GIANCARLO PANDINI.

TOMMASO LANDOLFI.

da IL CASTORO, NUMERO 107, NOVEMBRE 1975.

Premetto che non ho mai avuto la pazienza (ed è forse un mio merito di tirare davvero a pulimento certe pagine; che nondimeno apparvero a qualcuno particolarmente ben tornite, senza dubbio per confronto con una imperante negligenza. Ma un bel giorno, sentendomi prigioniero entro i miei quasi fisici risentimenti nei riguardi della pagina, un bel giorno deliberai di allentare il controllo sulla medesima, anzi di lasciarle addirittura le briglie sul collo, e giunsi così (facendo come al solito il salto troppo lungo) in molti casi fino a una positiva sciattezza. Ebbene, lo credereste? Non per tanto cessai od ho cessato d'essere definito 'stilista'.

Se giungevo a fare il vuoto nella mia anima, allora sì che essa perfino si placava, come ciò che sia ricondotto al suo stato naturale, alla sua naturale inerzia; quanto più e meglio preparavo la grazia, tanto più essa si allontanava, diveniva improbabile, impossibile; né mai mi sorse il benché minimo, non dirò bisogno, desiderio di comunicare qualcosa a qualcuno di destare o ridestare qualcosa in altri o in me, di dar voce (...) a qualcosa, etc. Del resto a che dar voce? Non ero io vuoto e non m'ero voluto ancor più compiùtamente tale? E come, con quale diritto o in forza di quale illusione speravo che quel vuoto si animasse, si popolasse di forme, e di gioie, di tormenti, di tutto? (...). Né era per questa via che avrei potuto fabbricarmi le mie illusioni, le mie vanità, quelle necessarie letteralmente come il pane per vivere, ma sempre e forse anche dopo la morte avrei dovuto trascinarmi così, invescato, irretito in una realtà equivoca, accettando ciò cui non credevo. (Da Rien va).

Alcune opere dannunziane, per esempio Il secondo amante di Lucrezia Buti, ci fornirebbero, se non fossero sostenute da un potente ingegno, la pittura più esatta di ciò che si chiama stato di sufficienza. Solo a rovesciarne i termini, io darei una pittura altrettanto esatta del mio proprio stato, che pertanto, con definizione quasi clinica, dovrei chiamare stato di insufficienza. Tutto si potrà trovare nelle mie passate opere e in me fuorché... la vita. Dove dunque, in quale desolata regione ha corso la mia esistenza--visto che non c'è altre parole da designarla?

Un tempo avevo persin dichiarato guerra, alla vita, perché da lei mi sentivo escluso. Ma ora! Ora non ho più neppure questo stupito orgoglio. (Da La bière du pecheur).

Devi in primo luogo sapere che il mondo non m'offre nulla di piacevole o tollerabile se non connesso in qualche modo con questa passione (il gioco): dovunque mi rechi, lo fo colla segreta speranza di trovarvi da alimentarla, chiunque accosti con questa d'indurlo a essermi compagno. In breve, concepisco ormai l'esistenza sotto l'aspetto del gioco ed essa mi parrebbe vuota più di quanto non mi paia ove questo mi mancasse (non vituperarlo dunque: m'aiuta a vivere). Ora, tu parli di raggi di sole, di volate di rondini, di piùcoli gatti. Ebbene, son queste viste e questi sensi, forse, tante benedizioni del cielo; ma come si potrebbe goderne, mi chiedo affannosamente da tanto, così, per esse stesse? (...) Come si potrebbe se non in relazione a qualcosa d'altro, di diverso, d'opposto? (...)

O, a dover usare le parole che il volgare ha consacrate, come può un puro godere della purezza e un peccatore del peccato? Io peccatore godo ad esempiù, della purezza ch'è il gioco, e voglio dire, insomma, che solo a chi esce dal baratro infernale, possono apparire vergini le stelle. (Da “Lettera di un romantico sul gioco”, in La spada).

Pure, un sano non potrà mai conoscere quelle orribili immagini del mondo che, anche senza essere positivamente idee deliranti o riferirsi ad alcun particolare oggetto, son come deviazioni, di un'unghia se si vuole dalla comune visione o insensati esaltamenti di essa; quando nella nostra osservazione dei più indifferenti fatti od oggetti c'è qualcosa che non torna e la nostra coscienza della realtà impallidisce e vacilla, gonfiandosi quei medesimi di enigmi e di minaccia. (Da La bière du pecheur).

 

 

1.

La cura meticolosa, attentissima, sempre coerente eppure distaccata, impiegata da Tommaso Landolfi nell'avvolgere di un alone magico la sua figura di scrittore, non ha permesso fino ad ora di discernere quale confine assuma la leggenda e quale la verità, intorno alla sua personalità d'artista.

Ne è nato un "personaggio", che lo scrittore alimenta con continue variazioni imprevedibili, e che neppure tenta di smentire, quando intorno a questo personaggio altri indulgono a una loro arbitraria deformazione.

Personaggio notturno, “nittalope uccello” che vive solitario nella sua casa-prigione di Pico, nella Ciociarìa, giocatore accanito, funambolico e fumista scrittore, romantico “dandy molto vicino agli scrittori neri dell'Ottocento, rigido e riservato come un principe decaduto, conscio di una sua orgogliosa nobiltà, ma solo, tremendamente solo nella sua sdegnosa sofferenza: tante definizioni per questo “personaggio”, tali da creare intorno più leggenda, appunto, che verità. E mai come per Landolfi, risulta impenetrabile e difficile questa discesa a una possibile definizione, proprio per la scostante e ironica presa di posizione a custodire gelosamente questa sua figura astratta eppure in un certo senso molto verosimile. Figura impietosamente diffusa ed alimentata da un'invenzione e da una creazione costante, ossessiva, dove la biografia fa da supporto geniale alla scrittura e all'espressione, ma che mai raggiunge una parte completa e sicura, tale da indicare con esattezza i termini entro i quali si possa rinvenire un aspetto unico del “personaggio” Landolfi.

Una foto divulgata in alcuni suoi libri, in cui l'autore viene ritratto col volto coperto da una mano aperta e rovesciata, tale da vietare una completa lettura del viso; il risvolto “bianco per desiderio dell'Autore” che Landolfi ha ostentato fin dal 1962 ricusando i diversi giudizi che non lo trovavano consenziente, spesso dettati da una genericità di mestiere più che da un vero giudizio sull'opera che dovevano accompagnare; i suoi repentini viaggi verso i posti di villeggiatura in cui poteva spendere fino alla dissipazione nelle case da gioco le sue modeste sostanze; i rifiuti categorici ad apparire pubblicamente in convegni, a manifestazioni culturali, od anche a sottostare--come invece accade per la maggior parte dei suoi colleghi-- ad interviste; “i detti memorabili” con cui si sottolinea in certi ambienti fiorentini la sua apparizione fugace; le sue battute ironiche, spietate, gelide affascinanti per anticonformismo, ma ingiudicabili sul piùno della convivenza: molte altre notizie, più o meno piccanti, costringono a una rinessione, può apparendo ormai--per chi voglia accostarsi allo scrittore--come luoghi comuni o viete indicazioni sulla sua figura.

Amici molto vicini allo scrittore ricordano con fascino ma con altrettanto reverenziale timore l'incontro, l'approcciola conoscenza di questo Landolfi dai mille volti e da nessuna identità. Leone Piccioni in Maestri e amici (Rizzoli, Milano 1969) abbozza un ritratto assai gustoso di questo scrittore con parole elogiative, nelle quali traspare, tuttavia, un che d'impacciato, di riguardoso, di ostentato, come se il resoconto patisse un giudizio posteriore del Landolfi, poco propenso ad essere cortese nella valutazione che non lo trova consenziente.

Volendo far preparare un pezzo per l'Approdo televisivo, in vista della partecipazione al Premio Strega, non solo non fu possibile avere una parola dallo scrittore, ma un nostro operatore ed un regista inviati a Pico per riprendere quale immagine della sua casa e dintorni, non poterono girare che pochi metri, messi in giro da custodi o parenti, gelosissimi, anch'essi, del riserbo nel quale Landolfi si era cimentato.

Lo stesso Piccioni racconta (p. 214) ciò che succese all'amico Natta che vale la pena leggere nella sua diffusa descrizione, per avere ulteriori pezze d'appoggio nella valutazione dell'inafferabilità landolfiana:

Natta è uno scrittore ligure morto pochi anni fa, di acutissimo spirito e di tale vivacita nella conversazione (e che certo aveva stretto amicizia con Landolfi nelle zone di San Remo che ospitavano quasi naturalmente Natta, e che vedevano molto assiduo Landolfi per la vicinanza della casa da gioco), raccontava che Landolfi usava passare qualche ora al Caffè Greco a Roma in sua compagnia...

Una bellissima e celebre donna, che si era invaghita di lui (in gioventù di gran fascino e grande bellezza, fascino e bellezza del resto che serba intatti anche oggi), cercava di salutarlo, urtando nella sua indifferenza. La cosa andava avanti di giorno in giorno--stando ai racconti di Natta-- la signora sceglieva tavolini strategicamente meglio disposti rispetto a quello di Landolfi, finché un giorno fu lei a rivolgergli la parola: 'Non parli a me' rispose Landolfi 'si rivolga al mio segretario' ed indicava il buon Natta, divertitissimo ma un poco esterrefatto.

Punti sfumanti che sfociano forse nell'indeterminatezza, come i molti altri espressi in racconti dei suoi diversi amici, e che tuttavia costruiscono-- consenziente lo scrittore--quell'alone magico intorno alla figura dello scrittore Landolfi riservata, gelida e scostante, ma dal fascino innegabile.

R.M.De Angelis, altro scrittore e critico amico del Nostro, ci ha dato un ritratto di Landolfi che sottolinea in modo suggestivo il temperamento, le qualità e i difetti (questi di gran lunga superiori a quello, ma ribaltati oltre il sentimento comune in una zona dove si accolgono con magnanimità) dell'uomo, ma che confluiscono nella delineazione del suo genio, sregolato e ironico, ma ineludibile.

Un tempo passava a giovane Gogol (più bello dell'autore russo, di capelli neri e lisci, che li portava con la scriminatura a sinistra, i baffi che contrastavano col taglio degli occhi a mandorla, la mano nobile, che rivaleggiava con l'alta fronte, di portamento sciatto ed altero, non rare volte elegante, sempre bisognoso di denaro e restio a chiederne in prestito), di un Gogol che non ricercasse la 'bella di Roma' o di Firenze (dove Landolfi visse a lungo, imperando persino su Montale che ne aveva riconosciuto il valore). Landolfi giocava al “morbido” facendo finta di aver tendenze greche: il fatto era che stava bene solo con gli uomini colti, o con i giocatori pari suoi [...]. Illusionista, posatore, smargiasso, galante e rubacuori, avrebbe potuto benissimo impersonare il personaggio di don Juan, se certa nevrastenia di origine traumatica non lo avesse distolto dal correre rischi notturni, che invece preferì sempre correre al tavolo da gioco-- dove era imbattibile, e per resistenza e per sfortuna, andando di pari passo la sua jattanza e la malasorte che lo perseguitava, il suo sprezzo del sonno e del denaro altrui (una volta dato fondo al poco di cui poteva disporre). [...] Cartesiano, allievo di Galileo studioso di sistemi massimi e minimi, della cabala, dello zodiaco, dei numeri, Landolfi non esitava a dannarsi l'anima per estrarre una immagine di s‚ che fosse coerente col suo bisogno di dissolversi e di farsi dimenticare dal prossimo--con l'ambizione di scrivere per i posteri di cui negava persino l’esistenza e la capacità di comprenderlo (a La Fiera letteraria).

Tratti dunque che già avviano verso il centro di una comprensione anche minima della personalità landolfiana, tesa a una aspirazione verso un assoluto, ma caldeggiato nei suoi risvolti negativi, come i soli possibili a render conto di una sua lucidità nell'angoscia e nella sofferenza.

E conviene sottolineare, nel racconto fatto da De Angelis, quella “certa nevrastenia” come la causa profonda di un distacco progressivo ma inevitabile dal mondo, da Landolfi coltivata come una sua qualità, fonte di tragica impotenza nei rapporti umani, ma che pure riconduce a un suo amore quasi ossessivo per le specie più infime della natura, animali che egli segue nei loro approcci, nelle loro brute condizioni d'inferiori, e che pure Landolfi circoscrive tra quelli più repellenti, o più vicini all'angoscia onirica, o ancora doppi allucinati di sogni oscuri, come ragni, blatte, topi e via dicendo. Il riconoscimento ch'egli via via dona a queste creature, che sorgono a imperativo categorico con una lezione di esistenza emarginata e che Landolfi privilegia di una loro dannazione, non altro vengono a dire di una scelta, ma anche di un mondo inesplorato che cresce in opposizione a quello umano, e che pure ha un suo posto di larga risonanza nell unuverso terreno. Non si vuole qui certo dare conto di un amore per il negativo, per l'altra faccia della natura, che spesso Landolfi assume come oggetto e soggetto della sua narrazione, ma si vuole solamente mostrare come la parte negativa prenda forma spesso preponderante nei temi e nei motivi della sua invenzione, come fascino che promana da un mondo sconosciuto, a cui Landolfi sembra accostarsi nella sua tormentata solitudine, e che ha radici lontane e assai fonde nella notte dei tempi, in cui l'uomo nasceva al mondo e alla vita, senza distinzione di classe e di ordini.

La sua fuga dall'uomo, da ciò che è comune banale e owio, e che costringe a un impegno sociale e mondano, non altro forse deriva a lui 6 che da un trauma lontanissimo, sconosciuto e pure tanto vivo, se ancor oggi, dopo tanti anni, dall'uomo, dalla convivenza, dalla società rifugge con lo stesso sdegno e con la stessa ripulsa. La rara commozione che poche volte prende la mano alla mania di logica, raziocinio e lucidità di Landolfi, ha permesso momenti di slancio e di confessione, abbandoni alla narrazione di sé, piuttosto che in forma diaristica, in cui si assiste quasi sempre a sfoghi e sillogismi vagliati al lume di un controllo stilistico, in pagine di ricordi, immersi in ombre vaghe, in dolorosi dintorni, “reveries” folgoranti, ma che danno la misura di quanto sia stato lacerante il dramma del suo primo contatto con l'uomo e il suo ambiente. Ci riferiamo a certe pagine di Ombre o ad altre del volume La bière du pecheur. Ma soprattutto a quelle pagine nitide di “ Prefigurazioni: Prato” dove forse sta tutto il dramma della scontrosa e beffarda sua fuga dall'uomo. Landolfi bambino scopre la madre morta. Lo spostamento di questo affetto sulla nonna, dice assai più che ogni altra parola su una prima ferita. Il padre lo allontana commosso, ma conscio dell'estrema necessità: al Collegio Cicognini di Prato giungono padre e figlio “una sera sui primi di novembre”, una sera di “un autunno accidioso, nebbioso” sfondo naturale di una tormenta che in quella città inizia, ma che si protrarrà per tutta la vita.

Non saprei descrivere l'angoscia di quel distacco. Mia, ché ero un bimbo timido e puro come una verginella; con larga prevalenza di caratteri, appunto femminili, persin nel fisico, pieno di sentimenti riposti, di sensibilità sottili e tormentose, e non avevo altra ancora frammezzo a questi; sua, e forse maggiore, che doveva sospingere simile figliuolo in un mondo che sapeva gli sarebbe stato avverso. Rammento e rammenterà sempre quell'ultima passeggiata per un desolato corridoio del collegio, a pianterreno verso il portone, esortandomi egli a farmi forza e a riconoscere la necessità di una tale separazione (esortando me e se stesso), mentre io piangevo disperatamente né volevo sentir ragioni. Infine, compiendo forse il più grande atto di coraggio della sua vita, e forse aiutato dal senso di quanto credeva suo dovere, egli se ne andà, ma per correre, come seppi poi, dal rettore a parlargli lungamente di me, di ciò che ero e delle cure che bisognava usarmi, e ottenervi, si può capirlo, l'unico risultato di suscitare uno stupito e perplesso fastidio in colui.

Le cure che Landolfi padre vagheggiava per il figlio sono descritte oltre nelle stesse pagine, acuite da uno scontro frontale, e abbastanza frequente nei Collegi, con gli altri frequentatori carcerati, che lo dileggiano per la sua malaccorta innocenza, per la sua tendenza a una sorta di svagata malinconia, per la sua scontrosa solitudine e per il suo rifiuto degli “atti impuri”che, al contrario e con volgare supponenza, i suoi amici ostentavano in compagnia. Nel collegio Cicognini Landolfi è avviato a una iniziazione distorta, a una visione e a una conoscenza di certe parole con una premeditata irriverenza. Così che lo scrittore potrà apprendere, quasi come una religione, il rispetto delle parole, entità per lui legate alle cose, ma che nella prima infanzia già venivano divelte alle radici da una loro naturale consonanza con gli oggetti.

Perché allora io avevo una sorta di religioso, e superstizioso, amore e terrore e parole (che mi è rimasto poi a lungo), sulle quali concentravo tutta la realtà, invero scarsa, che mi riusciva a scoprire nei vari oggetti del mondo; più semplicemente, le parole erano quasi le mie sole realtà. Sugli oggetti dunque che queste dei miei compagni, non posso qui dire designavano, insomma sottintendevo oi traevano dietro come accidenti, sarei anche stato disposto a chiudere un occhio, ma sulle parole!

Atteggiamento che spiega in larga misura già un primo aspetto dell'arte di Landolfi, quando non della sua stessa personalità, e proprio attraverso questa sua prima scoperta, alla quale va aggiunto un senso di colpa per imprecisate e abominevoli mostruosità mai commesse, ma che in quella sua prima esperienza gli venivano addebitate (un'amicizia “particolare” con un compagno di camerata, la sua dispensa dalle funzioni religiose, ecc. ) che via via consolidavano in lui un distacco progressivo dalla comunità della vita associata, per irrigidirlo in una sorta di interiorità tutta da scoprire, come misura del mondo e dei suoi simili. Egli dirà, più avanti, che “a generale diffidenza che circondava la mia piccola persona era ben sortita per accrescere quel senso radicale di colpa il quale mi ha accompagnato per tanta parte della mia vita”. Con che si apre un nuovo orizzonte sia sulla sua arte che sulla scelta di certi temi, di certi motivi, quasi aggirati con una ossessiva pertinacia, come essenziali per diradare e spiegare quel senso di colpa, ma anche il senso della vita che da quella colpa ha avuto impronta e sostanza.

Se da una parte il rifiuto della realtà perseguito per tanti anni da Landolfi si giustifica alla luce di queste esperienze traumatiche, dall'altra prende spicco da una sorta di vocazione all'orrido, al magico e all'orfico, come adesione piena--a questa esperienza del negativo--dopo una sua frequentazione di testi e prove narrative della Russia di Gogol e di Puskin, come del surrealismo francese o del romanticismo tedesco: un insieme di letture e di studi che trovavano Landolfi piùnamente disponibile, sia per natura (così come abbiamo tentato di abbozzare) che per smania di conoscenza oltre la cultura chiusa della propria provincia. Gli amici che lo frequentavano negli anni fiorentini (Bo, Luzi, Traverso, Montale), e in quelli romani (Moravia, Brancati, Pannunzio) offrono immagini di questo suo disporsi verso la realtà in modo provocante che sono difformi e diversissime, ma che potrebbero sintetizzarsi in una immagine sola: di uno scrittore dissacrante; immagine che sola giustifica e perdona il suo anticonformismo, ma che ora sappiamo derivare da un'esperienza terrificante, sofferta da Landolfi in una stagione della sua vita in cui il carattere non solo prende forma, ma si modella sulla realtà circostante, e sul riflesso che gli affetti provocano nell'animo ancor prima che il mondo ponga i suoi termini di contesa e di scoperta.

“E necessario calpestare qualcosa, qualcuno, o tutto e tutti; necessario per la nostra felicità”, dirà più avanti negli anni in Un amore del nostro tempo ( 1965 ) .

--Ed è possibile, una nostra felicità su un danno altrui, o solo su un'altrui delusione, su un altrui smarrimento?

--Che smarrimento, in nome di Dio?

--Gli altri, fratello, vivono d'un che da loro statuito e perfino codificato.

--E così?

--Strapparli alle loro beate o anche non beate, indispensabili certezze, semplicemente mostrarne loro la fallacia, aprir loro una finestra sul buio incolmabile che ci circonda, farli mal sicuri di se stessi, non è un delitto?

--Lo ignoro, può darsi; ma delinquere contro noi medesimi con un simile pretesto, non è ancor peggio? e, se mai codesti altri esistano davvero, concedendo inoltre il nostro dovere di giovar loro, non abbiamo noi un unico mezzo per farlo: essere noi e nulla di diverso da noi, aspetto di qualunque ontosa nenia che ci prescrive quale privazione e menomazione una fratellanza del resto meramente postulata? ... Quale menomazione e sacrificio perenne, pensa: con che diritto ci si chiederebbe questo?

Un discorso dialettico che travalica la concezione cristiana dell'amore, per un Landolfi dissacrante--come si diceva--che è teso a un centro entro il quale affiora la sua inermità, non poteva non essere reperito proprio in altro che in un volume poco appariscente e mal riuscito; il che è naturale, così come è naturale che le prove più perfette di Landolfi sono rintracciabili fra quelle in cui il suo ferreo raziocinare lascia spazio all'abbandono, a una vena sottile di trasporto lirico, come aspirazione a stravolgere i confini della disposizione naturale, e dove forse anche Landolfi abbandona il suo gioco di specchi, per ritrovarsi creatura dagli interni tremori, dallo sgomento, da un'inquietudine di uomo ferito.

Ferito che ferisce, rabbioso, ravvolto in sé fino alla disperazione, che provoca fino all'assurdo la realtà a rivelarsi, ma che in quella riconosce un nulla, costitutiva essenza della natura e dell'uomo, e dentro la quale Landolfi fruga, per una soluzione estrema che riesca ad una verità, sempre rimandata, emendabile all'infinito, dietro la quale il personaggio Landolfi si perde, tornando al centro della propria angoscia senza via di scampo.

Abbozzata per necessità introduttiva una può monca e parziale figura del Landolfi uomo, risulterà meno ostico capire dove e in quali direzioni si sia mosso lo scrittore agli esordi. Esordi che avvennero da prima su alcune riviste, come “Caratteri”, “Italia letteraria”, “Corrente”, “Rivoluzione” e soprattutto “Letteratura” e “Campo di Marte”, negli ultimi anni della dittatura fascista; le stesse riviste già inquadrano con sufficiente chiarezza il clima letterario intorno agli Anni Quaranta, con “Letteratura” aperta a un europeismo emendante l'ufficialità cristallizzata della provincia letteraria italiana, e con “Campo di Marte” colmo di inquietudini sociali e di proposte impegnate, ecletticamente avanguardistica nel contestare la difficile situazione italiana della cultura. “Campo di Marte”, che ebbe vita brevissima (1 agosto 1938 - 1 agosto 1939) non solo si dimostrò polemica in un tempo che stava bruciando le tappe verso una guerra disastrosa, ma fu prova fervidissima ad accogliere il disagio e le progettazioni delle generazioni che tentavano di innestare sul tronco della cultura di quegli anni una nuova coscienza poetica e critica, rivedendo le strutture tradizionali, per la prospettazione di un discorso ormai aperto a un colloquio sulla società e sui fondamenti che questa poteva assumere nel campo dell'arte e della cultura. Lo spazio brevissimo in cui visse la rivista di Gatto e Pratolini, se richiama i tempi corti in cui potevano scoppiùre polemiche e disagi in seno alla situazione politica, dall'altra parte poteva dare una risposta alla crisi globale in cui versava il mondo contemporaneo. Oggi sappiamo che la rivista fiorentina fu una prova provvisoria, così legata all'ermetismo, in un certo senso solitaria, i cui risultati creativi ed estetici testimoniano di un disagio ormai sul punto di scoppiùre, e pure iscritta in quelle esperienze d'élite, dentro le quali i protagonisti cercavano un discorso politico-culturale, ma ritagliato in una splendida angolazione dentro la retorica imperante.

E chiaro dunque come Landolfi, che pure collaborò con un certo distacco a “Campo di Marte”, non rientri che forzatamente nell'esperienza di quelle riviste, e marcatamente forse è più vicino a “Letteratura” che alla rivista di Gatto e Pratolini, per quella tendenza a far confluire nelle esperienze nostrane un che di positivo che veniva da tutta Europa, specie dal versante francese, a cui Landolfi già da tempo guardava con profondo interesse.

Le suggestioni di Landolfi, filtrate comunque da una sottile cultura spaziavano ormai oltre le remore della nostra cultura, in un ambito e in un orizzonte vasto, che già avevano superato lo spiritualismo, il naturalismo e il verismo di fine Ottocento, con quelle sue prove di traduttore dagli scrittori russi risultati più moderni, ma che pure si univano ai tentativi italiani di un D'Annunzio, di un Pirandello, senza dire degli isolati Svevo e Tozzi. Landolfi non solo ha coscienza della crisi e della solitudine in cui l'artista, staccato da un suo humus storico, è costretto a fare i conti con una disperazione esistenziale, ma ricerca la sua reazione spiritualistica all'interno di una sua particolare sensibilità ed esperienza, volto più a quei temi che eludono la psicologia come ragione determinante della scrittura per un affondo nel diabolico mediato dal surrealismo.

Lo stesso primo volume di racconti, Dialogo dei massimi sistemi, pubblicato nel 1937, dà conto di un Landolfi staccato apertamente sia dalla prosa d'arte, dal genere romanzo (così come veniva inteso negli anni della dittatura), che da possibili suggestioni derivanti dall'arabesco e dal gioco dell'analisi interiore.

Landolfi avverte subito che nella sua pagina si entra con difficoltà, dopo aver abbandonato ogni preconcetto di affondo nei temi più proibiti e più impreveduti: “nel caso di Landolfi--ha scritto Carlo Bo—si rimane continuamente nel dubbio e con il timore di essere proprio dalla parte opposta del possibile vero” (“Note su Landolfi”, in Nuovi Studi, Firenze 1946).

I racconti che compongono il primo volume di Landolfi dimostrano in modo esauriente questa impressione; il “sottile malessere spirituale”, “l'incertezza” di cui parla Bo derivano appunto da questo nuovo esordio svincolato da esperienze collaterali a quelle del tempo di Landolfi:

Una sua pagina chiede un lavoro che di solito ci basta per un libro intero; alludo--continua Bo--a un lavoro d'acclimatamento, e vi baster… per pochissimo tempo, a giro di pagina sarete di nuovo sperduti, in un nuovo bisogno di conoscenza, e si badi bene non di riconoscimento.

L'esame dei temi e dei motivi che si trovano in questa prima prova dello scrittore di Pico chiarirà queste definizioni, appunto in quell'ambito che richiede una disposizione a non riagganciarsi, da parte del lettore, a riferimenti usuali, sedimentati, ma allargando la propria conoscenza su quei punti che lo scrittore avanza, in brani dal giro perfetto, o con racconti che sembrano non avere alcuna base reale, ma che nella loro essenza chiudono vari aspetti di una raffinatezza filosofica, allusioni e analogie sottili con un mondo che di reale ha soltanto elementi spuri, connotazioni elementari, ma presso i quali i sensi e gli intendimenti si allargano all'irreale e al grottesco.

Dialogo dei massimi sistemi, pubblicato dall'editore Parenti di Firenze, comprende sette racconti, precisamente: “Maria Giuseppa”—“La morte del Re di Francia”—“Dialogo dei massimi sistemi”—“Mani”—“La piccola apocalisse”—“Settimana di sole”—“Night must fall”. Da tutti riconosciuto perfetto, una prova altamente riuscita, il racconto “Maria Giuseppa” è forse l'insegna più evidente per un riconoscimento del Landolfi prosatore; ma non è forse l'essenziale per rintracciarvi i temi, i grandi temi landolfiani, che già chiudono un'esperienza narrativa dentro contrassegni nitidi e felici. Vi è già la descrizione della “casa”, un maniero dai molti significati, non esclusi quelli psicanalitici, come l'asilo più congeniale al personaggio Landolfi. Vi è già il tema del dileggio delle creature, inchiodate nella loro inermità, che Landolfi ama ed odia nello stesso tempo, contrasto di una natura portata a ferire, per provare la propria sofferenza.

E infine il sottile gioco delle trame che si rincorrono come dentro un'avventura della mente, e che si chiudono come per un sortilegio su una conclusione beffarda, ironica, richiamando tutti i temi a un consuntivo che è musicale, tonale, ma che usa i contrasti per apparire nella sua interezza e globale perfezione.

La donna che il protagonista di “Maria Giuseppa” stuzzica e investe con sottile premeditazione di dispetto e di dileggio, rappresenta uno degli aspetti della realtà, che scorre dentro un suo corso ordinato, indifferente, e che Landolfi attacca, incide, tentando di farla deviare da un corso preordinato, per saggiarne la consistenza, ma per scoprirvi, da ultimo, non solo l'impotenza a penetrarla, quanto quella più triste del capirla.

Essa sembrava che avesse sempre un pieno determinato, per ogni cosa che doveva fare. Guai a spostare l'ordine delle azioni o a sostituirne una con un'altra! Rimaneva là, Maria Giuseppa, con le gambe larghe e la testa bassa come un montone e non si muoveva più. O meglio, si muoveva solo a suon di bastonate. Perciò forse io godevo tanto a farle fare sempre il contrario di quello che voleva fare. Aveva una passione per i fiori e spesso se ne andava nell'orto e dalla finestra la vedevo inaffiare, inaffiare e tante volte accarezzare colla mano certi fiori. Allora mi prendeva una gran rabbia, non so perché, e la richiamavo, non che mi servisse qualche cosa, ma per il gusto, così di vederla salire rannuvolata e di sentirla lagnarsi se le ordinavo, che so io, di sedersi sopra una sedia e di perdere il tempo così.

