Il Gattopardo - Parte V

PARTE QUINTA

 

Febbraio 1861

I natali di Padre Pirrone erano rustici: era nato infatti a S. Cono, un paese piccino piccino che adesso, in grazia degli autobus, è quasi una delle stie-satelliti di Palermo ma che un secolo fa apparteneva, per così dire, a un sistema planetario a sé stante, lontano com'era quattro o cinque ore-carretto dal sole palermitano.

Il padre del nostro Gesuita era stato "soprastante" di due feudi che l'Abbazia di S. Eleuterio si lusingava di possedere nel territorio di S. Cono. Mestiere questo di "soprastante" assai pericoloso, allora, per la salute dell'anima e per quella del corpo perché costringeva a frequentazioni strane ed alla cognizione di vari aneddoti il cui accumularsi cagionava una infermità che "di botto" (è la parola esatta) faceva cadere l'infermo stecchito ai piedi di qualche muricciuolo, con tutte le sue storielle sigillate nella pancia, irrecuperabili ormai alla curiosità degli sfaccendati. Però, don Gaetano, il genitore di Padre Pirrone, era riuscìto a sfuggire a questa malattia professionale mercé una rigorosa igiene basata sulla discrezione e su un avveduto impiego di rimedi preventivi; ed era morto Pacificamente di polmonite una soleggiata Domenica di febнbraio sonora di venti che sfogliavano i fiori dei mandorli. Egli lasciava la vedova e i tre figli (due ragazze e il sacerdote) in Indizioni economiche relativamente buone; da quel sagace uomo che era stato aveva saputo fare delle economie sullo stipendio incredibilmente esiguo pagategli dall'Abbazia, e, al momento del proprio transito possedeva alcune piante di mandorlo in fondo valle, qualche cespo di vite sui pendii e un po' di pietroso pascolo più in alto; roba da poveretti, si sa; sufficiente però a conferire un certo peso nella depressa economia sanconetana; era anche proprietario di una casetta rigorosamente cubica, azzurra fuori e bianca dentro, quattro stanze sotto e quattro sopra, proprio all'ingresso del paese dalla parte di Palermo.

Padre Pirrone si era allontanato da quella casa a sedici anni quando i suoi successi alla scuola parrocchiale e la benevolenza dell'Abbate Mitrato di S. Eleuterio lo avevano incamminato verso il seminario arcivescovile, ma, a distanza di anni, vi era ritornato più volte o per benedire le nozze delle sorelle o per dare una (mondanamente, s'intende) superflua assoluzione a don Gaetano morente e vi ritornava adesso, sul finire del Febbraio 1861, per il quindicesimo anniversario della morte del padre; ed era una giornata ventosa e limpida, proprio come era stata quella.

Erano state cinque ore di scossoni, con i piedi penzoloni dietro la coda del cavallo; ma, una volta sormontata la nausea causata dalle pitture patriottiche dipinte di fresco sui pannelli del carretto e che culminavano nella retorica raffigurazione di un Garibaldi color di fiamma a braccetto di una Santa Rosalia color di mare, erano state cinque ore piacevoli. La vallata che sale da Palermo a S.Cono riunisce in sé il paesaggio fastoso della zona costiera e quello inesorabile dell'interno, ed è percorsa da folate di vento improvvise che ne rendono salubre l'aria e che erano famose per esser capaci di sviare la traiettoria delle pallottole meglio premeditate, sicché i tiratori posti di fronte a problemi balistici ardui preferivano esercitarsi altrove. Il carrettiere, poi, aveva conosciuto molto bene il defunto e si era dilungato in ampie ricordanze dei meriti di lui, ricordanze che, benché non sempre adatte ad orecchie filiali ed ecclesiastiche, avevano lusingato l'ascoltatore assueнfatto.

All'arrivo fu accolto con lacrimosa allegria. Abbracciò e benedisse la madre che ostentava i capelli candidi e la cera rosea delle vedove di fra le lane di un lutto imprescrittibile, salutò le sorelle e i nipoti ma, fra quest'ultimi guardò di traverso Carmelo che aveva avuto il pessimo gusto d'inalberare sulla berretta, in segno di festa, una coccarda tricolore. Appeнna entrato in casa fu assalito, come sempre, dalla dolcissima furia dei ricordi giovanili: tutto era immutato, il pavimento di coccio rosso come il parco mobilio; l'identica luce entrava dai finestrozzi esigui; il cane Romeo che latrava breve in un cantone era il trisnipote rassomigliantissimo di un altro cernieco compagno suo nei violenti giochi; e dalla cucina esalava il secolare aroma del "ragù" che sobbolliva, estratto di pomodoro, cipolle e carne di castrato, per gli "anelletti" dei giorni segnalati; ogni cosa esprimeva la serenità raggiunta mediante i travagli della Buon'Anima.

