PARTE SESTA

 

Novembre 1862

La principessa Maria-Stella sali in carrozza, sedette sul raso azzurro dei cuscìni, raccolse il più possibile attorno a sé le fruscìami pieghe della veste. Intanto Concetta e Carolina salivano anch'esse: sedevano di fronte e dai loro identici vestiti rosa si sprigionava un tenue profumo di violetta; dopo il peso spropositato di un piede che si poggiò sul montatoio fece vacillare la calèche sulle alte molle: Don Fabrizio saliva anche lui. La carrozza fu piena come un uovo: le onde delle sete, delle armature di tre crinoline montavano, si urtavano si confondevano sin quasi all'altezza delle teste; sotto era un fìtto miscuglio di calzature, scarpini di seta delle ragazze, scarpette mordere della Principessa, pantofoloni di pelle lucida del Principe; ciascuno pativa della presenza dei piedi altrui e non sapeva più dove fossero i propri.

I due scalini del montatoio furono richiusi, il servitore ricevette gli ordini. "A palazzo Ponteleone." Risali a cassetta, il palafreniere che teneva la briglia dei cavalli si scostò, il cocchiere fece impercettibilmente schioccare la lingua, la calèche scivolò via.

Si andava al ballo.

Palermo in quel momento attraversava uno dei suoi intermittenti periodi di mondanità, i balli infuriavano. Dopo la venuta dei Piemontesi, dopo il fattaccio di Aspromonte, fugati gli spettri di espropria e di violenze, le duecento persone che componevano "il mondo" non si stancavano d'incontrarsi, sempre gli stessi, per congratularsi di esistere ancora.

Tanto frequenti erano le diverse e pur sempre identiche feste che i principi di Salina erano venuti a stare per tre settimane nel loro palazzo in città per non dover fare quasi ogni sera il lungo tragitto da S. Lorenzo. I vestiti delle signore arrivavano da Napoli nelle lunghe cassette nere simili a feretri, ed era stato un viavai isterico di crestaie, pettinatrici e calzolai; servi esasperati avevano recato alle sarte biglietti affannosi. Il ballo dai Ponteleone sarebbe stato il più importante di quella breve stagione: importante per tutti per lo splendore del casato e del palazzo, per il numero degli invitati; più importante ancora per i Salina che vi avrebbero presentato alla "società" Angelica, la bella fidanzata del nipote.

Erano soltanto le dieci e mezza, un po' presto per presenнtarsi a un ballo quando si è il principe di Salina che è giusto giunga sempre quando la festa abbia sprigionato tutto il proprio calore; questa volta però non si poteva fare altrimenti se si voleva esser lì quando sarebbero entrati i Sedàra che ("non lo sanno ancora, poveretti") era gente da prendere alla lettera l'indicazione di orario scritta sul cartoncino lucido dell'invito. Era costata un po' di fatica il far rimettere a loro uno di quei biglietti: nessuno li conosceva, e la principessa Maria-Stella, dieci giorni prima, aveva dovuto sobbarcarsi a fare una visita a Margherita Ponteleone; tutto era andato liscio, si capisce, ma nondimeno era stata questa una delle spinucce che il fidanzamento di Tancredi aveva inserito nelle delicate zampe del Gattopardo.

Il breve percorso sino a palazzo Ponteleone si svolgeva per un intrico di viuzze buie, e si procedeva al passo: via Salina, via Valverde, la discesa dei Bambinai, così festosa il giorno con le sue bottegucce di figurine in cera, così tetra la notte. La ferratura dei cavalli risuonava prudente fra le nere case che dormivano o facevano finta di dormire.

Le ragazze, questi esseri incomprensibili per i quali un ballo è una festa e non un tedioso dover mondano, parlottavano liete a mezzavoce; la principessa Maria Stella tastava la borsa per assicurarsi della presenza del flacconcino di "sal volatileФ, Don Fabrizio pregustava l'effetto che la bellezza di Angelica avrebbe fatto su tutta quella gente che non la conosceva e quello che la fortuna di Tancredi avrebbe fatto su quelle stesse persone che lo conoscevano troppo. Un'ombra però oscurava la sua soddisfazione: come sarebbe stato il "frack" di don Calogero? Certo non come quello che aveva avuto addosso a Donnafugata: egli era stato affidato a Tancredi che lo aveva trascinato dal miglior sarto ed aveva perfino assistito alle prove; ufficialmente era sembrato contento dei risultati, l'altro giorno, ma in confidenza" aveva detto: "II 'frack' è come può essere; il padre di Angelica manca di chic." Era innegabile. Ma Tancredi si era reso garante di una perfetta rasatura e della decenza degli scarpini. Era già qualche cosa.

Là dove la discesa dei Bambinai sbocca sull'abside di S. Domenico, la carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; dietro un chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso, e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino di argento. Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un'agonia; era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s'inginocchiò sul marciaнpiede, le signore fecero il segno della croce, lo scampanellare dileguò nei vicoli che precipitavano verso S. Giacomo, la calèche con i suoi occupanti gravati di un ammonimento salutare s'incamminò di nuovo verso la meta ormai vicina.