Maria Giuseppa, sgraziata e non più giovane, che popola di femminilità la casa solitaria e spesso ne diventa la gentile custode, non poteva proiettarsi per il giovane protagonista-autore in una figura compensativa di madre, ma con gli attributi slegati da ogni norma di parentela, divenendo nel contempo possibile amante. Il tratto di questo scambio affettivo e che forse fa precipipare l'azione del racconto, va sottolineato proprio in quel verbo, “accarezzare”... “certi fiori”, che slega nell'animo del giovane protagonista “una gran rabbia” senza motivo (“non so perché”) e che richiama all'esperienza dello stesso Landolfi, quella della sua prima infanzia, e a una sua condizione di inferiorità nello scambio d'affetto rispetto persino ai fiori dell'orto che Maria Giuseppa custodisce con cotale cura (“inaffiare, inaffiare”). La conclusione dell'azione narrativa è estremamente landolfiana: durante una festa, la processione del paese passa nella via accanto alla casa dove Maria Giuseppa, alla finestra, getta fiori, oleandri sfogliati, petali di rose, mentre dalla via sale alle stanze della casa una tenera e dolce musica. Maria Giuseppa ha una breve metamorfosi agli occhi del giovane, diventa per un attimo donna:

“Io non potrei certo dire perché, se pure lo volessi: però ad un certo punto afferrai Maria Giuseppa per la testa e la baciai tanto, furiosamente sulla bocca. Chissà se gridò, se no? Si divincolava, ma io adesso la tenevo ferma con una mano, e coll'altra le strappavo il giamberghino di dosso, le alzavo la veste pesante. Chissà come sarà andata a finire? Io non mi ricordo più niente, Signori, e m'infischio dei vostri sguardi di disprezzo. Mi ricordo appena appena, dopo -- voglio dire dopo quel momento -- Maria Giuseppa a terra. Mi faceva ribrezzo, mi faceva quasi ridere quella mammella avvizzita e nera tra un brindello di camicia e la catena di ferro dell"abitino'. Ma me ne andai subito di là e non ricordo nulla di quello che andai a fare.”

Un tratto che ha forti e marcate sottolineature rispetto sia allo stile che al modo di narrare landolfiano. Un insieme di atti e gesti, subito cancellati e quasi recuperati a una loro insignificanza dall'intervento dell'autore, che pure spiega, ma con reticenza, in modo allusivo, lasciando il lettore sempre sospeso nel dubbio. La stessa morte di Maria Giuseppa, dopo quell'awenimento, non ha giustificazione, e lo stesso narratore conclude con domande e interrogazioni, può mettendo sull'awiso che la vicenda è conclusa. Se dunque in questo primo racconto (che è stato scritto nel 1929) vi si possono rintracciare alcuni punti caratteristici, sia dello stile che dei temi cari al Landolfi, altri, dello stesso primo libro, allargano l'orizzonte sulla sottile cultura e sulla insofferenza landolfiana ad accogliere nei suoi racconti alcunché di usuale e di scontato. Non che Landolfi ceda anima e pagina a voli astratti: l'occasione narrativa scaturisce quasi sempre da dati ed elementi reali, seppure da una realtà ambivalente. Il segno negativo, altamente esplosivo, si avverte dentro la narrazione, dal susseguirsi incalzante delle pagine, che pure non raggiungono mai la consistenza, neppure nei romanzi, di un ampiù lavoro. Lo stesso Landolfi ha confessato, nei diari degli anni sessanta (Rien va, Des mois) che:

L'opera ... non parla (si può supporre non parli) attraverso ciò che positivamente dice e neppure attraverso il modo (letterario) in cui dice, ma attraverso una qualche misteriosa qualità fisica della pagina, pagina che pure non è un originale come una tela (se lo fosse, se si trattasse poniamo, di pagina manoscritta, il problema si presenterebbe sotto altro e spurio angolo, né‚ se ne vuol qui toccare).

Fisica beninteso non è la parola esatta: nondimeno il valore dell'opera non è concettuale, logico, sentimentale, né estetico, sibbene..., fisico, ripeto forzando alquanto il significato dell'aggettivo, non trovo parola più prossima all'idea.

(Valore: valutazione). Più chiaramente: basta far passare in un'opera una certa somma di energia (e di abbandono), perché essa riesca inevitabilmente a una qualche consistenza e validità, senza pregiudizio e come a dispetto dei suoi contenuti specifici (Rien va, p. 108).

Il che spiega abbondantemente il suo pudore sia nei confronti delle parole che di tutti gli attributi che alle parole silegano, come strumenti atti a fornire di se stesso un'immagine che--raramente--si discosta dalla sua biografia, o dalla sua sensibilità, o dalla sua eccentricità, così come lo stesso Landolfi è venuto nel tempo costruendo intorno alla sua figura di scrittore. L'amore per la parola e tutto il misterioso potere che racchiude dentro di sé, da Landolfi è stato sottolineato varie volte (e gli esiti della sua stessa poesia ne danno ampiù esempiò), e spesso questi interventi sono apparsi come vere difese, in una accalorata disamina persino tra scrittori che hanno 'fiato' e quelli che, più modestamente tentano di racchiudere dentro la loro opera l'inafferrabile, il non dicibile il magico, ma per natura legato al regno della realtà.

La parola--ha detto Landolfi--ferma l’atto d'amore, e lo mena alla sua nefica e attiva turgescenza, né altro che la parola può farlo, intendiamoci, atto amore in genere?. Nessun sacrificio può sostituire la parola, essa sola è sacrificale, e fecondatrlce. Rimorso, rimorso perché passo e perdo tanto tempo col naso in questi quaderni mentre dovrei... ? Che cosa, fare? Beh, attendere a un’opera vera e propria. E perché? e se questa appunto fosse la mia modesta opera? Troppo modesta, già, ma forse che è lecito scegliere, e secernere da ciò che in qualche modo ci incombe? O dovrei darmi da fare e farmi violenza? né nome i che o con quale speranza? e anche, con quale dirittoPenso con sorriso a un tale che certo patЎ i miei medesimi rimorsi, e nulla muta, se lui rimorso in rimorso andava componendo i più bei sonetti della letteratura italiana”, pp. 146-147).

Affermazioni che già rivelano--se pure ce ne fosse bisogno—una specie di autoanalisi spietata, ossessiva, che Sanguineti ha chiamato “nevrosi letteraria” e che viene a giustificare la produzione mai compiuta interamente, a volte diaristica anche nel genere del romanzo (La bière du pecheur), di Landolfi, ma che ha il contrassegno della genialità. Lo stesso esordio landolfiano, nel clima ermetico e del “capitolo”, non poteva ingenerare allarme, riuscire in una sorta di stupore, e proprio attraverso quel suo modo svagato, ma pure sorvegliatissimo, di toccare temi nuovi, soprattutto nel concepiùe (come avviene nelle pagine di “La morte del re di Francia”) un racconto, partendo da un atto quotidiano com'è quello irriverente e volgare dello stare nell'intimo del “gabinetto di decenza”.

Il modo è comunque stupefacente, non tanto il modo di scegliere l'occasione del racconto, quanto il modo di condurre il racconto attraverso soprassalti fantastici, via via verso conclusioni amare, che giustificano il “malessere” denunciato da Carlo Bo nelle sue “note”.

“La morte del re di Francia” si apre appunto con un “pezzo” di prosa in gergo marinaro, poi si stende in prosa poetica della più lirica, e attraverso queste contaminazioni, si passa in cinque brevi paragrafi attraverso forme narrative disparate e svariatissime, con stile variato ma che rende in modo perfetto il senso di una allucinazione, di una enormità psicologica ( del padre che cresce la giovane figlia senza inibizioni di sorta, e che poi al momento di perderla sogna di possederla) fino alle conclusioni allucinate del protagonlsta, che fugge, dopo una sua confessata idiosincrasia per i ragni e la contigua scoperta della sua vecchiaia, verso un'alba rigeneratrice.

Tali sono dunque i motivi nuovi di una narrazione che esce dal quadro della sua stessa contemporaneità, che Landolfi sembra assumere come principale, in un atteggiamento però di sfida, con un contrasto quasi violento, ironico al punto che i modi già lo pongono nel versante degli sperimentatori più avanzati. Le prove dei racconti che troviamo nel Dialogo dei massimi sistemi chiudono e indicano in modo chiaro, come già abbiamo avuto modo di osservare, molti dei motivi della poetica landolfiana. Chiudono, perché già si delineano in tutta la loro esemplarità, ma che poi Landolfi richiamerà di volta in volta, nelle opere future, come sostegno di una inspirazione sempre sul punto di cadere. Ed aprono, perché qui tutti quei motivi si dispiegano nella loro più aperta e nitida novità. Se non ci venisse in soccorso il racconto stesso “Dialogo dei massimi sistemi” che dà il titolo alla prima raccolta di Landolfi, come indice di quella “nevrosi” di cui parla Sanguineti, o della sperimentazione sulla lingua e sullo stile che già abbiamo ravvisato nel racconto “La morte del re di Francia”, ci potrebbero venire in aiuto altri racconti della stessa prima raccolta, come “Mani”, o “Settimana di sole” o infine “Night must fall”. Un punto che vale come indice generale di questa prima stagione landolfiana, si deve emarginare nella sua forma di rottura dei termini piuttosto angusti della narrativa tradizionale, sia per l'inventiva scoppiettante degli stilemi usati, che per il modo di condurre la stessa narrazione. Il saggio e la moralità che sottostanno alla struttura del racconto “Dialogo dei massimi sistemi“, e che imprimono alla vicenda un che di sofistico e razionale, non è novità del Landolfi più avanguardistico e sperimentatore, quanto quella di aver emendato la forza del sillogismo o del raziocinare attraverso una continua ironia. Tono ironico che già intride di sé la stessa irriverenza dell'invenzione, una scoperta della nullità del discorso, della sua inermità, nel rendere tutto il possibile e veritiero senso della realtà.

Un'operazione di scandaglio nelle unità stesse del discorso poetico, della possibilità dell'arte, o della tradizionalità della parola è, nel Dialogo, il segno di una continua e ossessiva ricerca nel patrimonio degli strumenti che sono a disposizione dell'uomo per capire il mondo in cui vive, un mondo di parole che stanno dissociandosi da un senso assoluto, atto a denotare e nominare le cose. E dunque nel Dialogo si riassumono non solo i pregi caratteristici dello scrittore di Pico, quanto i suoi difetti o le sue presunte defezioni. In questo racconto si rinvengono tecnicismi astrusi, volute sintattiche dal piglio scopertamente discorsivo e retorico, e addirittura, con Falqui, “certo goticismo kafkiano e la nefandezza stessa di talune notazioni ... smussati e temperati da una sorta di buffoneria estremamente letteraria (grammaticale sintattica lessicale che dir si voglia) nella sua irreprensibile precisione” (in Prosatori e narratori del '900 italiano, Torino 1960). Tuttavia non si può negare all'arte di Landolfi, e proprio in quella espressa in questi suoi primi racconti, una sicura insofferenza per i moduli usurati di tanta letteratura ancorata al naturalismo e al realismo.

Non certo si vuole sottolineare qui che in questo senso--in quel senso di scoperta che ci propone Landolfi--vi sia tutto il bene e tutto il felice che si possa richiedere alla narrativa negli anni dell'ermetismo. Ma vi è implicita--se non la crisi di cui si serviranno per irridere la narrativa stessa un Musil, un Joyce o un Bloch--tutta la gamma di attrazioni verso nuove prospettive e nuove dimensioni della scrittura, che non siano quelle di tipo naturalista o verista, ma piùttosto quelle di un simbolismo e un surrealismo che pongano all'interno del genere narrativo un dubbio costante, una costante interrogazione.

Si pensi a tutto il racconto “Dialogo dei massimi sistemi” e alla carica di novità inventiva che vi si può trovare: al capitano inglese che insegna a un poeta la lingua persiana antica e che quel poeta pensa e inventa in quella lingua appena appresa bellissime poesie, per poi dimenticarle quando scopre che quella lingua non esiste e che le sue poesie si sono perse nel nulla di un universo linguistico inesistente. Si avrà un esempio di come la fantasia di Landolfi spazi e si allarghi non solo ad una realtà opinabile e controllabile coi sensi, ma a una realtà, a un universo di discorso che è tutto astratto, fantastico e che si regge non tanto sulla parola come sostegno della creazione, quanto sulla parola come fondamento estetico della stessa letteratura. L'indicazione dunque non è solo un modo e un motivo per un soggetto di un racconto, ma è indice di una trepidazione che coinvolge l'arte stessa di Landolfi, la mette in crisi, interroga se stessa sulle sue istituzioni: e che altro si domanda a uno scrittore che interroga se stesso, la sua arte e nel contempo ci dona un racconto felice com'è il “Dialogo”?

La continua provocazione, la proterva volontà di corrodere l'universo linguistico, non è solo indice di una genialità e di una avanguardia avanti lettera, ma è l'essenza stessa del Landolfi più ferito, più vulnerabile: e proprio nella lingua che usa in questi racconti, che cresce su se stessa come disposta in una direzione apertissima, con l'uso di tecniche e di esperienze narrative molteplici, con una padronanza della pagina che rasenta il gioco aperto della progettazione, ma che tuttavia lascia aperto il campo dell'insuflicienza, dell'inadeguatezza, dell'impossibilità. Un campo vasto, che va da Proust fino a Robbe-Grillet, e che cresce in s‚ i germi di una dissociazione e di una crisi che hanno coinvolto l'universo letterario senza posa, se, ben inteso, si vuole chiedere alla narrativa quel senso di conoscenza e di apertura che modernamente deve porgere, non tanto per adeguarsi a una nuova sensibilità, ma per corrispondere all'attesa di un'arte letteraria che sia continua proposta--già nei suoi attributi strutturali-- delle ragioni nuove della moderna visione del mondo. Landolfi è cosciente di questo, fino alla nevrosi: i diari, e i romanzi degli Anni Sessanta che ripetono stancamente e forse con maggior spietatezza quei suoi temi dei primi racconti, sono radicati in queste sue prime prove, in “Settimana di sole”, in “Maria Giuseppa”, in “Mani”: frutti di un mutamento dell'ottica estetica che sconvolge i piani narrativi, li moltiplica, li fa scivolare gli uni sugli altri, stravolge l'unità di tempo--costituita da tutta una tradizione narrativa--con una simultaneità di visione che deriva non tanto e non solo dalle tecniche impiùgate, ma dalla sicurezza e dalla padronanza della parola, da un rovello che prima di riconoscerlo nella forma, Landolfi trova nella sua scontrosa e chiusa interiorità ferita.

Quando i suoi monologanti personaggi camminano (come dice Svevo) 'col cranio scoperchiato', voi sentite che, quei crani, il Landolfi li apre e li chiude a piacer suo, come calotte di orologi. E gioca poi con la partizione dei racconti coi titoll, con le note, coi motti o imprese che li accompagnano..., con un bei pizzico di fumismo (p. Pancrazi, in Ragguagli di Parnaso, Milano-Napoli 1967, p. ...).

Il gioco letterario landolfiano è ancora mascherato da una emozione intensa, da una dialettica interiore, che esorbitano e chiudono l'espressione dentro una credibilità che è viva, tremante, scopertamente umana, sia per l'urgenza storica che richiedeva un'elusività surreale come copertura a una situazione sociale e politica insostenibile (leggi ventennio nero), sia come possibilità di riaggancio a quelle esperienze che una sua sottile e profonda cultura vagheggiavano come tipiche di una letteratura viva e vigile oltre gli angusti confini nazionali, per attingere un che di nuovo, di possibile, di intenso da raccontare.

Alla luce dei risultati più recenti, è molto agevole capire cosa mancasse alla macchina landolfiana, è molto semplice rendersi conto che appunto la sua letteratura, il suo “gioco” eludevano ogni impegno validamente giustificato, e non avevano, già in partenza, alcuna fiducia di sé (C. Gorlier, Considerazioni su Landolfi, “Aut Aut” 19, gennaio 1954).

E tuttavia allora--1937, quando i suoi primi racconti apparvero-- era un modo possibile d'essere moderni senza impegno, ma volti, -- come Svevo, come Moravia e come Vittorini--a un universo che recuperasse la figura umana dentro le sue crisi, le sue cadute. Landolfi non osteggia nessun modo, nessun procedimento che gli torni utile per chiudere dentro la pagina, nella folgorazione anche d'una riga, il senso selvaggio, diabolico, inumano di un brivido che in pochi attimi apre all'assoluto, all'impossibile.

Se in un consuntivo sulla sua opera si potranno non accettare le diverse sue aperture al riso macabro, alla scommessa nel gioco intellettuale, o al suo beffardo schernire il mondo fuori di sé con una incidenza quasi ossessiva e brutale, tuttavia non si potranno dimenticare questi racconti del suo primo libro, coscome più oltre quelli del Mar delle blatte, di Ombre o il romanzo La pietra lunare.

Il fatto certo è che il superamento dell'ambito puramente convenzionale delle esperienze italiane collaterali all'esordio landolfiano, va attribuito alla natura come alla sensibilità del Nostro a uscire dagli immobili schemi di una cultura nostrana per una visione più vasta, unendo “il familiare e l'assurdo”, come ha rilevato Silvio Ramat; e proprio in quell'aura toscana dell'ermetismo, in cui “il bisogno landolfiano di suscitare quel pungente anti-tema che è l'assurdo” trova sostanza e verità “nella consapevolezza di una morte dell'arte naturalistica a cui [Landolfi] contrapponeva l'esempio dei nuovi russi, che gli pareva più valido e fruttuoso; includente, si direbbe, perfino quel grande Bulgakov che noi abbiamo appena scoperto” (S. Ramat, L'ermetismo, Firenze 1969, p. 197).

Riconoscimento quanto mai valido che pone lo scrittore su un pieno di ricerca continua, di sperimentazione critica all'interno dell'istituto linguistico come dell invenzione, ma che ha ascendenze lontane e a largo raggio, introdotte da Landolfi nella sua prosa come consustanziali alla sua ricerca, aderenti in modo netto alla sua sensibilit… ma anche molto vicine alla crisi di tutta una generazione.

Se nel “Dialogo dei massimi sistemi” e nei racconti che formano il corpo del primo libro di Landolfi, potevano trovarsi enunciati i più veri e nitidi temi della poetica e dell'ispirazione landolfiana, ne La pietra lunare, il romanzo che il Nostro scrisse nel 1937 e che pubblicò più avanti, nel 1939, quei temi ritornano, maggiormente orchestrati, dilatati, e non per questo diluiti in una stenta ripetizione: i temi stessi sono salvati dal gioco, e dal riflesso di una recitazione intelligente, da una sorta di lirica evocazione, di schietta elegia che parte da ritagli del reale per allargarsi a un surrealismo tutto incantato, magico, sul doppiù registro del simbolo e dell'allegoria.

La ricerca landolfiana de La pietra lunare si potrebbe collocare nella forza che sostenne l'ispirazione del Surrealismo, come possibile creazione della natura da parte dell'io: consentendo a considerare la natura come una proiezione del subconscio, nella duplice identità di natura creata e natura sensibile. Da qui la divergenza, nell'uomo, di una doppia vita, reale e irreale, e nella natura una doppiù natura. L'esistenza di questo quadruplice mondo sfugge, intoccato nella sua essenzialità, ma percepito da una tensione quando l’uomo riesce, anche per un solo istante, e forse per tramite di una sola visione mentale, a catturare quell'improvviso tralucere, quella sotterranea esistenza, quella disperata configurazione. Landolfi ha tentato più volte di descrivere questo aspetto subumano della realtà e del mondo: si pensi a certe pagine del racconto “Morte del Re di Francia” o di “Settimana di sole”: e qui nel romanzo del 1937, parte del quale pubblicata (Pagine de “La pietra lunare”) su “Campo di Marte” (fascicolo 1 luglio - 1 agosto 1939), a quelle stupende sulla metamorfosi della ragazza Gurù nella notte di luna sulla cima del monte. Il gioco landolfiano allora diviene scoperta di una dimensione che difficilmente è collocabile in tutta la sua estensione--diabolica magica ma anche prestigiosa-- dentro una pagina, e per tramite di parole, sia pure di parole nel senso inteso dallo scrittore Landolfi. La natura stessa del simbolo surreale, di cui si possono dare variate definizioni, non sfugge a quella oggettiva di “symbolon” segnata da una convenzione che parte da Valéry da Hoffmann per arrivare non certo al solo Kafka (ormai d'obbligo nelle citazioni di tal genere, seppure con molte forzature) ma a Poe, Rimbaud, Verlaine: simbolo che ha come oggetto l'afferrare un mondo nel quale ogni cosa e parola, ogni senso e ragione, diventano segno sintomo e spia di “altro”, partono verso una serie infinita di traduzioni e di scoperte in altre dimensioni e direzioni, in un fluttuare di sensi, davanti al quale la scrittura non risulta altro che l'oggetto e lo strumento di quella variazione. L'operazione di questa traduzione in segno di un simbolo così vasto è operazione magica, ma altresì culturale, se riesce a istituire--in un mondo enigmatico--un rapporto di causa ed effetto, tuttavia alterato continuamente da una potenza demoniaca, sovrumana, indescrivibile, che sposta continuamente i termini entro cui si può collocare il simbolo e la sua immagine speculare.

Landolfi traduce la forza della natura, l'aspetto di una sua possibile metamorfosi, dentro linee che si sviluppano dalla realtà, da una realtà nota usurata quotidiana, per giungere a legare l'assoluto nelle sue schegge allucinate, assurde: un riconoscere di Landolfi, che, può nell'aspetto del mondo che scorre sotto i nostri occhi, si può celare l'altro aspetto, magico e pure terrorizzante, di una irrealtà che pullula, purulenta, sfrenata, attiva e pulsante come un'altra vita. Arrivare a questa vita significa restare agganciati e sospesi tra due infinità, quella reale che scorre tranquilla e benevola, e quella assurda che s'intravede per abbagli, per illuminazioni, ma che pure esiste in qualche angolo riposto, sia pure quello scattante e folle della mente che lo può evocare.

La pietra lunare ne è tipico esempio. Il romanzo narra la vicenda di un giovane, Giovancarlo, che torna dagli studi in città nella quiete della sua casa di provincia. Qui incontra parenti, amici, affetti quotidiani che custodiscono memorie d'una infanzia piena. La casa, immersa in luci ed ombre d'una stagione al suo colmo, è ravvivata dalle conversazioni futili dei commensali, che pure non si avvedono di un'apparizione innaturale mentre Giovancarlo è distante, immerso in certe sue malinconiche riflessioni.

Quando riaffiorò, gli argomenti, chissà per quale fortunata circostanza erano cambiati; lo zio parlava ora d'una tale quale croce nera. Sosteneva in particolare di aver visto, una notte di luna calante, su un folto di lauri nel giardinetto davanti alla cucina, l'immensa ombra d'una croce senza che fosse poi mai riuscito a scoprire l'origine di quel fenomeno (come lo chiamava). Distrattamente a sentlr questo, Giovancarlo si volse verso il luogo indicato, traverso la porta esterna aperta all'estremo del giardinetto si vedeva infatti nereggiare una massa di fogliame.

E allora, d'improvviso, il giovane si sentì guardato. Dal fondo dell'oscurità resa più cupa da un taglio alto di luce sul muro di cinta, due occhi neri, dilatati e selvaggi, lo guardavano fissamente. Egli sobbalzò ma uno stupore e un terrore tanto forte lo invasero, e cd'altra parte quegli occhi lo fissavano con tanta intengità, che non pot‚ parlare né‚ stornare lo sguardo.

Gurù, una ragazza con “un volto pallido, dai capelli bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo” “il corpo snello ed elegante”, coperto da “una veste bianca e leggera” “di foggia alquanto inusitata, corta di maniche e di scollo largo, ornata di ricami multicolori sul seno e piena di elastici sottraccia” ha “due piedi forcuti di capra”: apparizione strana che turba il giovane, ma che è consueta ai suoi famigliari. Con lei Giovancarlo inizia un rapporto d'amicizia, sospetto, che tenta l'analisi e lo svelamento di quel segreto innaturale. E su tutte le creature, sulla natura, quell'immagine della luna che incombe, che illumina di sinistre luci una presenza assurda come Gurù. Il reale si mischia all'irreale, in una simbiosi di misteri appena intravisti, immaginati su elementi incerti, su dati improbabili, con Gurù che canta strane nenie evocanti remoti connubi, attratta da una luna diafana che sembra attirarla verso abissi inumani. Giovancarlo una notte la segue, su per pendici e balze, in estremi confini dove il ricordo degli uomini è remoto, vicino alla “pietra lunare” e dove assiste, terrorizzato ma consapevole ormai, alla piena metamorfosi di Gurù in capra, bestialmente accoppiata con un esemplare della propria specie, in un tempo tradito dall'innaturale suo corso fuori dalla norma e da ogni possibile ragione.

Il VII capitolo, orchestrato da Landolfi in modo mirabile, è un tratto di poesia che lascia un'impronta indelebile, con quell'insieme di bufera scatenata, con quella luna che si copre di nubi, per poi apparire in tutta la sua luce malefica ad attrarre e dirigere quell'orgia dei sensi, in cui si dibattono Gurù e la capra, e dove giacciono poi, annientati da una forza sensuale senza misura, scambiati e vinti nella loro nuova condizione.

Il romanzo poi avvia nuove scoperte, il giovane studente fa conoscenza con un mondo arcaico, con uomini mitici che vivono in caverne dentro i monti o in crepacci rocciosi, razziando e rubando. Fino al sorprendente epiùogo, stupendo nella sua suggestiva espressività, in cui Landolfi si dimostra scrittore perfetto, ma dove anche risalta una sua qualità segreta, una sua ferita che non può mai chiudersi completamente. Intendiamo quella discesa di Giovancarlo alle Madri, fascino e insieme ripulsa della morte, come quel gelo che emana come un fluido intenso dai loro occhi grigi e senza riflessi.

Sulla riva del piccolo stagno, prese di fronte dal raggio di luna, Giovancarlo, condotto per mano da Gurù senza rumore, scorse subito, anche prima d'acco starsi, tre forme severe; e fu preso da uno spavento vertiginoso; la severità stessa delle forme, e null'altro che quella, era terribile. Erano tre donne in vario atteggiamento, due di fianco una di fronte, immobiili d'orrida immobilità, l'orrore era forse, appunto, solo nella loro immobilità. Le loro vesti, le loro tuniche grige, opache, ricadevano in larghi panneggiamenti d'una intollerabile serenità, più chiusi nel soffio rappreso d'un gelido mondo, di quelli delle donne che custodiscono i sepolcri. Grigi i capelli e senza riflessi piùvevano lisci intorno ai volti e, in mondo, non s’arricciavano neppure un poco, esigui stili volti contro il suolo: e anche lle fronti erano serene così, battute dal raggio. Di tutte e tre gli acchi assorti, argentati come canapa, guardavano la luna. Non c’era altro e questo bastava insieme alle labbra serrate. Guardandole, subito si capiva che erano le Madri. Tutte le creature nel Fosso s'impietrarono come loro, come l'acqua i giunchi e il vapore di stagno.

Giovancarlo sfugge a quel gelo di morte e riesce alla luce: esito su cui si chiude anche il racconto, con il giovane che ritorna ai suoi studi in città.

Ma a Landolfi è bastato gettare lo sguardo in un vuoto, cercare dentro un abisso l'altro aspetto del reale, nell'oscuro rovescio delle cose, per trarre da quello sgomento il segno di una delirante esperienza, di un possibile ripiùgarsi della natura umana su di s‚, in oscure radici che risalgono alla notte dei tempi, ma che ancora affiorano con una loro magica attrazione, con una loro possibile ferinità.

Gurù rimane a lungo nella memoria, come figura che nel suo interno trasmutare racchiude il simbolo d'una possibile, mostruosa condizione, tra umano e inumano.

Quella “logica continuazione” stabilita, in figura, tra l'aspetto umano e l’aspetto ferino della donna, quella mancanza di “soluzione”, sono poi il frutto proiettivo, tutto “in re”, della “logica continuazione” da Landolfi ,perpetuamente stabilita tra i diversi registri, modestamente naturalistici o sfrenatamente fantastici, della sua arte inventiva. E, come a presiedere il tutto, il gelo e il brivido del personaggio maschile, in cui si dichiara e si esprime il sentimento landolfiano del ribrezzo, e si offre al lettore, tacitamente, la chiave ultima di lettura, una chiave che scaltra ironia e ri~essiro stupore verranno non tanto a contraddire quanto a integrare e finalmente risolvere (E. Sanguineti, in “I contemporanei,” (26) Marzorati, Milano 1968, p. l533).

Se ancora sussistevano dubbi sulla può perfetta e classica prova d'esordio di Landolfi, La pietra lunare fuga quei dubbi, ponendo nel contempo alcune premesse che vale la pena di analizzare, non tanto per sottolineare le innegabili qualità del Nostro, quanto per enucleare alcune costanti della sua arte, insieme ai suoi più chiari limiti.