Presto si diressero alla chiesa per ascoltare la messa comнmemorativa. S.Cono, quel giorno, mostrava il proprio aspetto migliore e scialava in una quasi orgogliosa esibizione di feci diverse; caprette argute dai neri uberi penzolanti e molti di quei maialetti siciliani scuri e slanciati come puledri minuscoli, si rincorrevano fra la gente, su per le strade ripide; e poiché Padre Pirrone era divenuto una specie di gloria locale molte erano le donne, i bambini ed anche i giovanotti che gli si affollavano intorno per chiedergli una benedizione o per ricorнdare i tempi passati.

In sacrestia si fece una rimpatriata col parroco e, ascoltata la Messa ci si recò sulla lapide sepolcrale, in una cappella di fianco: le donne baciarono il marmo lagrimando, il figlio pregò ad alta voce nel suo arcano latino; e quando si ritornò a casa gli "anelletti" erano pronti e piacquero molto a Padre Pirrone cui le raffinatezze culinarie di villa Salina non avevano guastato la bocca.

Verso sera poi gli amici vennero a salutarlo e si riunirono in camera sua: una lucerna di rame a tre braccia pendeva dal soffitto e spandeva la luce dimessa dei suoi moccoli a olio; in un angolo il letto ostentava le materassa variopinte e la soffoнcante trapunta rossa e gialla; un altro angolo della stanza era recinto da una alta e rigida stuoia, lo "zimmile" che custodiva u frumento color di miele che ogni settimana si recava al mulino per i bisogni della famiglia; alle pareti, da incisioni butterate, Sant'Antonio mostrava il Divino Infante, Santa Lucia i propri occhi divelti e S. Francesco Saverio arringava turbe di Indiani piumati e discinti; fuori, nel crepuscolo stellato, il vento zufolava e, a modo suo, era il solo a commemorare. Al centro della stanza, sotto la lucerna, si appiattiva al suolo il grande braciere racchiuso in una fascia di legno lucido sulla quale si posavano i piedi; tutt'intorno sedie di corda con gli ospiti. Vi era il parroco, i due fratelli Schirò, proprietari del luogo e don Pietrine, il vecchissimo erbuario: cupi erano venuti, cupi rimanevano perché, mentre le donne sfaccendavaнno abbasso, essi parlavano di politica e speravano di aver notizie consolanti da Padre Pirrone che arrivava da Palermo e che doveva saper molto dato che viveva fra i "signori." Il desiderio di notizie era stato appagato, quello di conforto però fu deluso perché il loro amico gesuita un po' per sincerità, un po' anche per tattica mostrava loro nerissimo l'avvenire: su Gaeta sventolava ancora il tricolore borbonico ma il blocco era ferreo e le polveriere della piazzaforte saltavano in aria una per una, e li ormai non si salvava più nulla all'infuori dell'onore, cioè non molto; la Russia era amica ma lontana, Napoleone III infido e vicino, e degli insorti di Basilicata e Terra di Lavoro il Gesuita parlava poco perché sotto sotto se ne vergognava. Era necessario, diceva, subire la realtà di questo stato italiano che si formava, ateo e rapace, di queste leggi di espropria e di coscrizione che dal Piemonte sarebbero dilagate sin qui, come il colèra. "Vedrete" fu la sua non originale conclusione "vedrete che non ci lasceranno neanche gli occhi per piangere."

A queste parole venne mescolato il coro tradizionale delle lagnanze rustiche. I fratelli Schirò e l'erbuario già sentivano il morso della fiscalità; per i primi vi erano stati contributi straordinari e centesimi addizionali; per l'altro una sconvolнgente sorpresa: era stato chiamato in Municipio dove gli avevano detto che, se non avesse pagato venti lire ogni anno, non gli sarebbe più stato consentito di vendere i suoi semplici. "Ma io questa senna, questo stramonio, queste erbe sante fatte dal Signore me le vado a raccogliere con le mie mani sulle montagne, pioggia o sereno, nei giorni e nelle notti prescritte! me le essicco al sole che è di tutti e le metto in polvere da me col mortaio che era di mio nonno! Che c'entrate voi del Municipio? perché dovrei pagarvi venti lire? così per la vostra bella faccia?"

Le parole gli uscìrono smozzicate dalla bocca senza denti, ma gli occhi gli s'incupirono di autentico furore. "Ho torto o ragione, Padre? Dimmelo tu!"

Il Gesuita gli voleva bene: se lo ricordava uomo già fatto, anzi già curvo per il continuo girovagare e raccattare quando lui stesso era un ragazzo che tirava sassate ai passeri; e gli era anche grato perché sapeva che quando vendeva un suo decotнto alle donnette diceva sempre che senza tante o tanti "Ave Maria" o "Gloriapatri" esso sarebbe rimasto inoperoso; il suo prudente cervello, poi, voleva ignorare che cosa ci fosse veramente negli intrugli e per quali speranze venissero richiesti.

