PARTE TERZA

 

Ottobre 1860

 

La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. Il calore ristoнrava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava sopravviveнre i colori, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze.

Don Fabrizio insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a don Ciccio Tumeo, seguace, passava lunghe ore a caccia, dall'alba al pomeriggio. La fatica era fuori d'ogni proporzione con i risultati, perché anche ai più esperti tiratori riesce difficile colpire un bersaglio che non c'è quasi mai, ed era molto se il Principe rincasando poteva far penare in cucina un paio di pernici così come don Ciccio si reputava fortunato se a sera poteva sbattere sul tavolo un coniglio selvatico, il quale del resto veniva ipso facto promosso al grado di lepre, come si usa da noi.

Un'abbondanza di bottino sarebbe stata d'altronde per il Principe un piacere secondario; il diletto dei giorni di caccia era altrove, suddiviso in molti episodi minuti. Cominciava con la rasatura nella camera ancora buia, al lume di una candela che rendeva enfatici i gesti sul soffitto dalle architetture dipinte; si acuiva nel traversare i saloni addormentati, nello scansare alla luce traballante i tavoli con le carte da gioco in disordine fra gettoni e bicchierini vuoti, e nello scorgere fra esse il cavallo di spade che gli rivolgeva un augurio virile; nel percorrere il giardino immoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli più mattinieri si strizzavano per far saltar via la rugiada dalle penne; nello sgusciare attraverso la porticina impedita dall'edera; nel fuggire, insomma; e poi sulla strada, innocentissima ancora ai primi albori, ritrovava don Ciccio sorridente fra i baffi ingialliti mentre sacramentava affettuoso contro i cani; a questi, nell'attesa, fremevano i muscoli sotto il velluto del pelo. Venere brillava, chicco d'uva sbucciato, trasparente e umido, e di già sembrava di udire il rombo del carro solare che saliva l'erta sotto l'orizzonte; presto s'incontravano le prime greggi che avanzavano torpide come maree, guidate a sassate dai pastori calzati di pelli; le lane erano rese morbide e rosee dai primi raggi; poi bisognava dirimere oscuri litigi di precedenza fra i cani da mandria e i bracchi puntigliosi, e dopo quest'intermezzo assordante si svoltava su per un pendio e ci si trovava nell'immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor più nel tempo. Donnafugata con il suo palazzo e i suoi nuovi ricchi era appena a due miglia ma sembrava sbiadita nel ricordo come quei paesaggi che talvolta s'intravedono allo sbocco lontano di una galleria ferroviaria; le sue pene e il suo lusso apparivano ancor più insignificanti che se fossero appartenuti al passato, perché rispetto all'immutabilità di queste contrade fuori di mano sembravano far parte del futuro, esser ricavati non dalla pietra e dalla carne ma dalla stoffa di un sognato avvenire, estratte da una Utopia vagheggiata da un Plafone rustico e che per un qualsiasi minimo accidente avrebbe anche potuto conformarsi in foggie del tutto diverse o addirittura non essere; sprovviste così anche di quel tanto di carica energetica che ogni cosa passata continua a possedere, non potevano più recar fastidio.

Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidi in questi due ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti come formiche all'arrembaggio di una lucertola morta. Alcuni erano spuntati fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i più mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioè dalle irrazionali reazioni sue alla politica ed ai capricci del prossimo (capricci chiamava, quando era irritato, ciò che da calmo designava come passioni); e questi fastidi se li passava in rivista ogni giorno, li faceva manovrare, comporsi in colonna o spiegarsi in fila sulla piazza d'armi della propria coscienza sperando di scorgere nelle loro evoluzioni un qualsiasi senso di finalità che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva. Gli anni scorsi le seccature erano in numero minore e ad ogni modo il soggiorno a Donnafugata costituiva un periodo di riposo: i crucci lasciavano cadere il fucile, si disperdevano fra le anfrattuosità delle valli e stavano tanto tranquilli, intenti a mangiare pane e formaggio, che si dimenticava la bellicosìtà delle loro uniformi e potevano esser presi per bifolchi inoffensiнvi. Quest'anno invece, come truppe ammutinate che vociasseнro brandendo le armi, erano rimasti adunati e, a casa sua, gli suscitavano lo sgomento di un colonnello che abbia detto: "Fate rompere le righe!" e che dopo vede il reggimento più serrato e minaccioso che mai.

Bande, mortaretti, campane, "zingarelle" e Tè Deum all'arнrivo, va bene; ma dopo la rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel frack di don Calogero, la bellezza di Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta, Tancredi che precipitava i tempi dell'evoluzione prevista e cui anzi l'infatuazione sensuale dava modo d'infiorarne i motivi realistici; gli scrupoli e gli equivoci del Plebiscito; le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zampa.

Tancredi era partito già da più di un mese e adesso se ne stava a Caserta accampato negli appartamenti del suo Re; da lì inviava ogni tanto a Don Fabrizio lettere che questi leggeva con sorrisi e ringhi alternati e che poi riponeva nel più remoto cassetto della scrivania. A Concetta non aveva scritto mai ma non dimenticava di farla salutare con la consueta affettuosa malizia; una volta anzi aveva scritto: "Bacio le mani di tutte le Gattopardine, e soprattutto quelle di Concetta" frase che venne censurata dalla prudenza paterna quando la lettera venne letta alla famiglia. Angelica veniva a far visita quasi ogni giorno, più seducente che mai accompagnata dal padre o da una cameriera iettatoria: ufficialmente le visite erano fatte alle amichette, alle ragazze, ma di fatto si avvertiva che il loro acme era raggiunto al momento in cui essa chiedeva con indifferenza: "E sono arrivate notizie del Principe?" "Il Princiнpe" nella bella bocca di Angelica non era ahimè! il vocabolo per designare lui, Don Fabrizio, ma quello usato per evocare il capitanuccio garibaldino; e ciò provocava in Salina un sentimento buffo tessuto nel cotone dell'invidia sensuale e nella seta del compiacimento per il successo del caro Tancredi; sentimento, a conti fatti, sgradevole. Alla domanda rispondeva sempre lui stesso: in forma meditatissima riferiva quanto sapeнva, avendo cura però di presentare una pianticella di notizie ben rimondata alla quale le sue caute cesoie avevano asportato tanto le spine (narrazioni di frequenti gite a Napoli, allusioni chiarissime alla bellezza delle gambe di Aurora Schwarzwald, ballerinetta del San Carlo) quanto i boccioli prematuri ("damнmi notizie della signorina Angelica" - "nello studio di Ferdinando II ho visto una Madonna di Andrea del Sarto che mi ha ricordato la signorina Sedàra"). Plasmava così una immagine insipida di Tancredi, assai poco veritiera, ma così, anche, non si poteva dire che egli recitasse la parte del guastafeste o quella del paraninfo. Queste precauzioni verbali corrispondevano assai bene ai propri sentimenti nei riguardi della ragionata passione di Tancredi ma lo irritavano in quanto lo stancavano; esse erano del resto soltanto un esemplare dei cento raggiri di linguaggio e di contegno che da qualche tempo era costretto a escogitare; ripensava con rimpianto alla situazione di un anno prima quando diceva tutto quanto gli passasse per il capo, sicuro che ogni sciocchezza sarebbe stata accettata come parola di Vangelo, e qualsiasi improntitudine come noncuranza principesca. Postosi sulla via del rimpianto del passato, nei momenti di peggior malumore si spingeva assai lontano giù per questa china pericolosa: una volta, mentre inzuccherava la tazza di tè tesagli da Angelica, si accorse che stava invidiando le possibilità di quei tali Fabrizi Corbèra e Tancredi Falconeri di tre secoli prima che si sarebbero cavati la voglia di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi senza dover passare davanti al parroco, noncuranti delle doti delle villane (che del resto non esistevano) e scaricati della necessità di costringere i loro rispettabili zii a danzar fra le nova per dire o tacere le cose appropriate. L'impulso di lussuria atavica (che poi non era del tutto lussuria ma anche atteggiamento sensuale della pigrizia) fu brutale al punto da fare arrossire il civilizzatissimo gentiluomo cinquantenne, e l'animo di lui che, pur attraverso numerosi filtri, aveva finito con tingersi di rousseauiani scrupoli, si vergognò profondaнmente; dal che venne dedotto un ancor più acuto ribrezzo verso la congiuntura sociale nella quale era incappato.