Landolfi, dunque, parte da un microcosmo, evidente nella sua chiara successione e nel suo quotidiano svolgimento. Tutto fa pensare, come in mezzo ai discorsi familiari dell'apertura di romanzo, che nulla graviti intorno di teso, di spasmodico, di magico. Ma da questo microcosmo, lo scrittore lentamente arriva al macrocosmo, pullulante e vivo forse più di quello quieto incontrato nella domestica sequenza della casa e della famiglia. E l'unità ne è così stravolta, il velo che la copre è così strappato, che nulla più rimane di vietato da non poter descrivere. L'apparenza che mostra il suo rovescio, pirandelliana, grottesca, ha forma e modi, poi, che si aprono a diverse dimensioni: proprio in quel punto in cui il dubbio non lascia più requie, e dove le due parti, reale e irreale, non si chiudono più. La dimensione così svelata--nel versante della violazione alla norma come la discesa all'abisso della morte--è l'aspetto allucinato della noia, del male di vivere, matrice di un malessere che in larga misura si lega all'improbabile, all'assurdo esistenziale, ma con punte di satanismo e di impietosa barbarie, che destituiscono la stessa natura dei suoi attributi razionali e normali: ben diversa comunque da quella che ha indagato, poniamo, un Moravia, o un Camus e un Sartre con logica e spirito filosofico.

In questa annotazione vi è già implicito uno dei temi fondamentali dell'opera landolfiana: il tema della noia, come tramite che lega a quello ossessivo della morte.

L'aspetto che questa categoria dell'anima mostra nei suoi più profondi legami con la morte, viene da Landolfi chiarito attraverso la dolorosa scoperta del nulla, in una zona che si stende infinita oltre l'umano, e nella quale Landolfi cerca le matrici dell'essere, fino a sentire nella sua unità col mondo un che di ironico, di beffardo, di sconvolgente, verso cui lo scrittore si pone in antitesi, in lotta, quasi in opposizione ostentata, con un atteggiamento protoromantico che trova--in questo acuto e lancinante contatto--quasi un piacere, una delizia, un senso di naufragio sconfinato.

né naufragio quasi voluttuoso, saggiato nelle sue piaghe più feroci, al imite quasi del dissolvimento, ma in cui si produce una specie di sottile conoscenza, non tanto della resistenza del pensiero a quel nulla quanto piuttosto della possibilità dell'uomo a scoprire in quel nulla gli aspetti che tormentano, che abbattono, che rendono inerme la stessa natura umana. La conoscenza ultima che Landolfi sembra chiedere, si raggruma intorno a fantasie, a deliqui, a gesti e atteggiamenti fuori dalla norma e della sensibilità comune, tramite un desiderio quasi morboso di sprofondare, di scomparire in quel nulla, seppure tenuto in bilico, con un prestigioso gioco verbale che tenta di esorcizzare quel dissolvimento, ma che alla fine teme, senza per questo abbandonarlo o ignorarlo, per darne esempio al ore, al suo simile, dunque. L'immagine negativa, ottenuta attraverso una tensione del pensiero, con ipotesi quasi scientifiche che sfociano spesso in una sconosciuta quanto affascinante magia, risulta sedimentata in Landolfi quasi in modo ancestrale, arcaico, una attrazione quasi fisica per il rovescio i ogni cosa, di ogni aspetto della realtà nei suoi vieti elementi quotidiani e comuni. E dunque un fascino che lo porta in direzioni arbitrarie, inusitate contratte oltre il visibile e il dicibile, ma che Landolfi rende con quella precisione e con quel distacco che indulgono più verso una prosa breve verso illuminazioni e folgorazioni, che verso descrizioni ampie, di largo respiro, o di impegno vasto e costante. Landolfi lo scopre, seppure reso con una regia ampiùmente orchestrata attraverso elernenti eterogenei, ma quasi sempre pescati nel vivo di un pulsare indistinto e informe.

(28) Chi terrà presente quella discesa alle Madri di Giovancarlo nella Pietra lunare, o il miscuglio di orrore e di fine di certe sequenze di “Mani” o, più oltre, alcune pagine del Racconto d'autunno o la conclusione del Breve canzoniere, potrà accostarsi con meno prevenzione all'arte landolfiana, anche quando essa avrà esaurito quella carica di novità e di scoperta che contraddistingue queste prime sue opere d'esordio, come nei raccontì, in parte, scritti e pubblicati da Landolfi negli Anni Sessanta.

Qui tuttavia varrà la pena sottolineare questi motivi, (cui abbiamo accennato ) fra i molti altri che si rintracceranno più avanti, che sono essenziali alla comprensione del vero e più valido Landolfi; e soprattutto intendere in un senso meno ottuso, quella dichiarazione --poi sempre rinnovata anche se in diverso modo--che ci viene offerta nella “Piccola Apocalisse” e che va letta per intero, nella quale è racchiusa forse la sola condusione della pietà, dell'orrore, della tristezza sconfinata del Landolfi più ferito e vulnerabile, ma nella quale molti aspetti della sua arte trovano eco puntuale con i temi e i motivi della sua narrazione.

Nessun rapporto è possibile fra le cose del mondo. Non sbaglio io, ché una sola dimensione mi serve per ogni cosa. Ho imparato, tuttavia, il linguaggio degli altri e perché tu, che non conosci ancora bene il mio, possa capiùmi meglio, me ne servirò, sebbene imperfettamente, con te. Ma tradurre una luce o un colore è impossibile, e sappi anche che niente si può tradurre perché niente ha due significati o due vite. La vita di ogni cosa di ogni odore di ogni gesto di ogni parola, infine d'ogni attimo del tempo, è eterna, è vero; ma essa, venuta chissà donde, tocca la vita dell'uomo un momento solo e rifugge via chissà dove, come una linea che non può toccare un cerchio in più d'un punto. Vano è, forse, cercare di seguirne il corso rigoroso ma oscuro (tutti gli uomini almeno, hanno in quest'impresa fiaccato il loro orgoglio); giacch‚ essa perde irrimediabilmente (29) il suo splendore e diviene sorda e cieca. Né corre mai alcuna relazione fra un istante del passato e del futuro e uno del presente. ciascun attimo, per gli uomini, è un mondo chiuso che vive la sua vita effimera e muore poi in pace. Ricordo p un compromesso; gli uomini si difendono con quello...

Il centro della creazione di Landolfi è da collocare senz'altro negli Anni Trenta, tratto di tempo in cui egli compose le sue più chiare e importanti opere, ma che non è, a ben guardare, scevro da significati e sottintesi chiarificatori rispetto alla direzione presa dallo stesso anche in lavori che già si pongono nell'alveo degli Anni immediatamente posteriori alla Seconda Guerra Mondiale. Il quadro della narrativa che ha visto nascere le prime e più significative opere di Landolfi, è dunque caratterizzato da gusti e tendenze precise; gusti e tendenze che--se non chiariscono pienamente il suo indirizzo e le sue scelte--permettono di collocarlo tra quegli scrittori con una sua patente disinvoltura e dichiarata opposizione, a volte non del tutto giustificata, come fu per il suo totale disimpegno, rispetto a motivi socia i e politici, a volte rischiarata proprio perché la sua nascita di scrittore s’innesta e cresce progressivamente in quello specialissimo arco di tempo. Per quanto riguarda poi i racconti de Il mar delle blatte (pubblicati nel 1939), si ponga attenzione in special modo al racconto omonimo che a titolo alla raccolta, scritto nel 1936, il quale avvalora l'esordio landolfano effettuato esattamente in quel quadro, di tempo e di gusti, in cui lo svolgersi della prosa italiana correva parallela a quello della poesia...

...mantenuto su un tono eloquente da un ritmo puro, di cui Landolfi non andò esente, ma con ben altri intenti. E nel racconto “Il mar delle blatte”, al contrario, quell'insolita raffigurazione, da sogno allucinato, con volute di surreale, che discrimina tra una possibilità d'essere ancora tra le cose della vita concreta e un delirio della mente che scopre awenimenti terribili. Il carattere della narrativa dell'epoca collaterale a quella degli esordi landolfiani è dunque intrisa da un gusto per la costruzione sapiente, stilisticamente perfetta, residuo di un'arte impreziosita da un cadente romanticismo. C'era da una parte la vocazione a una prosa con intenti narrativi e poetici, ma che non veniva alimentata da un segreto contenuto, da una emozione che fosse ispirata da una effettiva sofferenza, captata nel corso dell'esistenza, ma piùttosto vagheggiata da un'aspirazione lirica, estetica, tutta di testa, o sostenuta da un rigore della tradizione, che andava rovesciata nei suoi termini più scontati.

Date e titoli offrono forse le linee più vere in cui si è mossa quella tendenza. E i nomi, più di altro eloquenti per una discriminazione delle componenti della tematica landolfiana, nei suoi lati di adesione a quei modi e di ripulsa a quelle mode. E non tanto per gli scrittori impegnati in una ricostruzione ideale nel versante sociologico, quanto per quelli che più arbitrariamente, oltre al disimpegno, erano votati all involuzione, al qualunquismo, alla retorica senza via d'uscita.

Nell'anno di composizione del racconto “Il Mar delle blatte”, Pavese andava costruendo i suoi versi di Lauorare stanca, pubblicati in “Solaria” nel 1936, mentre Tecchi esibiva I Villatauri, Bernari Tre operai. Su “Letteratura” Vittorini pubblicava a puntate le pagine di Conversazione in Sicilia. Boine raccoglieva, già oltre, nel 1939, anno di pubblicazione del volume landolfiano, Plausi e botte; ancora, Bacchelli, anno di grazia 1938, iniziava Il mulino del Po, e un anno dopo Montale pubblicava le Occasioni, Brancati i racconti de Ricerca di uso, e il povero Alvaro quel lucido incubo, che rende lo stato di tensione dell'uomo messo di fronte alle responsabilità e immesso nel frangente storico che precedeva la Seconda Guerra Mondiale, estraibile da L'uomo è forte ( 1938 ) . Nel 1938-39 Pavese dava alle stampe Il carcere, Enrico Pea ( 1938 ) La maremmana, Palazzeschi ristampava (1938) le sue Stampe dell'800.

- Due caratteri distinti, leggibili in questo quadro storico sommario ma talmente eloquenti da dividere in parti precise le tendenze della prosa alla fine degli Anni Trenta; una definizione anche che permette di accomunare Pea, Cecchi, Baldini, Manzini e Palazzeschi, da una parte, come antesignani di una prosa impreziosita, se non proprio sensibile a descrivere minutamente una divagazione lirica e classicistica. E dall'altra Pratolini, Gatto Pavese, Bilenchi, Vittorini, Comisso e Alvaro, coscienti di una crescente disponibilità critica in seno a una società che si stava sfaldando nelle sue dimensioni sociali, ed umane, ma che ancora per quegli scrittori poteva essere inasa attraverso un riconoscimento della crisi legata all'individuo al singolo, come teste di una più ampiù ferita che veniva dalla società, dalla soprafazione, dalla miseria del tempo. Vittorini, forse il più impegnato sul versante della conoscenza allargata verso orizzonti più vasti (si pensi all antologia Americana), insieme, sotto certi aspetti, a Pratolini e Pavese, nel 1937 interrompeva la sua collaborazione al “Bargello” (foglio della federazione fascista fiorentina) che datava dal 1932, in effetti per una riconosciuta presunzione autarchica della cultura del tempo, rinfacciando a quella una chiusura che non poteva portare altro che a una morte e involuzione certe. Il 1937, segnatamente a certi avvenimenti legati alla potenza omicida di Hitler, è l'anno della guerra civile in Spagna (Guernica di Picasso nasce in questo anno) e per motivi molto chiari e trasparenti non potevano lasciare insensibili quegli scrittori che già da tempo erano volti a una visione totale della storia e della situazione mondiale, ma con occhi forse ancora non sufficientemente sgombri da remore individualistiche e nazionalistiche: Pavese, per esempio, Pratolini, forse, non certo Bilenchi .

Tra queste due tendenze, allora è chiaro illuminare la poetica di un Gadda della Madonna dei filosofi (1931) e del Castello di Udine (1934) ma soprattutto per quello della Cognizione, che oltre a ricerche stilistiche di (32) pregio, era volto a un espressionismo, dotto, ma di sicura matrice esplosiva, negli intenti legati alle ricerche introspettive, freudiane, ma pure lavate da quella carica di insofferente e scapiùliato, che lo andavano segnando come uno dei più eccentrici e validi scrittori del Novecento.

E Landolfi, appunto, quello del racconto “Il mar delle blatte”, che qualcuno intese come una allegoria del sistema politico fascista, ma che a ben vedere racchiude in sé i germi di una dissacrazione, di una irrisione, in senso fantastico, della vita stessa e del male di vivere, proprio dello scrittore di quegli anni. Landolfi, con Gadda, rappresenta tuttavia quella specie di contestazione dei canoni stilistici ed espressivi fermi al classico puro, piuttosto che piùnamente anti-sociale: una rivoluzione legata al discorso, come entità insufficiente a rendere la poliedricità della vita, ma anche come strumento d'una società quieta sulle sue convergenze equivoche d'immorale e falsa esistenza, calata in un universo linguistico che presupponeva un ordine sociale, ma che sappiamo tale non era, se non nel segno di un conformismo deleterio e volgare.

Landolfi irride e dissacra con spavalda sicurezza i valori dell'intelligenza, valori legati al querulo corso dell'esistenza borghese, con modi che se pure riconoscibili nei suoi caratteri surreali ed onirici, non escono quasi mai dai canoni dell'arte borghese, concepita in modo tradizionale, ma che servono allo scrittore per rifiutarla nelle sue premesse attraverso una “riconosciuta insufficienza” della parola (Sanguineti): inefficace a rendere il possibile e l'impossibile chiusi nel segreto dell'interiorità umana.

Per Landolfi, dunque, il rifiuto era un modo di essere, dl porsi al di là di quella vita, sia pure un modo di denunciarsi, con irrisione e blasfema teorizzazione laica, in una lucida disperazione. L'oggetto della sua più corrosiva irrisione e del suo più profondo sarcasmo diventa lo stesso suo “io”, idealizzato nella sfera dell'esemplificazione, come segno di una monade in continua lotta con la realtà, ma anche come il luogo dove si alimentano e crescono avventure fantastiche, meravigliose e imprevedibili dissociazioni, che si pongono in un distacco contemplante rispetto alla realtà, vista nei suoi contorni e nelle sue immagini dolenti, assurde, ma che pure sono lo sfondo logico alla vita che scorre sotterranea e irreale nell'interiorità del singolo, e che a un contatto improwiso con quelle possono bruciare. L'immaginazione landolfiana arriva al paradosso, segnato con liberta ma con perizia da una padronanza delle forme stilistiche più sottili, attraverso questa collusione: l'ambivalenza che ne scaturisce, il ribaltamento delle prospettive che ne nasce, rivela in Landolfi lo stato di tensione continua in cui si pone di fronte alla realtà, ma anche al suo sfrenato nichilismo, rifiuto, agguerrita volontà di bulinare l'essenza stessa della vita. Il significato ultimo di questa continua contrapposizione sta orse in una possibile difesa del dolore, da quel dolore che già Landolfi ha conosciuto in una posa fotografica in braccio a sua madre, nello scatto di un obbiettivo che lo chiudeva in un sogno premonitore , inciso con più insensatezza nella sua prima infanzia dal contatto con la realtà del Collegio Cicognini di Prato, dal quale forse sono sorte le immagini deliranti, le fantasie più sfrenate, ma dal quale è nata quella specie di ripulsa romantica in netta contrapposizione all'intuito dissolvimento di ogni valore e significato della vita nelle sue regole di soggezione a un ordine, a una perfezione impossibili.

Landolfi nella Bière dirà: Somrna è veramente la mia ripugnanza della, e alla, realtà; non solo, intendo le piccole e meschine cose che in prevalenza la costituiscono, ma della realtà in quanto dimensione.

E ancora: Vi è chi prende baldanzosamente possesso del mondo, ed entro i due il racconto “Il mar delle blatte” esemplifica in modo sottile quella (34) mancanza di forza che serve per riconoscersi nelle cose usuali, di tutti i giorni, atta a trasformarle in segni di un sia può minimo cammino.

Landolfi al contrario le trasforma, ma nel significato opposto, come se sprigionassero, nel loro corso normale, un che di terrificante, di sospeso, di allucinato che da un momento all'altro può partorire una realtà difforme e mostruosa, insopportabile. La sua stessa costruzione fantastica, quel sogno da J. Bosch che viene narrato in queste pagine, con quelle apparizioni tetre su uno sfondo di mare vegliato da un cielo sempre cupo, un mare solcato da una nave dei folli avviata verso awenture impensabili, testimonia dell'inermità di Landolfi di fronte alla realtà dell'esistenza: inermità circoscritta nelle sue più sottili deformazioni, dove l'allegoria del mondo ha trapassi e trascolorazioni intense, ma in cui nessuna speranza affiora, nessun segno di luce che illuda anche un sogno sospeso.

L'inizio del racconto è esemplare nell'indicare un rifiuto della vita intesa nei suoi termini grigi, scontati. Un uomo chiamato Coracaglina, avvocato, trasale alla vista del figlio, che ha un braccio ferito e sanguinante, da cui escono i più strani oggetti: un pezzo di spago, dei chicchi di riso, un grano di pasta bucata, dei pallini da caccia, un verme. L'avvocato ha un sussulto: ma il figlio lo invita su una nave che subito parte per destinazione ignota. Un viaggio che Landolfi avvolge di mistero, con quella sua maestria nel dare per gradi ragguagli inusitati, ma che hanno il potere di preparare alla sorpresa, quando non alla tensione per un finale in cui tutto può avvenire, anche se scopertamente con un sapore letterario che ne mitiga i contrasti.

La navigazione verso il Mar delle Blatte non diventa solo allegoria della vita, vista non certo col gusto contemplante degli scrittori umanisti, ma con la partecipazione trepiùante per il mistero che la circonda, e che assume a volte toni drammatici, colori malefici, come contrappunto al mistero stesso che circonda ogni esistenza.

Alla luce della luna si scorgeva sulla costa, e digradante in anfiteatro verso il mare, una mostruosa città, dai giganteschi edifici. Ci erano case piazze vie torri come altrove, ma ogni cosa spaventosamente grande e massiccia, di proporzioni (34) inaudite e terribili. Tra le fronti solenni delle costruzioni, battute dal pallido raggio, si inabissavano strade nere come pece, s'aprivano gurgiti bui di piazze voragini senza fondo. Tutto era calmo, non si scorgevano creature umane, nessuna luce, nessun segno di vita: alcune vaste fontane, collegate da canali elevati sul suolo e digradanti di terrazza in terrazza, facevano solo udire un freddo sciabordio. Ma era una calma minacciosa, da cui sembrava dovesse scoppiare a ogni momento un comando, una parola intollerabile. Come una fiera sentinella la città si levava alta sul mare.

Brandeburgo, l'ultimo baluardo verso il Mar delle Blatte. Landolfi ha preparato questo viaggio con la forza disegnativa di un espressionista, ha costellato il racconto di apparizioni strane, contrastanti, ha vivificato la pagina di figure irreali: il figlio dell'avvocato Coracaglina che diventa il capo della spedizione con il soprannome di Alto Variago, la sua fidanzata, Lucrezia, che ama il verme uscito dalla ferita di Roberto Coracaglina, e infine gli uomini che salgono sulla nave dell'Alto Variago a chiedere il pedaggio, i Forforiti, proprio all'ingresso del Mar delle Blatte. Il trapasso tra gli episodi meno salienti ma indispensabili nell'economia del racconto e quelli Costitutivi della vicenda, è dosato da Landolfi con una padronanza impeccabile degli strumenti narrati, attraverso la quale l'improbabilità delle stesse immagini si stempera in una credibilità tutta fantastica: come non avvertire la forza di quella figurazione onirica che traspare dalla pagina di Landolfi, quando il mare misteriosamente si copre fino all'orizzonte di blatte, avvenimento già preparato in anticipo da una serie di vaghi accenni e richiami? (“Il capitano abbassò la voce”, e poi ancora: “Il capitano sgrano gli occhi, inghiottì la saliva, ebbe un singulto simile a un conato..,delirasse con gli occhi sbarrati a fissare l'acqua frusciante...)

Il centro del racconto è proprio qui, in questa apparizione temuta, che viene ad avvolgere di suspense il già precario viaggio (36) della nave. “Suscitava alcune grosse blatte dalle leggere onde che il passaggio sull'acqua, altre se ne vedevano più in là, e verso il mare aperto... gli animali parevano infittire, nereggiando al sole del meriggio tropicale”.

Anche nelle suggestive pagine che descrivono la gara erotica tra il verme e Lucrezia, intatte nella loro terribilità, Landolfi non raggiunge la perfezione di queste dove l'avvenimento principe si avvera, e dove, in massima parte, si spegne l'emozione che ha fatto nascere questo racconto. La stessa conclusione, il ritorno alla normalità di una vita di provincia, con Roberto Coracaglina e Lucrezia che indulgono al sogno di un'isola su un mare azzurro, ha effetti scopertamente letterari, quegli effetti che Landolfi era venuto mascherando per tutto il racconto con tale bravura da renderli verosimili.

La prova del racconto testimonia tuttavia delle capacità trasfiguratrici del miglior Landolfi, quello che ritroveremo anche in alcuni racconti e in certi romanzi scritti posteriormente, fino a La bière, ma là con più tecnicismo e meno intensità.

Gli stessi racconti compresi nel volume uscito da Vallecchi nel 1939, e precisamente “Da: L'astronomia esposta al popolo”, “Notte di nozze”, “Ragazze di provincia”, “Il sogno dell'impiegato” , “Il racconto del lupo mannaro”, “Teatrino” e “Favola”, non serbano, di quel racconto (si ricordi la data di composizione: 1936), la stessa freschezza e la stessa naturalezza del dettato, fatta eccezione, forse, per “Teatrino”, ma ancor più per “Il sogno dell'impiegato”.

I1 pericolo di Landolfi, anzi, è ormai un troppo virtuosismo, una terribile sicurezza di plasticità stilistica, un gusto, già tutto autosufficiente, di mimesi verbale (Sanguineti, I Contemporanei, p.1534).

La nota che risuona ossessivamente nella prosa di questa stagione landolfiana è bassa e scoperta, fosca perché‚ priva di malinconia o di abbandono, ma è intensa, perché rivelante una lacerazione immedicabile. E non la salva da questa sua cornice buia neppure l'accensione fantastica, o il gioco razionale che si viene svolgendo, vagamente sospeso in sillogismi e (37) invenzioni, ma che del gioco alla fine serbano tutto il fumismo e l'astrattezza.

Si potrà obiettare che ogni racconto nasce in Landolfi da una specie di beffa che gioca continuamente la vita, all'uomo che viene scoprendo in sé lo smacco, l'inadeguatezza della sua parte recitata più che vissuta, o l'assurdo, visto con ironico sorriso da Landolfi, seguito nelle sue fasi intermedie ma circolari, che conducono a un finale già calcolato nella sua tensione preveduta, ma che spesse volte è scoperto come il segno di una nuova identità, dell'uomo che rifiuta l'esistenza perché già l'ha pensata nei suoi termini consueti e usurati. Tuttavia sarebbe errato pensare a Landolfi che costruisce i suoi giochi assurdi senza parteciparvi: egli scrive ciò che ha sofferto, sia pure travasando nella scrittura la materia dominata con estro satirico. Il suo umorismo, dunque, nonché tradursi in costruzione fantastica che ha una sua logica perfetta e un perfetto equilibrio, nasce sotto il segno di una avventura conoscitiva che si va svolgendo in aperto contrasto con i termini codificati sotto i quali passa la concezione stessa dell'esistenza. Landolfi ferma in un attimo, folgorante i possibili itinerari del pensiero, anche se questo cammino spiùga anche ia forma breve prediletta da Landolfi, come più efficace e consona a interrompere per un attimo il flusso interiore e a scandagliarlo nei suoi aspetti assurdi, o grotteschi, nella può ferrea logica in cui si mostrano per brevi lampi, per subite apparizioni.

Il procedimento stesso usato da Landolfi è prova scoperta che egli non solo costruisce intorno all'assurdo rapidamente afferrato i contorni di una possibile narrazione, ma tenta, raccontandoli, di liberarsi di quella forma angosciosa che li ha generati, affidandoli alla pagina come a una testimonianza che può essere specchio e richiamo per il possibile lettore, ma soprattutto è l'eco di una ferita, di una insopprimibile solitudine, di un abisso che ha pareti che si popolano di incubi, a cui Landolfi si affida come a una alternativa con cui vincere la sua prigionia.

Da più parti si è affermato che le suggestioni letterarie più disparate (38) non hanno lasciato insensibile il Nostro, sia pure moderate e accolte con larga disponibilità, quando non trasfuse in modo nuovo con nuovi intenti. Ma il rigore apportato da Landolfi in queste suggestioni è di tale efficacia, che quelle si stemperano, si modificano, aderendo in modo singolare alla sua sensibilità, che le trasforma e le ripropone sotto nuova luce: “Dialogo dei massimi sistemi”, o il racconto “Da: L'astronomia esposta al popolo” o “Nuove rivelazioni sulla psiche umana. L'uomo di Mannheim”, parlano scopertamente di apologhi, di operette morali, salvate non solo da un piglio ironico che le trasforma e le riadatta per una nuova concezione, ma le indica come segni di uno scoperto illuminismo, atto a ripercorrere le stazioni di una conquista della ragione, a cui è negato ogni spiraglio di sentimentalismo, ma anche di possibile speranza. Landolfi allora appare più ferito, più vulnerabile, quando sembra filosofare con fare distaccato, accorto, logicizzante, mentre già pone le sue premesse di rifiuto, di negazione, di contrasto. La stessa ambizione di scandagliare ipotesi scientifiche intorno alla formazione del mondo, o intorno all'identit… dell'uomo, o quel suo insistere su dimensioni regolate da un infinito numerale, apocalittico, non risultano--alla fine--che speranza di scoprirle inerti, irragionevoli, equivoche nel descrivere tutto il mistero che gravita intorno all'uomo.

Le fantasie ch'egli tesse intorno a questi scandagli non sono che mere possibilità letterarie, essendo il nocciolo della sua ricerca un che di vago, di ambiguo, di suggestivo anche, ma che sfugge e s'inabissa, come intoccabile, distintivo di un demoniaco che pure avviluppa ogni creatura, per ricondurla nei suoi confini bestiali in seno alla natura.

Il Landolfi di questa stagione, dagli esordi, fino alla Bière compresa, non sta tanto nella efferatezza delle sue creazioni, quanto in una vulnerabilità mascherata sotto il segno dell'ironia. Vedremo un Landolfi attingere alla propria biografia quando questa efferatezza sarà mitigata da una più scoperta pietà, lo vedremo chinarsi su di sé in certe pagine narrative che veicolano questa pietà verso un più largo orizzonte, in cui egli includerà se stesso, la sua vita, i suoi affetti. Ma sarà un Landolfi meno efficace, se pure più umano. In Ombre indulgerà persino a ripercorrere la sua infanzia, con pagine toccanti, vere: ma saranno pagine di diario, fogli sparsi di una vita di scrittore che solo accetta questa sua parte come estrema propaggine di un fulgore ormai consunto. La forza della costruzione di largo respiùo o di profondo impegno non essendo mai prerogativa sua, risulterà bocciata ulteriormente da uno schermo sempre più fitto tra l'arte e la vita, quando la vita prevarrà sull'arte con le sue esigenze di limitazione fantastica, di peso quotidiano, di autocritica e meditazione sulla propria essenza vanificata.

In sede di consuntivo il secondo Landolfi verrà bruciato dal suo stesso gioco, che prima sembrava renderlo immune da tutti gli orrori assurdi, da tutte le contraddizioni dell'esistenza, e che invece franeranno in assoluto, dissolti in frammenti, in stati d'animo, in recuperi improvvisi, ma sul pieno della creazione franti e inattingibili nella loro purezza come nella loro malvagità. Lo scherno della realtà di cui Landolfi andava fiero, vedremo mutarsi in umile sottomessa analisi, sottoposto a interrogazione, a inquisizione continua, assillante. Resterà un mosaico imperfetto: ma sarà segno di tempi mutati, di un Landolfi che ancora rispecchierà la provvisorietà dell'uomo di fronte al grande mistero della vita.

Il volume dei racconti che Landolfi pubblicò nel 1942, e che comprende quindici pezzi, contenutisticamente dissimili fra loro, ma assai eloquenti nell indicare i nuovi interessi e i nuovi metodi d'espressione dello scrittore, è significativo per fare il punto sulla produzione del Landolfi più vero: La spada infatti riunisce in sé i pregi e i difetti che le prime opere avevano taciuto o mascherato con la novità dei temi e dei motivi inusitati.

I racconti de La spada autorizzano una divisione e una scelta, che oltre ad essere necessarie per far giungere alla comprensione di alcuni temi centrali dell'ispiùazione landolfiana, indicano una via che Landolfi percorrerà in alcune opere successive, con risultati a volte censurabili, a volte felici, tuttavia internamente legati a una macchinosità inventiva, che qui trova esemplificazione chiara e inequivocabile.

I quindici componimenti del volume si possono quindi separare, seppure forzatamente e arbitrariamente, in due serie; e nella prima vanno inscritti quei racconti che compiùtamente si saldano a un'ispiùazione feconda, tenuta viva dalla costante rivelazione di un mondo fantastico, dall'orrore di una scoperta miseria delle creature del mondo naturale, che a un contatto con la violenza soccombono, può additando una possibile catarsi dell'universo nascosto di cui fanno parte.