"Avete ragione, don Pietrine, cento volte ragione. E come no? Ma se non prendono i soldi a voi e agli altri poveretti come voi dove li trovano per fare la guerra al Papa e rubargli ciò che gli appartiene?"

La conversazione si dilungava sotto la mite luce vacillante per il vento che riuscìva a sorpassare le imposte massicce. Padre Pirrone spaziava nelle future inevitabili confische dei beni ecclesiastici: addio allora il mite dominio dell'Abbazia qui intorno; addio le zuppe distribuite durante gli inverni duri; e quando il più giovane degli Schirò ebbe l'imprudenza di dire che forse così alcuni contadini poveri avrebbero avuto un loro fondicello, la sua voce s'inaridì nel più deciso disprezzo. "Lo vedrete, don Antonino, lo vedrete. Il Sindaco comprerà tutto, pagherà le prime rate, e chi si è visto si è visto. Così di già è avvenuto in Piemonte."

Finirono con l'andarsene, assai più accigliati di quando erano venuti e provvisti di mormorazioni per due mesi; rimase soltanto l'erbuario che quella notte non sarebbe andato a letto perché era luna nuova e doveva andare a raccogliere il rosamarino sulle rocce dei Pietrazzi; aveva portato con sé il lanternino e si sarebbe incamminato appena uscìto.

"Ma, Padre, tu che vivi in mezzo alla 'nobbiltà,' che cosa ne dicono i 'signori' di tutto questo fuoco grande? Che cosa ne dice il principe di Salina, grande, rabbioso e orgoglioso come è?"

Già più d'una volta Padre Pirrone aveva posto a sé stesso questa domanda e rispondervi non era stato facile sopratutto perché aveva trascurato o interpretato come esagerazioni quanto Don Fabrizio gli aveva detto una mattina in osservatorio quasi un anno fa. Adesso lo sapeva ma non trovava il modo di tradurlo in forma comprensibile a don Pietrine che era lungi dall'essere uno sciocco ma che s'intendeva meglio delle proprietà anticatarrali, carminative e magari afrodisiache delle sue erbe che di simili astrazioni.

"Vedete, don Pietrine, i 'signori' come dite voi, non sono facili da capirsi. Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta e quindi si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bei nulla ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe. La Divina Provvidenza ha voluto che io divenissi umile particella dell'Ordine più glorioso di una Chiesa sempiterna alla quale è stata assicurata la vittoria definitiva; voi siete all'altro limite della scala, e non dico il più basso ma solo il più differente. Voi quando scoprite un cespo vigoroso di origano o un nido ben fornito di cantaridi (anche quelle cercate, don Pietrine, lo so) siete in comunicazione diretta con la natura che il Signore ha creato con possibilità indifferenziate di male e di bene affinché l'uomo possa eserciнtarvi la sua libera scelta; e quando siete consultato dalle vecchiette maligne o dalle ragazzine vogliose voi scendete nell'abisso dei secoli sino alle epoche oscure che hanno preceнduto la luce del Golgota."

Il vecchio guardava stupito: lui voleva sapere se il principe di Salina era sodisfatto o no del nuovo stato di cose, e l'altro gli parlava di cantaridi e di luci del Golgota. "A forza di leggere è diventato pazzo, meschinello."

"I 'signori' no, non sono così; essi vivono di cose già manipolate. Noi ecclesiastici serviamo loro per rassicurarli sulla vita eterna, come voi erbuari per procurar loro emollienti o eccitanti. E con questo non voglio dire che sono cattivi: tutt'altro. Sono differenti; forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante l'assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto; chi sta in montagna non si cura delle zanzare delle pianure, e chi vive in Egitto trascura i parapioggia. Il primo però teme le valanghe, il secondo i coccodrilli, cose che invece ci preoccupano poco. Per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato; e so di certo che il principe di Làscari dal furore non ha dormito tutta una notte perché ad un pranzo alla Luogotenenza gli avevano dato un posto sbagliato. Ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice, quindi superiore?"

Don Pietrino non capiva più niente: le stramberie si moltiplicavano, adesso saltavano fuori i colletti delle camicie e i coccodrilli. Ma un fondo di buon senso rustico lo sosteneva ancora. "Ma se è così, Padre, andranno tutti all'inferno!" "E perché? Alcuni saranno perduti, altri salvi, a secondo di come avranno vissuto dentro questo loro mondo condizionato. Ad occhio e croce Salina, per esempio, dovrebbe cavarsela; il giuoco suo lo gioca bene, segue le regole, non bara; il Signore Iddio punisce chi contravviene volontariamente alle leggi divine che conosce, chi imbocca volontariamente la cattiva strada; ma chi segue la propria via, purché su di essa non commetta sconcezze, è sempre a posto. Se voi, don Pietrino, vendeste cicuta invece di mentuccia, sapendolo, sareste fritto; ma se avrete creduto di essere nel vero, la gnà Tana farà la morte nobilissima di Socrate e voi andrete dritto dritto in cielo con tonaca e alucce, tutto bianco."

