Giuseppe Petronio

 

L'ARTE DELLA DELEDDA

 

[...] La prima opera della Deledda nella quale il suo mondo appaia meglio definito, è La via del male, un romanzo pubblicato nel 1896. In un primo momento doveva intitolarsi L'indomabile, con un titolo che ha veramente i segni del tempo: sono gli anni in cui D'Annunzio pensava di intitolare L'invincibile quello che fu poi il Trionfo della morte, e il titolo rimase a una parte del libro; gli anni in cui un altro estetizzante, Diego Angeli, pubblicava L'inarrivabile, e uno sconosciuto, tal Ciampoli, scriveva L'invisibile. Un altro segno del tempo è nella frase, già citata, di una lettera al Manca, in cui, annunziando il romanzo con ingenua soddisfazione (" Sapete che scrivo un bellissimo romanzo? "), scriveva che avrebbe fatto " del chiasso ", perché aveva " anche una leggera tinta di socialismo ", anche se, in realtà, vi è una tinta non tanto di socialismo quanto di populismo anarcoide, di vaga ribellione contro le ingiustizie sociali: il protagonista, un giovane servo, è arrestato per sbaglio, e in carcere conosce un altro giovane, Lantine, che gli parla della cattiva organizzazione del mondo e del bisogno di farsi giustizia da sé, con le proprie mani, facendosi strada a forza contro la società costituita.

 

Un altro segno dei tempi è l'eco, che facilmente vi si scorge, di quel Dostoevskij il cui Delitto e castigo aveva suscitato enorme impressione da noi come in Francia, e che D'Annunzio aveva riecheggiato prontamente in Giovanni Episcopo, mentre altri motivi ne avrebbe ripresi più tardi nell'lnnocente e in Più che l'amore. Anche nel romanzo della Deledda i temi della passione, della colpa, del pentimento, della necessità dell'espiazione corrono tutta l'opera, ponendo un gruppo di problemi che saranno poi al centro di tutta l'arte della scrittrice.

 

Un ultimo elemento caratteristico del romanzo--e sarà anch'esso caratteristico di quasi tutti i libri seguenti--è l'ambientazione sarda: la visita al Santuario, la vita nella " tanca " e la poesia di essa, il passaggio continuo dalla cittadina angusta e soffocante alla natura ampia e libera, fatti di costume e di folclore, costituiscono lo sfondo del libro, per cui si viene definendo la formula che sarà propria della Deledda: un romanzo psicologico, fondato tutto su problemi " spirituali ", ma intanto ambientato regionalisticamente, cioè veristicamente, in Sardegna e tramato, per tanta parte, di descrizioni colorite della natura e del costume sardo.

 

Il problema del libro è indicato felicemente dal titolo, ma l'indicazione suggestiva non trova poi nel corso del romanzo uno svolgimento convincente. [...]

 

Ma intanto con La via del male si aveva già, come si è visto, una prima anticipazione dei temi e dei modi narrativi che sarebbero stati della Deledda matura, anche se la scritìlicc 11011 pare aver acquistato ancora coscienza piena

 

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di sé, del proprio mondo interiore. dei mezzi necessari a esprimerlo. Nei due romanzi successivi, infatti (La giustizia, 1900; Dopo il divorzio, 1902), se ne allontanò di nuovo per temi che restarono poi senza sviluppo, ma con Il vecchio della montagna (1900), con Elias Portolu (1903), con Cenere (1904) ritornò di nuovo alla tematica e ai moduli della Via del male, definendo lo schema di romanzo che si può considerare suo caratteristico e nel quale compose poi tutte le sue opere migliori.

 

A ciò contribuì probabilmente anche l'allontanamento dalla Sardegna dopo il suo matrimonio. Giovanissima aveva sognato a lungo di essere un'artista tipicamente sarda; vi aveva poi rinunziato per qualche tempo, atterrita dalle critiche dei compaesani ai suoi primi bozzetti; ma presto il vecchio sogno era risorto, ed ella aveva descritto di nuovo scene e persone della Sardegna, ambendo di poter raggiungere verso i trent'anni uno " scopo radioso ", quale era quello di creare, lei sola " una letteratura completamente ed esclusivamente sarda ". E per questo si era chinata, secondo i precetti della scuola naturalistica, ad ascoltare le voci del suo popolo: " studio sempre, dai discorsi curiosi dei nostri servi, che ci fanno ridere tanto, ai piccoli pettegolezzi delle mie vicine; dai piccoli amori delle belle popolane alle truci storie di passione e di sangue che sembrano inverosimili ", ma aveva avvertito lei stessa di non avere ancora la forza di trarre da quest'osservazione arte grande, e di doversi contentare, per il momento, di schizzare quadretti piuttosto che veri e propri quadri. [...]