Si giunse, si discese nell'androne; la vettura andò a scompaнrire nell'immensità del cortile dal quale giungevano scalpiceli e balugini degli equipaggi venuti prima.

Lo scalone era di materiale modesto ma di proporzioni nobilissime; sui lati d'ogni scalino primitivi fiori spandevano u loro rozzo profumo; nel pianerottolo che divideva le due fughe, le livree amaranto di due servi immobili sotto la cipria, Ponevano una nota di colore vivace nel grigio perlaceo dellТambiente. Da due finestrotti alti e con grate dorate giungevano risa e mormori! infantili: i nipotini dei Ponteleone, esclusi dalla festa, si rifacevano beffeggiando gli ospiti. Le signore Spianavano le pieghe delle sete, Don Fabrizio col gibus sottobraccio le sorpassava di tutta la testa benché fosse uno scalino indietro. Alla porta del primo salone s'incontrarono i padroni di casa: lui, Don Diego, canuto e panciuto che gli occhi arcigni soltanto salvavano dall'apparenza plebea; lei, donna Margherita, che di fra il corruscare del diadema e della triplice collana di smeraldi mostrava il volto suo adunco di vecchio canonico.

"Siete venuti presto! tanto meglio! ma state tranquilli, i vostri invitati non sono ancora comparsi." Una nuova pagliuzнza infastidì le unghiette sensibili del Gattopardo. "Anche Tancredi è già qui."

Infatti nell'angolo opposto del salone il nipote, nero e sottile come una biscia, teneva circolo a tre o quattro giovanotti e li faceva sbellicare dalle risa per certe sue storielle certamente arrischiate, ma teneva gli occhi, inquieti come sempre, fissi alla porta d'ingresso. Le danze erano di già cominciate e attraverso tre, quattro, cinque, sei saloni giungevano dalla sala da ballo le note dell'orchestrina.

"Ed aspettiamo anche il colonnello Pallavicino, quello che si è condotto tanto bene ad Aspromonte."

Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una costatazione priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappelнlate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompaнgnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimè! era sprovvisto di umorismo). In uno strato intermedio della psiche principesca la frase aveva un significaнto tecnico e intendeva elogiare il Colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era "condotto bene" perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose.

Evocato, creato quasi dalle parole lusinghiere e dalle ancor più lusinghiere cogitazioni, il Colonnello comparve alla scala. Procedeva fra un tintinnio di pendagli, catenelle, speroni e decorazioni, nella ben imbottita divisa a doppiopetto, cappello piumato sotto il braccio, sciabola ricurva poggiata sul polso sinistro; era uomo di mondo e di maniere rotondissime, speciaнlizzato, come tutta l'Europa ormai sapeva, in baciamani densi di significato; ogni signora sulle cui dita si posarono quella sera i mustacchi suoi odorosi fu posta in grado di rievocare con conoscenza di causa, l'attimo storico che le stampe popolari avevano di già esaltato.

Dopo aver sostenuto la doccia di lodi riversata su di lui dai Ponteleone, dopo aver stretto le due dita tesegli da Don Fabrizio, Pallavicino fu sommerso nello spumeggiare profumaнto di un gruppo di signore; i suoi tratti coscientemente virili emergevano al disopra delle spalle candide e giungevano sue frasi staccate: "Piangevo, contessa, piangevo come un bimbo" oppure "Lui era bello e sereno come un Arcangelo." La sua sentimentalità maschia rapiva quelle dame che le schioppettate dei suoi bersaglieri avevano di già rassicurato.

Angelica e don Calogero tardavano e di già i Salina pensavaнno a inoltrarsi negli altri saloni, quando Tancredi piantò in asso il proprio gruppo e si diresse come un razzo verso l'ingresso: gli attesi erano giunti. Al disopra dell'ordinato turbinìo della crinolina rosea le bianche spalle di Angelica ricadevano verso le braccia forti e dolci; la testa si ergeva piccola e sdegnosa sul collo liscio di gioventù e adorno di perle volutamente modeste. Quando dall'apertura del lungo guanto glacé essa fece uscìre la mano non piccola ma di taglio perfetto, si vide brillare lo zaffiro napoletano. Don Calogero era nella di lei scia, sorcetto custode di una fiammeggiante rosa; negli abiti di lui non vi era eleganza ma decenza si, questa volta; solo suo errore fu quello di portare all'occhiello la croce della Corona d'Italia conferitagli di recente; essa, per altro, comparve presto in una delle tasche clandestine del "frack" d1 Tancredi.

Il fidanzato aveva di già insegnato ad Angelica l'impassibilità, questo fondamento della distinzione ("Tu puoi esser espanнsiva e chiassosa soltanto con me, cara; per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque"), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile.