La morte di Socrate era stata troppo, per l'erbuario; si era arreso e dormiva. Padre Pirrone lo notò e ne fu contento perché adesso avrebbe potuto parlare libero senza timore di essere frainteso; e parlare voleva, fissare nelle volute concrete delle frasi le idee che oscuramente gli si agitavano dentro.

"E fanno molto bene anche. Se sapeste, per dirne una, a quante famiglie che sarebbero sul lastrico danno ricetto quei loro palazzi! E non richiedono nulla per questo, neppure unТastensione dai furtarelli. Ciò non viene fatto per ostentazione ma per una sorta di oscuro istinto atavico che li spinge a non poter fare altrimenti. Benché possa non sembrare, sono meno egoisti di tanti altri: lo splendore delle loro case, la pompa delle loro feste contengono in sé un che d'impersonale, un po' come la magnificenza delle chiese e della liturgia, un che di fatto ad maiorem gentis gloriam, che li redime non poco; per ogni bicchiere di sciampagna che bevono ne offrono cinquanta agli altri, e quando trattano male qualcheduno, come avviene, non è tanto la loro personalità che pecca quanto il loro ceto che si afferma. Fata crescunt Don Fabrizio ha protetto e educato il nipote Tancredi, per esempio, ha insomma salvato un povero orfano che altrimenti si sarebbe perduto. Ma voi direte che lo ha fatto perché il giovane era anche lui un signore, che non avrebbe messo un dito all'acqua fredda per un altro. È vero, ma perché avrebbe dovuto farlo se sinceramente, in tutte le radici del suo cuore gli 'altri' gli sembrano tutti esemplari mal riuscìti, maiolichette venute fuori sformate dalle mani del figurinaio e che non vai la pena di esporre alla prova del fuoco?

"Voi, don Pietrine, se in questo momento non dormiste, saltereste su a dirmi che i signori fanno male ad avere questo disprezzo per gli altri e che tutti noi, egualmente soggetti alla doppia servitù dell'amore e della morte, siamo eguali dinanzi al Creatore; ed io non potrei che darvi ragione. Però aggiungeнrei che non è giusto incolpare di disprezzo soltanto i 'signori,' dato che questo è vizio universale. Chi insegna all'Università disprezza il maestrucolo delle scuole parrocchiali, anche se non lo dimostra, e poiché dormite posso dirvi senza reticenze che noi ecclesiastici ci stimiamo superiori ai laici, noi Gesuiti superiori al resto del clero, come voi erbuari spregiate i cavadenti che a loro volta v'irridono; i medici per conto loro prendono in giro cavadenti ed erbuari e vengono loro stessi trattati da asini dagli ammalati che pretendono di continuare a vivere con il cuore o il fegato in poltiglia. Per i magistrati gli avvocati non sono che dei seccatori che cercano di dilazionare il funzionamento delle leggi, e d'altra parte la letteratura ribocca di satire contro la pomposità, l'ignavia e talvolta peggio di quegli stessi giudici. Non ci sono che gli zappatori a esser disprezzati anche da loro stessi; quando avranno appreso a irridere gli altri il ciclo sarà chiuso e bisognerà incominciare da capo.

"Avete mai pensato, don Pietrine, a quanti nomi di mestiere sono diventati delle ingiurie? da quelli di facchino, ciabattino e pasticciere a quelli di reitre e di pompier in francese? La gente non pensa ai meriti dei facchini e dei pompieri; guarda solo i loro difetti marginali e li chiama tutti villani e vanaglorioнsi; e poiché non potete sentirmi posso dirvi che conosco benissimo il significato corrente della parola 'gesuita.'

"Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi l'indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrine, lo so, se siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un 'signore' lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco.

"Un ceto difficile da sopprimere perché in fondo si rinnova continuamente e perché quando occorre sa morire bene, cioè sa gettare un seme al momento della fine. Guardate la Francia: si son fatti massacrare con eleganza e adesso son lì come prima, dico come prima perché non sono i latifondi e i diritti feudali a fare il nobile, ma le differenze. Adesso mi dicono che a Parigi vi sono dei conti polacchi che le insurrezioni e il despotismo hanno costretto all'esilio e alla miseria; fanno i fiaccherai ma guardano i loro clienti borghesi con tale cipiglio che i poveretti salgono in vettura, senza saper perché, con l'aria umile di cani in chiesa.

"E vi dirò pure, don Pietrine, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un'altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi "rotti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io... sullТanzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro."

A questo punto si sentirono i passi della madre sulla caletta di legno; essa entrò ridendo. "Ecucchì stavi parlando, "ghetto mio? Non lo vedi che il tuo amico dorme?"