La sensazione di trovarsi prigioniero di una situazione che evolvesse più rapidamente di quanto fosse previsto era particolarmente acuta quella mattina. La sera prima infatti, la corriera che dentro la cassa giallina portava irregolarmente la scarsa posta di Donnafugata gli aveva recato una lettera di Tancredi.

Prima ancora di esser letta essa aveva proclamato la propria importarla scritta com'era su sontuosi foglietti di carta lucida e con calligrafia chiara e armoniosa. Si rivelava subito come la "bella copia" di chissà quante bozze disordinate. Il Principe in essa non veniva chiamato "zione," appellativo che gli era divenuto caro, ma "carissimo zio Fabrizio," formula che possedeva molteplici meriti: quello di allontanare fin dall'inizio qualsiasi sospetto di celia, quello di far presentire l'importanza di ciò che sarebbe stato scritto in seguito, quello di permettere, all'occorrenza, di mostrare la lettera a chiunque ed anche quello di riallacciarsi ad antichissime tradizioni religiose che attribuivano un potere vincolatorio alla precisione del nome invocato.

Il "carissimo zio Fabrizio," dunque, era informato che il suo "affezionatissimo e devotissimo nipote" era da tre mesi preda del più violento amore e che ne "i rischi della guerra" (leggi: passeggiate nel parco di Casetta) ne "le molte attrattive di una grande città" (leggi: i vezzi della ballerina Schwarzwald) avevano sia pure un momento potuto allontanare dalla sua mente e dal suo cuore l'immagine della signorina Angelica Sedàra (qui una lunga processione di aggettivi volti ad esaltare la bellezza, la grazia, la virtù, l'intelletto dell'oggetto amato); attraverso nitidi ghirigori d'inchiostro e di sentimenti si diceva poi come il Tancredi stesso, cosciente della propria indegnità, avesse cercato di soffocare il proprio ardore ("lunghe ma vane sono state le ore durante le quali o fra il chiasso di Napoli o fra l'austerità dei miei compagni d'arme ho cercato di reprimere i miei sentimenti"). Adesso però l'amore aveva superato il riteнgno, ed egli veniva a pregare l'amatissimo zio di volere a suo nome richiedere la mano della signorina Angelica al "suo stimabilissimo padre." "Tu sai, zio, che io non posso offrire alla fanciulla amata null'altro all'infuori del mio amore, del mio nome e della mia spada." Dopo questa frase a proposito della quale occorre non dimenticare che allora ci si trovava in pieno meriggio romantico, Tancredi si abbandonava a lunghe considerazioni sulla opportunità, anzi sulla necessità che unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedàraа (una volta si spingeva fino a scrivere arditamente "casa Sedàra") venissero incoraggiate per l'apporto di sangue nuovo che ,,esse recavano ai vecchi casati, e per l'azione di livellamento , dei ceti che era uno degli scopi dell'attuale movimento politico, in Italia. Questa fu la sola parte della lettera che don Fabrizio eleggesse con piacere, non soltanto perché essa confermava le sue previsioni e gli conferiva l'alloro di profeta, ma anche {.perché lo stile, riboccante di sottintesa ironia, gli evocava ..magicamente la figura del nipote, la nasalità beffarda della yivace, gli occhi sprizzanti malizia azzurrina, i ghignetti cortesi. Quando poi Don Fabrizio si avvide che questo squarcio .giacobino era esattamente racchiuso in un foglio cosìcché, volendo, si poteva far leggere la lettera pur sottraendone ilа capitoletto rivoluzionario, la sua ammirazione per il tatto di Tancredi raggiunse lo zenith. Dopo aver narrato brevemente le più recenti vicende guerresche ed espresso la convinzione che entro un anno si sarebbe raggiunta Roma "predestinata capitale augusta dell'Italia nuova," si ringraziava per le cure e l'affetto ricevuti in passato e si conchiudeva scusandosi per l'ardire avuto nell'affidare a lui l'incarico "dal quale dipende la mia felicità futura." Poi si salutava (lui solo).

La prima lettura di questo straordinario brano di prosa diede un po' di capogiro a Don Fabrizio. Egli notò di nuovo |la stupefacente accelerazione della storia; per esprimersi in |termini moderni diremo che egli venne a trovarsi nello stato d'animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei paciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso n un apparecchio supersonico e comprenda che sarà alla meta prima di aver avuto il tempo di farsi il segno della croce. In secondo strato, quello affettuoso, della sua personalità si "fece strada ed egli si rallegrò della decisione di Tancredi che veniva ad assicurare la sua sodisfazione carnale, effimera, e la sua tranquillità economica, perenne. Dopo ancora però notò l'incredibile sicumera del giovanotto che postulava il proprio desiderio come già accettato da Angelica; ma alla fine tutti questi pensieri furono travolti da un grande senso di umiliazioнne per trovarsi costretto a trattare con Don Calogero di argomenti tanto intimi e anche da un fastidio per dovere l'indomani intavolare trattative delicate con l'uso di quelle precauzioni, di accorgimenti che ripugnavano alla sua natura presunta leonina.

Il contenuto della lettera venne comunicato da Don Fabriнzio soltanto alla moglie, quando già erano a letto sotto il chiarore azzurrino del lumino a olio incappucciato nello schermo di vetro. Maria-Stella dapprima non disse parola ma si faceva una caterva di segni di croce; poi affermò che non con la destra ma con la sinistra avrebbe dovuto segnarsi; dopo questa espressione di somma sorpresa, si scatenarono i fulmini della sua eloquenza. Seduta nel letto, le dita di lei gualcivano il lenzuolo, mentre le parole rigavano l'atmosfera lunare della camera chiusa, rosse come torce iraconde. "Ed io che avevo sperato che sposasse Concetta' Un traditore è, come tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! Lui, con la sua faccia falsa, con le sue parole piene di miele e le azioni cariche di veleno! Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non è tutta del vostro sangue!" Qui lasciò irrompere la carica di corazzieri delle scenate familiari: "Io lo avevo sempre detto! ma nessuno mi ascolta. Non ho mai potuto soffrirlo quel bellimbusto. Tu solo avevi perduto la testa per lui!" In realtà anche lei era stata soggiogata dalle moine di Tancredi; anch'essa lo amava ancora; ma la voluttà di gridare "la colpa è tua!" essendo la più forte che creatura umana possa godere, tutte le verità e tutti i sentimenti venivano travolti. "E adesso ha anche la faccia tosta di incaricare tè, suo zio, Principe di Salina e padrone suo cento volte, padre della creatura che ha ingannato di fare le sue indegne richieste a quel farabutto, padre di quella sgualdrina! Ma tu non lo devi fare, Fabrizio, non lo devi fare, non lo farai, non lo devi fare!" La voce diventava acuta, il corpo cominciava a irrigidirsi. Don Fabrizio ancora coricato sul dorso sogguardò di lato per assicurarsi che la valeriana fosse sul cassettone. La bottiglia era li ed anche il cucchiaio d'argento posato di traverso sul turacciolo; nella semioscurità glauca della camera brillavano come un faro rassicurante eretto contro le tempeste isteriche. Un momento volle alzarsi e prenderli; però si accontentò di mettersi a sedere anche lui; così riacquistò una parte di prestigio. "Stelluccia, non dire troppe sciocchezze; non sai quel che dici. Angelica non è una sgualdrina; lo diventerà forse, ma per ora è una ragazza come tutte, più bella delle altre e forse anche un tantino innamorata di Tancredi, come tutti. Soldi, intanto, ne avrà; soldi nostri in gran parte ma amministrati sin troppo bene da don Calogero; e Tancredi di questo ha gran bisogno: è un signore, è ambizioso, ha le mani bucate. A Concetta non aveva mai detto nulla, anzi è lei che da quando siamo arrivati qui lo trattava come un cane. E poi non è un traditore: segue i tempi, ecco tutto, in politica come nella vita privata, del resto è il più caro giovane che io conosca; e tu lo sai quanto me, Stelluccia mia."

Cinque enormi dita sfiorarono la minuscola scatola cranica di lei. Essa singhiozzava adesso; aveva avuto il buon senso di bere un sorso d'acqua e il fuoco dell'ira si era mutato in accoramento. Don Fabrizio cominciò a sperare che non sarebнbe stato necessario di uscire dal letto tiepido, di affrontare a piedi nudi una traversata della stanza già freschetta. Per esser sicuro della calma futura si rivesti di falsa furia: "E poi non voglio grida in casa mia, nella mia camera, nel mio letto! Niente di questi 'farai' e 'non farai!' Decido io; ho già deciso da quando tu non tè lo sognavi neppure. E basta!"