O ancora quei racconti dove la moralità landolfiana è contenuta e schiva, e l'invenzione cresce su di s‚ con naturalezza, senza forzature, vivificata da un impegno espressivo che non travalica l'emozione per divenire razionalizzato per eccesso, e dove appunto Landolfi riesce a interiorizzare l'ironia o la cruda e inquietante parodia, per far emergere al contrario l'invenzione liberata e autentica. Sono questi i racconti più vicini alla tematica landolfiana della paura, del fascino metafisico sempre rinnegato, ma affiorante con una inquietudine ossessiva, o il “fascino della tortura” (Sanguineti) che attira e respinge con la sua crudeltà il primo Landolfi. Tra questi, dunque, “La spada”, “La notte provinciale”, “Voltaluna”, ma soprattutto “La paura”, il racconto più perfetto tra i tanti che abbia scritto Landolfi.

Nell'altra serie, se ci si permette questa schematica suddivisione, vanno elencati i rimanenti, precisamente “La tenia mistica”, “Il babbo di Kafka”, “Il matrimonio segreto”, “Da: La melotecnica esposta al popolo”, “Nuove rivelazioni sulla psiche umana. L'uomo di Mannheim” e infine “Colpo di sole”. Racconti che avvertono partitamente il gioco scoperto di un Landolfi ironico, polemico, moralista, non sufficientemente sostenuto dall'invenzione, che ricade al contrario nella moralità più scoperta, nel divertimento più esteriore, e dove la stessa macchina narrativa è messa in moto difficoltosamente, arbitrariamente, quasi che lo scrittore avverta, prima di intraprendere il viaggio attraverso la narrazione, un che di architettato, di ingegnoso, di piùnificato, ma poi volto più a didatticamente offrire che a compiùtamente narrare. E d'altra parte questi ultimi racconti additano una via sulla quale lo scrittore si muoverà nel futuro con opere d'interesse scientifico o avveniristico o di science fiction, ma che nei risultati appariranno concepiùe con molta bravura, ma esteriori, mentali processi aprioristici e ipotetici dominati con dovizia di elementi e di dati, ma alla resa dei conti troppo scopertamente utilizzati come cause di una mai compiuta affabulazione.

In questi casi, tuttavia, Landolfi non compromette in minima parte la sua statura di narratore nuovo, neppure l'ingegno così lucido nel concepisce fantasmi e invenzioni che accordano in molte parti con una sfrenata voglia di assaporare avventure fuori dall'usuale, possibili in un futuro non molto lontano, che Landolfi assume come prove per tentare una disamina di casi, di situazioni, di contrasti a fronte dei quali l'uomo può trovarsi a combattere, può saggiando lo scrittore prefigurate opposizioni, sia d'ordine spirituale che speculativo. certo comunque che Landolfi--in ogni caso--è spinto dalla sua volontà d'essere precursore di possibili universi fuori dalla realtà, o quantomeno di istituire mentalmente e fantasticamente dei rapporti dialettici coi quali misurare la sua sfrenata sete di conoscenza, rapporti che esorbitano dall'usuale, dal quotidiano, ed entrano invece come punti di rottura e di forza a sconvolgere un universo di sensazioni, di posizioni ontologiche, per una esplorazione in quelle posizioni intatte e pure nelle quali la mente umana non solo non intende entrare, ma se ne ritrae sdegnata e offesa, come fossero calcificate e intoccabili. Landolfi -- sia pure con risultati a volte modesti sul piano narrativo – non disdegna avvicinarsi, capirle, scoprirle, ma si adopera in ogni caso di prefigurarle, come fossero possibili, a portata della concezione umana, quando non ridotte alla statura delle creature più umili.

Il fatto poi che queste prefigurazioni siano ottenute con largo mezzo di fantasia e di surrealtà, con poca rispondenza sul piùno narrativo ed espressivo, e che da queste sue invenzioni ci si ritragga a volte sgomenti e non completamente convinti, non toglie nulla al fatto che Landolfi ( abbia avuto il coraggio di prospettarle. Un che di farraginoso, o di esteriore muove sempre da principiù queste sue invenzioni: eloquente il racconto “Il babbo di Kafka” dove il padre dello scrittore è raffigurato in un grosso ragno dalla testa umana, che un giorno appare sulla soglia dell'uscio di casa a sgomentare il figlio; costretto, dopo questa apparizione, a cercare di stanarlo in ogni angolo della dimora per sopprimerlo; o dell'esilarante “Da: La melotecnica spiegata al popolo”, in cui Landolfi sfoggia un virtuosismo eclettico perfino nello spiùgare il colore delle note, le loro qualità fisiche più disparate, il “sapore o gusto, un odore, un calore, una forma e infine una composizione chimica più o meno determinati”: con che --ci si accorge subito -- Landolfi trapassa dalla vertigine e dal tremore più vero accanto a scoperte amare sull'impossibilità di accettare il reale, a una sorta di gioco voluto, cercato verbalmente, perseguito fino alla saturazione, in cui la tramatura e il tessuto narrativo diventano costruiti e architettati con largo uso dell'iperbole e della gratuità.

Una eccezione rara, se vogliamo, accanto a quel racconto autobiografico di “Lettera di un romantico sul gioco”, che servirà per capire uno dei temi fondamentali del Landolfi narratore, ci pare--come già accennato—“La paura”, perla rara del volume, che indica dove risieda la verve narrativa landolfiana più prestigiosa e autentica, ma che spiùga anche molte qualità espressive, sia di misura che di ispiùazione, dello scrittore di Pico.

Di misura, innanzitutto, perché‚ nel giro breve di tre paginette sono condensate le linee più pertinenti alla narrativa landolfiana, entro le quali ritroviamo le costanti di una espressione compiuta, dilatata in altre opere con meno persuasività, ma che già sono indicative in questo breve racconto.

L'osservazione illuminante in scorci brevi di prosa che puntualizza senza sbavature aggettivali; il dialogo secco, lucido, esplicativo, frammisto a un recitativo interiore che si impone per la capacità evocativa di nascoste atmosfere; un simbolismo contrappuntato da limpiùe raffigurazioni, che Landolfi fa emergere da tocchi brevi, senza la pesantezza di allocuzioni dirette, e che si legano al tema prefissato con naturalezza, infine la nascosta sostanza morale, che evade dal gioco della pura progettazione, ma che si restringe al contrario all'indicazione pertinente a cui tende l'emozione da cui è nata la scintilla del racconto. La paura, di cui tratta Landolfi, non è tanto la paura fisica di una scoperta crudeltà, ma a paura metafisica di una condizione, quando forze misteriose e incontrollate awolgono di terrore le creature della terra. Qui è un rospo bruciato vivo sotto un cumulo di tizzoni e cenere, che una donna isterica insegue in mezzo alla strada, a notte inoltrata, mentre attende la figlia diciottenne uscita in cerca d'avventure galanti. E questo essere così meschino, che nessun utile ha nella consuetudine presso l'uomo, ma che pure è parte di un universo creato, si sostituisce alla figlia negli sfoghi di rabbia de a madre, che lo insegue e lo inchioda a una morte crudele, quasi sfogo, e occasione di liberazione per la donna, di una crudeltà sottile, calcolata: i giovani che assistono alla scena sono percorsi da un malessere insondabile. E la donna si ritrae, poi ritenta nella sua meschina macchinazione, strumento di tortura e di morte che incute terrore, paura, ma che in ica la tremenda condizione dell'inferiore, del degenerato nella specie del condizionato ai margini. Paura che resta nella coscienza come una bruciatura profonda (“uh, mi sento bruciare la schiena! “ sottolinea una ragazza del gruppo che ha assistito alla scena) e che circoscrive in modo mirabile la sequenza di una condanna e di un destino ineliminabile. Il rospo unque non è che l'emblema landolfiano di una morte possibile, che odia quella sua condanna, ma che pure un magico filo avvince alla sua sorte crudele. “Laggiù si vedeva il rospetto saltellare e trascinarsi de bolmente, dal mezzo della strada, in direzione del suo carnefice”.

...Nostro, romantlco inguaribile, ma da intendere nel senso più retto del termine, romantico che nasconde i grovigli più dolenti, irritati, di una passione (44) umana tesa, sempre scoperta.

Anche nel gioco di una letteratura che lascia intravedere i meccanismi più scontati, più ovvi, Landolfi conserva sempre quella zona d'ombra, quello spazio di reticenza in cui egli si osserva, si ascolta, si confronta con la banalità del mondo, con la inutilità della vita: e dentro questa egli costruisce la sua affascinante resistenza al nulla, con una fiducia estrema e insondabile nella narrazione, come ultimo traguardo che raggiunge la bellezza, la classicità, i riflessi più amari di una drammaticità del vivere; con spirito romantico coglie nella mistificazione dell'intreccio, del caso umano, del magico naturale quel quid di insondato, di misterioso, che in forma simbolica rappresenta una notte oscura, substrato di pessimismo, un culto dell'annientamento, l'ebbrezza dell'estremo abbandono mistico e sensuale insieme, come fondo etico che può superare il reale, attraverso l'immaginazione e la fantasia, quando non della ironia più lucida e spietata.

Ironia che non è distacco insolente, o ironia volterriana di estrema fiducia nella ragione, ma è impotenza della stessa ragione, illusione che nasconde nel virtuosismo una difesa all'invadenza prosastica della società borghese, dell'incultura filistea e tracotante. Ironia matura che è a un passo dal satanismo, dal grottesco, e che più volge all'assurdo, come in Hoffmann, dove una immaginazione sfrenata chiede di non essere confusa con la fantasia, elementare forza che non riesce ad afferrare il senso analogico delle cose, ma immaginazione in senso baudelairiano che è elemento d'inquietudine, ribelle, indomabile, un'esaltazione della individualità, della eccezionalità in cui può depositarsi il senso più vero della vita psichica.

Ed ecco allora scaturire il grande rifiuto dell'azione per una predilezione del sogno: sogno del meraviglioso, o dell'orrore, una tentazione quasi barocca della deformazione, un visionarismo incontrollato ed autonomo che sorpassa il senso di ogni logica, e fluisce piùttosto verso la più pungente e dolente irrisione. Landolfi è grande quando evoca queste visioni, che sembrano investite da una luce lussureggiante, sconvolgente, micidiale e sulfurea, che sfigura le cose o che le lascia fredde e immote nella più tersa luce metafisica.

E' certo che il gusto della mistificazione, la bravura e la aristocratica (45) eleganza del gesto, della trovata, non riescono sempre a mascherare la sfrontatezza o la raffinatezza del pastiche, spesso percorso da un sottile umor nero; e inequivocabile è anche la sapienza di certe irregolarità nella delineazione, con ammirabile brio nel condurci attraverso esercizi dell'intelligenza, nella perversione delle trovate; ma Landolfi non indulge quasi mai in questi che possono essere difetti di esuberanza, di una natura di stampo romantico che dà molto credito a una recitazione su un registro interiore molto acuto. Egli li impiùga, li usa come strumenti di conoscenza perché in questi si è venuto affinando, riconoscendoli come i più adatti a una ua tendenza naturale. Tuttavia l'ambiguità che scaturisce da queste sue “fughe” immaginative, tocca senza dubbio il confine della più alta poesia proprio quando egli si ascolta in quella sua recitazione e si scopre più inerme, più indine alla pietà, o a una tenerezza delicata che rifiuta ogni banalità o inutilità, per una più tesa e impaziente conoscenza della verità.

“C'è in lui uno spiraglio dal quale egli non sa difendersi e da cui gli giunge un sentimento vitale: la pietà o meglio la pietas, una profonda e umile comprensione della precarietà della vita” (E. Montale, “Corriere della Sera”...).

E a riprova di questa sua zona d'ombra, varrebbe la pena di leggere anche i1 racconto “Voltaluna”, chiaro nel discernere tra questi ripiùgamenti dell anima su se stessa una specie di predisposizione magica, di dispotismo innaturale che costringe a un continuo e assillante esame, un'autoanalisi profonda che giunge a toccare le radici dell'anima, sia pure intesa, questa, nel solco di una tradizione romantica.

Si danno ore, e perfino interi giorni, che sono, lo dico senza amba~i, come strappi nel tessuto approssimativo e plausibile della nostra esistenza. Il potere che presiede a tali cose accumula allora contro di noi, quasi accuse sporte a un oscuro tribunale, fatti a sfavore e, insomma, sembra applicarsi a renderci vivo e presente i1 senso della morte.

... Simili giorni sono infatti piccoli capolavori, e pieni di buongusto in sovrapiù; in quanto non si tratta già di cose gravi o irreparabili, morti malattie rovesci finanziari o che so io, nulla del genere, ma piùttosto d'un certo numero, o catena, di minute circostanze awerse o inesplicabili, le quali non vi ledono profondamente, e neppure in fin dei conti superЎicialmente, e tuttavia un profondo sgomento ve ne assale. Vi ritrovate, la sera d'un tal giorno, né peggio né meglio in fondo di prima...; e nondimeno uno smarrimento ve ne rimane, il senso quasi d'un monito che in maniera particolare vi si riferisca..., in una parola, come se v'avessero costretto a buttare un'occhiata sull'oscuro rovescio delle cose, là dove tutto è gelo e orrore.

Il tremante disagio di questi avvertimenti, la rivoluzione di queste apparenze, lo strappo dei veli con cui si fascia a volte la vita attiva, trovano un Landolfi tanto più inerme quanto più egli testardamente sprofonda in queste volute irreali, riuscendo alla realtà non solo sconfitto, maudit, ma conscio di una mai sopina volontà di conoscenza sempre rimandata, emandata all infinito: l'esatto momento, l'istante interminabile in cui 'rien ne va plus', e dopo si attende un responso, di rovina o di fortuna, ma per quell'attimo Landolfi impegna se stesso e la propria esistenza.

La tensione narrativa ed espressione che ha caratterizzato le prime e più importanti opere landolfiane, viene allentata in questo periodo degli anni attorno al dopoguerra da due opere che, per i contenuti e per gli intenti narrativi, potremmo definire di esercizio e di divertimento, anche se i temi trattati, e gli sfondi in cui si muovono i personaggi non sono puramente letterari: si tratta appunto del racconto lungo Le due zittelle, pubblicato da Bompiani nel 1946, e del Racconto d'autunno, pubblicato nel 1947 da Vallecchi e ristampato in seconda edizione nel 1963.

Tensione narrativa, per intenderci, che va cercata nella riconosciuta insufficienza delle convenzioni narrative tradizionali nel rendere in modo assoluto il concetto dell'arte, per Landolfi di estrema importanza, come si ricava appunto dalle sue opere più agguerrite e felici, da Dialogo dei massimi sistemi a La spada e poi, come vedremo, ne La bière du pecheur.

Per Landolfi, infatti, impossibile è rendere con la parola certe sfumature inarrivabili e impercepiùili del reale, certe sequenze nascoste della psiche o il turbinio insondabile della coscienza, che difficilmente può essere espressa tramite gli strumenti retorici a disposizione dello scrittore.

In effetti Landolfi ha provato tutto: poesia e racconto, romanzo e poema in prosa, e poi ancora ha dato credito alla trama, alla delineazione dei caratteri, allo snodarsi convenzionale del racconto concepito in modo tradizionale, col suo bravo epilogo, che per Landolfi spesso si risolve in nota, o in glosse gustosissime. Il Nostro, dunque, non ha dato molto credito a certe misure espressive, quando non le ha sottoposte a una spietata analisi, come in certi racconti della Spada, o a un'ironia che poteva anche essere intesa come la resa a discrezione di una impossibilità espressiva.

Per scrivere un racconto o un romanzo, Landolfi l'ha detto esplicitamente nei suoi diari, ci vuole un fiato, una tempra di scrittore e un'ingenuità che lui non possiede, autocritico fino all'esasperazione, autolesionista fino alla disperazione. Ingenuità che permette allo scrittore di dimenticarsi, e di trovare nell'abbandono e nell'estasi quella felicità espressiva atta a raccontare del mondo e dell'uomo in modo totalmente veritiero. Landolfi nonché irridere una tale condizione di scrittore, ne mette alla berlina gli strumenti, le prerogative, le convenzioni: da cui nasce non solo la sostanza dei suoi racconti, ma la trama della sua personalità di scrittore beffardo e fumista, com'è stato definito.

Landolfi non solo scherza sugli strumenti comunicativi (“Dialogo dei massimi sistemi”) ma si burla delle stesse sue velleità di scrittore (“La morte del Re di Francia”) giungendo ad ammettere che anche la scrittura e l’arte, in ultima analisi, si risolvono nel gioco, nella tensione che emana da quella condizione di scommessa e di confronto, sempre rinnovabile, sempre viva e nuova.

(48) Tuttavia lo scrittore di Pico ci ha anche indicato, in un brano di prosa molto limpida, come sia possibile risolvere il dilemma: in “Night must fall”, un racconto del volume Dialogo dei massimi sistemi, egli ci spiega la sua filosofia spicciola prendendo ad esempio un assiuolo, che ripete una nota sola, ossessivamente. “Suppongo che gli uccelli si dividano, come gli uomini, in due scuole: gli uni cercano la gioia e la tristezza, e insomma vivono, accumulando quante più note possono e torcendole sdilinquendole allungandole a non finire; gli altri, valendosi del principio che in ogni nota ci sono già tutte le altre possibili note, si accontentano di ripeterne una, tuttavia non tristemente, e senza il menomo senso di rassegnazione”.

Il che spiega molto chiaramente la fede in una letteratura come lavoro artigianale, nobile fin che si vuole, ma fatto con la coscienza della sua precarietà, della sua tremante fragilità, una parte che va sostenuta col massimo rigore e con la più profonda stima nelle retoriche, forse l'estrema occasione per arrivare a vincere il nulla e il vuoto dell'esistenza.

Nel racconto lungo “Le due zittelle” questa tensione espressiva si allenta, come dicevamo, e Landolfi ritorna al gioco come irrisione blasfema e profanante; specie nella impaginazione dell'avvenimento, tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto, nel quale lo scrittore ha ravvisato

gli estremi di una possibilità di dissacrazione che poteva risultare alla fine originale. In effetti gi… si assapora, fin dalle prime pagine di apertura, un che di palazzeschiano, irridente e volutamente buffo, con quelle due donne attempate, zitelle (o zittelle come vuole Landolfi) che vivono in una casa dimessa e 'scorante' in un quartiere altrettanto 'scorante': dove in filigrana si intravedono le sorelle Materassi, la loro fede in un costume di vita schivo, rinunciatario, votate come sono a caldeggiare la spavalda volontà di vita del nipote. Se non che le 'zitelle' landolfiane di nipoti non ne hanno e l'unico maschio possibile molto accortamente è sostituito da una 'scimia'.

La storia, di stampo volterriano, precipita quando dal Convento di suore attiguo alla casa delle due zitelle, sale la protesta, reiterata, che l'Altare della chiesuola viene nottetempo profanato.

Dopo appostamenti e ricerche, si approda alla conclusione che la scimmia tenuta legata e prigioniera in casa delle due zitelle, è l'autrice del crimine, della profanazione del vino e delle ostie, e delle altre ribalderie più o meno iconoclastiche commesse nella Chiesa del Convento.

Con la morte nel cuore, ma consapevoli della necessità di un tale sacrificio, le due zitelle prendono la decisione di sopprimere la bestia. Con uno spillone più volte la colpiscono, uccidendola: una conclusione scontata, ma che serve allo scrittore per portare a chiarimento la sottile sostanza patologica della sostituzione operata nell'animo delle due donne dalla presenza della scimmia; sostituzione dell'imperativo maschile o della virilità con tutte le radiazioni più o meno erotiche e di simboli sessuali che la scimmia poteva ispirare attorno a sé, da Landolfi apertamente dichiarata nell'esclamazione di una delle due zitelle nell'atto di finire la scimmia: “Mi pare di uccidere nostro fratello! “.

Tuttavia, a questo punto, lo scrittore prende la palla al balzo della profanazione per dissertare sul sacrilegio compiuto da una bestia nel tempio del culto. Peccato, o non piuttosto atto d'istinto? Sacrilegio o non empito bestiale senza ombra di ragione e di morale? Landolfi, nel racconto, chiama a confronto due sacerdoti e li fa scontrare sul piùno dialettico con sornione agnosticismo, può tirando le fila dello scontro fino a una conclusione: ché diversa è la morale dell'uomo rispetto a quella della bestia, se pure ne avesse una. E la morale dell'uomo non è nella sua possibilità di scelta del bene o del male, ma nella sua inermità di fronte sia all'uno che all'altro.

Che male e che bene? L'uomo pecca soltanto perché non può non peccare ma poi non pecca. Né può essergli il male più gradito o necessario del bene anzi non può essergli neppure necessario; perché è, come il bene, lui stesso e lui stesso, perché è Dio stesso. Non c'è male e non c'è bene. Il male e il bene, anch'essi, sono, ché Dio è soltanto.

Un punto dialettico che ha fatto arricciare il naso a molti critici, i quali hanno pronosticato che Landolfi ha imbastito questa storia per arrivare a districare i fili di una “casistica morale” inconsueta; altri invece, e forse con maggior fiuto, come ha fatto Debenedetti in una sua puntuale nota, hanno affermato che questo “processo” maschera un processo ben più importante. Che è quello intercorso tra la paura di Landolfi per un evento e luogo 'sacro', in cui sono stati incapsulati divieti, ecclesiastiche censure, teologici ammonimenti, e il fascino segreto per la violazione, per la profanazione, violazione e profanazione che compiù invece Tombo, la scimmia delle due zitelle, con una spavalda incoscienza che Landolfi sembra guidare con satanica voglia e con perfida corrosione, per assaporare la distanza tra quella sua paura atavica e ancestrale e il fascino adulto della liberazione. Come ha affermato Debenedetti (Intermezzo, Mondadori, Milano 1963), “La scimmia delle due zitelle ha l'aria di essere una di quelle compensazioni, un surrogato per eludere il posto di blocco tra l'inconscio e la coscienza”.

Il punto centrale del racconto dunque è da rinvenire in quella scena chiaroscurale e notturna della profanazione, sorvegliata dalla zitella nella chiesa, con quella sorta di misticismo oltraggiato e di orgasmo sessuale represso, che rigurgita nella memoria della donna con tante esclamazioni di veto di censura di incredulità, ma di profonda adesione istintuale.

Landolfi, lo ravvisiamo più in questa centrale positura, che non nella discussione sul bene e sul male, che sembra mascherare, o ritrarre nella piega delle scuse e del rincrescimento, quella gridata e fin troppo repressa voglia di irrisione e profanazione.

Landolfi non è uno che scagli la pietra e nasconda la mano; mostra anzi la mano, ma intenta ad altro gesto: quello, poniamo, di guardare o di fare le ombre cinesi. La manovra può riscontrarsi dovunque: nell'invenzione dell'insieme, nella tessitura del discorso, sulla superficie della frase. Dove appunto si manifesta attraverso un contemperarsi di naturalezza e direziosità; e se la prima è l'arte di farsi dimenticare, la seconda è il puntiglio di sottolinearsi.

Se da una parte il racconto “Le due zittelle” può rientrare nella sfera dei molti difetti retorici del Landolfi, dove appunto sappiùmo che la macchina landolfiana s'inceppa, e un'oratoria ed eloquenza persino eleganti possano venirgli in soccorso, dall'altra possiamo capire ciò che rappresenta per lo scrittore di Pico quel suo affannarsi a farci intendere che appunto là dove egli diventa prezioso, realista all'eccesso, noi non dobbiamo cercarlo, ma cercarlo al contrario dove tenta di nascondere la “sua” ferita, quella che potremmo definire di 'origine”, e che già sappiùmo derivare dall'autoanalisi, dal terrore del vuoto, dalla felicità del 'gioco' come letteratura di scommessa e di tensione.

Il Racconto d'autunno, pubblicato nel 1947, ci porta nel mezzo di certe adesioni ad atmosfere di stampo ottocentescoci fa vedere un Landolfi disimpegnato sul piùno dell'‚criture artiste, votato al tenebroso, all'oscuro, usando un repertorio di luoghi solitari, di misteriose apparizioni, di personaggi travagliati da istinti aggrovigliati, dove appunto si rinvengono abbastanza ovvie certe 'letture', o certe chiaroscurali arie stevensoniane, in cui impera un misto di vertigine e di terrore, o incombono sembianze e fantasmi che sono piegati da ferite drammatiche.

E se Piccioni ci suggerisce per Racconto d'autunno l'Olalla, appunto di Stevenson, Giuseppe Amoroso richiama Casa 'La vita' di Savinio, e Gorlier il più ovvio Barbey d'Aurevilly: e si potrebbe aggiungere Poe, del “Gatto nero” e de “Il crollo della casa Usher”, o il diabolismo di Apuleio, o il Puskin favolista e drammatico. Ascendenze che spiùgano le scelte del Landolfi tenebroso, ma non il modo come lo Scrittore sia arrivato a questo racconto così realista e surrealista insieme, ambientato sullo sfondo della guerra, un misto di casa degli specchi dove le creature si consumano in echi e riflessi di uno sconcerto metafisico.

Il racconto non dissolve tuttavia i molti dubbi che già sorprendono il lettore sull'ecletticità dei temi assunti di volta in volta a pretesto di narrazione del Landolfi: la stessa aria di allucinata perdizione, che più consona appariva nel “Mar delle blatte”, in Racconto d'autunno piega verso una consunta ed usurata misura come pretesto di narrazione, la voglia e il desiderio insomma di far paura, di sconvolgere, ma con una partecipazione esterna, appunto perché‚ la stessa scrittura, la stessa strutturazione del racconto, lo stesso impiùgo dei mezzi espressivi si dimostrano meccanici, fatti con disinvoltura, ma senza quella tensione e partecipazione che in ben altre prove Landolfi aveva dato probante esempio.

L'inizio ha una misura classica, un andamento musicale; le prime dieci pagine che aprono il racconto sulla natura intorno alla casa misteriosa sui monti, dove approda nel suo vagabondaggio in cerca di cibo il soldato (che è anche l'io narrante), dimostrano come sia autentico il Landolfi quando intraprende un lavoro sorretto dalla sua vocazione e da un certo allegro spirito di rivalsa. Se non che (e ciò accadrà più apertamente nel romanzo Un amore del nostro tempo) quando l'emozione cade, e resta il logicizzare, il meccanico artificio o la voglia di sorprendere, Landolfi arriva alle conclusioni un po' esteriori e romantiche di questo racconto, che pure avrebbe voluto essere un campiùnario di 'tipi', visti sotto la luce della psicanalisi, se non addirittura di Sade e Masoch.

“La guerra m'aveva sospinto, all'epoca di questa storia, lontano dai miei abituali luoghi di residenza”: così inizia la sua narrazione il soldato sbandato in cerca di rifugio, arrivato a quella casa solitaria in vista di un asilo e di cibo. Se non che viene accolto da due grossi mastini, e dal padrone, ispido e incolto come una bestia, ma che sembra nascondere un segreto.

Un'invisibile presenza grava sulla casa. Il soldato s'avvia a perlustrazioni notturne, sempre seguito dall'ombra cupa del padrone, al quale non sfugge il desiderio di conoscenza del militare. Lo spiù nelle sue peregrinazioni, lo disturba nelle sue ricerche, lo tiene insomma prigioniero e in balia dei suoi strani dominii. Il protagonista del racconto non si dà per vinto, sente che qualcuno, oltre ai cani e al padrone, vive segregato in quella casa. Una notte, mentre il padrone è assente, il soldato scopre infine una adolescente, cresciuta nell'ignoranza, nella più squallida miseria, incapace di articolar parola, o di ragionare correttamente. Il soldato scopre che la ragazza assomiglia in modo quasi perfetto a una donna raffigurata in un quadro appeso alla parete di una sala, a cui il padrone sembra rivolgersi con devota ammirazione. Finché il protagonista attraverso l'analisi minuta di sensazioni, voci, gesti--approda alla conclusione che la giovane figlia è venerata dal padre nella stessa misura che lo era la moglie, e che la stessa moglie, quando viveva, aveva col marito rapporti sado-masochistici.

Le prove di adorazione dello sposo si spiùsero fino all'erezione d'un altare su cui l'ancor giovane donna doveva rimanere, ignuda, per molte ore al giorno e speaialmente della notte, davanti a candele accese e fra nuvole d'incenso del che tuttavia pareva contenta; e, durante accessi d'ingiustificata gelosia o semplicemente d'amore, a sevizie varie e torture persino, di cui del pari ella non pareva scontenta. Subito dopo queste insanie, egli si rifugiava nel di lei grembo a piùngere amare lagrime sui tormenti che le aveva inflitti, ed ella per altra cagione piangendo, lo pregava d'infliggergliene sempre di nuovi, di inventarne se necessario.

A questo rapporto innaturale si aggiunga la magia nera a cui si abbandonavano entrambi, in un misto di parossismo sensuale e arcano che doveva garantire ad entrambi una piùnezza di vita, sia negli scambi d'affetti e di sensazioni, che per vincolare al massimo la loro unione anche nell'aldilà.

Unione che--dopo morta la donna--l'uomo cerca di ravvivare con una cerimonia assurda, contrappuntata da vertigini e tremori, in una notte di tempesta, in cui l'uomo riesce a far rivivere, per un istante, una figura dal fumo di un piccolo fuoco, una presenza irreale e funesta.

Da tutta la vicenda--sottolineata da Landolfi con una graduazione di trasalimenti, di minute scoperte, di evocazioni tenebrose--emana un senso di disfacimento, di putredine, di follia che appaiono allucinanti concessioni ad una immaginazione demoniaca, ma che a ben vedere non rivelano altro che una compiùcenza al gusto grottesco di un gotico buio, ottenuto questo attraverso quadri e tagli dal sapore vagamente romantico, per mezzo di una scrittura che è tutta recitata in laconico falsetto, fino alla conclusione, invero assurda, di una liberazione nella fuga, nella morte, che lascia le cose in balia della fantasticazione più irreale ed astratta, con tante ombre oscure, sulla vicenda e sui personaggi, ma anche sul futuro dell'arte di Tommaso Landolfi.