 

In questa condizione poteva giovarle, e infatti le giovò, allontanarsi dalla Sardegna, proprio quando veniva conquistando, intanto, una maturità maggiore di spirito e di esperienza artistica. Lontana, I'isola le si venne colorendo di una luce di favola, e se temi, paesaggi, persone furono ancora sardi, furono pure trasfigurati di nostalgia e di tenerezza, parvero sfumare di volta in volta nell'epos o nella lirica. Così, la Sardegna dei suoi romanzi migliori è una terra mitica, dai costumi patriarcali, dai paesaggi solenni e misteriosi, dalle passioni infiammate, e la piccola Nuoro, I'Ortobene che sopra le incombe solenne, la tanca immensa e profumata, i santuari meta di pellegrinaggi chiassosi, sono non tanto luoghi precisi da descrivere con precisione naturalistica, quanto simboli ossessivi di un rimpianto affettuoso, un rimpianto che, con il tempo, li trasfigurerà veramente in mito e detterà le pagine autobiografiche del Paese del vento (1931), o ricreerà la favola della propria fanciullezza, nelle pagine così malinconiche e sagge, così dolcemente struggenti, di Cosima.

 

Se nello sfondo, con toni e con risultati diversi, c'è questa Sardegna, in primo piano c'è un dramma di passione e di colpa, una storia ardente e talvolta tragica di peccato, e, qualche volta, di redenzione, con una tematica e spesso con uno svolgimento o con episodi che ricordano la narrativa russa, anche se temi e soluzioni rispecchiano lo svolgimento interiore della scrittrice e la sua conquista di una concezione propria della vita.

 

L'arte della Deledda

 

Descrivere questa concezione è però difficile, se non proprio impossibile, ché la Deledda non riuscì forse mai a chiarirsi con precisione il suo mondo interiore il quale restò sempre vago e incerto, di una incertezza che pesa su tutta l'opera di lei e ne costituisce il limite maggiore.

 

Certo, è in lei una concezione fatalistica e amara della vita, e di essa più tardi, in Cosima, la scrittrice cercò e indicò l'origine in alcune esperienze brucianti della sua adolescenza: una volta, ripetuta una favola che le aveva raccontata un servo, commenta che la storia le destò " un'impressione profonda, quasi fisica, il mistero della favola, quel silenzio finale, grave di cose davvero grandiose e terribili, il mito di una giustizia sovrannaturale, I'eterna storia dell'errore, del castigo, del dolore umano ". E un'altra volta, descritta ]a morte precoce della sorella, e le cure che lei, giovinetta, aveva prestate al cadavere, dice di sé: " Agiva sotto l'impulso di una forza quasi sovrannaturale, come in uno stato di ebbrezza. Ebbrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubbriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore; un terrore che non l'abbandonò mai più, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: I'antica colpa dei primi padri, quella che attirò sul mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini ".

 

Con questa intuizione più che concezione della vita, grave di un senso biblico della colpa e del male, pare alla Deledda che nel mondo tutto, " il destino, la morte, I'uomo ", sia cenere (Cenere), e che gli uomini siano " proprio come le canne al vento " e " la sorte è il vento " (Cann al vento), e gli uomini servano, senza comprenderne le ragioni, un ignoto onnipossente padrone. E le vie del male, allora, sono sempre aperte innanzi a noi, e noi ci mettiamo per esse senza rendercene conto, senza sapere come e perché: colpa, passione, dolore, assalgono come vento di bufera l'animo umano e se ne fanno una facile preda, e la Deledda nei suoi romanzi canta l'ebbrezza dolceamara del peccato, I'oscurarsi della coscienza che si smarrisce piena di sonno nella foresta del male, e viola le leggi di Dio e dell'uomo, eppure mai consente interamente a quel male, e serba sempre vivo dentro di sé il senso segreto di una legge violata.