Padre Pirrone si vergognò un poco; non rispose ma disse: "Adesso lo accompagno fuori. Poveretto, dovrà stare al freddo tutta la notte." Estrasse il lucignolo della lanterna, lo accese a una fiammella del lampadario rizzandosi sulla punta dei piedi e imbrattando di olio la propria tunica; lo rimise a posto, chiuse lo sportellino. Don Pietrino veleggiava nei sogni; un filo di bava gli scorreva giù da un labbro e andava a spandersi sul bavero. Ci volle del tempo per svegliarlo. "Scusami, Padre, ma dicevi cose tanto strane e imbrogliate." Sorrisero, scesero, uscìrono. La notte sommergeva la casetta, il paese, la vallata; si scorgevano appena i monti che erano vicini e, come sempre, imbronciati. Il vento si era calmato ma faceva un gran freddo; le stelle brillavano con furia, producevano migliaia di gradi di calore ma non riuscìvano a riscaldare un povero vecchio. "Povero don Pietrine! Volete che vada a prendervi un altro mantello?" "Grazie, ci sono abituato. Ci vedremo domani e allora mi dirai come il principe di Salina ha sopportato la rivoluzione." "Ve lo dico subito in quattro parole: dice che non c'è stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima."

"Evviva il fesso! E a tè non pare una rivoluzione che il Sindaco mi vuoi far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?"

La luce della lanterna si allontanava a scatti, fini con lo scomparire nelle tenebre fitte come un feltro.

Padre Pirrone pensava che il mondo doveva sembrare un gran rompicapo a chi non conoscesse matematiche ne teoloнgia. "Signor mio, soltanto la Tua Omniscienza poteva escogitaнre tante complicazioni."

Un altro campione di queste complicazioni gli capitò fra le mani l'indomani mattina. Quando scese giù pronto per andare a dir messa in Parrocchia trovò Sarina sua sorella che tagliava cipolle in cucina. Le lagrime che essa aveva negli occhi gli sembrarono maggiori di quanto quell'attività comporнtasse.

"Cosa c'è, Sarina? Qualche guaio? Non ti avvilire: il Signore affligge e consola."

La voce affettuosa dissipò quel tanto di riserbo che la povera donna possedeva ancora; si mise a piangere clamorosaнmente, con la faccia appoggiata all'untume della tavola. Fra i singhiozzi si sentivano sempre le stesse parole: "Angelina, Angelina... Se Vicenzino lo sa li ammazza a tutti e due... Angelina... Quello li ammazza!"

Le mani cacciate nella larga cintura nera, con i soli pollici fuori, padre Pirrone all'impiedi la guardava. Non era difficile capire: Angelina era la figlia nubile di Sarina, il Vicenzino del quale si temevano le furie, il padre, suo cognato. L'unica incognita dell'equazione era il nome dell'altro, dell'eventuale amante di Angelina.

Questa il Gesuita la aveva rivista ieri, ragazza, dopo averla lasciata piagnucolosa bambina sette anni fa. Doveva avere diciotto anni ed era bruttina assai, con la bocca sporgente di tante contadine del luogo, con gli occhi spauriti di cane senza padrone. La aveva notata arrivando ed anzi in cuor suo aveva fatto poco caritatevoli paragoni fra essa, meschina come il plebeo diminutivo del proprio nome e quell'Angelica, sontuosa come il suo nome ariostesco, che di recente aveva turbato la pace di casa Salina.

Il guaio dunque era grosso e lui vi era incappato in pieno; si ricordò di ciò che diceva Don Fabrizio: ogni volta che s'incontra un parente s'incontra una spina; e poi si pentì di essersene ricordato. Estrasse la sola destra dalla cintura, si tolse il cappello e batté sulla spalla sussultante della sorella. "Andiamo, Sarina, non fare così! Ci sono qua io, per fortuna, e piangere non serve a niente. Vicenzino dov'è?" Vicenzino era già uscìto per andare a Rimato a trovare il campiere degli Schirò. Meno male, si poteva parlare senza timore di sorprese. Fra singhiozzi, risucchi di lagrime e soffiate di naso tutta la squallida storia venne fuori: Angelina (anzi 'Ncilina) si era lasciata sedurre; il grosso patatrac era successo durante l'estate di S. Martino; andava a trovare l'innamorato nel pagliaio di donna Nunziata; adesso era incinta di tre mesi; pazza di terrore s! era confessata alla madre; fra qualche tempo si sarebbe cominciata a vedere la pancia, e Vicenzino avrebbe fatto un macello. "Anche a me ammazza quello perché non ho parlato; lui è 'uomo di onore'."

Infatti con la sua fronte bassa, con i suoi "cacciolani," le ciocche di capelli lasciate crescere sulle tempie, col dondolio del suo passo, col perpetuo rigonfiamento della tasca destra dei calzoni, si capiva subito che Vicenzino era "uomo di onore"; uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage.

Su Sarina sopravvenne una nuova crisi di pianto più forte della prima perché in essa affiorava pure un demente rimorso di aver demeritato dal marito, quello specchio di cavalleria.