I palermitani sono dopo tutto degli italiani, sensibili quindi quanti altri mai al fascino della bellezza ed al prestigio del denaro; inoltre Tancredi essendo notoriamente squattrinato era giudicato, per quanto attraente, un partito non desiderabile (a torto, del resto, come si vide poi quando fu troppo tardi); egli era quindi più apprezzato dalle signore sposate che dalle ragazze da marito. Questi meriti e demeriti congiunti fecero si che l'accoglienza ricevuta da Angelica fosse di un calore imprevisto; a qualche giovanotto, a dir vero, avrebbe potuto rincrescere di non aver dissepolto per sé una così bella anfora colma di monete; ma Donnafugata era feudo di Don Fabrizio egli aveva rinvenuto lì quel tesoro e lo aveva passato all'amato Tancredi non si poteva rammaricarsene più di quanнto ci si sarebbe amareggiati se avesse scoperto una miniera di zolfo in una sua terra: era roba sua, non c'era da dire.

Anche queste labili opposizioni, d'altronde, dileguavano dinanzi al raggiare di quegli occhi; a un ceno momento vi fa una vera calca di giovanotti che volevano farsi presentare e richiedere un ballo: a ciascuno Angelica dispensava un sorriso della sua bocca di fragola, a ciascuno mostrava il proprio carnet nel quale a ogni polka, mazurka e valzer seguiva la firma possessiva: Falconeri. Da parte delle signorine le proposte di "darsi del tu" fioccavano e dopo un'ora Angelica si trovava a suo agio fra persone che del selvaggiume della madre e della taccagneria del padre non avevano la minima idea.

Il contegno di lei non si smentì neppure un minuto: mai la si vide errare sola con la testa fra le nuvole, mai le braccia le si scostarono dal busto; mai la sua voce si alzò al disopra del "diapason" (del resto abbastanza alto) delle altre signore. Poiché Tancredi le aveva detto il giorno prima "Vedi, cara, noi (e quindi anche tu, adesso) teniamo alle nostre case ed al nostro mobilio più che a qualsiasi altra cosa; nulla ci offende più della noncuranza rispetto a questo; quindi guarda tutto e loda tutto; del resto palazzo Ponteleone lo merita; ma poiché non sei più una provincialotta che si sorprende di ogni cosa, mescolerai sempre una qualche riserva alla lode; ammira si ma paragona sempre con qualche archetipo visto prima, e che sia illustre." Le lunghe visite al palazzo di Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera ammiнrò ogni arazzo ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano le bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa; e fìnanco della fetta di torta che un premuroso giovin signore le portò disse che era eccellente e buona quasi come quella di "monsù Gaston," il cuoco dei Salina. E poiché "monsù Gaston" era il Raffaello fra i cuochi e gli arazzi di Pitti i "monsù Gaston" fra le tapezzerie, nessuno poté trovarvi da ridire, anzi tutti furono lusingati dal paragone ed essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita.

Mentre Angelica mieteva allori, Maria-Stella spettegolava su di un divano con due vecchie amiche e Concetta e Carolina raggelavano con la loro timidità i giovanotti più cortesi, Don Fabrizio lui, errava per i saloni: baciava la mano delle signore che incontrava, indolenziva le spalle degli uomini che voleva festeggiare, ma sentiva che il cattivo umore lo invadeva lentaнmente. Anzitutto, la casa non gli piaceva: i Ponteleone da settanta anni non avevano rinnovato l'arredamento ed esso era ancora quello del tempo della regina Maria-Carolina, e lui che credeva di avere dei gusti moderni s'indignava. "Ma, Santo Dio, con i redditi di Diego ci vorrebbe poco a metter fuori tutti questi 'tremò,' questi specchi appannati! Si faccia fare un bel mobilio di palissandro e peluche, stia a vivere comodamente lui e non costringa i suoi invitati ad aggirarsi per queste catacombe. Finirò col dirglielo!" Ma non lo disse mai a Diego perché queste sue opinioni nascevano solo dal malumore e dalla sua tendenza alla contradizione, erano presto dimenticate e lui stesso non mutava nulla ne a S. Lorenzo ne a Donnafugata. Intanto però bastarono ad aumentargli il disagio.

Le donne che erano al ballo non gli piacevano neppure: due o tre fra quelle anziane erano state sue amanti e vedendole adesso appesantite dagli anni e dalle nuore, faticava a ricreare per sé l'immagine di loro quali erano venti anni fa e s'irritavaа ( pensando che aveva sciupato i propri anni migliori a inseguire (ed a raggiungere) simili sciattone. Anche le giovani però nonа gli dicevano gran che, meno un paio: la giovanissima duchessa di Palma della quale ammirava gli occhi grigi e la severa soavità del portamento, Tutù Làscari anche dalla quale se fosse stato più giovane avrebbe saputo trarre accordi singolarissimi. Ma le altre... era bene che dalle tenebre di Donnafugata fosse emersa Angelica per mostrare alle palermitane cosa fosse una bella donna.