L'odiatore delle grida urlava lui stesso con quanto fiato capiva nel torace smisurato. Credendo avere un tavolo dinanzi a sé menò un gran pugno sul proprio ginocchio, si fece male e si calmò anche lui.

La moglie era spaurita e guaiolava basso come un cucciolo minacciato. "Dormiamo ora. Domani vado a caccia e dovrò alzarmi presto. Basta! Quel che è deciso è deciso. Buona notte, Stelluccia." Baciò la moglie, in fronte prima, segno di riconciliazione, in bocca poi, segno di amore. Si ridistese, si voltò dalla parte del muro. Sulla seta della parete l'ombra sua coricata si disegnava come il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo.

Stelluccia anch'essa si rimise a posto, e mentre la sua gamba destra sfiorava quella sinistra del Principe, essa si sentì tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero. Che importava Tancredi... ed anche Concetta...

Queste marce sul filo del rasoio erano sospese del tutto per il momento, insieme agli altri pensieri, nell'arcaicità odoroнsa della campagna, se così potevano chiamarsi i luoghi nei quali si trovava così spesso a cacciare. Nel termine "campagna" è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell'idenнtico stato d'intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest'Ameriнca dell'antichità. Don Fabrizio e Tumeo salivano, scendevano, sdrucciolavano erano graffiati dalle spine tale quale come un Archedamo o un Filostrato qualunqui erano stati stancati e graffiati venticinque secoli prima; vedevano le stesse piante, un sudore altrettanto appiccicaticcio bagnava i loro abiti, lo stesso indifferente vento senza soste, marino, muoveva i mirti e le ginestre, spandeva l'odore del timo. Le improvvise soste pensose dei cani, la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s'invocava" Aneroide. Ridotta a questi elementi essenziali, col volto lavato dal belletto delle preoccupazioni, la vita appariva sotto un aspetto tollerabile.

Poco prima di giungere in cima al colle, quella mattina, Arguto e Teresina iniziarono la danza religiosa dei cani che hanno presentito la selvaggina: strisciamenti, irrigidimenti, caute alzate di zampe, latrati repressi: dopo pochi minuti un culetto di peli bigi guizzò fra le erbe, due colpi quasi simultanei posero termine alla silenziosa attesa; Arguto depose ai piedi del Principe una bestiola agonizzante. Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orrendi squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da due grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimproveнro ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l'ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampetto vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile fuga; l'animale moriva torturato da un'ansiosa speranza di salvezza, immaginando di poter ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini; mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito, e morì; ma Don Fabrizio e Tumeo avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato, in aggiunta al piacere di uccidere, anche quello rassicurante di compatire.

Quando i cacciatori giunsero in cima al monte, di fra i tamerici e i sugheri radi apparve l'aspetto vero della Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili. L'aspetto di un'aridità ondulante all'infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde. Donnafugata, rannicchiata, si nascondeva in una piega anonima del terreno, e non si vedeva un'anima: sparuti filari di viti denunziavano soli un qualche passaggio di uomini. Oltre le colline, da una parte, la macchia indaco del mare, ancor più duro e infecondo della terra. Il vento lieve passava su tutto, universalizzava odori di stereo, di carogne e di salvie, cancellava, elideva, ricomponeva ogni cosa nel proprio trascorrere noncurante; prosciugava le goccioline di sangue che erano l'unico lascito del coniglio, molto più in là andava ad agitare la capelliera di Garibaldi e dopo ancora cacciava il pulviscolo negli occhi dei soldati napoletani che rafforzavano in fretta i bastioni di Gaeta, illusi da una speranza che era vana quanto lo era stata la fuga stramazzata della selvaggina.

Nella circoscritta ombra dei sugheri il Principe e l'organiнsta si riposarono: bevevano il vino tiepido delle borracce di legno, accompagnavano un pollo arrosto venuto fuori dal carniere di Don Fabrizio con i soavissimi "muffoletti" cosparsi di farina cruda che don Ciccio aveva portato con sé; degustaнvano la dolce "insòlia" quell'uva tanto brutta da vedere quanto buona da mangiare; saziarono con larghe fette di pane la fame dei bracchi che stavano di fronte a loro impassibili come uscieri concentrati nella riscossione dei propri crediti. Sotto il sole costituzionale Don Fabrizio e don Ciccio furono poi sul punto di addormentarsi.

Ma se una fucilata aveva ucciso il coniglio, se i cannoni rigati di Cialdini scoraggiavano già i soldati napoletani, se il calore meridiano addormentava gli uomini, niente invece poteнva fermare le formiche. Richiamate da alcuni chicchi di uva stantia che don Ciccio aveva risputato via, le loro fìtte schiere accorrevano, esaltate dal desiderio di annettersi quel po' di marciume intriso di saliva di organista. Si facevano avanti colme di baldanza, in disordine ma risolute: gruppetti di tre o quattro sostavano un po' a parlottare e, certo esaltavano la gloria secolare e la prosperità futura del formicaio n. 2 sotto il sughero n. 4 della cima di monte Morco; poi insieme alle altre riprendevano la marcia verso il sicuro avvenire; i dorsi lucidi di quegli insetti vibravano di entusiasmo e, senza dubbio, al di sopra delle loro file, trasvolavano le note di un inno.

Come conseguenza di alcune associazioni d'idee che non sarebbe opportuno precisare; l'affaccendarsi delle formiche impedì il sonno a Don Fabrizio e gli fece ricordare i giorni del plebiscito quali egli li aveva vissuti poco tempo prima a Donnafugata stessa; oltre ad un senso di sorpresa quelle giornaнte gli avevano lasciato parecchi enigmi da sciogliere; adesso al cospetto di questa natura che, tranne le formiche, se le infischiava evidentemente, era forse possibile cercare la Suzione di uno di essi. I cani dormivano distesi e appiattiti come figurine ritagliate, il coniglietto appeso con la testa in giù ad un ramo pendeva in diagonale sotto la spinta continua del vento, ma Tumeo, aiutato in questo dalla sua pipa, riusciva ancora a tenere gli occhi aperti.

"E voi, don Ciccio, come avete votato il giorno Ventuno?"

Il pover'uomo sussultò. Preso alla sprovvista, in un momenнto nel quale si trovava fuori del recinto di siepi precauzionali nel quale si chiudeva di solito come ogni suo compaesano, esitava, non sapendo come rispondere.

Il Principe scambiò per timore quel che era soltanto sorpresa e si irritò. "Insomma, di chi avete paura? Qui non ci siamo che noi, il vento e i cani."

La lista dei testimoni rassicuranti non era, a dir vero, felice; il vento è chiacchierone per definizione, il Principe era per metà siciliano. Di assoluta fiducia non c'erano che i cani e soltanto in quanto sprovvisti di linguaggio articolato. Don Ciccio però si era ripreso e la astuzia paesana gli aveva suggerito la risposta giusta, cioè nulla. "Scusate, Eccellenza, la vostra è una domanda inutile. Sapete già che a Donnafugata tutti hanno votato per il 'sì'."