 

Per questo, l'amaro della sua concezione si addolcisce a volte di una speranza immotivata e irrazionale, eppure consolatrice: " egli ricordò che fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò e amò la vita ", conclude Cenere, un romanzo che pure nel titolo stesso, allusivo e quasi simbolico, esprime un pessimismo cupo; e un altro romanzo ai passioni vane, ll nostro padrone (1909), si chiude con il ricordo della nascita di " Colui che esiste solo per regolare il nostro destino ", in una traduzione fatalistica e tragica del mito cristiano.

 

Però, in che cosa questo male consista davvero, questo, il più delle volte, rimane oscuro al lettore, com'era oscuro ai protagonisti e alla stessa scrittrice, e il peccato si articola in tutta una casistica rappresentata nelle sue

 

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forme esterne piuttosto che indagata nelle sue cause profonde. Qualche volta, il male pare essere lo scostarsi dalla tradizione, da una legge non scritta, dando ascolto al proprio cuore e operando così da sé e per sé, non più inseriti in un ordine familiare e sociale: è questo il tema, in ultima analisi, di Canne al vento, in cui alle scaturigini di tutta la catena di colpe e di dolori che costituisce il libro è la passione del giovane servo che, infrangendo l'ordine sociale, alza gli occhi, lui " verme ", alla padroncina, ed è la colpa della giovane che, infrangendo l'ordine familiare, abbandona la vecchia casa paterna. La morte del padre di lei per mano del servo, la miseria delle altre sorelle, la dedizione devota di Efix, il disordine che la venuta del figlio di Lia, la sorella fuggita, porterà nella famiglia, tutto è conseguenza di quel primo aberrare, e se gli uomini appaiono canne al vento, facile preda del male, questo male pare raccogliersi in alcune sue manifestazioni più dense di lusinghe e di conseguenze, che inducono sempre, però, a violare le leggi che regolano la famiglia e ne fanno, o dovrebbero farne, un baluardo di onestà e di decoro. O è L'incendio nell'oliveto, un altro romanzo in cui famiglia, costume, tradizione, queste cose solide e forti che sole, per la Deledda, possono guardare dal male, trovano una loro incarnazione potente nella figura della vecchia nonna, intorno a cui tutta la famiglia, due generazioni, si raccoglie: " siete ancora il tronco, voi, e noi ancora tutti intorno a voi, nonna, come in quella notte di tempesta, tutti dritti, però, dritti a guardarci in faccia e pronti a sostenere con le braccia il tetto della casa perché non cada ". Sicché il male sarà, di nuovo, lo scostarsi, o il pensare di scostarsi, da quest'ordine, ramo che si stacchi dal tronco. [...]

 

I contorni del problema sono, però, sempre sfumati, e sfumati, allora, sono anche i personaggi, la cui psicologia resta vaga e incerta, i cui atti sono spesso immotivati, tanto che immotivato appare spesso il corso tutto delI'azione. Questi personaggi, voglio dire, se non sono ancora, come quelli di tanti romanzi contemporanei o degli anni seguenti, meri nomi, maschere, allegorie dell'autore, non sono neppure più, come quelli della narrativa delI'Ottocento, concretamente corposi, a tutto tondo, e s'imprimono difficilmente nella memoria del lettore, e si muovono e agiscono non tanto con una aderenza logica a un carattere, quanto piuttosto per impennate del sentimento, abbandoni improvvisi, ritorni su se stessi, fedeli non tanto a una coerenza esterna di atti quanto a una loro nascosta ragione di vita che li fa aberrare e li perde o li salva in una linea di sviluppo sinuosa e difficile.

 

Per questo. dei libri della Deledda ciò che meglio si serba nella memoria non sono i personaggi o le trame. ché queste e quelli presto si confondono in un ricordo incerto e confuso, quanto certe atmosfere e certi toni musicali: la cucina patriarcale dell'Incendio dell'oliveto, con quella vecchia sfingea, personificazione quasi della tradizione e della legge, che incide con la canna figure nella cenere; la montagna alta, nel Vecchio della montagna, con quel vecchio cieco e saggio, personificazione di una canna più forte delle

 