Non gli si poteva dar torto; in quegli anni la frequenza dei matrimoni fra cugini, dettati da pigrizia sessuale e da calcoli terrieri, la scarsezza di proteine nell'alimentazione aggravata dall'abbondanza di amidacei, la mancanza totale di aria fresca e di movimento, avevano riempito i salotti di una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti; esse passavano il tempo ragнgrumate tra loro, lanciando solo corali richiami ai giovanotti impauriti, destinate, sembrava, soltanto a far da sfondo alle tre o quattro belle creature che come la bionda Maria-Palma, la bellissima Eleonora Giardinelli passavano scivolando come cigni su uno stagno fitto di ranocchie. Più le vedeva e più s'irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da li, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori.

Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo di bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione saнcra: "Maria! Maria!" esclamavano perpetuamente quelle poveнre figliole. "Maria! che bella casa!" "Maria! che bell'uomo e il colonnello Pallavicino!" "Maria! mi fanno male i piedi! "Maria! che fame che ho! quando si apre il 'bouffet'?" Il nome della Vergine, invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne, poiché non risultava ancora che i ouistiti delle foreste brasiliane si fossero convertiti al Cattolicesimo.

Leggermente nauseato, il Principe passò nel salotto accanнto: li invece stava accampata la tribù diversa e ostile degli uomini: i giovani ballavano ed i presenti erano soltanto degli anziani, tutti suoi amici. Sedette un poco fra loro: li la Regina dei Cieli non era più nominata invano; ma, in compenso, i luoghi comuni, i discorsi piatti intorbidivano l'aria. Fra questi signori Don Fabrizio passava per essere uno "stravagante"; il suo interessamento alla matematica era considerato quasi coнme una peccaminosa perversione, e se lui non fosse stato proprio il principe di Salina e se non lo si fosse saputo ottimo cavallerizzo, infaticabile cacciatore e medianamente donnaiolo, le sue parallassi e i suoi telescopi avrebbero rischiato di farlo mettere al bando; però già gli si parlava poco perché l'azzurro freddo dei suoi occhi, intravisto fra le palpebre pesanti, faceva perdere le staffe agli interlocutori ed egli si trovava spesso isolato non già per rispetto, come credeva, ma per timore.

Si alzò; la malinconia si era mutata in umor nero autentico. Aveva fatto male a venire al ballo: Stella, Angelica, le figliuole se la sarebbero cavata benissimo da sole, e lui in questo momento sarebbe beato nello studiolo attiguo alla terrazza in via Salina, ad ascoltare il chioccolio della fontana ed a cercar di acchiappare le comete per la coda. "Tant'è, adesso ci sono; andarsene sarebbe scortese. Andiamo a guardare i ballerini."

La sala da ballo era tutta oro: liscio sui cornicioni cincischiato nelle inquadrature delle porte, damaschinato chiaro quasi argenteo su meno chiaro nelle porte stesse e nelle imposte che chiudevano le finestre e le annullavano conferendo così allТambiente un significato orgoglioso di scrigno escludente qualsiasi riferimento all'esterno non degno. Non era la doratura Cacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunнta pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il proprio costo; qua e là sui pannelli nodi di fiori rococò di un colore tanto svanito da non sembrare altro che un effimero rossore dovuto al riflesso dei lampadari.

Quella tonalità solare, quel variegare di brillii e di ombre fecero tuttavia dolere il cuore di Don Fabrizio che se ne stava nero e rigido nel vano di una porta: in quella salaа eminentemente patrizia gli venivano in mente immagini campagnole: il timbro cromatico era quello degli sterminati semineri attorno a Donnafugata, estatici, imploranti clemenza sotto laа tirannia del sole: anche in questa sala come nei feudi a metà agosto, il raccolto era stato compiuto da tempo, immagazzinaнto altrove e, come là, ne rimaneva soltanto il ricordo nel colore delle stoppie; arse d'altronde e inutili. Il valzer le cui note traversavano l'aria calda gli sembrava solo una stilizzazione di quell'incessante passaggio dei venti che arpeggiano il proprio lutto sulle superfici assetate, ieri, oggi, domani, sempre, semнpre, sempre. La folla dei danzatori fra i quali pur contava tante persone vicine alla sua carne se non al suo cuore, fini col sembrargli irreale, composta di quella materia della quale son tessuti i ricordi perenni che è più labile ancora di quella che ci turba nei sogni. Nel soffitto gli Dei, reclini su scanni dorati, guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il ciclo d'estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario.

"Bello, principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell'oro zecchino!" Sedàra si era posto vicino a lui, i suoi occhietti svegli percorrevano l'ambienнte, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario.

Don Fabrizio, ad un tratto, senti che lo odiava; era all'afferнmarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso incupiva questi palazzi; si doveva a lui, al suoi compari, ai loro rancori, al loro senso d'inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, Don Fabrizio, gli abiti neri dei ballerini ricordavano le cornacchie che planavano, alla ricerca di prede putride, al disopra del valloncelli sperduti. Ebbe voglia di rispondergli malamente, d'invitarlo ad andarsene fuori dai piedi Ma non si poteva: era un ospite, era il padre della cara Angelica. Era forse un infelice come gli altri.