Questo Don Fabrizio lo sapeva, infatti; e appunto per ciò la risposta non fece che trasformare un enigma piccolino in un enigma storico. Prima della votazione molte persone erano venute da lui a chiedere consiglio; tutte sinceramente erano state esortate a votare in modo affermativo. Don Fabrizio infatti non concepiva neppure come si potesse fare altrimenti, sia di fronte al fatto compiuto come rispetto alla teatrale banalità dell'atto, così di fronte alla necessità storica come anche in considerazione dei guai nei quali quelle umili persone sarebbeнro forse capitate quando il loro atteggiamento negativo fosse stato scoperto. Si era accorto però che molti non erano stati convinti dalle sue parole. Era entrato ih gioco il machiavelliнsmo incolto dei Siciliani che tanto spesso induceva, in quei tempi, questa gente, generosa per definizione, ad erigere impalнcature complesse fondate su fragilissime basi. Come dei clinici abilissimi nelle cure ma che si basassero su analisi del sangue e delle orine radicalmente erronee, e per far correggere le quali fossero troppo pigri, i Siciliani (di allora) finivano con l'uccidere l'ammalato, cioè loro stessi, proprio in seguito alla raffinatissima astuzia che non era quasi mai appoggiata a una reale conoscenza dei problemi o, per lo meno, degli interlocutori. Alcuni fra questi che avevano compiuto il viagнgio ad limino Gattopardorum stimavano cosa impossibile che un Principe di Salina potesse votare in favore della Rivoluzione (così in quel remoto paese venivano ancora designati i recenti mutamenti) e interpretavano i ragionamenti di lui come uscite ironiche volte a ottenere un risultato pratico opposto a quello suggerito a parole; questi pellegrini (ed erano i migliori) erano usciti dal suo studio ammiccando per quanto il rispetto lo permettesse loro, orgogliosi di aver penetrato il senso delle parole principesche e fregandosi le mani per congratularsi della propria perspicacia proprio nell'istante in cui questa si era ecclissata. Altri invece dopo averlo ascoltato si allontanavaнno contristati, convinti che lui fosse un transfuga o un menteнcatto e più che mai decisi a non dargli retta e ad obbedire invece al proverbio millenario che esorta a preferire un male già noto a un bene non sperimentato; questi erano riluttanti a ratificare la nuova realtà nazionale anche per ragioni personali, sia per fede religiosa, sia per aver ricevuto favori dal passato regime e non aver poi saputo inserirsi nel nuovo con sufficiente sveltezza; sia infine perché durante il trambusto della liberazioнne erano loro scomparsi qualche paio di capponi e alcune misure di fave ed erano invece spuntate qualche paia di corna, o liberamente volontarie come le truppe garibaldine o di leva forzosa come i reggimenti borbonici. Per una diecina almeno di persone egli aveva avuta l'impressione penosa ma netta che avrebbero votato "no", una minoranza esigua certamente ma non trascurabile nel piccolo elettorato donnafùgasco. Ove poi si voglia considerare che le persone venute da lui rappresentaнvano soltanto il fior fiore del paese e che qualche non convinto dovesse pur esserci fra quelle centinaia di elettori che non si erano neppur sognati di farsi vedere a palazzo, il Principe aveva calcolato che la compattezza affermativa di Donnafugata sarebbe stata variegata da una trentina di voti negativi.

Il giorno del Plebiscito era stato ventoso e coperto, e per le strade del paese si erano visti aggirarsi stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di "sì" infilato nel nastro del cappello. Fra le cartacce e i rifiuti sollevati dai turbini di vento, cantavano alcune strofe della "Bella Gigougin" trasformate in nenie arabe, sorte cui deve soggiacere qualsiasi melodietta vivace che sia cantata in Sicilia. Si erano anche viste due o tre "facce forestiere" (cioè di Girgenti) insediate nella taverna di zzu Menico dove decantavano le "'magnifiche sorti e progressive" di una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia; alcuni contadini stavano muti ad ascoltarli, abbrutiti com'erano, in parti eguali, da un immoderato impiego dello "zappone" e dai molti giorni di ozio coatto ed affamato. Scaracchiavano e sputavano spesso ma tacevano; tanto tacevaнno che dovette essere allora (come disse poi Don Fabrizio) che le "facce forestiere" decisero di anteporre, fra le arti del Quadrivio, la Matematica alla Rettorica.

Verso le quattro del pomeriggio il Principe si era recato a votare fiancheggiato a destra da Padre Pirrone, a sinistra da don Onofrio Rotolo; accigliato e pelli-chiaro procedeva cauto verso il Municipio e spesso con le mani si proteggeva gli occhi per impedire che quel ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via, gli cagionasse quella congiuntivite cui era soggetto; e andava dicendo a Padre Pirrone che senza vento l'aria sarebbe stata come uno stagno putrido ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé molte porcherie. Portava la stessa redingote nera con la quale tre anni fa, si era recato a Caserta per ossequiare quel povero Re Ferdinando che, per fortuna sua, era morto a tempo per non esser presente in questa giornata flagellata da un vento impuro durante la quale si poneva il suggello alla sua insipienza. Ma era poi stata insipienza davvero? Allora tanto vale dire che chi soccombe al tifo muore per insipienza. Ricordò quel Re affaccendato a dare corso a fiumi di cartacce inutili ed ad un tratto si avvide quanto inconscio appello alla misericordia si fosse manifestato in quel volto antipatico. Questi pensieri erano sgradevoli come tutti quelli che ci fanno comprendere le cose troppo tardi e l'aspetto del Principe, la sua figura, divennero tanto solenni e neri che sembrava seguisse un carro funebre invisibile. Soltanto la violenza con la quale i ciottolini della strada venivano schizzati via dall'urto rabbioso dei piedi rivelava i conflitti interni; è superfluo dire che il nastro della sua tuba era vergine di qualsiasi cartello ma agli occhi di chi lo conoscesse un "si" e un "no" alternati s'inseguivano sulla lucentezza del feltro.

Giunto in un locale del Municipio dove era il luogo di votazione fu sorpreso vedendo come tutti i membri del seggio si alzarono quando la sua statura riempi intera l'altezza della porta; vennero messi da parte alcuni contadini arrivati prima e che volevano votare e così, senza dover aspettare, Don Fabrizio consegnò il proprio "si" nelle patriottiche mani del sindaco Sedàra. Padre Pirrone invece non votò affatto perché era stato attento a non farsi iscrivere come residente nel paese. Don 'Nofrio, lui, obbedendo agli ordini del Principe, manifestò la propria monosillabica opinione sulla complicata quistione italiana, capolavoro di concisione che venne compiuto con la medesima buona grazia con la quale un bambino beve l'olio di ricino.

Dopo di che tutti furono invitati a "prendere un bicchieriнno" su, nello studio del sindaco; ma Padre Pirrone e don 'Nofrio misero avanti buone ragioni di astinenza l'uno, di mal di pancia l'altro e rimasero abbasso. Don Fabrizio dovette affrontare il rinfresco da solo.

Dietro la scrivania di don Calogero fiammeggiava una oleografia di Garibaldi e (di già) una di Vittorio Emanuele, fortunatamente collocata a destra; bell'uomo il primo, bruttissiнmo il secondo affratellati però dal prodigioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. Su un tavolinetto vi era un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto e dodici bicchierini tozzi colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi, in centro; ingenua simbolizzazione della nuova bandiera che venò di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco perché presumibilmente meno indigesto e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo borbonico. Le tre varietà di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticce e disgustevoli. Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono mute. Venne mostrata a Don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata completata entro, il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse.

Prima del tramonto le tre o quattro bagascette di Donnafugata (ve ne erano anche li non raggruppate ma operose nelle loro aziende private) comparvero in piazza col crine adorno di nastrini tricolori per protestare contro l'esclusione delle donne dal voto; le poverine vennero beffeggiate via anche dai più accesi liberali e furono costrette a rintanarsi. Questo non impedì che il "Giornale di Trinacria" quattro giorni dopo facesse sapere ai Palermitani che a Donnafugata "alcune gentili rappresentanti del bei sesso hanno voluto manifestare la propria fede inconcussa nei nuovi fulgidi destini della Patria amatissima, ed hanno sfilato nella piazza fra il generale consenso di quella patriottica popolazione."

Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all'opera ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunzio che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:

Iscritti 515; votanti 512; "si" 512; "no" zero.

Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; dal balconcino di casa sua Angelica, insieme alla cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete all'altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto era finito, e non rimase che l'oscurità come ogni altra sera, da sempre.

Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido sotto la gran luce; la cupezza di quella notte però ristagnava ancora in fondo all'anima di Don Fabrizio. Il suo disagio assumeva forme tanto più penose in quanto più incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl'interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi avvenimenti ammaccati ma ancora vitali; date le circostanze non era lecito chiedere di più; il disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici più profonde radicate in una di quelle cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli d'ignoнranza di noi stessi.

L'Italia era nata in quell'accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì in quel paese dimenticato quanto nell'ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però della quale non si conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D'accordo. Eppure questa persistente inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morнto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare.

Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.

"Io, Eccellenza, avevo votato 'no'. 'No,' cento volte 'no.' Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi, ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo e un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la Masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito,' come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella... (e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!"

A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l'enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che più si sarebbe dovuta curare, il cui irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutili. Il voto negativo di don Ciccio, cinquanta voti simili a Donnafugata, centomila "no" in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significatiнvo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime. Sei mesi fa si udiva la voce dispotica che diceva: "fai come dico io, o saranno botte." Adesso si aveva di già l'impressione che la minaccia venisse sostituita dalle parole molli dell'usuraio: "Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? È tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda la cambiale! la tua volontà è uguale alla nostra."