L'arte della Deledda

 

tempeste che sconvolgono gli uomini; la casa delle sorelle Pintor in Canne al vento con quelle tre dame solitarie, e quel colore di cilestro e di argento che è in tutto il romanzo, tramato tutto di cielo, di acque, di canne mobili al vento; la tanca selvaggia e profumata o le stradette paesane di Nuoro, tra cui si intrecciano e ardono le passioni selvagge di Elias Portolu, delle Vie del male, di Marianna Sirca, del Nostro padrone. E i suoi libri meglio riusciti ci sembrano appunto quelli nei quali questo sfondo paesano e regionalistico perde più del suo peso naturalistico, è sernpre meno una tranche de vie colta dal vero, per farsi invece lieve e sfumato, in una scrittura che con il passare degli anni si fa anch'essa sempre più lieve e sfumata. intesa ad avvolgere luoghi e persone di una luce di fiaba e quasi, si direbbe, di simbolo.

 

In un romanzo della Deledda, dunque, il lettore non cerca una concezione della vita definita e precisa, che risponda con chiarezza ai problemi che pure la scrittrice sentiva agitarsi dentro di sé; non cerca nemmeno una ideologia politica e sociale, che colga il nesso tra gli affetti e le azioni dei suoi personaggi e le condizioni di ambiente e di vita della Sardegna del tempo, anche se queste cose la Deledda le ambì; cerca piuttosto, o si contenta di cogliervi, un sentimento della vita, che non si lascia chiudere in formule circoscritte logicamente, ma resta in una incertezza vaga, che, se è incapace di generare personaggi e favole motivate razionalmente, è capace però di lievitare nel libro e crearvi un'aura commossa e incantata. Così, i personaggi di questi libri amano, peccano, soffrono; compiono il male, ciò che a essi e alla scrittrice par male, e si dibattono nella morsa di una coscienza inquieta; a volte si rassegnano alla legge e accettandola rientrano nell'ordine, a volte provocano o commettono delitti, e si piegano sotto il peso di una espiazione che, prima di essere imposta dagli altri, è richiesta dalla loro stessa consapevolezza del bene e del male. E nello sfondo, intanto, è la Sardegna, dapprima con il suo folclore ricco di colori e di suoni, poi sempre più sobria, sempre più suggerita piuttosto che descritta veristicamente.

 

Con il passare degli anni, questo schema narrativo che qui si è descritto, si andò sempre più assottigliando, nel senso che venne perdendo sempre più di concretezza e di peso, fino al punto che in un suo romanzo, Il segreto dell'uomo solitario, la Deledda smise addirittura di porre la scena in Sardegna, e vi sostituì una landa marina non caratterizzata in alcun modo, nel tempo stesso in cui tolse concretezza ai protagonisti e ridusse la storia a una sorta di lungo dialogo tra loro. E intanto veniva sempre più raccogliendo l'interesse sui personaggi piuttosto che sull'azione o sul paesaggio, e venne sempre più clinlinallclo i personaggi minori e maccl1ict~istici, e venne sempre più alleggerendo la favola, fino a farla sfumare nel simbolo, mentre, intanto, faceva più tenue la scrittura e spiritualizzata l'ispirazione, sicché il vecchio fatalismo, vagamente e grossamente cristiano, con una qual patina di positivismo, si fece sempre più sottilmente religioso, intriso tutto di pietà umana. anelante .li compimento (li

 

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" una legge di pietà e d'amore che deve unire tutti gli esseri viventi, anche se la nostra coscienza la ignora e non la vuole " (Il sigillo d'amore, 1926).

 

Una evoluzione, questa, che è certo possibile seguire nei romanzi (e valga per tutti il richiamo al Paese del vento e al Segreto dell'uomo solitario o alla rievocazione autobiografica di Cosima), ma che ancora meglio si potrebbe studiare nelle novelle, che la Deledda andò componendo con frequenza sempre maggiore e in molte delle quali raggiunse una rara felicità. Ed è naturale, chi pensi che il taglio breve della novella non la irretiva, come le accadeva invece nei romanzi, in avvolgimenti dai quali spesso non sapeva districarsi agevolmente, mentre le era possibile disegnare abbozzi di personaggi la cui tenue coerenza psicologica non aveva bisogno di essere cimentata in un'azione complessa a lungo respiro, e lei poteva raccogliere nel giro di poche pagine rapide il suo vago sentimento del mondo.

Giuseppe PETRONIO

 

(Da I Contemporanei, I, Milano, Marzorati, 1963, pp. 146-153.)

 

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