"Bello, don Calogero, bello. Ma ciò che supera tutto sono i nostri due ragazzi." Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell'altro. Il nero del "frack" di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Ne l'uno ne l'altra erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all'orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire.

I due giovani si allontanavano, altre coppie passavano, meno belle, altrettanto commoventi, immerse ciascuna nella propria passeggera cecità. Don Fabrizio senti spetrarsi il cuore: il suo disgusto cedeva il posto alla compassione per questi effimeri esseri che cercavano di godere dell'esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? voleva dire esser vili come le pescivendole che sessant'anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato. Anche le scimmiette sui poufs, anche i vecchi babbei suoi amici erano miserevoli, insalvabili e cari come il bestiame che la notte mugola per le vie della città, condotto al macello; all'orecchio di ciascuno di essi sarebbe giunto un giorno lo scampanellio che aveva udito tre ore fa dietro S. Domenico. Non era lecito odiare altro che l'eternità.

E poi tutta la gente che riempiva i saloni, tutte quelle donne bruttine, tutti questi uomini sciocchi, questi due sessi vanagloriosi, erano il sangue del suo sangue, erano lui stesso; con essi soltanto si comprendeva, soltanto con essi era a suo agio. "Sono forse più intelligente, sono certamente più colto di loro, ma sono della medesima risma, con essi debbo solidarizzare.

Si accorse che don Calogero parlava con Giovanni Finale del possibile rialzo del prezzo dei caciocavalli e che, speranzosi di questa beatifica evenienza, i suoi occhi si erano fatti liquidi e mansueti. Poteva svignarsela senza rimorsi.

Fino a questo momento l'irritazione accumulata gli aveva dato energia; adesso con la distensione sopravvenne la stanнchezza: erano di già le due. Cercò un posto dove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini, amati e fratelli, va bene, ma sempre noiosi. Lo trovò presto: la biblioteca, piccola, silenzioнsa, illuminata e vuota. Sedette poi si rialzò per bere dell'acqua che si trovava su un tavolinetto. "Non c'è che l'acqua a esser davvero buona" pensò da autentico siciliano; e non si asciugò le goccioline rimaste sulle labbra. Sedette di nuovo. La biblioteнca gli piaceva, ci si senti presto a suo agio; essa non si opponeva alla di lui presa di possesso perché era impersonale come lo sono le stanze poco abitate: Ponteleone non era tipo da perdere il suo tempo li dentro. Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della "Morte del Giusto" di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, fra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotino che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore; si capiva subito che erano loro il vero soggetto del quadro. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all'anno.

Subito dopo chiese a sé stesso se la propria morte sarebbe stata simile a quella: probabilmente si, a parte che la biancheria sarebbe stata meno impeccabile (lui lo sapeva, le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci son le bave, le deiezioni, le macchie di medicine...) e che era da sperare che Concetta, Carolina e le altre sarebbero state più decentemente vestite. Ma, in complesso, lo stesso. Come sempre la considerazione della propria morte lo rasserenava tanto quanto lo aveva turbato quella della morte degli altri; forse perché, stringi stringi, la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo?

Da questo passò a pensare che occorreva far fare delle riparazioni alla tomba di famiglia, ai Cappuccini. Peccato che non fosse più permesso appendere là i cadaveri per il collo nella cripta e vederli poi mummificarsi lentamente: lui ci avrebbe fatto una magnifica figura su quel muro, grande e lungo com'era, a spaventare le ragazze con l'immoto sorriso del volto incartapecorito, con i lunghissimi calzoni di piqué bianco. Ma no, lo avrebbero vestito di gala, forse in questo stesso "frack" che aveva addosso.

La porta si apri. "Zione, sei una bellezza stasera. La marsina ti sta alla perfezione. Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?"

Tancredi era a braccio di Angelica: tutti e due erano ancora sotto l'influsso sensuale del ballo, stanchi. Angelica sedette, chiese a Tancredi un fazzoletto per asciugarsi le tempie; fu Don Fabrizio a darle il suo. I due giovani guardavano il quadro con noncuranza assoluta. Per entrambi la conoscenza della morte era puramente intellettuale, era per così dire un dato di coltura e basta, non un'esperienza che avesse loro forato il midollo delle ossa. La morte, si, esisteva, senza dubbio, ma era roba ad uso degli altri; Don Fabrizio pensava che è per la ignoranza intima di questa suprema consolazione che i giovani sentono i dolori più acerbamente dei vecchi: per questi lТuscita di sicurezza è più vicina.