Racconto d'autunno conclude forse una prima stagione landolfiana, quella che va dalle prove più mature d'inizio fino a La bière du pecheur, di cui il presente racconto costituisce un punto di passaggio verso l'involuzione biografica, (54) sempre che i racconti venuti dopo i diari (Racconti impossibili, Tre racconti, Un amore del nostro tempo) si vogliano considerare come riprese di temi su cui già il Nostro è passato con miglior fortuna.

Dando credito a Gorlier, che ha pronosticato con acume questa involuzione e questo passaggio verso la foce dell'autobiografismo, Racconto d'autunno indica una svolta pressoché decisiva nel cammino di Landolfi, ove la vittima prima del proprio gioco è lo scrittore stesso, il quale fallisce cosЎ una prova d'appello che non sappiùmo se potrà essergli concessa. Dopo prove come questa ... c’è da attendersi puntualmente un rifugio nell'autobiografismo e nel frammento (G.Gorlier, Considerazioni su Landolfi cit.).

Se con Racconto d'autunno Tommaso Landofi lascia intendere di intraprendere una nuova stagione narrativa, le tappe e i cammini su cui passa per arrivare all'autobiografia, al diario, alla confessione e all'analisi interiore si devono cercare nei racconti lunghi di Ombre, nel racconto fantascientifico Cancroregina e più ancora in Ottavio di Saint Vincent.

La frattura evidente tra la felicità narrativa e inventiva delle prove dateci da Landolfi tra gli Anni Trenta e gli Anni Quaranta, e quelle che stanno maturando alle soglie degli Anni Cinquanta, va intesa nel senso indicato da Sanguineti nella sua nota a tale riguardo; ma va anche ricercata nella sua meccanicità riscontrabile nella sua vena fantastica, allegorica, surreale, che si fletteproprio in Cancroregina) in trovate e artifici letterari schiettamente poco credibili, se non addirittura risibili sul pieno della realizzazione.

Cancroregina ne è prova lampante: pubblicato nel 1950, in pieno fulgore delle teorie dell'antiletteratura, della morte dell'arte, il racconto landolfiano segna una crisi non tanto della invenzione fantastica, che aveva fatto dello scrittore di Pico uno dei più interessanti e prestigiosi interpreti, quanto della felicità nell'abbandono alla narrazione, che in molte opere riusciva a mascherare l'artificio, il pastiche, la pura trovata.

Una crisi creativa insanabile sembra prospettare questo racconto, che porterà Landolfi verso la meditazione sull'impossibilità della scrittura a inglobare i problemi esistenziali dell'uomo, o il senso di disfacimento della esistenza ai confini del nulla, se non riscattabile nell'annotazione diari stica, nella confessione o nel diario, come sfogo a una inderogabile volontà di narrare per frammenti e per illuminazioni, oltre alla crisi creativa, l'incapacità di mentire anche su se stesso.

E' in questa direzione--forse la più idonea a seguire i reali motivi interni della progettazione--che va letto il racconto Cancroregina, che definisce in modo univoco dove Landolfi stia montando l'artificio e dove invece riesca a vincersi, per confessarsi apertamente.

Chiamare dunque Cancroregina racconto di science-fiction è errato come errato sarebbe considerarlo un'esplorazione avventurosa dello spazio celeste (su la scia di Verne, o di Somnium di Keplero, o dell'Eve future di Villiers de L’Isle-Adam); o ancora un viaggio siderale caro agli autori di space-opera sì che negli anni Cinquanta conobbero il loro boom anche in Italia; niente di tutto questo: come pure dei tanti temi che furono ispiratori della moda letteraria della fantascienza, temi che venivano ad opporsi allo ottimismo dei narratori ottocenteschi e riuscivano a dare sfogo alla sfrenata fantasia con invenzioni di mondi ultraterrestri di piùneti con indicibili animali interplanetari, atti a dare al lettore quei 'brivido somico' che serviva come valvola di sicurezza allo stato di compressione e di disagio derivante dalla civilta industrializzata e organizzata del nostro tempo.

Cancroregina ha preso le mosse forse da queste affascinanti prospettive, ma arriva ed approda a ben altro: quel vascello spaziale, mirabolante e incredibile (sul piùno propriamente scientifico), che solca il cielo e si si stacca dalla terra per arrivare sulla luna, non ha tanto le sembianze di un modello perfetto delle navicelle spaziali, quanto della creazione casereccia di un pazzo, che ha voluto darsi la possibilità di fuggire il mondo e gli uomini, come un Icaro funesto che cerca il volo solo per sfuggire a un destino chiuso, piuttosto che per sete di conoscenza. (56) Cancroregina è appunto il nome di quel vascello (un nome particolare che impreca e la dice lunga sulla impossibilità della macchina di regnare nel cielo) e a bordo vi salgono lo scrittore, che ne racconterà poi la storia in forma di confessione diaristica, e un certo Filano, scappato a manicomio, e là richiuso perché proclamante la realizzazione di cotale...

Filano un giorno entra in casa del narratore, lo coglie in un momento di sconforto, lo mette a parte del suo segreto, infine lo convince a intraprendere il viaggio verso la luna.

La macchina è nel cielo, già librata verso il pallido pianeta, quando il pazzo dà segni del suo evidente squilibrio: risatine improvvise, frasi senza significato o afasia completa, interruzione del discorso, balbettamenti, pugni chiusi sulle tempiù del capo reclinato in abissi senza fondo. Infine la rivelazione: lo scrittore col suo peso impedisce un più libero ...

Ne segue una lotta, dalla quale esce vincitore lo scrittore che riesce a far precipipare Filano nel vuoto.

Senza più— il controllore spietato dei meccanismi di volo, Cancroregina sbanda, deflette dalla rotta, gira eternamente intorno alla terra, come un “minuscolo satellite”, portando nel suo ventre l'uomo impotente e il suo creatore ucciso.

A questo punto della narrazione (che abbiamo tentato di riassumere succintamente, anche se non ci nascondiamo la difficoltà di dare tutte le sfumature dei temi landolfiani, difficilmente riassumibili) entra in gloco il vero motivo del racconto, precisamente la possibilità del diario, della divagazione filosofica, dell'irrisione finale della scoperta che tutta l'invenzione è stata desunta da un manoscritto di un pazzo, sottrattogli da un infermiere e dato alle stampe.

Irrisione che Landolfi ha affidato alla trovata, invero molto usurata, di un colloquio finale, in cui si assiste--nell'interno di un manicomio-- alla visita della moglie al malato e dove si svela l'origine del ritrovamento del manoscritto. Finale dialogato, a mo' di conclusione, che viene dallo stesso Landolfi soppresso nelle successive redazioni del volume, ma che all'origine serviva per sviare (o per scusare) il vero movente del racconto tutto graduato sulla lenta pazzia di quello scrittore prigioniero di Cancroregina nel cielo, ma anche sulle sue divagazioni, che da questo finale vengono irrise proprio perché si scopre siano fatte e realizzate da uno squilibrato.

Se non che, come dicevamo, il vero motivo di questo racconto va cercato altrove, nella disposizione alla confessione, che in queste ultime pagine è davvero piena, commossa, straripante e forse rivela una parte dell'anima landolfiana non ancora completamente dischiusa al lettore.

La prova lampante inizia proprio quando lo scrittore si accorge che egli è prigioniero della macchina, e nessuna comunicazione è possibile col mondo degli uomini: “E pensare che tutto quanto occorre a menarmi in salvo è qui, qui dentro e a portata di mano; ma è come se non ci fosse, non so trarne profitto”.

Landolfi sa che la realtà, la materia, ogni atto quotidiano gli è sempre stato estraneo perché mai lo ha cercato veramente: egli ha inseguito l'assoluto, l'irrealizzabile, l'utopico, ma nel senso che poteva essere catturato con la forza mimetica della parola, della sillabazione realistica, della costruzione letteraria e stilistica: ma tutto gli è sfuggito, può essendo stato molto “a portata di mano”. Il fatto che questa estraneità nasca ora come segno di contrappunto, di raffronto con la situazione—invero assurda e ai limiti del credibile--entro cui è prigioniero nell'infinito spazio del cielo, aumenta il distacco, acuisce la drammaticità del senso di quella estraneità, fa sì che Landolfi ne abbia un dolente ricordo, una profonda nostalgia. “Ma come si può vivere così senza nulla, senza neppure una lontana speranza? E vero, e io in realtà aspetto qualcosa: aspetto il coraggio di morire”.

(58) Egli dunque voleva condurci, con Cancroregina, a queste dissertazioni filosofiche sulla vita, sulla morte, sulla estraneità dell'uomo a se stesso, mediante un viaggio che doveva avere come presupposti una situazione estrema come quella di un uomo chiuso in un ordigno librato nella spazio, e poi di un pazzo che si è fidato di un altro pazzo, come a dire che il confine tra normale e anormale è sottilissimo e non si sa mai bene dove possa passare, se non per zone minate, che possono scoppiùre da un momento all'altro. Tanto è vero che da questi presupposti non ne esce salva neppure la stessa macchinazione landolfiana, se badiamo a certe schematiche descrizioni parascientifiche usate da Landolfi, che hanno il sapore di lasciar intendere una conoscenza profonda, ma che in effetti non si rivela tale per gli esempi spurii e grotteschi che dissemina lungo tutta la prima parte del racconto.

Dissertazioni che non risparmiano neppure la letteratura, la critica, la noia del vivere, la funzione dello scrittore, e infine la nostalgia della terra, della terra concreta dove anche un misero impiùgatuccio con i denti cariati può conoscere, nella dimenticanza del lavoro, la pace dell'animo. L’invocazione “Signore Iddio che sei morto sulla croce, salvami! Salvami da questo male, da queste angosce; da questa solitudine” (7 maggio, p. 86) più che chiudere il senso del racconto, lo apre a quella forma di confessione delirante che sarà un segno dei tempi mutati nella direzione narrativa del secondo Landolfi, quello degli Anni Sessanta e più avanti dei nostri giorni.

Nei racconti di Ombre, uscito nel 1954 dal Vallecchi, ma composti nei primi anni del 1950, collateralmente dunque a Cancroregina, vi sono forse le cose migliori di questo secondo periodo del Nostro, aperto ora a una confessione spiùtataanche sui motivi profondi della propria infanzia (“Prefigurazioni: Prato”) dei rapporti col padre (“L'ombrello”), della solitudine provinciale nella casa di Pico (“La beccaccia”, “Lettere dalla provincia”, “Annina”, “Briciole”), o dei rapporti tra le proprie invenzioni e una più diretta e corretta interpretazione delle stesse, secondo un'ottica che Landolfi non disdegna mai di documentare, ma con somma ironia: intendiamo “La vera storia di Maria Giuseppa”, che tuttavia (59) nulla toglie alla perfezione del racconto originale contenuto nel volume Dialogo dei massimi sistemi, “Maria Giuseppa”, appunto.

Fa eccezione il racconto “La moglie di Gogol”, con quell'idea centrale della donna di gomma, utilizzabile in ogni occasione e sempre diligente, ma vuota e impersonale, nel seguire il marito nei suoi capricci. Ma anche qui l'eccezione serve come indicazione del frammentismo, della ormai stanca vena inventiva e favolistica del Nostro portato verso il romanzo-diario o verso il diario-romanzo, che fa lo stesso, e dice dove ormai Landolfi sia diretto.

Su Ombre e sui racconti contenuti nel volume, molti critici si sono espressi con diffidenza, chi rinvenendo in essi un Landolfi minore e chi invece il più vario ma anche il più vero scrittore, uguale per intensità a quello delle prove della maturità, con una punta di meno contratta reticenza, o di pudore, ma con più umanità.

Per quanto riguarda un giudizio schietto su queste prose, ci sembra giusto riportare per intero un brano di una critica disinvolta ma molto attenta com'è quella di Marco Forti, alla quale affidiamo la nostra adesione sia per la chiarezza espositiva che per la efficacia della penetrazione nelle piaghe più riposte dell'espressione landolfiana qui rintracciabile.

In Ombre ci sono un po' tutti i registriella più variata antologia landolfiana, dallo scherzo in prosa e in verso, al racconto, al saggio, alla moralità, a certe brevi schegge di prosa lirica, che ci paion più sue.

E fra i racconti ve né'ha di felici e rappresentativi delle sue maniere diverse da quella metafisica surrealistica, a quella lirica di una più radicata e accorata memoria di provincia, ad un suo mondo recente più francamente realistico.

Racconti come “La moglie di Gogol”, “Giovanni e sua moglie”, e “Ombre” rispondono pienamente alla media fattura landolfiana; una narrazione calibrata tutta su motivi d'eccezione, sorprese, colpi di scena, dove un’autentica situazione e invenzione iniziale, si deforma sovente nell'ironia e nel grottesco, e il giuoco stesso dei fatti si affida soprattutto al pregio del montaggio (Marco Forti in “Paragone” 60, dicembre 1954).

(60) I “pezzi” di bravura di Ombre (del 1954), se pure in larga parte considerati opera di un Landolfi minore, vanno collocati nella scia di quel romanzo-diario dell'anno prima, precisamente La bière du pecheur sotto la cui influenza vanno rapportati, per intenderne a ragione tutte le sfumature e le complessità; ma vanno anche letti disgiuntamente, forse per quella minore incidenza al “gioco” che conservano e che nella Bière si faceva più scoperta, ma soprattutto perché‚ sono spiragli e spie di una confessione biografica e creativa che investe in piùno d'ora innanzi, tutta la prosa, la creazione, in una parola la narrativa landolfiana che verrà dopo, sia essa rintracciabile nel teatro, nei racconti, nei racconti lunghi o negli apologhi morali.

Abbiamo tralasciato la trattazione e l'analisi della Bière (che riprenderemo successivamente) appunto per legare a questo periodo lo scherzo di sapore illuminista, ma molto intelligente, del racconto Ottavio di Saint Vincent, il quale mostra l'altra faccia del Nostro, aristocratico, barocco, dannunziano, ma piegato a discettare sulla noia dell'esistenza, su quel vuoto che per Landolfi è sempre stato presente, ma mascherato dalla potenza dell'invenzione, della trascinante forza della favola e della costruzione surreale.

Ottavio di Saint Vincent conserva ancora gli involucri della costruzione letteraria, ma, come in Cancroregina, sono supporti fittizi, meccaniche argomentazioni costruttive o grandi legacci lustri e multicolori, che servono solo a mascherare il tema scottante, la piaga nascosta, la vera motivazione, quasi ossessiva e patologica, che sta al fondo della favola, e che per Landolfi è il principio, la ragione ordinatrice di tutta la macchinazione inventiva. La ferita, in Ottavio, è di ordine spirituale, una specie di frustrazione che lo porta a scegliere il gioco d'azzardo e la scommessa per entrare nel regno del proibito, per assaporare la violazione di una dimensione (di ceto e di voluttà) impossibile; per poi accorgersi, in un esame di coscienza veritiero e senza infingimenti, che neppure l'apparenza e il gioco possono salvarlo dalla verità ultima della sua condizione reale. Fuori di metafora e di ogni allegoria, in Ottavio-Landofi noi ritroviamo quel dilemma insanabile della sua aspiùazione a una condizione (61) fuori dalla noia, dalla disperazione, ottenibile con quella forza genuina e intatta che riesca a vincere la finzione, il gioco, la duplicazione, senza dover passare per la mediazione di un sotterfugio o di una commedia, in cui l'attore-protagonista conosce il finale, nonché tutto il senso della storia che sta per interpretare.

Avvicinandoci succintamente alla trama del racconto landolfiano (pubbllcato da Vallecchi nel 1958 insieme alla riedizione de Le due zittelle) scopriamo subito l'intrigo che porta Ottavio di Saint Vincent, poeta squattrinato, nonché nobile decaduto, a largheggiare dei favori di una duchessa russa, vedova, piena di quattrini, discendente degli Zar; la quale imprudentemente ha lasciato intendere che sarebbe stata felice di concedere le sue grazie e magari di sposare anche un ubriaco, incontrato per strada, piuttosto che vivere in modo stucchevole e insincero con tutti gli uomini che attualmente la corteggiano, incapaci di darle una vera gioia e una pienezza di vita.

Dissimulando a meraviglia con chi è al corrente della sua commedia, mentendo con chi non sa nulla, Ottavio si avvia a soslenere un gioco di bello stile e di mondanità che lo porterà alla fine ad essere padrone del campo, nonché dei favori della duchessa, vincendo persino il Delfino di Francia e un Principe (vero). Ma il disgusto? Alla coscienza di Ottavio la commedia e la finzione cominciano ad apparire insostenibili, e l'apparenza non riesce a vincere--sia pure nella tensione del gioco--la noia che alla fine assale Ottavio insieme a quella specie di fatalità che lo riporta nelle strade di Parigi, povero come prima ma salvo nella sua reale condizione. Ouesta per sommi capi la storia. Che è stata accostata a quella dellEnrico IV di Pirandello o di Felix Krull di T. Mann (Debenedetti), ma che a maggior ragione--rispetto a queste due figure--acquista una fisionomia più diretta nello spiegare i temi landolfiani che già conosciamo; precisamente della differenza sostanziale tra reale e irreale, tra chi è conscio di una sua “parte”e vuole recitarla fino in fondo, a costo di essere malinconicamente monotono, e chi invece non si sottomette a (62) questo destino umiliante e sgomita, dissimula, cambia la sua voce, si nasconde, o s'inabissa, può sapendo di stare mentendo spudoratamente, cosciente anche che questa finzione estrema non solo è un gioco d azzardo, ma è anche la causa prima della sua nullità e miseria. Ma come vi arriva Landolfi? Come riesce a narrare questi temi ossessivi, che pure hanno molto peso e valore nel consuntivo di questa sua opera di analisi autobiografica e interiore? Vi arriva male, secondo il nostro parere.

E come se Landolfi (già è successo in Cancroregtna) sia partito per la narrazione sotto la spiùta dell'emozione, fortissima, attratto dalla bellezza di uno sdoppiùmento che rivestiva benissimo i panni dell'allegoria della propria vita, della propria condizione, ma, messosi in cammino, alle prime righe, il materiale sforzo di narrare quella finzione, di riportare attraverso il gioco delle metafore e della scrittura tutta la febbre che l'aveva percorso durante l'incubazione, d'un tratto, per un incantesimo che non ha molte spiùgazioni pratiche, Landolfi sia poi ricaduto su se stesso, si sia svuotato, scoppiùto come la moglie di Gogol, e si sia affidato alla lucidità di una pratica scrittoria burocraticamente intesa in senso artigianale.

Solo così ... si spiega quella scelta di arcaismi e di pedanterie, di un fraseggio da romanzo d'appendice:

--Monsignore...

--D'un marchesato?

--Monsignore...

--Per l'inferno! D'un ducato?)

o di stilemi da fiabe per bambini che non riescono del tutto convincenti ( “Pensa e ripensa, durante l'elaborata toeletta, alla fine concluse...”, oppure un dialogato dalle battute melodrammatiche che starebbero benissimo confinate nella letteratura d'intrattenimento e d'evasione più scontata e banale (“Vedete che non amo le ambagi: siate anche voi sincero”) e via spigolando.

Occorre dunque distinguere in questo racconto non solo dove Landolfi voglia nascondere il monito o il sugo della sua storia, ma perché‚ sia passato (63) attraverso il melodramma di una lingua forbita e barocca (e non proprio conforme all'assunto), per arrivare a un dramma che è insito nel travagliato “momento” della vera disperazione, cioè del gioco come condanna a inseguire all'infinito una verità che sempre si nasconde e senza posa. Landolfi, può darsi, si è nascosto nei panni di Ottavio, ma fingendo o rifingcndoha perso di vista la vertigine del suo gioco, che era all'inizio gioco d'identità, ma che poi ha finito per diventare gioco solamente.

Nella analisi cronologica delle opere landolfiane, abbiamo volutamente e a ragion veduta tenuta a parte e posposta questa prova de La bière du pecher perché veramente segna un punto fermo nella prospettiva della narrativa dello scrittore di Pico: non tanto per la complessità dei temi che vi si rintraccianoquanto per la crisi e per il dispiegarsi del trauma che qui si rinviene nel quale il lettore trova il riconoscimento e la conclusione di un “caso” letterario dei più alti e dei più prestigiosi della nostra letteratura novecentesca.

Forse il segno dei tempi, il rincorrersi delle varie tendenze nella forma narrativanegli Anni Cinquanta e più oltre negli Anni Sessanta sono andate maturando verso una dimensione di “insufficienza”, (o forse anche la scaduta credibilità con cui la letteratura si presentava al confronto con le scadenze che poneva la vita concreta, sia essa d'ordine sociale che pratico: tutto questo e molto altro) hanno trovato nel Landolfi della Bière un interprete feroce, anche se inconsapevole, così diretto a chiudere dentro i margini di una sua sconfitta la sconfitta e la crisi di una civiltà culturale e letteraria.

La bière du pecheur (pubblicato nel 1953 sempre da Vallecchi) nonché presentarsi come un diario variatissimo, una confessione che tende alla registraziOne di un “io”, sconnesso, dissociato, ma che registra del pari una dissociazione umana ai confini della storia più recente, è la vicenda umanissima di una febbre, di una tensione, di una passione romanticamente intesa, che è appunto quella del gioco. Gioco che qui assume tutte le sfumature che già si erano incontrate nelle opere precedenti, ma che più ancora si riveste, in questo libro, di una carica ossessiva, viene spiegato nelle sue più riposte incidenze, viene descritto nelle sue attrazioni e repulsioni più profonde, fino al punto che diventa protagonista, con la riepiùogazione di tanti altri temi landolfiani, dell'opera completa.

La forma stessa della narrazione diaristica usata da Landolfi s'innesta in quella genesi dell'espressione novecentesca che in quegli anni ha portato al rifiuto della bella costruzione, di tipo ottocentesco, di ascendenza realista e borghese, facendo affiorare la predilezione per una “scrittura igienica” che sta a valle della dissoluzione di tipo simbolista dell'Oeuvre, intesa questa come il Libro Totale, riassunto metafisico di tutta la Storia, la Morale, la Realtà senza tempo del mondo. Vagheggiata come un sogno, diversamente dai grandi del passato, non si è rivelata che una complessa opera di citazioni, un insieme di “reveries” piuttosto che summa della viva esperienza. Il Libro Totale--come in Goethe, in Omero o in Dante-- in cui erano riversati i temi grandiosi della vita e del mondo, e in cui Passato e Presente, Storia ed Eternità, Spirito e Carne venivano miscelati nel complesso disegno del corso di una vita umana, in Landolfi diventa frammento, scaglia d'esistenza, ferita sanguinante, pulsazione che implica e spiùga il diabolico e il divino ma nello spazio breve di una annotazione di una pagina, di una accensione lirica.

Landolfi appunta la sua angoscia, il suo terrore, la sua ossessione, nonché i motivi inconsci che si aggrovigliano nell'animo dell'uomo sconfitto, alle soglie del suo perdersi e del suo ritrovarsi, nella scarna dimensione di un diario, di una scrittura che non è più narrazione, secondo l'intendimento tradizionale, ma non è ancora la dissoluzione completa del racconto, con tutti i suoi impegni retorici o strutturali, temporali o d'impersonale delineazione. Motivi inconsci che gravitano intorno alla grande metafora del gioco, come alternativa di passione e di controllo logico dell'imponderabile al susseguirsi mondano dell'esistenza, ma anche inteso come simulazione e finzione narrativa, dove appunto lo scrittore si abbandona--sia pure nell'autobiografia più cocente, o nella esperienza diretta-- alla confessione della propria e più profonda verità.

Che cosa dunque egli chiedeva al gioco? Era evidente: denaro, oblio di se stesso e di ogni cosa, dannazione, tutto ciò, in breve, che è vile, corrotto abbietto (La bière).

E ancora va riletta quella specie di chiave pratica per la decifrazione del tema, nella “Lettera di un romantico sul gioco” (La spalla), là dove afferma:

“è forse colpa mia, amico caro, se di tutti i doni del buon Dio che dici nella tua lettera io nulla posso godere se non quanto sia sedata questa divorante bramosia, quest'ansito che mi si gonfia dentro e cresce a dismisura e chiede sempre nuovo alimento, quasi un mostruoso animale annidato nelle mie viscere, quasi un bubbone che risucchi ogni mia linfa vitale? E nota, è l'altra aria del gaudioso o ingaudioso mistero, che un unico mezzo v'è di placare quest'empio: perdere.

In breve concepisco ormai l'esistenza sotto l'aspetto del gioco ed essa mi parrebbe vuota più di quanto non mi paia ove questo mi mancasse (non vituperarlo dunque: m'aiuta a vivere). Ora, tu ,parli di raggi di sole di volate di rondmi, dl piccoli gatti. Ebbene, son queste viste e questi sensi, forse, tante edizioni del cielo; ma come si potrebbe goderne, mi chiedo affannosamente a tanto, così, per esse stesse? ... Come si .potrebbe se non in relazione a qualcosa d'altro, di diverso, d'opposto se proprio ti piace? O, a dovere usare le parole che il volgare ha consacrate, come può un puro godere della purezza e un peccatore del peccato? Io peccatore godo ad esempiù, della `purezza ch'è il gioco, e voglio dire, insomma, che solo a chi esce dal baratro infernale possono apparire vergini le stelle.

Peccatore che trova nel gioco la sua “bara”, dopo l'inferno della sua condizione dissociata, dove l'inconscio è misto di terrore e di paura, ben sottolineata in questo libro dalla morte dell'uomo steso sull'asfalto, morte vista nel sangue sventagliato sulla strada, a cui fa da contrappunto quella violenta del cane Mao. Inferno conosciuto nelle sue più misteriose volute, da Landolfi descritto nella Bière in modo mirabile:

Sempre io mi son voltolato e rivoltolato nella vita “come un ammalato smanioso nel suo letto”, anche mi somiglio a quelle farfalle notturne sorprese dalla luce o dall'agonia che rimangono a sbattere disperatamente le ali sui nostri pavimenti. Donde dunque, se questo è il mio stato naturale, la particolare e totale mancanza di forze, il vigile spavento?

E ancora:

Ella viene sull'ora delle mie serlanie, dei miei languori, quando in me si ridesta la bestia sconosciuta, non furiosa, anzi lenta e viscida, che mi comunica il suo attonimento, la sua impartecipazione, la sua incomprensione della realtà circostante.

Infine:

I1 vero inferno è una cosa senza rumore. Esso non delira o infuria, non è una bestia feroce, ma un che, un qualcuno di sordido e molle che si insinua in noi, quando con noi non nasca, e a poco a poco riempie tutte nostre cavità, fino a soffocarci. Esso è fatto di giorni inerti (chimicamente parlando), d'infedeltà a noi stessi, di continui cedimenti.

D'altra parte Landolfi ce lo spiega in modo preciso, là dove cerca nella lettura di un “trattato di psichiatria del signor Kraepelin” ciò che in fondo egli sa molto bene: il suo male oscuro dunque non investe solo la sua vita reale, il suo modo di disporsi di fronte alla realtà, la sua dissociazione quieta, quasi lucida, ma anche la sua impossibilità di trasfondere o di affidare alla scrittura la vera portata della sua vocazione, in un misto di creazione come riscatto da quell'inferno, o di confessione diabolica, come in questa Bière.

Senza più maschere o “personae”, a cui affidare la sua commedia, Landolfi è uscito allo scoperto, con crudeltà, con pudore, con commozione e ancora col suo gioco letterario, ma più dimesso, ora, attento a non “sfuggirsi” per l'ennesima volta, senza civetteria, ma con molti dubbi da diradare in un passo obbligato, quello della sincerità, che Landolfi conosce bene, ma che non sa percorrere fino in fondo: l'aspirazione a cercare se stesso nell'autentiticità dell'espressione, non è mai stato un compito facile, men che meno per il Nostro. Egli nella Bière ha abbandonato il personaggio, il discorso aulico, la retorica dannunziana della perfezione sintattica e magniloquente: il romanzo diventa diario biografico; vi è narrata la disordinata vita di un giovane dissipatore di beni e di quattrini al gioco, intricato sentimentalmente in una teoria di affetti e di amori per diverse donne (Ginevra, Adele, Anna, Bianca--tutto un campionario femminile sul quale torneremo), percorre dissimili strade, ma che portano inevitabilmente dove si sente il sapore sulfureo della bisca, dell’azzardo, per poi uscirne avvilito, livido, in certe albe scolorite e slavate, colore della cenere. Così che il libro segreto del protagonista diventa il brogliaccio sentimentale di una sconfitta esistenziale, dove Landolfi fruga, attraverso l'indagine in prospettiva, il suo labile esistere, sempre vinto, mai concluso in nulla di fatto e di concreto, così come vorrebbe un'etica borghese che ormai da tempo lo scrittore ha rifiutato. E nel diario appunta la libera redazione dei suoi disegni, la volontà di registrarsi in ogni attimo, ma anche in ogni moto d'animo, sinceramente, riempiendo ... ne il senso materiale di un libro, dove in ultima analisi l'intenzione era appunto quella di scrivere senza piani preconcetti, senza propositi aprioristici, ma piuttosto colla volontà di fermare l'attimo di una esperienza nel suo farsi.

Eppure, già sappiamo che per Landolfi il continuo controllo sui minimi atti e pensieri e propositi raffredda con un guizzo gelato ogni entità di genuino incanto e abbandono: “Come si fa a vivere se si ha coscienza minuta di tutto quanto si opera o si dice o persino si pensa?” Il punto della “nevrosi letteraria” di cui parla Sanguineti è proprio qui.

Mangio una mela, poniamo; e sento la voce vigile: tu stai mangiando una mela; e via ,per tutto il resto.