Don Ciccio tuonava ancora: "Per voi signori è un'altra cosa. Si può essere ingrati per un feudo in più; per un pezzo di pane la riconoscenza è un obbligo. Un altro paio di maniche ancora è per i trafficanti come Sedàra per i quali approfittare è legge di natura. Per noi piccola gente le cose sono come sono. Voi lo sapete, Eccellenza, la buon'anima di mio padre era guardacaccia nel Casino reale di S. Onofrio, già al tempo di Ferdinando IV quando c'erano qui gl'Inglesi. Si faceva vita dura ma l'abito verde reale e la placca d'argento conferivano autorità. Fu la regina Isabella, la spagnuola, che era duchessa di Calabria allora, a farmi studiare a permettermi di essere quello che sono, Organista della Madre Chiesa, onorato della benevolenza di Vostra Eccellenza; e negli anni di maggior bisogno quando mia madre mandava una supplica a corte, le cinque 'onze' di soccorso arrivavano sicure come la morte, perché là a Napoli ci volevano bene, sapevano che eravamo buona gente e sudditi fedeli. Quando il Re veniva erano manacciate sulla spalla di mio padre e: 'Don Lionà, ne vurria tante come a vuie, fedeli sostegni del Trono e della Persona mia.' L'aiutante di campo, poi, distribuiva le monete d'oro. Elemosine le chiamano ora, queste generosità di veri Re; lo dicono per non dover darle loro, ma erano giuste ricompense alla devozione. E oggi se questi santi Re e belle Regine guardano dal Cielo che dovrebbero dire? 'Il figlio di don Leonardo Tumeo ci ha tradito!' Meno male che in Paradiso si conosce la verità. Lo so, Eccellenza, le persone come voi me lo hanno detto, queste cose da parte dei Reali non significano niente, fanno parte del loro mestiere! Sarà vero, è vero, anzi. Ma le cinque onze d'oro c'erano, è un fatto, e con esse ci si aiutava a campare l'inverno. E ora che potevo riparare il debito, niente. 'Tu non ci sei.' Il mio 'no' diventa un 'si'. Ero un 'fedele suddito,' sono diventato un 'borbonico schifoso.' Ora tutti Savoiardi sono! ma io i Savoiardi me li mangio col caffè, io!" E tenendo fra il pollice e l'indice un biscotto fittizio lo inzuppava in una immaginaria tazza.

Don Fabrizio aveva sempre voluto bene a don Ciccio, ma era stato un sentimento nato dalla compassione per ogni persona che da giovane si era creduta destinata all'arte e che da vecchio, accortosi di non possedere talento, continua ad esercitare quella stessa attività su scalini più bassi, con in tasca i propri poveri sogni; e compativa anche la sua contegnosa miseria. Ma adesso provava anche una specie di ammirazione per lui e nel fondo, proprio nel fondo, della sua altera coscienнza una voce chiedeva se per caso don Ciccio non si fosse comportato più signorilmente del Principe di Salina; e i Sedàra, tutti questi Sedàra da quello minuscolo che violentava l'aritmetica a Donnafugata a quelli maggiori a Palermo, a Torino,' non avevano forse commesso un delitto strozzando queste coscienze? Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell'acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamenнto della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata.

Don Ciccio si era sfogato; ora alla sua autentica ma rara personificazione del "galantuomo austero" subentrava l'altra, assai più frequente e non meno genuina dello "snob." Perché Tumeo apparteneva alla specie zoologica degli "snob passivi," specie adesso ingiustamente vilipesa. Beninteso la parola "snob" era ignota nel 1860 in Sicilia, ma così come prima di Koch esistevano i tubercolotici, così in quella remotissima età esisteva la gente per la quale ubbidire, imitare e soprattutto non far della pena a chi si stima di levatura sociale superiore alla propria, è legge suprema di vita: lo "snob" essendo infatti il contrario dell'invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi differenti: era chiamato "devoto," "affezionato," "fedele"; e trascorreva vita felice perché il più fuggevole sorriso di un nobiluomo era sufficiente a riempire di sole una intera sua giornata; e, poiché si profilava accompagnato da quegli appelнlativi affettuosi, le grazie ristoratrici erano più frequenti di quel che siano adesso. Là cordiale natura snobistica di don Ciccio, dunque, temette di aver recato fastidio a Don Fabrizio e la di lui sollecitudine si affrettava a cercare i mezzi per fugare le ombre accumulatesi per sua colpa, credeva, sul ciglio olimpico del Principe; il mezzo più immediatamente idoneo era quello di proporre di riprendere la caccia; e così fu fatto.

Sorprese durante la loro siesta meridiana alcune sventurate beccacele e un altro coniglio caddero sotto i colpi dei cacciaнtori, colpi, quel giorno, particolarmente spietati perché tanto Salina quanto Tumeo si compiacevano nell'identificare con don Calogero Sedàra quegli innocenti animali. Gli sparacchia-menti, però, i batuffoli di pelo o di penne che gli spari facevano un istante brillare al sole, non bastavano però quel giorno a rasserenare il Principe; via via che le ore passavano e che il ritorno a Donnafugata si avvicinava, la preoccupazione, il dispetto, l'umiliazione per la imminente conversazione con il plebeo sindaco lo opprimevano, e l'aver chiamato in cuor suo "don Calogero" due beccacce e un coniglio non era servito dopo tutto a nulla; benché fosse già. deciso a inghiottire lo schifosissimo rospo, senti il bisogno di possedere più ampie informazioni sull'avversario o, per meglio dire, di sondare l'opinione della gente riguardo al passo che stava per compiere. Fu così che per la seconda volta in quel giorno don Ciccio venne sorpreso da una domanda a bruciapelo.

"Don Ciccio, statemi a sentire. Voi che vedete tante persone in paese, che cosa si pensa veramente di don Calogero a Donnafugata?"

A Tumeo, in verità, sembrava di aver già espresso con sufficiente chiarezza la propria opinione sul sindaco, e così stava per rispondere quando gli balenarono in mente le vaghe voci che aveva inteso sussurrare circa la dolcezza degli occhi con i quali Don Tancredi contemplava Angelica; ed allora venne assalito dal dispiacere di essersi lasciato trascinare a manifestazioni tribunizie che forse Ruzzavano alle narici del Principe se quel che si assumeva era vero; e ciò mentre in un altro compartimento della sua mente egli si rallegrava di non aver detto nulla di positivo contro Angelica; anzi il lieve dolore che ancora sentiva al suo indice destro gli fece l'effetto di un balsamo.

"Dopo tutto, Eccellenza, don Calogero Sedàra non è peggiore di tanta altra gente venuta su in questi ultimi mesi." L'elogio era modesto ma fu sufficiente a permettere a Don Fabrizio d'insistere "Perché, vedete, don Ciccio, a me interessa molto di conoscere la verità su don Calogero e la sua famiglia."

"La verità, Eccellenza, è che don Calogero è molto ricco, e molto influente anche; che è avaro (quando la figlia era in collegio lui e la moglie mangiavano in due un uovo fritto) ma che quando occorre sa spendere; e poiché ogni 'tari' speso nel mondo finisce in tasca a qualcheduno è successo che molta gente ora dipende da lui; e poi quando è amico, è amico, bisogna dirlo; la sua terra la da a quattro terraggi e i contadini debbono crepare per pagarlo, ma un mese fa ha prestato cinquanta onze a Pasquale Tripi che lo aveva aiutato nel periodo dello sbarco; e senza interessi, il che è il più grande miracolo che si sia visto da quando Santa Rosalia fece cessare la peste a Palermo. Intelligente come un diavolo, del resto: Vostra Eccellenza avrebbe dovuto vederlo nella primavera scorsa: andava avanti e indietro in tutto il territorio come un pipistrello, in carrozzino, sul mulo, a piedi, pioggia o sereno che fosse; e dove era passato si formavano circoli segreti, si preparava la strada per quelli che dovevano venire. Un castigo di Dio, Eccellenza, un castigo di Dio! E ancora non vediamo che il principio della sua carriera! fra qualche mese sarà deputato a Torino, e fra qualche anno, quando saranno posti in vendita i beni ecclesiastici, pagando quattro soldi, si prenderà i feudi di Marca e di Masciddàro, e diventerà il più gran proprietario della provincia. Questo è don Calogero, Eccellenнza, l'uomo nuovo come dev'essere; è peccato però che debba essere così."

Don Fabrizio ricordò la conversazione di qualche mese prima con Padre Pirrone nell'osservatorio sommerso nel sole; quel che aveva predetto il Gesuita si avverava; ma non era forse una buona tattica quella d'inserirsi nel movimento nuovo e farlo volgere, almeno in parte, a favore di alcuni individui della sua classe? Il fastidio della conversazione vicina con don Calogero diminuì.