"Principe" diceva Angelica "abbiamo saputo che Lei era qui; siamo venuti per riposarci ma anche per chiederle qualche cosa; spero che non me la rifiuterà." I suoi occhi ridevano di malizia, la sua mano si posava sulla manica di Don Fabrizio. Volevo chiederle di ballare con me la prossima 'mazurka.' Dica di si, non faccia il cattivo: si sa che Lei era un gran ballerino." Il Principe fu contentissimo, si sentiva tutto ringalнluzzito. Altro che cripta dei Cappuccini! Le sue guance pelose si agitavano per il piacere. L'idea della "mazurka"' però lo spaventava un poco: questo ballo militare, tutto battute di piedi e giravolte non era più roba per le sue giunture. Inginocchiarsi davanti ad Angelica sarebbe stato un piacere, ma se dopo avesse fatto fatica a rialzarsi?

"Grazie, Angelica, mi ringiovanisci. Sarò felice di ubbidirti, ma la 'mazurka' no, concedimi il primo valzer."

"Lo vedi, Tancredi, com'è buono lo zio? Non fa i capricci come tè. Sa, Principe, lui non voleva che glielo chiedessi: è geloso."

Tancredi rideva: "Quando si ha uno zio bello ed elegante come lui è giusto esser gelosi. Ma, insomma, per questa volta non mi oppongo." Sorridevano tutti e tre, e Don Fabrizio non capiva se avessero complottato questa proposta per fargli piacere o per prenderlo in giro. Non aveva importanza: erano cari lo stesso.

Al momento di uscire Angelica sfiorò con la mano la tapezzeria di una poltrona. "Sono carine queste; un bel colore; ma quelle di casa sua, Principe..." La nave procedeva nell'abbrivo ricevuto. Tancredi intervenne: "Basta, Angelica. Noi due ti vogliamo bene anche al di fuori delle tue conoscenze in fatto di mobilio. Lascia stare le sedie e vieni a ballare."

Mentre andava al salone da ballo Don Fabrizio vide che Sedàra parlava ancora con Giovanni Finale. Si udivano le parole "russella," "primintìo," "marzolino": paragonavano i pregi dei grani da semina. Il Principe previde imminente un invito a Margarossa, il podere per il quale Finale si stava rovinando a forza di innovazioni agricole.

La coppia Angelica-Don Fabrizio fece una magnifica fiнgura. Gli enormi piedi del Principe si muovevano con delicaнtezza sorprendente e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di esser sfiorate; la zampaccia di lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza, il mento poggiava sull'onda letèa dei capelli di lei; dalla scollatura di Angelica saliva un profumo di bouquet a la Maréchale, soprattutto un aroma di pelle giovane e liscia. Alla memoria di lui risalì una frase di Tumèo: "Le sue lenzuola debbono avere l'odore del paradiso." Frase sconveniente, frase villana; esatta però. Quel Tancredi...

Lei parlava. La sua naturale vanità era sodisfatta quanto la sua tenace ambizione. "Sono così felice, zione. Tutti sono stati tanto gentili, tanto buoni. Tancredi, poi, è un amore; e anche Lei è un amore. Tutto questo lo devo a Lei, zione, anche Tancredi. Perché se Lei non avesse voluto si sa come sarebbe andato a finire." "Io non c'entro, figlia mia; tutto lo devi a tè sola." Era vero: nessun Tancredi avrebbe mai resistito alla sua bellezza unita al suo patrimonio. La avrebbe sposata calpestanнdo tutto. Una fitta gli traversò il cuore: pensava agli occhi alteri e sconfìtti di Concetta. Ma fu un dolore breve: ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle; presto si ritrovò come a venti anni quando in questa sala stessa ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi, "roba per gli altri."

Tanto assorto era nei suoi ricordi che combaciavano così bene con la sensazione presente che non si accorse che ad un certo punto Angelica e lui ballavano soli. Forse istigate da Tancredi le altre coppie avevano smesso e stavano a guardare; anche i due Ponteleone erano li: sembravano inteneriti, erano anziani e forse comprendevano. Stella pure era anziana, però, ma da sotto una porta i suoi occhi erano foschi. Quando l'orchestrina tacque un applauso non scoppiò soltanto perché Don Fabrizio aveva l'aspetto troppo leonino perché si arriнschiassero simili sconvenienze.

Finito il valzer, Angelica propose a Don Fabrizio di cenare alla tavola sua e di Tancredi; lui ne sarebbe stato molto contento ma proprio in quel momento i ricordi della sua gioventù erano troppo vivaci perché non si rendesse conto di quanto una cena con un vecchio zio gli sarebbe riuscita ostica, allora, mentre Stella era li a due passi. "Soli vogliono stare gli innamorati o magari con estranei; con anziani e, peggio che peggio, con parenti, mai."

"Grazie, Angelica, non ho appetito. Prenderò qualcosa allТimpiedi. Vai con Tancredi, non pensate a me."