O ancora dovremmo pescare in quella citatissima frase della scrittura “falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, ecc. “. O ci verrebbe in aiuto il brano dove il narratore parla di certi scrittori “che tiran sù un romanzo in quattro volumi, giungendo fino a riscriverlo sette volte”: punti che avvertono ciò che sta ormai crescendo ai confini dell'universo landolfiano, sia pure in forma ambigua, com'è ambigua la scrittura, o il titolo del libro (BIRRA DEL PESCATORE / BARA DEL PECCATORE ) . E ciò è molto chiaro quando si riesca a vedere, oltre i fatti narrati, sia in terza per diletto o per scherzo, sia in prima, il senso ultimo della posizione tecnica dietro cui si regge la struttura della Bière: “l'impossibile in letteratura” diventa allora uno schermo irridente alla stessa scrittura, tanto da costringere lo scrittore a nascondersi e ritagliarsi nel vivo della narrazione dei cantucci asettici, in cui Vivere al di fuori della finzione o irridere, secondo i canoni del metaromanzo, ciò che si sta provando e svolgendo nella seriosità del testo e della narrazione vera e propria. Ed è questa la conquista più schietta—a nostro avviso--del romanzo landolfiano che chiude una stagione e ne inizia un'altra, molto aperta ai motivi del nostro più vicino sentire, anche se meno conclusiva o del tutto fallimentare in quei volumi dove Landolfi vorrà riprendere la narrazione secondo gli schemi usuali. tradizionali, come nel romanzo Un’amore del nostro tempo, o più ancora nei racconti degli Anni Settanta.

La Bière ci indica comunque sotto quale segno si svolga l'esistenza nel tempo storico che implica la crisi più profonda dell'organizzazione psicologica e morale dell'uomo contemporaneo: la vita, in questo diario landolfiano, è vista come scommessa, gioco d'azzardo, continuo rivolgimento di destino, mai compreso a fondo o previsto anche nelle sue più piùcole deviazioni. Per Landolfi il gioco d'azzardo diventa ritmo della vita, un ritmo spezzato, con ritorni e fughe, soggiorni brevissimi, partenze improvvise: e in questo vagabondaggio si distrugge ogni legame con gli affetti, ogni passato può ritornare con l'invadenza del ricordo o può cancellarsi definitivamente, sotto il segno incipiùnte e tragico del pensiero dominante della morte. Lo stesso gioco accompagna la negazione di ogni legame, con il suo imporsi nelle pause deliranti d'attesa, di una pallina che tiene sospesi, o di una carta che indugia a mostrare il suo volto: e in questo spacco, in questa lacerazione, la tensione conoscitiva della nostra vita, così com'è, con quell'abisso sempre pronto ad accoglierci, e pure lusingante anche nella sconfitta, col suo cedere a noi attimi di azzurro, di voli, di trepiùazione, di refrigerio dopo il buio della violenza o del peccato, ma che, secondo Landolfi, è misura del bene e della purezza.

Chi tiene presenti gli sprazzi narrativi delle notti in cui il protagonista si accinge al gioco, a Firenze, prima, con quel soggiorno in casa dell'amica Adele, preparato convulsamente dalla vista del morto steso sull'asfalto; e poi ancora a San Remo e di nuovo a Firenze, con quei ritorni smagati al chiaro del giorno, in cui si sostanzia quasi un ritorno alla vita, alla luce, dove tutto sembra stranito, opaco, immobile, e dove il giccatore non si ritrova che al fondo di una sua perenne sconfitta, morale

ed esistenziale: chi terrà presenti queste pagine lucidissime e intense, non potrà non avvertire la bellezza di questo libro, la levità tutta novecentesca di queste cadute, di questi riscatti nel segno proprio dell'alternativa confusa e duplice della scrittura, del metodo d'indagine, della narrazione diaristica.

Ma la Bière, oltre a ciò, contiene anche molti altri temi del “gioco” narrativo landolfiano. Tutto il campiùnario femminile che già avevamo incontrato nelle opere precedenti del Landolfi, da Maria Giuseppa alla donna bionda della “Piccola Apocalisse”, da Lucrezia del “Mar delle blatte” a Gurù de “La pietra lunare”, qui si rinnova e ritroviamo altri esemplari, dei più perfetti, come Adele, dolce musa che accompagna con una nota di pietà e di comprensione il “signor Mollusco” nelle sue scorribande tra una città e l'altra, con “i suoi grandi occhi azzurri, puri ancora e quasi infantili, anche nella prepotenza”: una figura piena di vitalità, di genio della prassi, ma dolce ed accogliente nelle sue braccia anche nella negazione e nella lassitudine. E ancora Ginevra, scattante e dura, di tempra borghese; e poi Anna e Bianca. E ancora, rispetto ai temi, quello stupendo della “grande” e “vecchia” casa di provincia; un motivo che sta al fondo della narrativa landolfiana come emblema di rifugio, di asilo dopo la sconfitta con le prove della “realtà” mondana, di abbandono d'ogni velleità e lotta con il mondo degli uomini, e dove Landolfi ritrova i suoi fantasmi, il senso di una vita “rivissuta”, rivista come in una sequenza di immagini che si svolga al contrario e mostri gli avvenimenti, i volti e i gesti del passato, pescati dalla memoria come sostanza di una riscrittura. La “casa”, anche, come rifugio dalle tempeste non solo concrete e naturali, ma spazio che ripara dall'insidia, dalla nausea della finzione nei rapporti sociali o della scrittura “falsamente concreta”, principio anche di uno spazio interno che può evocare confusamente nostalgie uterine, con quel senso di protezione impreciso e ambiguo, colmo di ombre e luci, ma dolcissimo nel donare la certezza dell'abbandono e del distacco da una realtà opprimente. “Archetipo” di un “labirinto in cui il protagonista si aggira in cerca della propria "anima" junghiana (Sanguineti), “casa-anima”, dunque, che istituisce il rapporto vincolante con gli antenati, con i propri simili, con se stesso. Una maschera, pure, che rappresenta una figura sociale, e dentro i piùni, le stanze, le soffitte, i fantasmi di una leggenda personale che fa emergere funzioni inconscie, intime, con la corrispondenza tra limiti interni ed esterni.

“Gran casa vuota e cadente”, “crollata più che per metà, e che seguita a crollare un poco ogni giorno, in cui il vento si insinua gemendo, sufolando, facendo garrire le pendule tappezzerie“ che accoglie il protagonista della Bière nei suoi sfoghi di una superstite passione: “non vivere”. O anche la casa di Giovancarlo (ne La pietra lunare) “deserta”, “d'ogni parte isolata in mezzo al grande giardino; a chiamare aiuto con tutto il fiato dei propri polmoni, se la disgrazia si fosse abbattuta su questa casa, nessuno avrebbe udito. A chi in tali notti tempestose l'avesse guardata dalle abitazioni oltre il giardino essa avrebbe presentato un ben funesto aspetto; tetra sotto le nuvole gonfie e nere, fra l'ululato del vento e il torcersi degli alberi bagnati” alberi che sappiamo (dal racconto “Briciole” di Ombre) non essere altro che le “quattro casce”, acace fiorite del giardino, simbolo (71) della vita di Landolfi, secondo la poetica ma funesta spiegazione del padre anche queste legate alla casa in un rapporto di significati profondi e sottili.

Ancora la figura dell'asilo provinciale rinvenibile in “Maria Giuseppa” o nel racconto “Ragazze di provincia”o in “Mani, soprattutto in mani” dove il labirinto dei piani inferiori non solo rappresenta lo schema di una mappa inconscia ma vi si rinvengono le lotte furibonde, i grovigli sanguinanti degli insetti e degli animali misteriosi che agitano la paura imprecisata dell anima landolfiana, con quel terrore della violenza e della tortura, delle vertigini della morte in agguato, così come viene dall'indicazione della convulsa lotta tra il cane e il topo raccontata mirabilmente dallo scrittore.

Il motivo della “casa” apre dunque spiùagli su tutta la vicenda della tere, come su gran parte dei racconti e romanzi di Landolfi, che riprende con sempre rinnovata forza quel tema, come uno dei più sentiti e genuini e a propria narrazione e invenzione. Nella Bière con un significato molto preaso, attento a decifrare non solo gli interni e più riposti motivi del rifugio dopo la dannazione, ma del ritorno all'oasi spirituale dopo il gioco e a finzione, della duplicazione e dell'ambiguità.

Una riassuntiva disamina delle varie direzioni landolfiane negli Anni Sessanta non potrà trovare maggior spiùco che nella dimensione del gioco, cos come ci viene mostrata nella Bière, libro che chiude il primo periodo a narrativa di Landolfi, e ne apre un altro, più tremante, più sconcertante, forse per le tematiche legate all'uomo Landolfi anche più vere, ma segno di una crisi profonda dell'ispiùazione e della genialità inventiva.

I troppi motivi scandagliati (dalla fantascienza alla diaristica, dalla trascrizione surreale all'invenzione metafisica) non potevano non saturare una qua ita fabulistica che all'inizio aveva dato prove così qualificate, fulminanti, “ classiche”: il ripiegamento doveva mostrare i suoi segni, non solo per l'evolversi delle ragioni profonde aderenti alla cronologica esistenza dell'uomo Landolfi, ma soprattutto per il disseccamento di una ispiùazione, un tempo legata alla rivoluzionaria visione giovanile, che gli anni hanno frustrato, con la realtà e con lo svolgimento interno di una remissione spiùituale. E il gioco di un asseveramento a troppe voci, la sminuzzata attenzione a molte inclinazioni, rimbalzate in svariatissimi racconti, in prose poetiche, in pezzi di bravura, non potevano lasciare il segno anche nella più robusta tempra di narratore, maggiormente e diversamente in Landolfi, partito in diverse direzioni, sia pure con il controllo di una genialità che sapeva mascherare nella dizione “intelligente” anche le più distaccate posizioni e i più riposti significati, ma che alla fine hanno portato a una consuetudine narrativa automatica e meccanica.

L'autorizzazione a queste conclusioni ci viene proprio da un folto panorama di racconti e romanzi che il Nostro è venuto pubblicando dagli inizi degli Anni Sessanta: maggiormente da quella riepiùogazione delle più qualificate prove che stanno tra il 1940 e il 1950 e che sono confluite nel volume pubblicato da Vallecchi, I racconti (1961), nel quale l'intendimento di ribadire e riassumere i segni di una prestigiosità inventiva, lascia emergere quasi il senso di una codificazione o di una rivisitazione in chiave laudativa, proprio nel momento di maggior travaglio e di minore invenzione del Landolfi più recente.

A quel volume vallecchiano, inoltre, è da giustapporre l'altro, che apre gli “anni del benessere”, e che ci sembra lo specchio fedele di una involuzione landolfiana: intendiamo se non la realtà (Vallecchi, 1960) che raccoglie “i foglietti di viaggio” apparsi puntualmente sul “Mondo” di Pannunzio e che nel volume acquistano un significato preciso nel contesto di tutta la produzione di Landolfi. In Ombre 10 scrittore aveva dichiarato, a mo' di commiato, che “ Non hanno più meta le nostre piùre passeggiate, se non la realtà”: dichiarazione che si legge in incipiù al volume del 1960, e che segna un (73) approdo concreto ai margini di una realtà sempre fuggita dallo scrittore, come a faccia contrapposta di una divagazione che negli esiti più acuti aveva costltulto la sostanza e il significato di tutta una stagione narrativa.

Al contrario in se non la realtà, Landolfi ci narra gli esiti delle sue più svariate apparizioni e ricognizioni nelle varie contrade italiane: gli appunti sono stesi con la consueta lievità e freschezza degne del migliore Landolfi raccolgono appunti di viaggio, impressioni di soggiorni, schizzi di città e di tipi umani incontrati, ricordi delle sensuali approssimazioni a diverse dimensioni umane, in alcuni capiùoli siamo addirittura introdotti nei rapporti temporali fra una antica regalità storica e un presente dissipato in gretto abbandono e in squallida indifferenza; ma sono prove minori, nelle qua i quasi sempre appare un Landolfi sorridente, ironico, temerario nell’interrogazione, comprensivo nella delineazione delle figure e di certi scorci paesaggistici di maggior presa sentimentale. Se non la realtà è un i ro che raccoglie contrastanti aspetti della “realtà” geografica e umana e nostro paese, ma inclina sempre più a una nota malinconica che è in opposizione alla spavalda libertà inventiva del Nostro, appunto a quella nota contrastante che era stata forse la causa prima e la spinta feconda per i viaggi ben più arrembanti e coraggiosi che ci sono stati presentati nei racconti degli splendidi anni d'inizio, e che qui trovano una dimessa veste interrogativa, articolata in incisi, esclamazioni, di un Landolfi fin troppo umano, ma meno vivo di quello più vero dei disegni surreali e simbolici degli Anni Trenta e Quaranta.

La predizione di Vittorio Sereni--che paventava un'involuzione biografica--si attua puntualmente già in apertura del 1960, puntualmente se non la realtà, dove alcuno potrà trovare pagine limpide o espressioni dove viene addolcita da una riconosciuta sconfitta tutta umana: ma che tuttavia enuncia già quella svolta ineluttabile della confidenza, dello sfogo della relazione scritta di una metamorfosi spirituale, capace di ispirare i diari (“Rien va”, “Des mois”) ma non certo la belluina e grottesca delineazione offerta da Landolfi negli anni d'esordio: là dove appunto anche la confessione era invenzione, tratto espressivo di una natura ferita, seppure mascherata sotto le sembianze del gioco e dell'irrisione blasfema. Il periodo che si apre, al contrario, colla raccolta dei “foglietti” di vlaggio e un periodo che potrà apparire a molti indicativo di un ripiegamento splendido, avvincente, che mostra un Landolfi più umano, ma che alla fine nasconde l'usura di una meccanicità e di un artificio, anche quando lo scrittore ha impennate geniali e percorre itinerari di folgorante intuizione; è azzardato riconoscere lo spegnersi di una verginità ..., e imposta domande sul mondo e sulla vita e le avvolge di ipotesi, anche più assurde, anche le più sfrontate, e le risolve con la cleazione, soprattutto. Al contrario da qui in avanti quella verginità lascia il posto a un progressivo filosofare, viene accantonata da una logicità fredda se pure inquietante. I diari e le prove teatrali e ancora i racconti (anche se alcuni splendidi) ci parlano di questa maturità raggiunta da Landolfi. Ma e una maturità che soffoca le spinte più scintillanti dell'invenzione, e ci mette davanti l'uomo inerme, il confuso e disperato autore in cerca di se stesso, ma del se stesso scrittore geniale di un tempo scorbutico, ferito, prestigiosamente nascosto dietro la propria invenzione come dietro a una finzione affascinante, tuttavia vera e accattivante come non mai.

La condizione umana che esce dalle pagine landolfiane di questi anni, soprattutto dei diari, e più ancora dai rari racconti che rinverdiscono l'ispiùazione più schietta di Landolfi, è una condizione che in né.odo esemplare viene chiarita dal racconto d'apertura del volume In società pubblicato da Vallecchi nel 1962. “La mattinata dello scrittore” è un racconto che sottolinea la disfatta, la spiùtata analisi di una posizione di transizione dello scrittore-autore, e dell'uomo in conseguenza, che nella fede della scrittura non trova più la sostanza e il piùcere della sua progressione.

Smontando il meccanismo della sua arte, come l'autore poeta del racconto, Landolfi smonta i sensi nascosti e le profonde prerogative che stanno alla base della creazione e dell'invenzione. L'esercizio diviene paradossale là dove raggiunge le piaghe più nascoste dell'automaticità, della pietà...

(76) Ma come non domandarsi allora il perché‚ di questa ripercorsa, di questo volgersi al passato, che già porge un suo patrimonio di “testi” perfetti, e non tentare le prove di un'invenzione attraverso il sondaggio di una categoria meglio attuale, legata all'impegno, alla vita, al destino dell'uomo? Il fatto è che lo scontro frontale di Landolfi con la rea ta, trova negli Anni Sessanta una realtà cangiante, multiforme, struggente, sgretolata nelle sue indicazioni, disancorata da ogni possibilità di vero e da ogni benché‚ minima condizione. La realtà della vita sociale, o lo sconvolgimento già da tempo avviato dalla “cultura seconda” o scientifica, ha posto l'uomo ormai di fronte a problemi così intensamente attuali, che baloccarsi nelle più retrive apparenze d'interpretazione diventa scontata e scaduta ipotesi. Landolfi inizia dunque la sua ricerca della realtà quando questa ha già ultimato la sua parabola integrale i in icazione umana: contestazioni, violenze, guerre di tensione ideologica, e sperimentazioni avanguardistiche hanno già minato alla base non solo e strutture di un'antropologia possibile, ma anche quelle d una letteratura emotiva, sensibile, naturalista. Lo scrittore di Pico si volge alla vita quando questa rifiuta ogni ordine, ogni comprensione, ogni illuminazione l’orientamento ricercato nello scontro frontale col vero, nella posizione di dispiegamento di una civile storia dell'uomo, si riassume nella disfatta e nello smacco di una impotenza già avviata in altri continenti da autori ormai classici in questa frangia storica di cultura umana: alla sicurezza della scienza lo scrittore risponde con la tremante angoscia del suo spirito, con la dissoluzione di una sua logica interiore. L’esistenza e già divenuta un feticcio, un'entità astratta, e d'improvviso l'uomo si trova “fuori”, atteggiato eternamente in una smorfia automatica, in un “cliché” relativo e finito che lo sospinge alla voluttà del nulla, della morte. Artefatto e irreale, l'uomo resta prigioniero di se stesso, tributario degli altri, bruciato dalla sua stessa ricerca a perdersi nelle ragioni della vita, del mondo.

Landolfi inizia la sua “pura passeggiata” verso il reale quando questo ha già preso sembianza di sconfitta: e si accorge--dall'altezza di una sua invenzione così pura, così totale, così amata e sognata come già era accaduto di raggiungere quando rifiutava il mondo e le sue anacronistiche tentazioni, si accorge ch'egli è un demiurgo fallito, illuso, che ha mancato l'ultima prova, quella con la propria vita. I suoi racconti del decennio 1960-70, specie I tre racconti (Vallecchi, 1964) i Racconti impossibili (ivi, 1966) infine quelli di Un amore del nostro tempo (ivi, 1965) sono la testimonianza di una creazione incoata, impossibile, oltraggiata dalla atalita di una riconosciuta impotenza a descrivere “quella” realtà, o a volgersi indietro per ripresentare antichi temi che ormai il tempo attuale rifiuta e non giustifica. Bisognerà tener conto, in sede di bilancio e di valutazione delle opere di questo periodo, i diari, certo, come introduzione viva a questo accadimento narrativo, quei diari che sembravano sedare obiezioni, taatare ritrosie, interrogare un'ultima speranza come antidoto a un'angoscia di fondo che affiorava da quel rivolgimento landolfiano verso la prassi e verso una connessione anche tenue con la vita. I temi stessi--annotati ossessivamente, con un'ironia funebre, quasi voluttuosamente fermati in una successione cronologica a testimoniare quella crisi di adattamento--non esulano da quella impotenza a vivere che Landolfi ha sempre proclamato fin dagli esordi, ma che sono diventati di costante applicazione. presenti fin nelle prove dove egli riesce a mascherare col sarcasmo la dolente insufficienza della sua forza a trascinare una vita perduta. Ma al di là, o meglio oltre quei diari--sui quali torneremo--la trascrizione della passione landolfiana si muta in empiùo meravigliato e sentimentale, ripiùgamento verso la pietà, ma in un accostamento sempre plù teso alle istituzioni, a un ordine giustificato dalle buone intenzioni, che non possono nascondere la sua natura esplosiva, irriverente, beffarda, in cerca di una esperienza sempre diversa dalla consuetudine, forse un poco nichilista, ma tale da portare verso estreme conseguenze anche il più piccolo accadimento, gesto, figura espressa o narrata.

Landolfi insomma tenta nei racconti degli Anni Sessanta una ricongiunzione con lo spiùito che l'aveva animato nelle prove più mature, e di quelle ricalca le orme, con ben altra forza e persuasione, anche se in alcune prove con la stessa intensità e con il piùlio costruttivo e architettonico più distaccato e meglio padroneggiato. La prova più idonea che può avvalorare questa sensazione, si ha proprio nei Tre racconti, soprattutto nel primo, “La muta”, che in effetti appare una narrazione compiuta, dal giro perfetto, dall'emozione contenuta e che tocca uno dei temi cari al Nostro, l'amore assoluto senza remore e senza legami con la consuetudine tradizionale.

La quindicenne amata da un maturo intellettuale, e poi da questi uccisa, viene tratteggiata nelle pagine del diario che quest'uomo, chiuso in carcere, tiene segretamente: diario che ricostruisce i motivi dell'uccisione, ma anche le forti attrazioni e gli estremi tentativi di possedere quella ragazza in un modo totale, senza inganni di parole, in una condizione ideale, essendo la fanciulla muta, per sentire la forza di una passione nei suoi termini più rigorosi e perfetti; tanto che l'uomo la uccide forse per fermarla in quell'attimo di purezza, nel suo muto amore e nella sua conclusa esperienza. O forse trascinato da una forza istintiva che tentava di penetrare in quel famoso mutismo, in quella perfezione fisica, come dentro un segreto della creazione della natura? Questo cerca di capire l'uomo, scrivendo il suo diario: ma si accorge che la sua azione, necessaria e terribile insieme, non è altro che il risultato di una conoscenza impossibile, a cui tocca una condanna come a chi tenta di violare una verità oltre umana. Un tema landolfiano, come pochi. Ma la tensione che una tale ricerca attua si sbriciola a contatto con il linguaggio, retorico, tutto contrappuntato di interrogativi, con recitativi e dialogati che portano fuori dall'emozione, rilassano quell'attesa che la condizione invece sembra sempre richiamare. E quell'accostare idea a idea, moto a moto, enunciazione a enunciazione, lasciano alla fine un segno amaro di scoperta della finzione; così che continuamente la perfezione dell'intuizione narrativa si frantuma a contatto con questo rimando incessante a una condizione spirituale dello stesso Landolfi, in un riflusso ossessivo dell'autobiografia, della ricerca landolfiana che traspare dalle situazioni e dai personaggi, senza riuscire a trasfondersi con perfetta misura nella narrazione.

Ancor più evidenti questi difetti appaiono negli altri due racconti, “Mano rubata” e “Gli sguardi”: dove, nel primo, ritorna il senso del gioco come tramite che dovrebbe condurre a una conoscenza oltre i limiti umani, per mezzo di una passione trasfiguratrice portata alle estreme conseguenze. L'altro racconto annovera l'adesione a una “differenza” rispetto agli istituti canonizzati da una società (come la famiglia), perseguita da Landolfi tramite una “diversità” di condotta che si oppone al senso comune, per rientrarvi, alla fine, con più desolazione e amarezza.

“Mano rubata” propone un'alternativa tra il denudamento e il suicidio, per chi soccombe al gioco del poker. Nella sfida s'intreccia una sottile contesa amorosa tra il giovane protagonista e Gisa, una creatura stupenda che non cede alle regole del gioco e non si spoglia, dopo aver perso ma sceglie il suicidio. A questo punto Marcello rivela tutto il suo amore e decide di spogliarsi anche lui nudo, per salvare la ragazza, annullando, con la sua “mano rubata” al gioco, quell'alternativa. Il finale è tutto di marca romantica, con sottofondi di confessione e di frasi d'amore poco credibili (“Senza rispondere la trasse in furia, felice e disperato”).

“Gli sguardi” narra, in forma diaristica, la metamorfosi interiore di un marito che si sente attratto da una fanciulla, ricambiato. La decisione di abbandonare la famiglia e seguire quel nuovo sentimento amoroso rientra e si placa quando l'uomo riconosce alla sua tentazione un che di “diverso”, di artefatto, e rientra docile tra i suoi cari e tra le proprie abitudini, denunciando nello stesso tempo la sua insufficienza a derogare da certe norme comuni.

Come si può vedere, sono queste prove modeste, può nell'intelligenza e nella delineazione di una geniale provocazione, che vengono attuate per mezzo di una forma stancamente discorsiva, diaristica o volutamente adorna di locuzioni affatto credibili. Il vezzo esornativo o il ricorso alla suggestione delle situazioni un poco anodine, non acuiscono in minima parte il senso di disagio nel lettore avvertito--che gli pare di ripercorrere cammini già noti--e, può avvertendo una tensione drammatica negli epiùodi di maggior spicco, sente di riconoscere il Landolfi diarista della confessione e dell'abbandono, volte queste ultime in strutture narrative (80) che non riescono a definire uno stacco preciso tra l'oggettività del tema e la mano disegnante dello stanco pittore. L'eccezione risiede senza dubbio nel primo racconto, “La muta”, dove rari bagliori d'invenzione e di dominio della materia riescono a cancellare l'intervento autorevole dello scrittore, può permettendo di riconoscere il Landolfi più grande e felice.

Una prova ulteriore di questo scadimento, può con tutte le riserve che bisogna concedere a un narratore così eccentrico com'è stato ed è Landolfi, si ritrova nel romanzo pubblicato nel 1965, sempre da Vallecchi, Un amore del nostro tempo. Titolo quanto mai significativo per denunciare al contrario, così come lo affronta Landolfi, un tema che del nostro tempo (Anni Sessanta) non ha tutti i connotati, ma assume le sembianze di un tempo landolfiano procline alla tenerezza, alla chiusura totale dei propri sensi in una gelosa ritrosia e purezza. L'amore che ci narra Landolfi è un amore incestuoso, che si gonfia progressivamente, e irretisce due giovani fratelli, Anna e Sigismondo, giorno dopo giorno attenti a questo legame affettivo che cresce e non lascia respiro. Anna avverte che l'antica sembianza del padre morto, verso cui lei nutriva sentimenti ambigui, viene sostituita dal fratello Sigismondo, con più spavalda sicurezza, con baldanza romantica che nega e tenta di eludere le consuetudini mondane del vulgo, promettendo alla giovane sorella un abbandono e una protezione totale, anche se fuori dalle regole civili e morali della società in cui vivono. I due giovani infatti lasciano il paese, la vecchia casa di provincia e partono verso un'isola del Sud, dove hanno modo di dar libero corso al loro più sfrenato amore. Estranei e lontani dalle convenzioni umane, dai tabù sociali, giungono persino a procreare un figlio, estrema propaggine di una colpa vissuta fino all'esasperazione e all'inquietudine. Ma il tedio e i rimorsi a poco a poco fanno breccia nelle anime dei due fratelli-amanti e li costringoo a un ritorno malinconico e tormentato alla vecchia casa, un ritorno che ha tutta l'aria e il sapore di una sconfitta o di un rientro nelle norme che un tempo avevano sconfessato.

L'eccezionalità di un amore siffatto, tuttavia, serve a Landolfi per riprendere le fila di un discorso di trasgressione, di rottura, di frontale opposizione alla realtà e alla convenzione sociale: un discorso anche di esemplare sconvolgimento d'una realtà inferiore, o che Landolfi reputa ta e, ma che alla fine risulta un'esercitazione in più per dimostrare a se stesso a quali profondità assolute voglia arrivare e può attingere la sua sensibilità, che non può più adeguarsi ad altra banale scaduta ma sale al contrario verso altezze intoccate, spasmodiche e laceranti, atroci e tormentose, appena un filo di ebbrezza romantica laceri il velo della finzione reale, della convenzione tradizionale, della consuetudine logica.

Ma i risultati--ovviamente--parlano contro Landolfi, almeno in questo romanzo. Il lessico e la sintassi da esteta (come afferma lo stesso narratore), le scelte e le costruzioni di stampo dannunziano non salvate da un'ironia beffarda, ma assunte come termini seri di una struttura narrativa; le costruzioni ellittiche accettate come forme retoriche di un virtuosismo espressivo, piùttosto che come deliberate affermazioni di sarcastica irrisione; la pompa verbale impiùgata con cocciuta persistenza e mai miti gata da una contromisura di forzata rottura (se non in poche occasioni come nella trovata del raglio che rompe l'incanto di un orgasmo passionale degli amanti nel loro primo possesso): tutto questo sottolinea l'impressione i un Landolfi che ascolta se stesso, di un artificio ancora perpetrato agli anni di un benevolo uditorio, degli estimatori più accaniti, alla fine si potrebbe pensare a una beffa landolfiana o al bizzarro umore provocatorio, eccentrico. Ma è troppo vero e preso sul serio quel suo girovagare nei pressl dannunziani, quel suo ammiccare contrapposto a una seriosità dell'impegno espressivo, per farci ammettere che Un amore del nostro tempo sia un romanzo compiùto e valido. Resta il tema della casa a confortare la e usione di una mancata promessa narrativa; il tema di quella specie di “Ventre capace” dalla quale nulla se non di bene poteva venirci, l'alvo materno che mai a nessun altro si sarebbe aperto con tanta occulta e paci ficante persuasione” e dal quale “avevamo spesso attinto forza non condizionata, ignara della grazia di Dio, per grazia di Dio non bisognevole di motivazione; forza, forse coraggio da sopravvivere”: tema che in questo romanzo si perfeziona nella sua interezza e profondità, e che lo pone come nuova ricognizione intorno al vero e più tormentato dramma della rinuncia landolfiana a scoprire nel mondo una ben che minima identità e adesione.