"Sarina, Sarina, di nuovo! Non fare così! Il giovanotto la deve sposare, la sposerà. Andrò a casa sua, parlerò con lui e con i suoi, tutto s'aggiusterà. Vicenzino saprà solo del fidanzamento e il suo prezioso onore resterà intatto. Però debbo sapere chi è stato. Se lo sai, dimmelo."

La sorella rialzò la testa: negli occhi le si leggeva adesso un altro terrore, non più quello animalesco delle coltellate ma uno più ristretto, più acerbo che il fratello non poté per il momento decifrare.

"Santino Pirrone è stato! Il figlio di Turi! e lo ha fatto per sfregio, per sfregio a me, a nostra madre, alla Santa Memoria di nostro padre. Io non gli ho mai parlato, tutti dicevano che era un buon figliuolo, invece è un infamone, un degno figlio di quella canaglia di suo padre, uno sdisonorato. Me lo sono ricordato dopo: in quei giorni di Novembre lo vedevo sempre passare qui davanti con due amici e con un geranio rosso dietro l'orecchio. Fuoco d'inferno, fuoco d'inferno!"

Il Gesuita prese una sedia, sedette vicino alla donna. Era chiaro, avrebbe dovuto ritardare la messa. L'affare era grave. Turi, il padre di Santino, del seduttore, era un suo zio; il fratello, anzi il fratello maggiore della Buon'Anima. Venti anni fa era stato associato al defunto nella guardianìa, proprio al momento della maggiore e più meritevole attività. Dopo, una lite aveva diviso i fratelli, una di quelle liti familiari dalle radici inestricabili, che è impossibile sanare perché nessuna delle due parti parla chiaro, avendo ciascuna molto da nascondere. Il fatto era che quando la Santa Memoria venne in possesso del piccolo mandorleto, il fratello Turi aveva detto che in realtà i metà apparteneva a lui perché la metà dei denari, o la metà della fatica, l'aveva fornita lui; però l'atto di acquisto era al solo nome di Gaetano, buon'anima. Turi tempestò e percorse le strade di S.Cono con la schiuma alla bocca: il prestigio della Santa Memoria si mise in gioco, amici s'intromisero e il peggio fu evitato; il mandorleto rimase a Gaetano, ma l'abisso fra i due rami della famiglia Pirrone divenne incolmabile; Turi non assistette, poi, nemmeno ai funerali del fratello e nella casa delle sorelle era nominato come "la canaglia" e basta. Il Gesuita era stato informato di tutto mediante intricate lettere dettate al Parroco e circa la canaglieria si era formato idee personalissime che non esprimeva per reverenza filiale. Il mandorleto, adesso, apparteneva a Sarina.

Tutto era evidente: l'amore, la passione non c'entravano. Era soltanto una porcata che vendicava un'altra porcata. Rimediabile però: il Gesuita ringraziò la Provvidenza che lo aveva condotto a S. Cono proprio in quei giorni. "Senti, Sarina, il guaio tè lo aggiusto io in due ore; tu però mi devi aiutare: la metà di Chìbbaro (era il mandorleto) lo devi dare in dote a 'Ncilina. Non c'è rimedio: quella stupida vi ha rovinato." E pensava come il Signore si serva talvolta anche delle cagnette in calore per attuare la giustizia Sua.

Sarina inviperì: "Metà di Chìbbaro! A quel seme di farabutнti! Mai! Meglio morta!"

"Va bene. Allora dopo la Messa andrò a parlare con Vicenzino. Non aver paura, cercherò di calmarlo." Si rimise il cappello in testa e le mani nella cintura. Aspettava paziente, sicuro di sé.

Una edizione delle furie di Vicenzino, sia pure riveduta ed espurgata da un Padre Gesuita, si presentava sempre come illeggibile per la infelice Sarina che per la terza volta ricominнciò a piangere; a poco a poco i singhiozzi però decrebbero, cessarono. La donna si alzò: "Sia fatta la volontà di Dio:

^giusta tu la cosa, qua non è più vita. Ma quel bei Chìbbaro! Tutto sudore di nostro padre!"

Le lagrime erano sul punto di ricominciare, ma Padre Pirrone era di già andato via.

Celebrato che fu il Divino Sacrifìzio, accettata la tazza di caffè offerta dal Parroco, il Gesuita si diresse di filato alla casa dello zio Turi. Non vi era mai stato ma sapeva che era una poverissima bicocca, proprio in Cima al paese, vicino alla forgia di mastro Ciccu. La trovò subito e dato che non vi pH erano finestre e che la porta era aperta per lasciar entrare un po' di sole, si fermò sulla soglia: nell'oscurità, dentro, si vedevano accumulati basti per muli, bisacce e sacchi: don Turi tirava avanti facendo il mulattiere, aiutato, adesso, dal figlio.

