Perrez mise il rosario
intorno al collo del principe e, inginocchiatasi sulla pelle di cervo stesa
davanti al letto, pregò fervidamente.
Allora tutti gli astanti, bianchi in volto e pieni di
meraviglia, videro un miracolo straordinario.
Don Mariano riapriva gli occhi, i begli occhi castani
dalle lunghe ciglia. A poco a poco le sue guance diventarono rosee come il fior
degli oleandri dei giardini reali; la sua fronte rifulse di vita; sorrise; si
alzò dicendo:
лPadre mio, io rinasco. Chi mi ha salvato?╗.
Il Giudice piangeva di gioia, piangeva tanto che la
sua barba gocciolava di lagrime come un albero bagnato dalla pioggia.
лEcco!╗, rispose, sollevando Mariedda.
лTu devi essere una fata╗, disse il principe,
abbracciandola. лI tuoi occhi hanno una luce di luna. Tu sarai la mia sposa.╗
Infatti, poco tempo dopo, cioè appena giunsero
dalla Francia e dalle Fiandre i vestiti di broccato che stavano ritti da
sé, tanto oro e argento avevano, e i veli e i manti per Mariedda, essa
diventò Giudicessa d'Arboréa.
Ed era tanto felice che cominciò a dimenticare
la raccomandazione di Nostra Signora del Buon Consiglio, cioè di
pregarla e ricordarla sempre, anche nella buona fortuna.
Dopo un anno Mariedda aveva interamente dimenticato la
sua Celeste Protettrice: il rosario miracoloso stava appeso nella reale
cappella, fra altre reliquie e la Giudicessa scendeva raramente nella cappella,
passando invece il tempo tra feste, cacce, tornei, e fra i canti e i liuti, e
le mandole dei trovadori, che non mancavano nella corte degli Arboréa.
Ora avvenne che gli Spagnoli invasero il regno di
Arboréa, e don Mariano, lo sposo di Mariedda, dovette partire col suo
esercito per difendere le sue terre e cacciare gl'invasori. Partì e
lasciò Mariedda presso a diventare madre di un bel principino.
лAddio, bella amica╗, le disse baciandola in fronte,
prima di montare sul suo gran cavallo bianco dalla gualdrappa rossa, лsta di
buon animo, e fa che al mio ritorno trovi un nuovo principino bello e forte
come...╗
лCome te, bell'amico! ╗, rispose donna Mariedda con
orgoglio.
Durante la guerra, don Mariano stette lungo tempo
lontano dalla sua capitale, dal vecchio padre, dalla sposa, e questa, qualche
mese dopo la sua partenza, divenne madre di un bellissimo bambino. Questo
bambino era tutto color di rosa, e aveva i piedini e le manine che sembravano
fiori.
Bisogna sappiate, però, che vi era chi
aspettava ansiosamente il giorno della nascita del bellissimo bambino, per
demolire tutta la felicità della Giudicessa donna Mariedda.
Era don Juanne Perrez. Sentite.
Dopo la separazione dalla nipote, egli aveva
cominciato a odiarla ferocemente, giurando di vendicarsi. Ma per quante
ricerche facesse nel Logudoro e nelle terre vicine, nessuno aveva mai veduto
né sentito parlare della fanciulla dagli occhi di stella; e don Juanne
già cominciava, con malvagia gioia, a creder che se l'avesse portata via
il demonio; quando, recatosi ad Oristano per le feste in occasione delle nozze
del principe, vide con meraviglia e dispetto, che la sposa era Mariedda!
Allora egli cosa fece? Tornò nel suo villaggio,
vendé tutto quanto possedeva, e vendé persino la sua anima al
diavolo, perché lo aiutasse nella vendetta; e si vestì da medico,
con una lunga barba bianca, e una zimarra nera. Si vestì così
perché in un vecchio libro aveva letto che talmente vestiva Claudio
Galeno, un antico dottore. Così travestito, don Juanne Perrez se
n'andò nuovamente ad Oristano, spacciandosi per un medico arrivato da
Alemagna, e che aveva studiato a Ratisbona.
E tanto disse e tanto fece, che lo accettarono per
medico di Corte. Mariedda non lo riconobbe punto. Perciò, quando nacque
il bellissimo bambino più sopra accennato, fu chiamato il falso medico;
e il falso medico, che aspettava questa occasione per vendicarsi, nascose il
bellissimo bambino, e lo sostituì destramente con un cagnolino nero,
brutto e rognoso, che teneva pronto. E fece quest'azione vigliacca con tanta
destrezza, che neppure Mariedda se ne accorse.
Don Juanne non uccise il bellissimo bambino, ma lo
lasciò morir di fame; perciò ancor oggi, in molti punti della
Sardegna, la fame vien chiamata Monsiù Juanne, in memoria di
questo fatto.