Aspettò un momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet. Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di vermeil che il nonno di Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedestalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano al disopra delle loro teste il fusto d'argento dorato, coronato in cima dalle fiammelle di dodici candele: la perizia dell'orefice aveva maliziosamente espresso la facilità serena degli uomini, la fatica aggraziata delle giovinette nel reggere lo spropositato peso. Dodici pezzi di prim'ordine. "Chissà a quante 'salme' di terra equivarranno" avrebbe detto l'infelice Sedàra. Don Fabrizio ricordò come Diego gli avesse un giorno mostrato gli astucci di ognuno di quei candelabri, montagnole di marocchino verde recanti impresso sui fianchi l'oro dello scudo tripartito dei Ponteleone e quello delle cifre intrecciate dei donatori.

Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di "dolci di riposto" mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables a thè dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, le beccacce disossate recline su tumuli di crostoni ambrati decorati delle loro stesse viscere triturate, i pasticci di fegato grasso rosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d'aurora, dieci altre crudeli colorate delizie; all'estremità della tavola due monumentali zuppiere d'argento contenevano il consommé, ambra bruciata e limpido. I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena.

"Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stornaci del mio per tutto questo.

Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra lucciнcante di cristalli ed argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Li immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco nevosi di panna; beignets Dauphine che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l'humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampaнgna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e "trionfi della Gola" col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche "paste delle Vergini." Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant'Agata esibente i propri seni recisi. "Come mai il Santor Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I 'trionfi della Gola' (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah ! "

Nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria, Don Fabrizio si aggirava alla ricerca di un posto. Da un tavolo Tancredi lo vide, batté la mano su una sedia per mostrargli che vi era da sedersi; accanto a lui Angelica cercava di vedere nel rovescio di un piatto d'argento se la pettinatura era a posto. Don Fabrizio scosse la testa sorridendo per rifiutare. Continuò a cercare. Da un tavolo si udiva la voce sodisfatta di Pallavicino: "La più alta emozione della mia vita..." Vicino a lui vi era un posto vuoto. Ma che gran seccatore! Non era meglio dopo tutto ascoltare la cordialità forse voluta ma rinfrescante di Angelica, la lepidezza asciutta di Tancredi? No; meglio annoiarsi che annoiare gli altri. Chiese scusa, sedette vicino al colonnello che si alzò al suo giungere il che gli riconciliò un poco delle simpatie gattopardesche. Mentre degustava la raffinata mescolanza di bianco mangiare, pistacнchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, Don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là delle frasi zuccherose riservate forse alle signore, era tutt'altro che un imbecille; era un "signore" anche lui e il fondamentale scetticismo della sua classe, soffocato abitualнmente dalle impetuose fiamme bersaglieresche del bavero, taceva di nuovo capolino adesso che si trovava in un ambiente eguale a quello suo natìo, fuori dell'inevitabile retorica delle caserme e delle ammiratrici.

"Adesso la Sinistra vuoi mettermi in croce perché, in Agosto, ho ordinato ai miei ragazzi di far fuoco addosso al venerale. Ma mi dica Lei, principe, cosa potevo fare d'altro con gli ordini scritti che avevo addosso? Debbo però confesнsarlo: quando li ad Aspromonte mi son visto dinanzi quelle centinaia di scamiciati, con faccie di fanatici incurabili alcuni, altri con la grinta dei rivoltosi di mestiere, sono stato felice che questi ordini fossero tanto aderenti a ciò che io stesso pensavo; se non avessi fatto sparare quella gente avrebbe fatto polpette dei miei soldati e di me, e il guaio non sarebbe stato grande, ma avrebbe finito col provocare l'intervento francese e quello austriaco, un putiferio senza precedenti nel quale sarebbe crollato questo Regno d'Italia che si è formato per miracolo, vale a dire non si capisce come. E glie lo dico in confidenza: la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto a Garibaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, da tutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini, forse generosi benché inetti, forse però voluti dalle Tuilleries e da palazzo Farnese; tutti individui ben diversi da quelli che erano sbarcati con lui a Marsala, gente che credeva, i migliori fra essi, che si può compiere l'Italia con una serie di 'quarantottate.' Lui, il Generale, questo lo sa perché al momento del mio famoso inginocchiamento mi ha stretto la mano e con un calore che non credo abituale verso chi, cinque minuti prima, vi ha fatto scaricare una pallottola nel piede; e sa cosa mi ha detto a bassa voce, lui che era la sola persona per bene che si trovasse da quella parte su quell'infausta montagna? 'Grazie, colonnelнlo.' Grazie di che, Le chiedo? di averlo reso zoppo per tutta la vita? no, evidentemente; ma di avergli fatto toccar con mano le smargiassate, le vigliaccherie, peggio forse, di questi suoi dubbi seguaci."

"Ma voglia scusarmi, non crede Lei, colonnello, di avere un po' esagerato in baciamani, scappellate e complimenti?"