"Doràzio!" gridò Padre Pirrone. Era una abbreviazione della formula Deo gratias (agamus) che serviva agli ecclesiastici per chiedere il permesso di entrare. La voce di un vecchio gridò: "Chi è?" e un uomo si alzò dal fondo della stanza e si avvicinò alla porta. "Sono vostro nipote, il padre Saverio Pirrone. Vorrei parlarvi, se permettete."

La sorpresa non fu grande: da due mesi almeno la visita sua o di un suo sostituto doveva essere attesa. Lo zio Turi era un vecchio vigoroso e diritto, cotto e ricotto dal sole e dalla grandine, con sul volto i solchi sinistri che i guai tracciano sulle persone non buone.

"Entra" disse, senza sorridere; gli fece largo ed anche, di malavoglia, l'atto di baciargli la mano. Padre Pirrone sedette su una delle grandi selle di legno. L'ambiente era quanto mai povero: due galline razzolavano in un cantone e tutto odorava di stereo, di panni bagnati e di miseria cattiva.

"Zio, sono moltissimi anni che non ci vediamo, ma non è stata tutta colpa mia; io non sto in paese, come sapete, e voi del resto non vi fate mai vedere a casa di mia madre, vostra cognata; e questo ci dispiace." "Io in quella casa i piedi non ce li metterò mai. Mi si rivolta lo stomaco quando vi passo davanti. Turi Pirrone i torti ricevuti non li dimentica, neppure dopo vent'anni."

"Sicuro, si capisce, sicuro. Ma io oggi vengo come la colombella dell'Arca di Noè, per assicurarvi che il diluvio è finito. Sono molto contento di trovarmi qui e sono stato felice, ieri, quando a casa mi hanno detto che Santino, vostro figlio, si è fidanzato con mia nipote Angelina; sono due buoni ragazzi, così mi dicono, e la loro unione chiuderà il dissidio che esisteva fra le nostre famiglie e che a me, permettetemi d1 dirlo, è sempre dispiaciuto."

Il volto di Turi espresse una sorpresa troppo manifesta per non esser finta.

"Non fosse il sacro abito che portate, Padre, vi direi che dite una bugia. Chissà che storielle vi hanno raccontato le femminette di casa vostra. Santino, in vita sua, non ha mai parlato con Angelina; è un figlio troppo rispettoso per andare contro i desideri di suo padre."

Il Gesuita ammirava l'asciuttezza del vecchio, l'imperturнbabilità delle sue menzogne.

"Si vede, zio, che mi avevano informato male; figuratevi che mi avevano anche detto che vi eravate messi d'accordo sulla dote e che oggi voi due sareste venuti a casa per il 'riconoscimento.' Che trottole raccontano queste donne sfacнcendate! Però anche se non sono veri questi discorsi dimostraнno il desiderio del loro buon cuore. Adesso, zio, è inutile che resti qui: vo subito a casa a rimproverare mia sorella. E scusatemi; sono stato molto contento di avervi trovato in buona salute."

Il volto del vecchio cominciava a mostrare un qualche avido interessamento. "Aspettate, Padre. Continuate a farmi ridere con le chiacchiere di casa vostra; e di che dote parlavano quelle pettegole?"

"Che so io, zio! Mi sembra aver sentito nominare la metà di Chìbbaro! 'Ncilina, dicevano, è la pupilla dei loro occhi e nessun sacrificio sembra esagerato per assicurare la pace nella famiglia."

Don Turi non rideva più. Si alzò. "Santino!" si mise a berciare con la stessa forza con la quale richiamava i muli incaponiti. E poiché nessuno veniva gridò più forte ancora:

"Santino! sangue della Madonna, che fai?" Quando vide Padre Pirrone trasalire si tappò la bocca con un gesto inaspettatamenнte servile.

Santino stava governando le bestie nel cortiletto attiguo. Entrò intimorito, con la striglia in mano; era un bei ragazzone (u ventidue anni, alto ed asciutto come il padre, con gli occhi non ancora inaspriti. Il giorno prima aveva, come tutti, visto Passare il Gesuita per le vie del paese, e lo riconobbe subito.

УQuesto è Santino. E questo è tuo cugino il padre Saverio Pirrone. Ringrazia Dio che c'è qui il Reverendissimo, se no ti avrei tagliato le orecchie. Che roba è questo amoreggiare senza che io, che sono tuo padre, lo sappia? I figli nascono per i padri e non per correre dietro alle sottane."

Il giovanotto si vergognava, forse non della disubbidienza ma anzi del consenso passato, e non sapeva cosa dire; per trarsi d'impaccio posò la striglia per terra e andò a baciare la mano del prete. Questi mostrò i denti in un sorriso e abbozzò una benedizione. "Dio ti benedica, figlio mio, benché credo che non lo meriti."