Intanto nella Corte Reale si era immersi nel massimo
dolore e spavento, perché mai si era vista una cosa simile; e Mariedda
aveva la febbre dal dispiacere e dall'umiliazione. Pazienza fosse stata una
popolana a diventar madre di un cagnolino nero, brutto e rognoso, Santo Iddio!
la cosa sarebbe stata passabile, perché in quei tempi esistevano le
streghe che si maritavano col diavolo, e da questi orribili matrimoni potevano
nascere anche cagnolini e scorpioni: ma una Giudicessina, che aveva vestiti di
broccato, i quali stavano ritti da sé tant'oro e argento portavano!...
Basta; la cosa fu scritta a don Mariano che, per la
prima volta in vita sua, pianse di dolore. E forse egli avrebbe perdonato
Mariedda; ma sparsasi nel campo spagnolo la notizia destò tale
ilarità e tante beffe a danno del principe nemico, che egli salì
su tutte le furie, e scrisse al suo Maggiordomo che tosto pigliasse la
Giudicessina col suo mostriciattolo e la portasse lontano, lontano, in luogo
donde non potesse far ritorno, poiché egli la ripudiava.
Il Maggiordomo obbedì; e una notte la povera
Mariedda si vide trasportata lontano lontano, in una campagna deserta e
silenziosa. Fra le braccia ella stringeva il cagnolino, al quale aveva posto un
grande amore.
Lasciata sola in quella campagna deserta e silenziosa,
in quell'ora tremenda di disperazione, ella ricordò finalmente il suo
passato, ricordò Nostra Signora del Buon Consiglio, e cadde al suolo
piangendo, chiedendo misericordia e perdono.
Allora, come nella stanza buia e remota della casa di
don Juanne, ecco si fece una gran luce d'oro, e in essa apparve la Madonna col
vestito bianco e il manto azzurro e il diadema simile a quello della Regina di
Spagna.
лMariedda, Mariedda╗, disse con voce soavissima, che
consolò la povera afflitta, лtu ti sei dimenticata di me, e per
ciò sventura t'incolse. Ma io non abbandono gli afflitti, e sono la
madre dei dolorosi╗
Con la fronte al suolo Mariedda piangeva e pregava.
лMariedda╗, continuò la Madonna, лcammina,
cammina. Troverai una casa che sarà tua, e dove nulla ti
mancherà. Vivi là finché sia giunto il tuo giorno e non
dimenticarti più di me.╗
Ciò detto sparve. Sulle desolate campagne si
sparse una luce di sole nascente, le siepi fiorirono, i ruscelli brillarono; un
soave profumo di puleggio passò per l'aria, e una fila di merli dal
becco giallo cantò su un muro vicino.
Quando sollevò la fronte dal suolo, Mariedda si
trovò fra le braccia non più il cagnolino nero, ma un bellissimo
bambino tutto color di rosa, le cui manine e i cui piedini sembravano fiori.
Per un momento pensò di tornarsene in Corte con quel bellissimo bambino;
ma le parole di Nostra Signora del Buon Consiglio le stavano fitte in mente: e
tosto riprese a camminare attraverso la grande pianura improvvisamente fiorita.
Cammina, cammina e cammina, dopo lunghe ore si
trovò davanti una bella casetta verde, nascosta in un boschetto d'aranci
e rose. Dagli aranci pendevano grosse palle d'oro, e dalle rose salivano grandi
fiori di corallo. Mariedda picchiò.
Una serva vestita in costume, con la sottana di
scarlatto fiammante, il corsetto di broccato verde-oro e un gran velo bianco in
testa, aprì e disse inchinandosi:
лSiete voi la padrona che s'aspettava?╗.
лSì╗, rispose Mariedda sorridendo.
E da quel giorno, infatti, essa fu la padrona di
quella casetta verde nascosta fra gli aranci e le rose.
Nessuno passava mai là vicino; il mondo era
lontano, lontano, eppure nulla mancava mai nella casetta: c'era sempre il pane
che sembrava d'oro; l'acqua che sembrava d'argento; il vino che sembrava
sangue; l'uva che sembrava grappolo di perle; la carne che sembrava corallo;
l'olio che sembrava ambra; il miele che sembrava topazio; il latte che sembrava
neve. E infine tutte le cose. Mariedda era felice: pregava sempre, e aspettava
il giorno promesso, nel quale sperava rivedere lo sposo diletto. Intanto il
bellissimo bambino, che si chiamava Consiglio, cresceva come i piccoli aranci
del boschetto, e rideva e correva su cavalli di canna, ai quali, sebbene non
avessero che la coda, faceva eseguire rapidissimi volteggi.
Scorsero cinque anni. Un giorno, finalmente,
passò vicino alla casetta verde una comitiva di cacciatori, che si erano
smarriti in quelle campagne disabitate, e chiesero ospitalità a
Mariedda.
Immaginatevi voi il batticuore, la sorpresa e la gioia
di Mariedda nel riconoscere il suo sposo nel capo di quei cacciatori smarriti!