"Ma gli altri di casa, don Ciccio, gli altri, come sono veramente?"

"Eccellenza, la moglie di Don Calogero non l'ha vista nessuno da anni, meno di me. Esce soltanto per andare a messa, alla prima messa, quella delle cinque, quando non c'è nessuno. A quell'ora servizio di organo non ce n'è; ma io una volta ho fatto una levataccia apposta per vederla. Donna Bastiana entrò accompagnata dalla cameriera, ed io impedito dal confessionale dietro il quale mi ero nascosto, non riuscivo a vedere molto; ma alla fine del servizio il caldo fu più forte della povera donna ed essa scartò il velo nero. Parola d'onore, Eccellenza, essa è bella come il sole! e non si può dar torto a don Calogero se, scarafaggio come è lui, se la vuoi tenere lontana dagli altri. Però anche dalle case meglio custodite le notizie finiscono col gocciolare; le serve parlano; e pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l'orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta." Don Ciccio che, pupillo di regine e seguace di principi, teneva molto alle proprie semplici maniere che stimava perfette, sorrideva compiaciuto: aveva scoperto il modo di prendersi un po' di rivincita sull'annientatore della propria personalità. "Del resto" continuava "non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?" Voltatesi, si alzò sulla punta dei piedi e con l'indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso. "È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio, e torvo era che tutti lo chiamavano 'Peppe 'Mmerda'. Scusate la parola, Eccellenza." E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. "Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici 'lupare' nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando imнportuno e prepotente."

Molte di queste cose erano già note a Don Fabrizio ed erano state passate in bilancio; ma il soprannome del nonno di Angelica non lo conosceva; esso apriva una prospettiva storica profonda, svelava abissi in paragone dei quali don Calogero sembrava un'aiuola da giardino. Senti veramente il terreno mancargli sotto i piedi; come avrebbe fatto Tancredi a mandar giù anche questo? e lui stesso? La sua testa si mise a calcolare quale legame di parentela avrebbe potuto unire il Principe di Salina, zio dello sposo, al nonno della sposa; non ne trovò, non ve n'erano. Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno era servito solo da fertilizzante. "Non olet" ripeteva "non olet" anzi "optime foeminam ac contubernium olet."

"Di tutto mi avete parlato, don Ciccio, di madri selvagge e di nonni fecali, ma non di ciò che mi interessa di più, della signorina Angelica."

Il segreto sulle intenzioni matrimoniali di Tancredi, benché ancora embrionali sino a poche ore prima, sarebbe stato certaнmente divulgato se, per caso, non avesse avuto la fortuna di mimetizzarsi. Senza dubbio erano state notate le frequenti visite del giovane alla casa di don Calogero come pure i suoi sorrisi rapiti; le mille piccole premure, abituali e insignificanti in città, divenivano sintomi di violente brame agli occhi del puritanesimo donnafugasco. Lo scandalo maggiore era stato il primo: i vecchietti che si rosolavano al sole e i ragazzini che duellavano avevano visto tutto, compreso tutto e ripetuto tutto; sui significati ruffianeschi e afrodisiaci di quella dozzina di pesche erano state consultate megere espertissime e libri disvelatori di arcani fra i quali in primo luogo il Rutilio Benincasa, l'Aristotile delle plebi contadine. Per fortuna si era prodotto un fenomeno relativamente frequente da noi: il desiderio di malignare aveva mascherato la verità; tutti si erano costruiti il pupazzo di un Tancredi libertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e basta. Il semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un Principe di Falconeri e una nipote di Peppe 'Mmerda non traversò neppure l'immaginazione di quei villici che rendevano cosf alle case feudali un omaggio equivalente a quello che il bestemmiatore rende a Dio. La partenza di Tancredi troncò poi queste fantasie e non se ne parlò più. Sotto questo riguardo Tumeo era stato alla pari con gli altri e perciò accolse la domanda del Principe con l'aria divertita di un uomo anziano che parli delle bricconate di un giovanotto.

"Della signorina, Eccellenza, non c'è niente da dire: essa parla da sé: i suoi occhi, la sua pelle, la sua magnificenza sono esplicite e si fanno capire da tutti. Credo che il linguaggio che parlano sia stato ben compreso da Don Tancredi; o sono troppo maligno a pensarlo? In lei c'è tutta la bellezza della madre senza l'odor di beccume del nonno. E intelligente poi! Avete visto come questi pochi anni a Firenze sono bastati a trasformarla? È diventata una vera signora" continuava don Ciccio che era insensibile alle sfumature "una signora compleнta. Quando è ritornata dal collegio mi ha fatto venire a casa sua e mi ha suonato la mia vecchia mazurka: Suonava male ma vederla era una delizia, con quelle trecce nere, quegli occhi, quelle gambe, quel petto... Uuh! altro che odore di beccume! le sue lenzuola devono avere il profumo del paraнdiso!"

Il Principe si seccò: tanto geloso è l'orgoglio di classe, anche nel momento in cui traligna, che quelle lodi orgiastiche alla procacia della futura nipote lo offesero; come ardiva don Ciccio esprimersi con questo lascivo lirismo nei riguardi della futura Principessa di Falconeri? Era vero però che il pover'uomo non ne sapeva niente; bisognava raccontargli tutto; del resto fra qualche ora la notizia sarebbe stata pubblica. Si decise subito e rivolse a Tumeo un sorriso Gattopardesco ma amichevole: "Calmatevi, caro don Ciccio, calmatevi; a casa ho una lettera di mio nipote che mi incarica di fare una domanda di matrimonio per la signorina Angelica; da ora in poi ne parlerete col vostro consueto ossequio. Siete il primo a conoscere la notizia, ma per questo vantaggio dovrete pagare: ritornato a palazzo sarete rinchiuso a chiave insieme .a Teresina nella stanza dei fucili; avrete il tempo di ripulirne e oliarne parecchi e sarete posto in libertà soltanto dopo la visita di don Calogero; non voglio che niente trapeli prima."

Sorpresi così alla sprovvista, le cento precauzioni, i cento snobismi di don Ciccio crollarono di botto come un gruppo di birilli centrati in pieno. Sopravvisse solo un sentimento antichissimo.

"Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!"

Detto questo chinò il capo e desiderò, angosciato, che la terra si aprisse sotto i suoi piedi. Il Principe era diventato paonazzo, financo le orecchie, financo i globi degli occhi sembravano sangue. Strinse i magli dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. Ma era un uomo di scienza, abituato dopo tutto a vedere il prò e contro delle cose; inoltre sotto l'aspetto leonino era uno scettico. Aveva di già subito tanto oggi: il risultato del Plebiscito, il soprannome del nonno di Angelica, le "lupare"! E Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell'ambito di secolari consuetudini.

I pugni si riaprirono, i segni delle unghia rimasero impressi nei palmi. "Andiamo a casa, don Ciccio; voi certe cose non le potete capire. D'accordo come prima, siamo intesi?"

E mentre discendevano verso la strada sarebbe stato difficile dire quale dei due fosse don Chisciotte e quale Sancio.

Quando alle quattro e mezza precise gli venne annunziata la venuta puntualissima di don Calogero, il Principe non aveva ancora finita la propria toletta; fece pregare il signor Sindaco di aspettare un momento nello studio e, continuò, placido a farsi bello. Si unse i capelli con il lemo-liscio, il Lime-Juice di Atkinson, densa lozione biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzoni; rifiutò la redingote nera e la fece sostituire con una di tenuissima tinta lillà che gli sembrava più adatta all'occasione presunta festosa, indugiò ancora un poco per strapparsi dal mento, con una pinzetta, uno sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farla franca la mattina nell'affrettata rasatura; fece chiamare Padre Pirrone; prima di uscire prese su un tavolo un estratto delle Blatter der Himmeisforschung e con il fascicoletto arrotolato si fece il segno della croce, gesto di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso più frequente di quanto s'immagini.

Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroнso; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l'immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l'omiciattoнlo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuнni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio.