E se ci soffermiamo ad analizzare partitamente il discorso improbabile di questo romanzo ci parrà più vero, di più singolare progettazione la raccolta uscita nel 1966 dei Racconti impossibili, dove lo scrittore di Pico ritorna al dilemma irrisolto dell'incapacit… verbale a contenere non tanto il senso della vita, o della realtà, ma della stessa misura dei sentimentl umani, come segno di un “esserci” quale coscienza e sostanza morale. L’illusione di immettere in un meccanismo controllabile come le parole tutta la gamma dei sensi, visioni, manifestazioni reali è sempre stata dal Nostro derisa, schernita, per una disposizione a rompere l'incanto arbitrario di una spiegazione troppo plausibile, troppo qualunquista. Landolfi ha sempre riconosciuto al suo dettato narrativo l'inclinazione a mediare—attraverso l'intelligenza o la fantasia sfrenata--quella incapacità di resa, di pura enunciazione, insite nel discorso verbale, ma piùttosto tentava di immetterlo sul piùno del gioco, di scommessa, come destino ultimo che cercava di supplire in forma paradossale o grottesca alla tragicità e alla drammaticita di quella impotenza. In questi “racconti impossibili” ci dà un ulteriore esempio della sua bravura, proprio là dove riesce ad imprimere al suo gioco un crescere d'ipotesi, verificate sufficientemente con effetto, ma dalle quali non solo lo scrittore emerge con la sua limitazione, quanto con una massa di altre domande che sembrano soffocarlo, ma che sintetizzano in modo chiaro dove risiede il rovello e la poesia più vera del maggior scrittore dei nostri anni.

Landolfi si potrebbe racchiudere in una formula, già ipotizzata da molti, o nell'immagine del pudico narratore che scambia nella vita la realtà col sogno. E nel sogno mostra la faccia drammatica, fosca, romantica, che lo porta all'enfasi, alla retorica, alla mostruosa proliferazione delle più terribili visioni. Al contrario, nella realtà…, gioca, si fa beffe del mondo, giunge persino a scherzare con la materia e la sostanza che più gli sta a cuore, come la letteratura e l'espressione. Difficile scindere queste due sembianze: ma se alla prima si fanno risalire alcune delle più perfette sue invenzioni, come Mar delle blatte, La pietra lunare, Dialogo dei massimi ststemi, La spada e all'altra alcuni racconti, i drammi, o questi Racconti impossibili, e poi i diari degli Anni Sessanta, si potrà forse avvicinare con meno tremore quel suo simulacro sempre spostato in avanti, sempre irraggiungibile come la sua tendenza lo vuole, cangiante e vero, cinico o incline alla pietà.

Nei racconti del 1966, allora, si potrà assistere a tutto un susseguirsi di fantasmagoriche prove di voce, che tendono massimamente a trovare quella vera, quella reale, seppure minore: l'impossibilità di una pura ed assoluta verbalizzione del mondo.

Gli scherzi minuti (“Pavo italicus”), le tentazioni dell'abnorme (“Un destino da pollo”), le variazioni sul tema vita-morte (“Un concetto astruso”), le prove fantascientifiche (“Quattro chiacchere in famiglia”) e ancora l'intreccio “giallo” (“A rotoli”) che Landolfi saggia in diverse forme, ma che si possono ricondurre a una forma già nota ai lettori del Nostro, come quella del “teatrino”, mostrano un intento narrativo che --in terza persona--raggiunge la corrosione e la demistificazione, quando al contrario lo scopo ultimo era quello di mettere in chiaro a se stesso le ragioni più profonde del fare narrativo

La chiusura che Landolfi dà alla fine del volume, chiarifica tutto il libro e offre una chiave di lettura in forma ironica; ma presa alla lettera è una ichiarazione di poetica dell'impossibilità, della fallimentare contradizione che cresce nell'animo dell'autore quando si accinge, come qui, appare il racconto del racconto: “La vera conclusione del mio discorso potrebbe essere un puro e semplice miserere per l'anima di un tale sciagurato”.

Dove sciagurato è da attribuirsi allo scrittore-narratore, il quale attraverso apologhi filosofici non è arrivato ad altro che a un approdo di silenzio, sia pure cresciuto su un silenzio espressivo e creativo dove è appena giunto il Landolfi con questo suo volume di racconti. La stessa misura che già poteva essere estratta dai Racconti impossibili e cioè di racconti condensati in poche pagine, spesso in forma di dialogo che tende alla discussione, più o meno impegnata sui temi a lui molto cari, si potrebbe adattare benissimo anche ai “cinquanta elzeviri” raccolti qualche anno dopo in un volume vallecchiano, Un paniere di chiocciole (1968), che ottenne il Premio D'Annunzio dello stesso anno. Elzeviri pubblicati su un quotidiano milanese e per questa ragione nati forse da un'esigenza contingente, sia pure collaterale a una evoluzione di certe sue facili esercitazioni, che già erano state tentate con miglior fortuna e con più netta coerenza nelle sue opere maggiori. Si vuole insomma mettere sull'avviso che i temi rintracciabili nella maggior parte di questi racconti-memorie, umori bizzarri, annotazioni linguistiche subito piegate a toni esaltati di una finzione verbale, non sono altro che echi, sia pure non completamente decantati, di prove più mature, a suo tempo tentate con diverso piglio, con altra emozione, con più calibrata strutturazione in opere che restano ancor oggi affascinanti per dare la più netta esemplificazione del maggior Landolfi. Spesso il senso gratuito del gioco ironico, la problematica sottesa a una esemplificazione risolta in poche battute, o la scoperta biografia che affiora ammiccante dalla trama narrativa; ancora, l'intreccio disegnato per accumulazioni, e poi tenuto saldo in pugno per attirare lo spettatore-lettore verso le soluzioni volute dall'autore, in questi racconti tutto ciò non si fa scoperta progressiva di una conoscenza attraverso un piano di elementi tutti distribuiti a disegnare un mosaico completo; ma diviene recupero per una narrazione di cui, in maniera spesso clamorosa, già in anticipo si avverte dove voglia arrivare.

Dunque qui non si cercherà un protagonista che rientri in una generale visione, ma tanti attori di un “dramma” intelligente che fa sempre e ancora capo all'autore: autore che meglio bruciava nelle sue dannazioni (anche più credibili e drammatiche) nei diari, nelle confessioni, dove anche la minima ammissione aveva il sapore di una verità intima offerta in modo quasi drastico, ma pudico.

Al contrario in questi “elzeviri” strani, vi è tentata la via del sogno, della fantasia, del soprannaturale, o ancora della liberazione dalle strette della realtà più ovvia attraverso la scoperta di una situazione “autre”, insostenibile, ma dove molto spesso si intravede la macchinazione, il progetto, la letteratura. Non si vuole dire tuttavia che il libro completo sia “minore” nel patrimonio della creazione landolfiana: si vuole solo indicare, sla pure in forma schematica, un'involuzione rispetto ai temi e agli orditi di una fantasia ben più ferma e più libera già offerta in altro tempo da Landolfi. Così se un tempo Maria Giuseppa ci commuoveva, ripresa ora in “Una donna” o in “Cagna celeste” ha un altro sapore, un altro intento. Come il sogno o la vertigine che cresceva e si espandeva come un'ombra in racconti antichi, ora in “Insonnia” e “Il balcone” ha pretestuosa voce di ripetizione svuotata.

Il tema stesso del gioco molto caro al Landolfi, riaffiora in queste pagine con un sapore affatto cattivante, come appunto si legge in “L'educazione” o in “Quasi una storia di gioco”. Forse si dirà che “Zzzz”, “La moglie perfetta”, “Disposizioni tassative”, “Canicola”, si potranno aggiungere a una ideale antologia landolfiana, che in “Delitto perfetto” o nel racconto “Un paniere di chiocciole” si rinviene la grandezza e statura di un narratore di talento: ma sono esiti troppo rari, che avvolgono in una visceralità di effetto, per poter aggiungere qualche elemento nuovo di giudizio alla figura del più geniale narratore della letteratura contemporanea. I temi centrali della creazione sono come diluiti, in questa raccolta, sminuzzati, frantumati da una provvisorietà che ha barlumi e accensioni folgoranti, a tratti, ma di poco conto per chi già avverta come gli interessi dello scrittore di Pico siano diretti con ben altra forza altrove, precisamente in una biografia diretta, spiùtata, che nega fino alla distruzione, ma che a volte e in certi istanti trova ancora il gusto del fraseggio assurdo, della liberazione fantastica di breve durata, sorvegliata tuttavia come non mai dal gusto dell'irrisione e della finzione.

Ben altri risultati allora si avvertono in quel romanzo o racconto lungo pubblicato nel 1971 (sempre da Vallecchi) dal titolo poeticamente amaro “Breve canzoniere”, dove Landolfi smonta il meccanismo su cui si regge la sua narrazione e che inclina verso una analisi della sua vocazione letteraria (86) con forme e modi modernissimi.

Romanzo che apre, a nostro avviso, una parentesi interessante nel panorama della produzione landolfiana, sia per la ripresa con più efficacia e convinzione di alcuni tcmi postulati nelle opere di maggior rigore inventivo, sia per il senso di delicata distanza che Landolfi frappone tra le argomentazioni relative al modo di “fare” un romanzo, sia per l'approfondirnento di quella “nevrosi narrativa” profetizzata da Sanguineti nel suo profilo monografico, che in questo romanzo trova un acuto accertamento in forma più poetica e toccante.

Una nevrosi, tuttavia, che ha qui una sua logica interna, espressa in termini creativi di una chiara classicità, che Landolfi sembra padroneggiare con rara arguzia, ma della quale ha un onesto timore, può venendo a costituire il motivo centrale d'una creazione quasi perfetta. Il distacco che Landolfi avverte tra la possibilità infinita dei sensi affidabili alle “parole” di contro all'abnorme, misterioso, magico senso delle “cose”, riconduce questo Breve canzoniere tra quelle linee espressive in cui l'artista riconosce la sproporzione tra progetto e realizzazione, nel rovello che ogni artista moderno consapevole sente come la causa prima e più pungente della sua impotenza a rendere in termini di scrittura l'essenza dell'arte.

Già lo stesso Landolfi si chiede (nel fitto dialogo di quest'opera) “qual’è il supremo fiore dello spirito?”. La musica, “che non solo supera ogni linguaggio, ma sconfigge il concetto stesso del linguaggio”? L'architettura, come possibilità d'una realizzazione d'arte pura? O la poesia, atta a “raggiungere quella divina inconcludenza” in cui tuttavia risiede una vaga memoria della purezza originale?

Sembrerebbe a tutta prima che tale prerogativa sia riservata alla poesia e in effetti Landolfi si riporta al fantasma di Holderlin, richiama l'oggetto misterioso, né‚ persona, né‚ cosa, né‚ bestia, di Kafka (Odradek) e s'impegna (in questo Breve canzoniere) in uno scontro dialettico teso a dimostrare questa sua scelta e preferenza. Ma il dubbio s'insinua fin dalle prime battute: il “breve canzoniere” che Landolfi sembra a tutta prima scegliere come testo dimostrativo per questa sua adesione, viene smontato, irriso, criticato aspramente, dileggiato anche, fino alla sua totale condanna in questa lapidaria ma significativa conclusione: “Quanto disadorno, il nostro proprio discorso, quanto avverso ad ogni musica dell'animo come dei sensi; che parole irte, cupe, trite, logore, polverose, le nostre”.

La coscienza, allora, di questa impotenza, ci pone nel centro d'una crisi, pagata in termini di angoscia, fino allo spasimo.

La conclusione, dunque, sarebbe il foglio bianco, il fa!limento totale d'ogni espressione, se questa è impossibile da raggiungersi con la perfezione desiderata, dunque il silenzio.

Ma la conclusione plausibile, che sembrerebbe il diniego d'ogni forma artistica, viene da Landolfi rovesciata in termini di creazione, che proprio qui, in questa sua ultima fatica, trova il modo di concretizzarsi, anche se con larghe zone di negatività.

Due amanti, dopo le “molli piume”, pacificati nei sensi e dunque pronti ad una lucidità intellettuale, si trovano a dissertare su alcuni abbozzi e progetti letterari di Lui, scrittore dalle ambizioni frustrate che cerca nel discorso con Lei una chiarificazione ai suoi molti dubbi, alle sue impotenze Lei è una donna intelligente, che lo rintuzza e lo critica aspramente, gli pone davanti le molte possibilità e vie d'uscita per non impaniarsi in sterili autocritiche, scherzosamente lo tocca nelle ferite, ma nel contempo gli offre la possibilità di chiarire a se stesso fino a che punto sia uno scrittore Dopo il quaderno dei “princìpi” ecco una serie di sonetti, quindici per la precisione, dal tono petrarchesco-dannunziano tuttl dedicati a una donna misteriosa, amante di Lui, che sembrano portare il segno di questo amore, i sussulti e le ambasce d'un sentimento impossibile, sotto l'ombra cupa della morte.

Il pretesto poetico serve ai due amanti per una schermaglia estetica, ma anche come stimolo per una ricerca del vero volto della donna amata, a cui i sonetti sono dedicati.

Dopo una pausa di gioco al “casinò”, il dubbio sull'identità della (88) donna celebrata nei sonetti si rifà vivo. E allora Lui esibisce un folto gruppo di lettere, scritto dalla donna angelicata, spulciate con metodo aleatorio, due ogni quattro, che così saltuariamente lette gettano una strana luce ambigua su una vicenda appassionata e incredibile, indecifrabile nelle nebbie del ricordo, ma viva per Lui quale condanna alla sua impotenza, non solo letteraria, ma anche nel saper discernere dentro la propria anima il significato vero e profondo dei suoi sentimenti. Il rogo, in uno scaldavivande, delle lettere, che sembrerebbe a tutta prima celebrare e concludere nella cenere una vicenda perduta nel tempo, in effetti non conclude, secondo lo stile landolfiano. “Ti son rimasti quattrini? “ chiede Lui. Il gioco alla “roulette” è forse la via d'uscita a un troppo opprimente senso della realtà. L'azzardo, come gioco che sa operare un risveglio acuto dei sensi, atto a scrollare il torpore della noia e della dissoluzione, è la possibile evasione al nulla della vita.

Costruito sul dialogo, e nel dialogo immessa una prosa da diario, un “breve canzoniere”, un epistolario--con brani di altra prosa epistolare, cascami di un linguaggio esibito anche in veste telegrafica--quest'opera di Landolfi ci pone all'esame un metodo di scrittura che per certe correlazioni si può avvicinare al teatro. Un teatro da camera, ma che in effetti è un monologo a due voci, la coscienza inquieta di Landolfi che si autocritica e quella narcisistica che si esalta, che si cerca e si distrugge, che infine tenta la riabilil:azione della creazione artistica, come ultima ipotesi definitiva. Uno sdoppiùmento psicologico, dunque, che ha l'effetto di sottoporci un Landofi attore e un Landolfi spettatore, sulla scena di una dissertazione viva e lucida sui fini della letteratura. L'ipotesi è affascinante: ma Landolfi non usa il suo linguaggio per irridere gli aspetti retorici che s'insinuano nella creazione, l'invenzione linguistica di Landolfi non e lo sberleffo o il graffio. L'irrisione landolfina, portata agli estremi confini dell'assurdo, è un atto di simpatia, di adesione alla letteratura, se non altro per la consistenza del dubbio su di essa, un odio-amore che nasce dal senso di colpa nel riconoscersi impotente a tradurre nella parola il senso alto e puro d'una eloquenza interiore; il gioco retorico si riscatta nella sua coscienza di seria verità, lacerante, in cui Landolfi pacifica la sua (89) “nevrosi letteraria”, nell'ambiguità di questo interloquire, fino all'ossessione, ma soprattutto nella creazione di questo suo ambivalente divertimento...

La crescita progressiva dei racconti e romanzi del decelnnio tra il 1960, che ha visto nascere confessioni diseguali, racconti difformi a ... Landololfi ripiegato su di sé in modo ... che hanno fatto pensare a 'un una collaterale crescita di una più diretta confessione biografica, in stretta aderenza a un fatto importantissimo nella biografia del Nostro, quella del matrimonio con una ragazza molto giovane, la Maior, e la successiva parentela. Un fatto, questo, che ha portato nella esistenza di Landolfi un...

...negativi senza trovare la contropartita in quelli positivi. Negativi per Landolfi, che una volta tanto esamina partitamente e minutamente le sue i, e sue vestigia, i suoi orpelli come strumenti di un'arte che egli riconosce ancora insufficiente a dire tutto il precario che c'è nella vita.

Tra una fuga da Pico verso i tavoli verdi, e un ritorno creativo al tavclo di lavoro nella sua casa antica, tra una annotazione sul linguaggio della Minor (come chiama affettuosamente la bambinella appena nata) e il suo linguaggio, quello usato nelle opere che viene componendo, come il dramma in versi Landolfo VI di Benevento, tra una traduzione dal russo di Puskin e la ossessiva e costante disamina della contrapposta essenza vita-morte, Landolfi viene trascrivendo in questo diario la sua ambivalenza, la sua predisposizione quasi fisica per il non essere, per la perdizione, per la insufficienza.

Ma il diario costituisce anche la falsariga di una vertigine, di una indicazione estrema sull'arte landolfiana, là dove si abbia la pazienza di cercare le convergenze agli spunti che sono disseminati in molti suoi scritti anteriori, o altrettanti racconti e confessioni, che nelle pagine di questo “giornale” di bordo Ї (P. Milano) trovano una puntuale quanto serena valutazione come la ripresa del senso delle “quattro acacie” o il “nulla” come lui l'intende, o l'identità tra l'impulso e la ragione, come pure tra istinto distruttivo e istinto o vocazione della morte. La morte soprattutto è descritta in queste pagine come la più cara e nello stesso tempo paventata delle ombre, e proprio mentre fiorisce e nasce alla vita quel sorriso luminoso della Minor, che forse è la causa prima di una confessione sincera di Landolfi, di una sua privata prova interiore più drammatica e angosciosa .

Al nulla che io dico, invece, non si torna, così come, o meglio per la buona ragione che, da esso non si viene. Ancora, direi quasi che dai più al nulla sia invincibilmente attribuita una sorta di coscienza, come deità nera, dl sole nero (quello di certi popoli) accampato lassù o laggiù o là intorno, minaccioso e contrapposto a quanto v’è di luminoso e di bianco: l'esistenza, sentita come un bene a quanto pare, se poi il simbolo del bianco e della luce è generalmente valido. La spinta all'esistenza, da ultimo, sembra da tutti intesa come l'augurabile epperò necessaria (in un ordine ideale) soluzione dl questo groppo buio del nulla. Ma il nulla di cui parlo io e che vorrei nominare, il supremo... (Holderlin, al soccorso con qualche tuo aggettivo)...

Nessun sfondo paesaggistico, nessuna finzione oggettiva, nessun personaggio di rilievo, nessuna concessione a strutture narrative che non siano vagliate con spasmodica ironia e corrosione, si ritrovano in queste pagine, ma pluttosto una ossessiva concatenazione di pensieri, di immagini tormentose, di angosce che emergono da margini antichi di una memoria incisa con la più drastica e cinica voluttà, affinché sprema non tanto verità sufiicienti a una credibilità delle ragioni vitali, ma insufficienti, come le più abili a parlare, nella contrapposizione, di una dolente partecipazione al flusso dell'esistenza.

Ora sento passare i giorni sui giorni con indifferenza appena un pocupa

qua e quella che presuppone un disperare da prima di ciò che potrebbe essere.

A volte il diario s'illumina, s'accende di una luce fioca ma intensamente viva, quando appare la voce della infante Minor, o la fermezza antica e serena della Maior, al cui contatto Landolfi contrappone il passato e a sua esperienza e conoscenza al futuro di quelle creature che pure ama intensamente, ma che non sa comprendere per una sua disaffezione e abitudine a fuggire da sentimenti e affetti elementari, che non siano viscose trasparenze della sua lotta interiore mai placata e domata.

Anche quelle pagine di più intenso abbandono e di migliore levigatezza sentimentale, anche quelle non dicono tutto su questo “nuovo” Landolfi, almeno completamente, fino in fondo, perché lo scrittore ha continui travagli, difficili ammissioni, progressive correzioni, che portano alla confessione piena attraverso un intricato cammino di incisi, di parentesi, di coordinate e subordinate, che sembrano sempre disseminate ungo la lettura come tanti segnali di pericolo e di fermata, per sviare onda della sua amarezza, della sua più sincera intimità.

Ciò che Rien va comunque ci indica è il cammino a ritroso nell'informe della sua vita, che ora sembra prendere senso da quel nuovo fatto della paternità. ma che pure assume le sembianze oscure di una incessante lotta intima tra la distruzione di sé, tra l'annullamento del proprio essere, tra la scoperta di una diversità umana dello scrittore e, al contrario, la luminosità, il mistero di una crescita, il tepore di un'alba che Landolfi scopre negli occhi, nei balbettii, nelle prime parole della propria creatura.

...uno dei tanti“ perché disseminati lungo il diario, che non trovano risposta, neppure quando--per l'ennesima volta--Landolfi si maschera dietro le parole per dichiarare la sua sconfitta nei confronti della vita. Il rituale della confessione così protratta, così fatalmente ripresa, che afferra certe verità quasi scartando le obiezioni, le negatività, e arriva ad affermare un plausibile senso soltanto dopo aver tutto demolito e confuso, il rituale ]andolfiano della confessione si rinnova anche in un secondo volume, Des mois, stampato da Vallecchi nel 1967, che stende ancor più quel filo logico e tormentato che già aveva preso ad avanzare nel diario del 1963. In questo del 1967 sono mutati i tempi, sono progredite certe figure, la Minor ha quasi cinque anni, accanto ne è nato un maschietto, il Minimus, duenne, certe punte sono smussate, vi è un minor controllo della pagina, una maggiore speditezza della confessione, la narrazione diventa in certi punti più feroce, in altri più dolce: ma ciò che resta ferma e anzi si arricchisce di nubi, di tortuosità, è la figura essenziale dello scrittore, che acuisce ancor più il suo dileggio e la sua beffa, sia nel contestare una sua condanna, sia nel segnare a suo discapito una più torpiùa correità con la negazione. Si direbbe che Landolfi tenti qui ciò che non gli è riuscito nel primo diario, precisamente una specie di legame con le sue opere attraverso la discussione della forma, dell'arte, della sua idiosincrasia per certe parole depotenziate; infine riprende la sua discussione sulla inconciliabilità degli opposti esistenziali. Ma ciò che in Rien va subiva una spiùta alla liberazione, tentava la via d'uscita attraverso mille tentennamento e fermate e dubbi, in questo diario del 1967 invece tutto straripa, il dubbio è dubbio provocato più che sentito, la forma è più limpida, persino a tratti preziosa, ma sottoposta a una specie di revisione costante che le toglie la più chiara spontaneità, il più felice estro, torcendola, nella distensione con cui si presenta, attraverso mille schermaglie, mille controlli, infinite variazioni. Vi si rinvengono persino poesie, e delle autentiche, dei pezzi di prosa poetica, dei ricordi in forma romanzata, creando intorno alla confessione un alone di letteratura.

Il voyeur che è in Landolfi si fa più accosto a certe ferite, ne esamina lo stato di avanzamento, e non tenta la medicazione, ma ne acuisce il bruciore, il male. Così la visionarietà e la perfetta ed educata enunciazione, ritrovano in queste pagine il gusto rinnovato della sedizione, della violazione, del sacrilegio, mà con tanta amarezza che riesce a dissipare i fumi finti che lo scrittore-diarista vi fa evaporare intorno, per darci in certi punti e in alcune pagine stupende descrizioni, magiche sensazioni che raggiungono, senza tentennamenti e a dispetto dello stesso Landolfi il segno intenso della poesia e della sua magistrale capacità evocativa.

E queste si ritrovano nei momenti di trepiùa vena rammemorante, come nella stupenda descrizione della foto di sua madre (p. 110); oppure nelle folgoranti descrizioni dell'artigianato narrativo (là dove Landolfi appunta glosse sullo stile, p. 114, e poi pp. 135-137); ancora dove il suo illummismo diventa lucida rifrazione del possibile, come in quella ipotesi sul dilemma di un automobilista lanciato a tutta velocità e che si vede innanzi una bambina e più discosto un gruppetto di altre, e nella frazione di secondi che gli restano prima del disastro, pensa quale sia per lui ormai il male minore, se travolgere la bambina e salvare le molte altre, o viceversa .

Infine, e che citiamo volentieri per esteso, quella stupenda pagina in cui non ravvisiamo la beffa o il cinismo un poco ricercato, che aveva contraddistinto il Landolfi degli anni Cinquanta, ma incontriamo un Landolfi umanissimo, più vero perché‚ forse più dimentico di sé, catturato dall'esistenza, che lo volge altrove, che lo smemora, ma che tuttavia lo riporta al llivello di autentico scrittore che più si ama e si ammira.

La sera dopo cena ha luogo il cosiddetto “abbugliamento”: un invilupparsi insieme, genitori e figli egualmente freddolosi, in coperte su un letto. Ma poi il Minimus va a nanna, e riman lei per una mezz’ora. Parla della scuola, in modo contratto, allusivo; e finalmente, malgrado la sua avversione per il riposo notturno, è soverchiata dalla stanchezza, i suoi occhi si arrossano e si illanguidiscono. Allora, allora! E prende posizioni di sonno, quelle che prenderà durante tutta la sua vita di femmina, si acciambella, leva il viso col bocchino di corallo dolcemente spirante; i suoi canini ancora di latte sono agu7~i, la sua lingua è madida. Bisogna portarla a letto prima che il suo sonno diventi fondo. Le sue mani, già lunghe, si ripiùgano anche a rovescio; ha capelli deboli, è un pospelacchiata, ma la sua fronte ne acquista vastità e... presagio.

Sua madre non può capirlo, o me lo imputa a colpa: io l'amo d'amore. E che c’è di strano, e perché l'avrei fatta se no? Cerco in lei la donna sognata; e finora ella non m'ha tradito, oppure non m'ha tradito qualcuno lassù, oppure la paternità stessa mi salva dalle disillusioni. Talvolta mi viene incontro ancora col suo grembiule scolastico, azzurro con uno scudo da una parte che reca il nome della scuola. Non ha seno, naturalmente, è tutta in potenza, oppure tutta definita punto per punto.

E forse questa è la suprema incarnazione della bellezza, e questo il suo limite: una potenza generosamente definita; e ignara di sé, e sacra per sua natura. E dorme, ora dorme, chiusa in una modesta leggiadria che ci farebbe dubitare del nostro astio, della nostra disperazione: quasi nelle forme medesime o nel silenzioso fluire dell'umano respiro potesse trovarsi, se non la chiave con sempre rinnovato insuccesso cercata, almeno un immemore appagamento, una posa. Prima di andar via vado a vederla: ormai non tien più le braccia fuori dalle coltri come i bambini piùcini. raccolta, assorta nella sua bellezza esternamente indifesa; sogna di vivere attraverso la sua piccola morte.

Abbandonate le circostanze dell'evocazione espressiva per miti e scene altarnente surreali, o improbabili, o virtualmente abnormi, Landolfi in questi suoi diari ha conquistato, aggirandola, una faccia diversa della vita, ancora ambigua, ancora lacerata, ancora informe: ma le si accosta col tremore e la vertigine di un innamorato che ha gettato alle ortiche ogni Sospensione e ogni dubbio, entrando sulla scena per dichiararsi, tuttavia riconoscendo che agli occhi di tutti egli sta proclamando per sempre ancora un dubbio, una simulazione.

Il periodo apertamente involutivo che era iniziato con il romanzo-diario de La Bière du pecheur, già nel lontano 1953, e che era stato portato a confini estremi con i due diari degli Anni Sessanta, Rien va e Des mois ha avuto una sottolineatura molto evidente in una tragedia in versi scritta da Landolfi nel 1958, Landolfo VI di Benevento, ma già concepita anteriormente a quella data, come ci illumina lo stesso autore nelle brevi ma significative annotazioni contenute nel suo primo diario, appunto Rien va.

Landolfo VI di Benevento, poema in versi (endecasillabi sciolti) che richiama la drammatica storia di Adelchi, concepiùo come evocazione di un omonimo e antico antenato di Landolfi, si divide in sei parti, di cui la prima e ambientata a Montecassino nell'anno 1071, la seconda nel campo di Roberto Guiscardo, la terza e la quarta nel castello di Benevento, la quinta ancora nel campo di Roberto Guiscardo, e l'ultima nel Castello di Benevento, nell'anno 1077.

La vicenda, che si snoda intorno alla figura di Landolfo, e che richiama in forma trasparente il momento inquieto e contraddittorio della biografia spiùituale dello stesso Landolfi, rievoca fedelmente la dolorosa fine dell'ultimo principe longobardo di Benevento, che cade sotto l'imperio e la distruzione del re dei Normanni, Roberto il Guiscardo.

La tragedia di Landolfi nell'economia di tutta la sua opera, non aggiungerebbe molto a ciò che gi… si conosce--nel bene e nel male-- di questo nostro scrittore eclettico, se non contenesse in sé alcune costanti di una requisitoria morale e spiùituale dello stesso Landolfi, intorno al tema della morte, della fine, della infelicità del singolo.

Ma più ancora diventa anacronistica, così concepita in forma classica estremamente improbabile, perché‚ viene in ultima analisi a riassumere in en ecasi abi ciò che sta a cuore nel particolare tempo del suo travaglio più profondo al Landolfi diarista, che in Rien va aveva già anticipato, e con miglior fortuna, quei temi, quelle spaccature, quelle confessioni che nella drammatica sequenza del Landolfo trovano veste scenica affatto rappresentabile. Che cosa sta alla radice di questo dramma in versi? Il pensiero dominante della morte.

Basterebbe rileggere alcune pagine diaristiche di Rien va per penetrare a fondo il significato ultimo di questo lavoro teatrale, là appunto dove lo scrittore riconosce alla sua esistenza, al suo lavoro, a tutta la sua vita un che di tortuoso, di peccaminoso, o l'inerzia inconcludente, un'aridità senza speranza: e proprio a mezzo di una stagione (i cinquant'anni, la sua recente paternità) che più inclina ad ombre vaghe di distruzione e di annullamento.