Il vecchio proseguiva: "Tuo cugino qui, mi ha tanto pregato e ripregato che ho finito col dare il mio consenso. Ma perché non me lo avevi detto prima? Adesso ripulisciti e andremo subito in casa di 'Ncilina."

"Un momento, zio, un momento." Padre Pirrone pensava che doveva ancora parlare con l"'uomo di onore" che non sapeva niente. "A casa vorranno certo fare i preparativi; del resto mi avevano detto che vi aspettavano a un'ora di notte. Venite allora e sarà una festa vedervi." E se ne andò, abbracciaнto dal padre e dal figlio.

Di ritorno alla casetta cubica, Padre Pirrone trovò che il cognato Vicenzino era di già rincasato e così, per rassicurare la sorella, non poté far altro che ammiccare verso di lei da dietro le spalle del fiero marito, il che del resto, trattandosi di due siciliani era del tutto sufficiente. Dopo disse al cognato che aveva da parlargli e i due si avviarono verso lo scheletrito pergolatino dietro la casa: il bordo inferiore ondeggiante della tonaca tracciava intorno al Gesuita una sorta di mobile frontieнra, invalicabile; le chiappe grasse dell'"uomo di onore" si dondolavano, simbolo perenne di altezzosa minaccia. La conнversazione fu del resto completamente differente dal previsto. Una volta assicurato dell'imminenza delle nozze di 'Ncilina, l'indifferenza dell"'uomo di onore" nei riguardi della condotta della figlia fu marmorea; invece fin dal primo accenno alla dote da consegnare i suoi occhi rotearono, le vene delle tempie si gonfiarono e l'ondeggiare dell'andatura divenne frenetico: un rigurgito di considerazioni oscene gli uscì dalla bocca, turpe, ed esaltato ancora delle più micidiali risoluzioni; la sua mano che non aveva avuto un solo gesto in difesa dell'onoredella figlia, corse a palpare nervosa la tasca destra dei pantaloni per significare che nella difesa del mandorleto egli era risoluto a versare sin l'ultima goccia del sangue altrui.

Padre Pirrone lasciò esaurirsi le turpitudini accontentanнdosi di rapidi segni della croce quando esse, spesso, sconfinaнvano nella bestemmia; al gesto annunziatore di stragi non badò affatto. Durante una pausa: "Si capisce, Vicenzino," disse "che anch'io voglio contribuire al riassestamento di tutto. Quella carta privata che mi assicura la proprietà di quanto mi spetta sull'eredità della Buon'Anima, tè la rimanderò da Palermo, stracciata."

L'effetto di questo balsamo fu immediato. Vicenzino intenнto a supputare il valore dell'eredità anticipata, tacque; e nell'aria soleggiata e fredda passarono le note stonatissime di una canzone che 'Ncilina aveva avuto voglia di cantare spazzando la camera dello zio.

Nel pomeriggio lo zio Turi e Santino vennero a far la loro visita, alquanto ripuliti e con camicie bianchissime. I due fidanzati, seduti su due sedie contigue, prorompevano ogni tanto in fragorose risate senza parole, l'uno sulla faccia dell'alнtro. Erano contenti davvero, lei di "sistemarsi" e di avere quel bei maschiaccio a disposizione, lui di aver seguito i consigli paterni e di avere adesso una serva e mezzo mandorleto; il geranio rosso che aveva di nuovo all'orecchio non appariva più a nessuno un riflesso infernale.

Due giorni dopo Padre Pirrone ripartì per Palermo. Strada facendo rimetteva in ordine le impressioni sue che non erano tutte gradevoli: quel brutale amorazzo venuto a frutto durante l'estate di S. Martino, quel gramo mezzo mandorleto riacchiapнpato per mezzo di un premeditato corteggiamento, gli mostraнvano l'aspetto rustico, miserabile, di altre vicende alle quali aveva di recente assistito. I gran signori erano riservati e incomprensibili, i contadini espliciti e chiari; ma il Demonio se li rigirava attorno al mignolo, egualmente.

A villa Salina trovò il Principe di ottimo umore. Don Fabrizio gli chiese se avesse passato bene quei quattro giorni e se si fosse ricordato di portare i suoi saluti alla madre: la conosceva, infatti, sei anni prima essa era stata ospite alla villa e la sua vedovile serenità era piaciuta ai padroni di casa. Dei saluti il Gesuita si era completamente dimenticato, e tacque; ma disse poi che la madre e la sorella lo avevano incaricato di ossequiare Sua Eccellenza, il che era soltanto una favola, meno grossa quindi di una menzogna. "Eccellenza" aggiunse poi "desideravo pregarLa se domani potesse dare ordini che diano una carrozza: dovrei andare all'Arcivescovado a chiedere una dispensa matrimoniale: una mia nipote si è fidanzata con un cugino."

"Certo, padre Pirrone, certo, se lo volete; ma dopodomani io debbo andare a Palermo; potreste venire con me; proprio così di furia dev'essere?"

 



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