Don Calogero se ne stava li all'impiedi, piccolissimo, minuto e imperfettamente rasato; sarebbe davvero sembrato uno sciacalletto non fosse stato per i suoi occhietti sprizzanti intelligenza; ma poiché questo ingegno aveva uno scopo mateнriale opposto a quello astratto cui credeva tendere quello del Principe, esso venne considerato come segno di malignità. Sprovvisto del senso di adattamento dell'abito alle circostanze che nel Principe era innato, il sindaco aveva creduto far bene vestendosi quasi in gramaglie; egli era nero quasi quanto Padre Pirrone; ma, mentre questi si sedette in un cantuccio assumendo l'aria marmoreamente astratta dei sacerdoti che non vogliono pensare sulle decisioni altrui, il volto di lui esprimeva un sentimento di avida attesa quasi penoso da guardare. S'iniziarono subito le scaramuccie di parole insignifiнcanti che precedono le grandi battaglie verbali. Ma fu don Calogero a disegnare il grande attacco: "Eccellenza" chiese "ha ricevuto buone notizie da Don Tancredi?" Nei piccoli paesi allora il sindaco aveva modo di controllare, inofficiosamente, la posta, e l'inconsueta eleganza della lettera di Tancredi lo aveva forse posto in guardia. Il Principe quando questa idea gli passò per la testa, cominciò ad irritarsi.

"No, don Calogero, no. Mio nipote è diventato pazzo..."

Ma esiste una Dea protettrice dei principi. Essa si chiama Buone Creanze, e spesso interviene a salvare i Gattopardi dai mali passi. Però gli si deve pagare un forte tributo. Come Pallade Athena interviene a frenare le intemperanze di Odissee così Buone Creanze si manifestò a Don Fabrizio per fermarlo sull'orlo dell'abisso; ma egli dovette pagare la salvezza divenenнdo esplicito una volta tanto in vita sua. Con perfetta naturalezнza, Senza un attimo di sosta conchiuse la frase:

"pazzo di amore per vostra figlia, don Calogero; e me lo ha scritto ieri." Il sindaco conservò una sorprendente equanimità; sorrise e si diede a scrutare il nastro del proprio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al soffitto come se fosse un capomastro incaricato di saggiarne la solidità. Don Fabrizio rimase male: quelle taciturnità congiunte gli sottraevano anche la minima soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si accorse che don Calogero stava per parlare.

"Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25 Settembre, la vigilia della partenza di Don Tancreнdi; nel vostro giardino, vicino alla fontana. Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede. Per un mese ho atteso un passo di vostro nipote, e adesso pensavo già di venire a chiedere a Vostra Eccellenza quali fossero le intenzioni di lui."

Vespe numerose e pungenti assalirono Don Fabrizio. Anzi tutto, come si conviene ad ogni uomo non ancora decrepito, quella della gelosia carnale: Tancredi aveva assaporato quel gusto di fragole che a lui sarebbe rimasto sempre ignoto. Dopo, un senso di umiliazione sociale, quello di ritrovarsi ad essere l'accusato invece che il messaggero di buone nuove. Terzo un dispetto personale, quello di chi si sia illuso di controllare tutti e che invece trova che molte cose si svolgono senza che lui lo sappia.

"Don Calogero, non cambiarne le carte in tavola. Ricordaнtevi che sono stato io a pregarvi di venire qui. Volevo comuniнcarvi una lettera di mio nipote che è arrivata ieri. In essa si dichiara la passione sua per la signorina vostra figlia, passione che io..." (qui il Principe titubò un poco perché le bugie sono talvolta difficili da dire davanti a degli occhi a succhiello come quelli del sindaco) "della quale io ignoravo tutta l'intensità; ed a conclusione di essa egli mi ha incaricato di chiedere a voi la mano della signorina Angelica."

Don Calogero continuava a rimanere impassibile; Padre Pirrone da perito edile si era trasformato in santone mussulmano e, incrociate quattro dita della sua destra con quattro della, sinistra, faceva roteare i pollici l'uno attorno all'altro, invertendone e mutandone la direzione con sfoggio di fantasia coreografica. Il silenzio durò a lungo, il Principe si spazientì: "Adesso, don Calogero, sono io che aspetto che mi dichiariate le vostre intenzioni."

Il sindaco che aveva tenuto gli occhi rivolti verso la frangia arancione della poltrona del Principe, se li coprì un istante con la destra, poi li rialzò; adesso apparivano candidi, colmi di stupefatta sorpresa, come se davvero se li fosse cambiati in, quell'atto.аааааааааааааааааааааааааааааааааааааааааааааааа

"Scusatemi, Principe." (Alla fulminea omissione dell'"Eccellenza" don Fabrizio capi che tutto era felicemente consuнmato.) "Ma la bella sorpresa mi aveva tolto la parola. Io però sono un padre moderno e non potrò darvi una risposta definitiva se non dopo aver interrogato quell'angelo che è la consolazione della nostra casa. I diritti sacri di un padre, però, so anche esercitarli; io conosco tutto ciò che avviene nel cuore e nella mente di Angelica, e credo poter dire che l'affetto di Don Tancredi, che tanto ci onora tutti, è sinceramente ricambiato."

Don Fabrizio fu sopraffatto da sincera commozione: " rospo era stato ingoiato, la testa e gl'intestini maciullati scendeн vano giù per la sua gola: restavano ancora da masticare le zampe ma era roba di poco conto in confronto del resto; il più era fatto. Assaporato questo senso di liberazione, cominciò in lui a farsi strada l'affetto per Tancredi; si raffigurò gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato leggendo la risposta festosa; immaginò, ricordò per dir meglio, i primi mesi di un matrimonio di amore durante i quali le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benché sorprese. Ancor più in là intravide la vita sicura, la possibilità di sviluppo dei talenti di Tancredi, cui, senza questo, la mancanza di quattrini avrebbe tarpato le ali.

Il nobiluomo si alzò, fece un passo verso don Calogero attonito, lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al petto; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza di remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse i da un enorme iris violaceo. Quando don Calogero ritoccò il pavimento: "Debbo proprio regalargli un paio di rasoi inglesi" pensò Don Fabrizio "così non può andare avanti."

Padre Pirrone bloccò il turbinare dei propri pollici, si alzò, strinse la mano al Principe. "Eccellenza, invoco la protezione divina su queste nozze; la vostra gioia è divenuta la mia." A don Calogero porse le punte delle dita senza parlare. Poi con una nocca percosse un barometro appeso al muro; calava; brutto tempo in vista. Si risiedette, apri il breviario.

"Don Calogero" diceva il Principe "l'amore di questi due giovani è la base di tutto, l'unico fondamento sul quale può sorgere la loro felicità futura. Questo lo sappiamo; punto e basta. Ma noi, uomini anziani, siamo costretti a preoccuparci "i altre cose. È inutile dirvi quanto sia illustre la famiglia Falconeri: venuta in Sicilia con Carlo d'Angiò, essa ha trovato modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni (se mi è permesso nominarli dinanzi a voi) e sono sicuro che prospererà anche sotto la nuova dinastia rontinentale. (Dio guardi)." (Non era mai possibile conoscere quando Don Fabrizio ironizzasse o quando si sbagliasse); "furono Pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago, e quando salta loro il ticchio di essere cavalieri di Malta non hanno che da alzare un dito, e via Condotti sforna loro i diplomi senza fiatare, come se fossero maritozzi, almeno fino ad oggi." (Questa insinuazione perfida fu del tutto sprecata, che don Calogero ignorava nel modo più completo gli statuti del Sovrano Ordine Gerosolimitano di San Giovanni.) "Sono sicuro che vostra figlia con la sua rara bellezza ornerà ancor di più il vecchio tronco dei Falconeri, e con la sua virtù saprà emulare quella delle sante Principesse, l'ultima delle quali, mia sorella buon'anima, certo benedirà dal cielo gli sposi." E Don Fabrizio si commosse di nuovo ricordando la sua cara Giulia la cui vita spregiata era stata un perpetuo sacrifìcio dinanzi alle stravaganze frenetiche del padre di Tancredi. "In quanto al ragazzo, lo conoscete; e, se non lo conosceste, ci son qua io che potrei garantirvelo in tutto e per tutto. Tonnellate di bontà ci sono in lui, e non sono io solo che lo dico, non è vero, padre Pirrone?"

L'ottimo Gesuita, tirato fuori dalla propria lettura, venne a trovarsi ad un tratto dinanzi a un dilemma penoso. Era stato confessore di Tancredi, e di peccatucci suoi ne conosceva più d'uno: nessuno veramente grave, s'intende, però tali ad ogni modo da detrarre parecchi quintali alla massiccia bontà della quale si parlava; di natura poi, tutti, da garantire una ferrea infedeltà coniugale. Questo, va da sé, non poteva esser detto tanto per ragioni sacramentali come per convenienze mondane; d'altra parte egli voleva bene al ragazzo e benché disapprovasse quel matrimonio dal fondo del proprio cuore, non avrebbe mai detto una parola che avesse potuto, non si dice neppure impedire ma offuscarne la scorrevolezza. Trovò rifugio nella Prudenza fra le virtù cardinali la più duttile e quella di più agevole maneggio. "Il fondo di bontà del nostro caro Tancredi è grande, don Calogero, ed egli sorretto dalla Grazia divina e dalle virtù terrene della signorina Angelica, potrà diventare un giorno un buon sposo cristiano." La profeнzia arrischiata ma prudentemente condizionata passò liscia.