лEcco giunto il giorno!╗, pensò trepidando. Ma
non si fece conoscere, perché era alquanto cambiata e vestiva in
costume. Però accolse graziosamente i cacciatori, fra i quali eravi
anche don Juanne, il medico del diavolo.
Tutti furono incantati della buona accoglienza e della
bellezza di Mariedda e di Consiglio. A tavola don Mariano, che sedeva accanto
alla padrona, le raccontò la sua sventura, e le disse che si era pentito
del suo atroce comando, che aveva fatto cercare la povera sposa per tutti i
monti e le valli di Sardegna, e che, non avendola potuta ritrovare, ora egli
era l'uomo più infelice della terra, tormentato dai rimorsi e dalle
ricordanze.
Mariedda fu intenerita da questo racconto, e decise
rivelarsi prima che i cacciatori partissero.
Intanto accadde questo fatto straordinario, che
dimostrò come la giustizia di Dio si riveli nelle più piccole
cose. Sentite. Un cucchiarino d'oro del servizio da tavola era caduto per
terra. Consiglio, che giocherellava attraverso le sedie, lo raccolse, e
introdottosi sotto la mensa, così giocando, lo pose dentro la scarpina
di marocchino ricamata di don Juanne. Poi se n'andò via, e dalla serva
fu posto a dormire.
Quando si venne a sparecchiare, si notò la
mancanza del cucchiarino d'oro, e questo non si poté rinvenire in alcun
posto.
лBel signore╗, allora disse Mariedda al principe, лio
ho dato ospitalità a voi ed ai vostri cavalieri. Perché dunque mi
si paga così?╗
E raccontò l'affare del cucchiarino d'oro, che,
senza dubbio, era stato rubato da qualcuno dei cacciatori.
Don Mariano salì su tutte le furie, e traendo
la spada, gridò:
лCavalieri, qualcuno da qui ha rubato. Confessate la
vostra onta o ve ne pentirete amaramente!╗.
Tutti negarono: don Mariano riprese:
лBene, bei signori! Frugherò io stesso le
vostre persone, e guai al traditore indegno, che ha così ricompensato
l'ospitalità di questa nobile dama. Lo trapasserò con la mia
spada╗.
Detto fatto. Frugò tutti i cacciatori, e
trovò il cucchiarino d'oro nella scarpina di marocchino ricamato di don
Juanne. Invano questo si protestò innocente.
лMessere╗, gli disse il principe, лvoi morrete per mia
mano.╗
E stava per ucciderlo, quando Mariedda impietosita,
chiese grazia per lui, e si rivelò con grande contentezza del principe.
Commosso da questa scena, don Juanne si gettò
ai piedi della nipote, che lo aveva salvato, e confessò le sue colpe.
Mariedda e il principe lo perdonarono; solo, in
penitenza, gl'imposero di viver sempre nella casetta verde nascosta fra gli
aranci e le rose, perché si pentisse ed espiasse i suoi peccati nella
solitudine. Non sappiamo se egli veramente si sia pentito: sappiamo però
che egli non si mosse più di là; mentre Mariedda, Consiglio col
suo cavallo di canna, la serva col suo costume e il suo velo, don Mariano e
tutti gli altri cacciatori tornarono alla Corte, dove furono accolti con grandi
feste, e dove vissero lungamente felici. Mentre passavano vicino agli stagni,
quel pescatore che aveva cantato quando Mariedda veniva la prima volta ad
Oristano, questa volta cantava così:
Uccelli che volate, che volate,
In compagnia di me,
Andate e ritornate,
Fatto han la pace la regina e il re.
[1] Questa premessa e le leggende "Il diavolo cervo", "La leggenda di Aggius", "La leggenda di Castel Doria", "Il castello di Galtellì", "La leggenda di Gonare", "San Pietro di Sorres", "La scomunica di Ollolai", "Madama Galdona",а sono state pubblicate in Natura ed Arte, 15 aprile 1894.
[2] лAggius mio, Aggius mio, e quando verrà il giorno che ti porterò via in un turbine?╗
[3] лPigliane e lasciane.╗
[4] Castel Roccioso.
[5] Barbarina di Olzai, / Dove ti metteranno / Non ci vedremo mai.
[6] Questo prologo e le leggende "I tre fratelli" e "Monte Bardia" sono state pubblicate in Vita Sarda, III, 10 dicembre 1893.
[7] Questa leggenda è stata raccolta a Nurri, grosso villaggio del circondario di Lanusei, dalla gentile signora Maria Manca, studiosa dei costumi e delle tradizioni sarde.
[8] Questa leggenda e la seguente "San Michele Arcangelo" sono state tratte da Onoranze a Grazia Deledda, a cura di M. Ciusa Romagna, Nuoro-Cagliari, 1959.
[9] Leggenda pubblicata presso R. Sandon, Palermo, 1899.
[10] Antico nome di Oristano.