"Sinceramente, no. Perché questi atti di omaggio erano genuini. Bisognava vederlo quel povero grand'uomo steso per terra sotto un castagno, dolorante nel corpo e ancor più indolenzito nello spirito. Una pena! Si rivelava chiaramente per ciò che è sempre stato, un bambino, con barba e rughe, ma un ragazzo lo stesso, avventato e ingenuo. Era difficile resistere alla commozione per esser stati costretti a fargli 'bu-bu.' Perché d'altronde avrei dovuto resistere? Io la mano la bacio soltanto alle donne; anche allora, principe, ho baciato la mano alla salvezza del Regno, che è anch'essa una signora cui noi militari dobbiamo rendere omaggio."

Un cameriere passava: Don Fabrizio disse che gli portasseнro una fetta di Mont-Blanc e un bicchiere di champagne. "E Lei, colonnello, non prende niente?" "Niente da mangiare, grazie. Forse anch'io una coppa di champagne."

Poi proseguì; si vedeva che non poteva staccarsi da quel ricordo che, fatto, come era di poche schioppettate e di molta destrezza, era proprio del tipo che affascinava i suoi simili. "Gli uomini del Generale, mentre i miei bersaglieri li disarmavano, inveivano e bestemmiavano. E sa contro chi? contro lui, che era stato il solo a pagare di persona. Una schifezza, ma naturale: vedevano sfuggirsi dalle mani quella personalità infantile ma grande che era la sola a poter coprire le oscure mene di tanti fra essi. E quand'anche le mie cortesie fossero state superflue sarei lieto lo stesso di averle fatte: qui da noi, in Italia non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti; sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo."

Bevve il vino che gli avevano penato, ma ciò sembrò aumentare ancora la sua amarezza. "Lei non è stato sul contiнnente dopo la fondazione del Regno? Fortunato lei. Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuoi cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d'arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio... Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più, ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse. E come andrà a finire? C'è lo Stellone, si dice. Sarà. Ma Lei sa meglio di me, principe, che anche le stelle fisse veramente fìsse non sono." Forse un po' brillo, profetava. Don Fabrizio dinanzi alle prospettive inquietanti sentiva stringersi il cuore.

Il ballo continuò a lungo e si fecero le sei del mattino: tutti erano sfiniti e avrebbero voluto essere a letto da almeno tre ore: ma andar via presto era come proclamare che la festa non era riuscita e offendere i padroni di casa che, poveretti, si erano data tanta pena.

I volti delle signore erano lividi, gli abiti sgualciti, gli aliti pesanti. "Maria! che stanchezza! Maria! che sonno!" Al disopra delle loro cravatte in disordine le facce degli uomini erano gialle e rugose, le bocche intrise di saliva amara. Le loro visite a una cameretta trascurata, a livello della loggia dell'orchestra, si facevano più frequenti: in essa era disposta in bell'ordine una ventina di vasti pitali, a quell'ora quasi tutti colmi, alcuni sciabordanti per terra. Sentendo che il ballo stava per finire i servitori assonnati non cambiavano più le candele dei lampadari: i mozziconi corti spandevano nei saloni una luce diversa, fumosa, di mal augurio. Nella sala del buffet, vuota, vi erano soltanto piatti smantellati, bicchieri con un dito di vino che i camerieri bevevano in fretta guardandosi attorno. La luce dell'alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea.

La riunione andava sgretolandosi e attorno a donna Marнgherita vi era già un gruppo di gente che si congedava. "Bellissimo! un sogno! all'antica!" Tancredi dovette faticare per svegliare don Calogero che con la testa all'indietro si era addormentato su una poltrona appartata; i calzoni gli erano risaliti sino al ginocchio e al disopra delle calze di seta si vedevano le estremità delle sue mutande, davvero molto paesaнne. Il colonnello Pallavicino aveva le occhiaie anche lui; dichiarava però, a chi volesse sentirlo, che non sarebbe andato a casa e che sarebbe passato direttamente da palazzo Ponteleone alla piazza d'armi; così infatti voleva la ferrea tradizione seguita dai militari invitati a un ballo.

Quando la famiglia si fu messa in carrozza (la guazza aveva reso umidi i cuscini) Don Fabrizio disse che sarebbe tornato a casa a piedi; un po' di fresco gli avrebbe fatto bene, aveva un'ombra di mal di capo. La verità era che voleva attingere un po' di conforto guardando le stelle. Ve n'era ancora qualcuna proprio su, allo zenith. Come sempre il vederle lo rianimò; erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi.

Nelle strade vi era di già un po' di movimento: qualche carro con cumuli d'immondizia alti quattro volte l'asinello grigio che li trascinava. Un lungo barroccio scoperto portava accatastati i buoi uccisi poco prima al macello, già fatti a quarti e che esibivano i loro meccanismi più intimi con l'impudicizia della morte. A intervalli una qualche goccia rossa e densa cadeva sul selciato.

Da una viuzza traversa intravide la parte orientale del cielo, al disopra del mare. Venere stava li, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele, aspettava sempre Don Fabrizio alle sue uscite mattutine, a Donnafugata prima della caccia, adesso dopo il ballo.

Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza?

 



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