"Ma, don Calogero," proseguiva il Principe masticando le ultime cartilagini del rospo "se è inutile parlarvi dell'antichità di casa Falconeri, è anche, disgraziatamente, inutile, perché lo sapete di già, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote non sono eguali alla grandezza del suo nome; il padre di Tancredi, mio cognato Ferdinando, non era quel che si chiama un padre preveggente; le sue magnificenze di gran signore, aiutate dalla leggerezza dei suoi amministratori, hanno gravemente scosso il patrimonio del mio caro nipote e pupillo; i grandi feudi intorno a Mazzara, la pistacchiera di Ravanusa, le piantagioni di gelsi a Oliveri, il palazzo di Palermo, tutto, tutto è andato via; voi lo sapete, don Calogero." Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la più grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo, e la memoria di essa incuteva ancora terrore, ma non prudenza, a tutta la nobiltà siciliana, mentre era fonte di delizia appunto per tutti i Sedàra. "Durante il periodo della mia tutela sono riuscito a salvare la sola villa, quella vicino alla mia, mediante molti cavilli legali ed anche in grazia di qualche sacrificio che, del resto, ho compiuto con gioia tanto in memoria della mia santa sorella Giulia come per affetto per quel caro ragazzo. È una bella villa: la scala è disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serenaнno; ma, per ora, l'ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre."

Gli ultimi ossicini del rospo erano stati più disgustosi del previsto; ma, insomma, erano andati giù anch'essi. Adesso bisognava sciacquarsi la bocca con qualche frase piacevole, del resto sincera. "Ma, don Calogero, il risultato di tutti questi guai, di tutti questi crepacuori, è stato Tancredi; noialtri queste cose le sappiamo: è forse impossibile ottenere la distinнzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di grossi patrimoni; almeno in Sicilia è così; una specie di legge di natura, come quelle che regolano i terremoti e le siccità."

Tacque perché entrava un cameriere che recava su di un vassoio due lumi accesi; mentre essi venivano collocati al loro posto Don Fabrizio lasciò regnare nello studio un silenzio carico di compiaciuto accoramento. Dopo: "Tancredi non è un giovane qualsiasi, don Calogero;" prosegui, "egli non è soltanto signorile ed elegante; ha appreso poco, ma conosce tutto quello che si deve conoscere nel suo ambiente: gli uomini, le donne, le circostanze, il colore del tempo; è ambizioso ed ha ragione di esserlo, andrà lontano; e la vostra Angelica, don Calogero, sarà fortunata se vorrà salire la strada insieme a lui.

E poi quando si è con Tancredi ci si può forse irritare qualche volta, ma non ci si annoia mai; e questo è molto."

Sarebbe esagerato dire che il sindaco apprezzasse le sfumaнture mondane di questa parte della conversazione del Principe; essa all'ingrosso non fece che confermarlo nella propria somнmaria convinzione dell'astuzia e dell'opportunismo di Tancreнdi, e di un uomo astuto e tempista egli aveva bisogno a casa, e di null'altro. Si sentiva, si credeva uguale a chiunque; gli rincresceva financo di notare nella figlia un ceno sentimento amoroso per il giovanotto.

"Principe, queste cose le sapevo, ed altre ancora; e non me ne importa niente." Si rivesti di sentimentalità. "L'amore, Principe, l'amore è tutto, ed io lo posso sapere." E forse era sincero il pover'uomo se si ammetteva la probabile sua definizione dell'amore. "Ma io sono un uomo di mondo e voglio anch'io porre le mie carte in tavola. Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia; essa è il sangue del mio cuore, il fegato fra le mie viscere; non ho altra persona cui lasciare quello che posseggo, e quello che è mio è suo. Ma è giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli, di salme 644, cioè ettari 1680, come vogliono chiaнmarli oggi, tutto a frumento; terre di prima qualità ventilate e fresche, e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce; e il giorno del matrimonio consegnerò allo sposo venti sacchetti di tela con mille 'onze' ognuno. Io resto con una canna nelle mani" aggiunse, convinto e lieto di non essere creduto "ma una figlia è una figlia. E con questo si possono rifare tutte le scale di Marruggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica dev'essere alloggiata bene."

La volgarità ignorante gli sprizzava da ogni poro; malgrado ciò i suoi due ascoltatori furono sbalorditi: Don Fabrizio ebbe necessità di tutto il suo potere di controllarsi per nascondere la sorpresa. Il colpo di Tancredi era più sbardellato di quanto potesse supporsi. Una sensazione di disgusto stava per assalirlo, ma la bellezza di Angelica, la cinicità dello sposo riuscivano ancora a velare di poesia la brutalità del contratto. Padre Pirrone, lui, fece schioccare la lingua sul palato; poi, infastidiнto per aver rivelato il proprio stupore, si provò a trovare una rima all'improvvido suono facendo scricchiolare la sedia e le scarpe, sfogliando con fragore il breviario; non riuscì a nulla e l'impressione rimase.

Per fortuna una improntitudine di don Calogero, la sola della conversazione, tirò tutti dall'imbarazzo: "Principe" disse "so che quello che sto per dire non farà effetto su di voi che discendete da Titone imperatore e Berenice regina, ma anche i Sedàra sono nobili; fino a me essi sono stati una razza sfortunata seppellita in provincia e senza lustro, ma io ci ho le carte in regola nel cassetto, e un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato la baronessina Sedàra del Biscotto; titolo concesso da Sua Maestà Ferdinando IV sulle secrezie del porto di Mazzara. Debbo fare le pratiche: mi manca solo un attacco."

Quella degli "attacchi" mancanti, delle secrezie, delle quasi omonimie era, cento anni fa, un elemento importante della vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone, buone o meno che fossero; ma questo è argomento troppo importante per essere trattato di sfuggita e qui ci contenteremo di dire che l'uscita araldica di don Calogero recò al Principe l'impareggiabile godimento artistico di vedere un tipo realizzarsi in tutti i suoi particolari e che il proprio riso represso gli addolcì la bocca, fino alla nausea.

La conversazione in seguito si disperse in mille rivoli inutili: Don Fabrizio si ricordò di Tumeo rinchiuso all'oscuro nella stanza dei fucili, e per l'ennesima volta in vita deplorò la durata delle visite paesane e finì col rinchiudersi in un silenzio risentito; don Calogero capì, promise di ritornare l'indomani mattina per recare il non dubbio consenso di Angelica e si congedò. Fu accompagnato per due salotti, fu riabbracciato e scese le scale mentre il Principe torreggiando dall'alto, guardava rimpicciolirsi quel mucchietto di astuzia, di abiti mal tagliati, di oro e d'ignoranza che adesso entrava quasi a far parte della famiglia.

Tenendo in mano una candela andò poi a liberare Tumeo che se ne stava rassegnato al buio fumando la propria pipa. "Mi dispiace don Ciccio, ma, capirete, lo dovevo fare." "Capisco, Eccellenza, capisco. Tutto è andato bene, almeno?" "Benissimo, non si poteva meglio." Tumeo biascicò delle congratulazioni, rimise il laccio al collare di Teresina che dormiva stremata dalla caccia, raccattò il carniere. "Prendete anche le mie beccacce, ve le siete meritate. Arrivederci, caro don Ciccio, fatevi vedere presto. E scusatemi per ogni cosa." Una potente manacciata sulle spalle servi da segno di riconciнliazione e da richiamo di potenza; l'ultimo fedele di casa Salina se ne andò alle sue povere stanze.

Quando il Principe ritornò nel suo studio trovò che Padre Pirrone era sgattaiolato via per evitare discussioni; e si diresse verso la camera della moglie per raccontarle i fatti. Il rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo preannunciava a dieci metri di distanza. Traversò la stanza di soggiorno delle ragazze: Carolina e Caterina arrotolavano un gomitolo di lana ed al suo passaggio si alzarono sorridenti; mademoiselle Dombreuil si tolse in fretta gli occhiali e rispose compunta al suo saluto; Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poiché non udì passare il padre, non si volse neppure.



Hosted by uCoz