Landolfi avverte questa presenza cupa in forma spasmodica, ossessiva. Il ritorno a un arcaico antenato, o al padre, fosco nella sua severa indicazione morale e autoritaria, serve allo scrittore come filo conduttore per un esame di coscienza che si riempiù di vuoti, di ombre, di crisi, di meditazione acre. Alla data del 26 giugno 1958, in Rien va, Landolfi appunta una visione premonitrice della propria fine, nata da un affannoso filosofare, conclusione di pensieri sull'identità spirito-mondo, individuo-realtà:

Lo spirito poniamo crea il mondo: ma se ha appena tanta forza da metterci innanzi alberi, montagne, cielo e sale, vuoti di destinazione e di destino? Che fare di queste cose, in che modo caricarle di conforto, di gioia, di vita infine? Forse abbandonandole persem,pre? Sperando in quell'ultimo istante che è il nostro terrore e la nostra speranza, quando getteremo sulla terra che abbiamo voluto il supremo sguardo? E ho,potuto pensare di ingannare la morte e dimenticarla, di eludere il vero scopo di queste pagine! Le sofferenze altrui mi appaiono e mi sono sempre apparse iscritte quasi su una labile trama di apparenze: potrà, avrà la forza, la nobiltà di apparirmi illusoria anche la mia propria sofferenza, che si può dire non conosco? Una terribile tentazione, come una mostruosa curiosità, come un anelito di prova, mi tiene da qualche tempo.

E subito dopo, quasi evocata da queste parole, l'immagine della morte in un cappotto appeso a una sedia, “aggrinzato a vuoto”, prefigurante il viso di “una vecchia versiera”, “prodotto”di una apparenza, o del “caso” come dice Landolfi. Immagine che accompagna i sogni dell autore, come un fastidio intollerabile, un senso di ribrezzo, in quel punto della vita di Landolfi in cui egli si ripiega su di s‚, con tenacia distruttiva, con volontà di annientamento, e che viene a imporsi e a rappresentare nella sua anima l'abbiezione antica della sua viltà, della sua solitudine colpevole, o quella aspiùazione a “rientrare” nell'”utero materno” come al nulla pacificante.

In sintesi è questa la situazione spiùituale che fa da sfondo anche al Landolfo, iniziato in queste giornate con terribile fastidio (“mi soverchia la mia passione di avvilirmi: non ve né'è infatti nel Landolfo un riflesso? Un bagliore!”).

Tutto andrebbe alla men peggio (e andava difatto un tempoj se avessi il benché‚ minimo interesse per il lavoro, se ogni razza di letteratura o d'espressione non mi facesse schifo, se per es. Il Landolfo in fondo a un cassetto non mi fosse apparso come un serpente ivi arrotolato.

Situazione che si delinea maggiormente quando Landolfi tenta l'interrogazione di uno spiùaglio metafisico, di un approccio col Dio tanto tempo fa bestemmiato, dileggiato razionalmente, ma in una forma di odio-amore come attrazione oscura e ambigua, che ha potuto apparire sotto specie di visione viscerale tramite l'aspetto buio della morte.

Il Sublime ci ha mostrato la via che mena all'estinzione e torna al nulla. Ma chi potrà mostrarci quella al “non essere stati”?

Quando Dio ad onta dei miei ricalcitramenti me ne chiederà conto, che cosa dovrò rispondere? Non ho voluto o: non ho potuto? Volgare orgoglio se risponderò nel primo modo, nefando peccato tuttavia se nel secondo. Dovrò dire: di proposito ho spento, mi son quasi divertito a spengere uno per uno tutti i miei più generosi impulsi per ciò che non erano sumcienti, che non erano premiati dagli altri né‚ da te né‚ da me stesso, per rabbia, per protesta contro di te, contro l'impotenza, l'indifferenza, il terrore, il senso di vanità che mi hai messo dentro? Dovrò dire: son io che ho da chiederti conto di qualcosa; tutto in me e la sofferenza stessa aveva poco vigore, e questo è per tua colpa; non sono mai riuscito a scoprire il modo per vivere.

Affermazioni che se confrontate alla morte finale di Landolfo VI di Benevento aprono squarci ampissimi sulla desolazione e sugli interrogativi di Landolfi in questo particolare momento, ftno a raccogliere in sintesi tutta la problematica, anche stilistica e inventiva, per la quale forse Landolfi è approdato alle scene drammatiche della tragedia in versi:

E come infatti

Potrebbe mai la morte essermi lieta?

La morte è perfezione della vita.

E ancora:

Ah, come ombra di nuvola, passata

la mia vita sarà: gran privilegio

Ancora, se sarà dimenticata!

Che cosa ho fatto? Cosa detto almeno?

In parole infeconde, torve e fosche,

Ho sperduto, consunto il corto nervo.

Dove l'atto che incide e che è proficuo

A s‚ se non ad altri, dove, ancora,

La parola che illumina ehe guida?

No: confuse parole, a quegli stesso

A quel me stesso che le pronunciava...

Tratti salienti di una confessione che ben più viva resta nelle pagine dei diari, ma che concludono e in certi punti riassumono la spaccatura di tutta la vita di Landolfi, come pure la sua eterna ansia di rendere l'essenza e il significato più piùno oltre che più puro della vita su questa terra Landolfi ammette una stesura difficile, iniziata quasi per scommessa, di questo suo Landolfo, che avrebbe dovuto portare a decifrare il groviglio di rinunce, o di insufficienza, o di vane impotenze che hanno sempre osteggiato la sua scrittura, la pronuncia di una parola che fosse quanto mai felice per una aderenza con le cose, coi sentimenti più sottili, con la sua vertigine interiore. E tuttavia in più punti del diario Rien va lo scrittore I con folgoranti esclamativi o con parentesi preziose quella sua emarginazione e impotenza, quel suo travaglio, quella sua presunzione ad affidare agli endecasillabi sciolti della tragedia tutto il significato della sua passione e della sconfitta sorta progressivamente già fino alla Bière, e via via cresciuta a dismisura fino ai giorni nostri, fino a quello stupendo volume di poesie che chiuderà la parentesi dell'involuzione biografica, Viola di morte, appunto, ideale continuazione del Landolfoma con ben altra forza che quella impressa ai versi del dramma sceneggiato.

(Povero mio Landolfo VI: vedrà mai la luce, e sia tra l'indifferenza ? Vi sarà almeno un riflesso di ciò che ho voluto dire?)

Il tornare all'endecasillabo, e tronfio, è idea che mi riesce intollerabile. E finalmente il tutto mi pare tanto inutile elebole anche solo letteraria mente e insostenibile come soluzione o pretesa (quel rifarsi rigorosamente indietro...), che sarebbe una clisperazione.

Fino a quella aperta confessione della funzione e del significato di un concepimento così strano e remoto com'è il personaggio Landolfo VI di Benevento, che--dice Landolfi—“muore disperato, benché‚ con qualche debole dubbio” e che possiamo leggere alla data del 19 luglio 1958, sempre in R~en va, giorno della definitiva stesura del dramma, ma che tuttavia ingenera nell'anima del Nostro mille dubbi, mille ansie, imSnite ritorsioni:

Che povera cosa, che cosa assurda e insostenibile, anche riguardo alla scrittura; e sempre più sfumata in una vaga verbosità, in una eloquenza od oratoria quasi fine a se stessa.

Ma che riesce a giustificarsi solo attraverso un senso ampio dell'opera di Landolfi, sia pure contrariamente a quanto dice lo stesso autore non solo del Landolfo, ma della sua completa produzione:

E: malgrado tutto, se io fossi davvero puro dovrei distruggere il Landolfo. Ma con che cosa poi dovrei sostituirlo? L'intera mia opera avrei dovuto distruggere, a tal punto insufficiente e marginale e vile è rispetto a me stesso.

Giustificazione che trova riscontro anche nella definizione acuta che Sanguineti ha dato di quest'opera minore di Landolfi, rispetto proprio al momento significativo in cui si colloca nel panorama della sua alta creazione, che qui trova agganci con la figura di Maria Giuseppa, con lo scrittore Stefano del racconto che chiudeva il volume Mezzacoda, del 1958 (ora In società), appunto “I due figli di Stefano” e in diverse altre figure prettamente autobiografiche, ma che servono a definire meglio quella di Landolfo VI; Sanguineti afferma che “Il Landolfo VI di Benevento è... la "tragedia segreta" di Landolfi, e conserva (ed esaspera) l'ambiguità ludica caratteristica del suo autore, cosЎ come conserva quella impronta di privato documento che è poi, a dispetto di mille ghiribizzi, altrettanto particolare a Landolfi, a questo esempiù supremo (ed estremo) dell'involuzione ironicoletteraria del decadentismo romantico Ї (in “Il Verri”, III, 5 ottobre 1959)

La stessa ambiguità ludica che indica Sanguineti si rintraccia maggiormente evidenziata anche nell'altro dei suoi esperimenti teatrali, in quelle Scene della vita di Cagliostro che Landolfi scrisse per la Televisione nel 1961, e che--con censure non approvate dall'autore--andarono in onda il 14 maggio 1961, per la serie di trasmissioni “Le pecore nere” che la TV italiana stava dedicando ai personaggi più eclettici e singolari della storia La commedia landolfiana ispiùata alla vita avventurosa di Balsamo Giuseppe detto Cagliostro, ritaglia, ancora una volta, un momento tipico dell'esistenza di Landolfi, e dunque si adatta al personaggio storico in quelle frange occultistiche e magiche che Landolfi ha fatte sue e trasformato “alla maniera di“ Landolfi. Con la regia di Gilberto Tofano, le “scene” del Nostro vennero rappresentate da “interpreti valenti”, quali Giorgio Albertazzi, Angela Cavo, Luigi Cimara, Vittorio Duse, Mario Scaccia e Otello Toso (scene di Maurizio Mammì, costumi di Piùr Luigi Piùzi e musiche originali di Gino Negri). L'opera integrale venne poi raccolta in volume dall'editore Vallecchi nel 1963, con alcune fotografie tratte dalla edizione televisiva, cosi come si legge oggi nell'edizione originale. Divisa in otto scene la commedia rappresenta l'ascesa e il riconoscimento pubblico di Cagliostro, al quale vengono attribuite virtù magiche e taumaturgiche, se non proprio occultistiche. Nella casa del Cardinale di Rohan, e poi a Parigi, a Roma, infine sulla rupe di S. Leo, Cagliostro combatte contro la superstizione, la credulità, ingannando ma anche analizzando il suo potere magico e il suo ascendente sugli uomini.

Finché denunziato dalla moglie Lorenza, viene rinchiuso nella fortezza di San Leo, dove si lascia morire di fame. Ma la conclusione di questo dramma storico dai contorni poco precisi ed evanescenti, non poteva trovare che una conclusione prettamente landolfiana, tale da ribadire fino alla duplicazione infinita l'essenza di un'angoscia che opprime e non lascia scampo alla coscienza di Landolfi.

Volli illudermi che le cose non fossero quello che sono, che da ogni cosa si potesse cavare una riposta virtù che... la riscattasse: dalla noia, dal tedio, e da se medesima. Ah, voi beati che potete vivere senza affanno in In mondo di parvenze immutabili!....

Fine che suona come una beffa un poco mostruosa non tanto alle illusioni e alle “parvenze” degli uomini, ma dello stesso scrittore, della stessa sua creazione, in quella scena finale che vede i militi, l'oste e tutti gli abitanti della cittadina bere, nel teschio dissoterrato di Cagliostro, “molto vino”, mentre da più parti si grida “Viva la libertà”.

Che è ancora libertà delle apparenze e speranze della vita, appena una parola “diversa” pronunci una verità “diversa”, come quella che da più di cinquant'anni sta dicendo Landolfi con la sua opera, sia pure come in questa commedia, un poco teatralmente, con un linguaggio e sotto specie e generi diversissimi, cangianti, ma che nella sostanza si raggruppò intorno alla sua poetica della “non vita”, del nulla, della condanna.

In un'opera successiva, ancora teatrale, un personaggio si vestirà del nome di Nessuno per interpretare questa “non vita”, questo nulla in forma drammatica ma anche altamente dissociativa dalla rappresentazione in se stessa. Si tratta del Faust 67, pubblicato da Vallecchi nel 196'`, che ottenne il Premio Pirandello per un'opera teatrale inedita. In effetti a Pirandello si richiama il dramma ]andolfiano (con accenni anche al capolavoro di Goethe), precisamente ai Sei personaggi in cerca d'autore e a Questa sera si recita a soggetto. Landolfi ironizza la rappresentazione così come aveva fatto Pirandello, ma in un modo drammatico solamente in quella parte che riguarda il suo personaggio, mentre sappiamo che Pirandello ironizzava solo l'apparenza, la possibilità di essere del singolo, con tutte le risultanze del caso. Landolfi inizia la sua sarcastica requisitoria sin dall'”Avvertenza” apposta ad inizio d'opera, là dove afferma appunto che questa sua “commedia” potrebbe essere intesa come un “canovaccio”, o una “commedia da fare”; mentre al lettore del testo suggerisce di “compensare e integrare” con alcuni suoi “casucci personali” quelli adombrati dall'autore nella “commedia”. “Commedia o dramma d'incerto svolgimento--afferma Landolfi nella premessa--in un avamprologo o proprologo, in un prologo, in numerosi quadri, in un epilogo e magari in un postepilogo o un epilogo senza licenza dei superiori“.

Tuttavia Landolfi capovolge la posizione dei personaggi pirandelliani, perché ci mostra un interprete che è in cerca non tanto di una parte da recitare nel modo consueto, ma di una parte che sia rifacimento in chiave esistenziale di una qualsiasi funzione vitale. E così facendo chiede di riepilogare tutti i motivi della sua vita fino a quel punto--dopo l'esame spietato dei diari--in cui egli si sente davvero il signor Nessuno della rappresentazione; ma perché‚ dal bilancio fallimentare con cui distrugge tutti i possibili modi di essere possa ritrovare quello altamente landolfiano di purezza e di incidenza nel rifiuto, Landolfi fa emergere il suo carattere rivoluzionario, sia critico nei confronti della usualità e della convenzione quotidiana, sia quello dell'invenzione nell'invenzione, come avviene appunto in questa drammatica commedia nella commedia.

In effetti, che cosa distrugge Landolfi ancora, che cosa cerca ancora in questa rappresentazione? Prima di tutto se stesso, non come lo vorrebbero gli altri, ma come vorrebbe essere egli stesso seguendo l'istinto di annullamento, di nichilismo, di romanticismo ormai allo stremo. Ed ecco allora apparire sulla scena il signor Nessuno che ambisce a divenire l'Ognuno di una rappresentazione umana in chiave risolutiva dei dubbi dell'esistenza. Egli si presenta a un regista e a due attori e chiede che gli inventino una realtà, una condizione di vita, quindi, che riempiù di un contenuto plausibile la sua disponibilità.

Ha inizio, da qui, una serie di prove, di recite a soggetto, attraverso le quali Nessuno può giungere ai confini di una identità che lo strappi dalla sua indifferenza, quindi da una nullità in cui già lo stesso suo nome lo inchuoda senza via d'uscita.

Ed ecco allora che la troupe di attori capeggiata dal regista gli inventa sotto gli occhi la storia di un dittatore, il quale, disprezzando i vantaggi della demagogia, esercita con spietata e assoluta coerenza il suo potere. Ma Nessuno non riesce a identificarsi in questa figura, per il fatto che disprezza prima di ogni altra cosa il potere e la gloria. La seconda parvenza è quella del giocatore fortunato, che in una memorabile serata sbanca gli avversari, conoscendo attraverso il rischio e l'azzardo il piacere estremo della vittoria e della ricchezza. Terza rappresentazione è quella di uno scrittore al sommo della gloria e della fortuna, adulato e osannato, ma forse poco capiùo nelle sue intime enunciazioni. Infine, ultimo modello proposto, è quello di un attempato intellettuale che si innamora di una lavandaia giovanissima (che adombra i tratti biografici landolfiani) e verso cui Nessuno si sente attratto per una scoperta intima di piacere nella diversità.

La conclusione riepiùoga dunque le possibili scelte: ma Nessuno rifiuta sia la gloria che la potenza, la ricchezza che l'amore. In un finale da commedia inconclusa, un Faust arreso e visionario riprende in mano le fila della sua rappresentazione e dilata quell'epiùodio dell'amore con fughe fantascientifiche, fino a dimostrare, se non una conclusione provvisoria come vorrebbero gli amici della compagnia, l'impossibilità di dare un volto alla felicità umana e a una purchessia verità.

Nessuno (“personaggio e coscienza di personaggio-autore”, come l'ha definito acutamente Giuseppe Marchetti in una sua nota) rifiuta ogni esperienza quando questa si identifica con l'intendimento a cui viene piegata dalla coscienza corrente: una voce--nel finale--che scende dal cielo e che grida: “Nessuno si salverà, perché‚ non accettò mai di essere qualcuno, chiude non tanto in una cornice morale questa favola landolfiana dell'identità, ma annuncia la resa allorché il rifiuto e la negazione di una determinazione si rendono chiari alla coscienza dello scrittore. La faustiana vicenda ironizza infine la Storia, come intendimento comune a seguirne il flusso senza opposizione, ma valuta anche la possibilità di una chiusura della scrittura che volge al silenzio, alla pagina bianca.

Col Faust 67 Landolfi si volge a se stesso, al mondo, alle leggi correnti, ai possibili e infiniti modi di essere; ma è un rivisitare che ha già preparato in anticipo una risposta, quella che da molti anni e in molte sue opere già si era avvertita. L'unica risposta valida, comunque, resta quella che sembra adombrare nel suo accanito rifiuto, precisamente in quella sorta di voluttà e di scherno nella frantumazione, tale da farci conoscere un volto oscuro di un Landolfi incredulo fino all'esasperazione, in un atteggiamento di revisione storica e morale che rivaluta la sua ossessione del negativo, per poi frantumarla con lo scherzo, con la beffa; nelle quali, oggi, non possiamo più cercare di trovare il vizio di una finzione, ma la verità di un riconoscimento dell'impotenza e della sua inanità, alle soglie di una stagione che piega verso il senso della notte, del buio, e che più spesso affiora nelle pagine di Landolfi col peso grave di una condanna, di una riconosciuta indifferibilità.

12

Gli Anni Settanta sono stati inaugurati da Landolfi con una raccolta di saggi critici, di appunti di lettura, confluiti in un volume stampato nel 1971, Gogol a Roma: saggi che però già erano apparsi in diversi periodi sul settimanale “Il Mondo”, e che quindi non appartengono al vivo della creazione landolfiana, bensì a un arco di tempo molto remoto rispetto a quella che si può definire la vena mistica di un suo ripiegamento interiore, già iniziato fin dalla Bière, proseguito e scandagliato in modo drammatico nei diari, e poi ancora in opere teatrali, in racconti, o in prose dal taglio squisitamente autobiografico e riflessivo.

Gogol a Roma quindi diventa episodico, un fatto di posteriore commemorazione rispetto alla centralità dell'ispirazione e del cammino creativo dello scrittore, il cui nucleo effettivo, o punto focale, si deve invece cercare in quello splendido volume di liriche che a nostro avviso apre la stagione dell'incertezza e della verità più sconsolata nella produzione di Landolfi, Viola di morte (Vallecchi, Firenze 1972).

Una prima ascendenza per questo volume di liriche si deve già rinvenire nel dramma Landolfo VI di Benevento, in quegli endecasillabi sciolti che sembrarono allora una conquista anacronistica della poesia, confessata ampiùmente da Landolfi nel suo Rien va, ma che nella forma poetica già trovava sfogo e misura una dolente e appassionata obliterazione della vita, del mondo, di se stesso.

E dunque Viola di morte, aprendo la stagione più vicina ai nostri anni, in effetti chiude in modo quasi disperante e tragico un fulgido periodo di creazione, con un consuntivo che ha risultanze amare, sconfitte deficitarie, ma che permettono a Landolfi nella poesia di ritrovare ancora una volta un riscatto positivo e indicativo della sua genialità. La poesia di questo volume nasce all'insegna del gesto, della aulicità, della finzione verbale, con modi che sembrano indicare una posizione di privilegio rispetto all'io landolfiano, cioè a quella mistura di diversivo, di gioco, di scommessa e d'azzardo che avevano caratterizzato la sua opera complessiva; ma che in questi versi Landolfi dimentica, completamente, per entrare disarmato e inerme nella coincidenza vera di un personaggio autentico, fuori di ogni ciarpame o programmata commedia, nudo nella sua incapacità a vivere, a sentirsi nel flusso vivo dell'esistenza, a provare con i sensi e le immagini il benefico volto di una realtà che in tempi lontani aveva schernito e allontanato. Così come all'amore, a quel magico sentimento dimenticato in contrade e in volti ormai lontani, Landolfi qui si richiama, ma con la convinzione lacerante di averlo perduto per via, e per sempre.

Si spegne anche, in Viola di morte, quell'ossessivo egocentrismo, quel suo narcisistico fare che lo andava un tempo strappando dai segni di una vita reproba ch'egli fuggiva, attratto da un assoluto che non era certo il Dio richiamato qui in più di una occasione, ma un Dio nemico, una entità punitiva e collerica, che in ogni momento poteva ributtargli in volto nonché i treccati e le scelleratezze, tutte le dimenticanze, le sue fughe, i suoi dinieghi. E forse quella sua 'renitenza' alla vita, quel suo controcanto del divino sempre cercato, sia pure tramite l'assurdo e il grottesco, ora torna mutato in pena, insofferenza, in lacerazione disarmata.

Viola di morte, perché‚? Analogia di una “viola d'amore”, strumento improponibile, ma forse riesumabile attraverso un canzoniere nato all'insegna del notturno D'Annunzio? O viola come fiore letale, avvelenato dalle ombre vaghe e presaghe di una fine imminente? O forse viola-colore-di morte che in simboli araldici conduce verso stanze dove già la morte con segni distruttivi, ha fatto il suo nido?

Come il titolo della Bière, anche questo della raccolta di poesia sfugge ad ogni connotazione: il senso non è mai in Landolfi preciso, ma ambiguo, nascosto, ubiquo fino a nascondere qualcosa di diverso, di dissimile, di sfuggente.

Tale risulta anche il senso di un uso estremo della poesia per un canto che fugge dalla poesia, per diventare confessione, spasmodico svelamento delle più riposte verità: un Landolfi che appare intero, senza scene senza affettazioni, senza maschere, ma si apre come un guscio e lascia intravedere i suoi più intimi umori, la successione chiara di pensieri profondi, il pudore più genuino accanto a quel senso di una disperazione sentita nel volto prossimo della morte.

Non sapevo in qual modo morire:

Mi fipuravo la morte

Come una nascita, come

Un forzare le porte

D'un altro mondo, o del nulla.

Alla mia morte or largo varco è aperto.

E la disposizione a questo passo è sì contrappuntata di richiami a quell'aura di bellezza, di fulgore, di amore smemorante che giorni antichi gli avevano donato, ma si placa solo attraverso la coscienza che la sua irriverenza non fu altro che la possibilità di conoscere i riposti moti di un sua coscienza ferita, ora ferita maggiormente in questo presente immobile, ma carico di presagi, sia pure mediati dal senso della metamorfosi lenta e inarrestabile che ha cambiato cosi radicalmente Landolfi, inclinandolo verso la poesia del nulla, della separazione, della più amara solitudine.

Solo, amore mio, solo

Come neppure l'usignuolo,

In questa solitudine fo pegno

Di segreta delizia

Ed essa eleggo a mio splendente

Amare note canta la Pinia

Ben so che andranno tutte vuote

Queste ultime speranze

Eppure amore

Io mi scavo una nicchia dentro l'ora

Fuggevole ed alterna,

E piango e soffro e tremo ancora.

L'ossessione della morte riepiloga qui i temi principali della dedizione landolfiana alla confessione, sgombra d'ogni mistificazione, dove (tutta la grande rettorica dello scrittore) assume il “valore positivo di apparizione” che capovolge il suo recitato, tale che “alla fine della rappresentazione” noi possiamo ascoltare “parole essenziali, vere, toccanti, pure” (C. Bo) . La forma scelta per questo “canzoniere” testimonia dima duttilità e di una finezza che Landolfi scopre essenziale al suo preciso momento di negazione: versi fin troppo aulici, accenti d'echi leopardiani, o scopertamente accettati da D'Annunzio; e poi tetre misure baudelairiane, dove i simboli si mischiano a quelli tradizionali, a volte tipiùamente raggiunti da un calco prettamente landolfiano; stratagemmi verbali che indulgono a un classicismo nostrano, quando non a una poesia notturna tardoromantica; e ancora l'imperfetto, evocativo di lontane dissonanze, ma innestato in un tempo attuale che recupera un allegorismo, vitale ancora per Landolfi. Così dicasi per la sontuosità di certe parole, per le accelerazioni del verso in giri sintattici ancora più ricchi, o delle pause e dei rallentamenti musicali che tentano la distanza metrica come una possibilità di saggio nel ritmico impresso ai versi, e dei quali non si ha abbastanza vivo il senso più vero di una musica cercata con disperazione. Ma tutto questo, se da una parte ci avvisa di una mai spenta eccentricità, l'invettiva, l'allegoria, l'epigramma parlano in modo inequivocabile di una verità profonda del Landolfi più vulnerabile.

I1 brivido che passa tra i capelli

Del letterato è segno certo

Che i versi sono belli... dall'esterno.

E si perdeva il cuore in mille ambagi,

E non aveva la tua bocca baci--

Tu ben lo vedi, amicotalpa;

Non è qui, non è qui ciò che ci salva.

L'invettiva e l'epiùramma restano ancora il segno di una domanda che fruga nella sostanza delle ipotesi e dei dubbi di una esistenza mancata. Landolfi dunque nonché piegarsi, tocca la sua negazione per chiuderla nel giro delle parole come fosse esorcizzabile e non solo ripesca talune delle sue affermazioni trasfuse un tempo nell'invenzione fantastica, ma le reinventa senza mistificarle, senza corroderle con l'ironia; ironia scomparsa completamente in questo libro, come ammissione tragica che neppure il più minimo sarcasmo può salvare da una verità che sta alla fine del viaggio umano.

Quando a metà libro egli ci offre due pagine bianche, come fossero dimenticate nel mezzo del suo canzoniere continuo, e vi appunta un piccolissimo asterisco quale segno che lì egli vi è passato, senza parola alcuna, noi sentiamo che il sorriso un tempo beffardo ora piùga al silenzio, al nulla; e non vale neppure a sconfiggere questa voragine la disperata ripresa di alcuni suoi versi giovanili apposti in apertura di libro, recuperati come inclinazione antica (del 1920) alla poesia, ma corretti, quei versi giovanili, da una scherzosa ammissione, che ancor più avverte dove ormai tenda la sua invenzione, la sua creazione.

Tutto trapassa in sordida nebbia,

Come non avessimo mai sofferto

Né chiesto alla vita l'immagine felice

Che ci francasse dell'essere vivi.

E la confessione amara di un riconoscimento della sua impotenza, certo, ma è anche--insieme a tutto il libro--la coscienza di un destino di scrittore, che, in Viola di morte, insegue il “tema dominante” del “rapporto tra vita e morte o, più disperatamente, tra io e Dio”; come giustamente afferma Geno Pampaloni sul risvolto di copertina presentando il libro, oggi col risvolto non più bianco per volontà dello scrittore, ma con la giusta introduzione alla poesia più eccentrica ma più vera degli Anni Settanta.

13

Avevamo già accennato a Gogol a Roma come a un libro episodico stampato da Vallecchi nel 1971, e pertanto discosto dalla linea inventiva e propriamente creativa del Landolfi; avevamo anche avanzato l'idea di una posteriore commemorazione che la raccolta dei saggi e appunti critici qui raccolti poteva costituire nel panorama delle opere dello scrittore frusinate, per quella provvisorietà che distingue la datazione e la scelta di questi saggi, scritti dal 1953 al i958, e ospitati sul “Mondo”di Pannunzio, e che quindi porta a uno stralcio dei più significativi come a un corpus di una ben definita esperienza, con l'esclusione di altri che--nell'intento dello stesso Landolfi--meno si prestano a rivedere la luce dopo tanti anni in un volume che apre gli Anni Settanta.

Ma a questa unilateralità e forse, a ragion veduta, scelta restrittiva operata di comune accordo con l'editore, Landolfi contrappone degli “articoli letterali” che conducono ancora al Landolfi scrittore. Basterà di volta in volta scegliere alcune osservazioni folgoranti, per capire che questi saggi critici vertono tutti su un argomento solo: la educazione letteraria, i termini affettivi, i temi costanti, gli autori amati, le ascendenze disparate che stanno a cuore al Landolfi più vero.

Così pure il titolo stesso del libro, Gogol a Roma, la dice lunga sul significato preciso della critica, o supposta tale, che Landolfi è venuto esercitando sul settimanale romano, di cui qui si hanno esemplificazioni chiarissime. Lo scrittore russo a Roma era straniero, può sentendo una attrazione smisurata per la città eterna e per l'Italia; e nella nostalgia di una vita intensa, del popolo russo e della sua terra, di tutto quel patrimonio spiùituale e culturale che egli aveva lasciato e che sempre ricordava, Gogol viveva a Roma in un modo infatuato. Come affermava Annekov, citato da Landolfi nel saggio che dà il titolo alla raccolta, Gogol “era innamorato del proprio modo di vedere Roma”, che sottolinea anche come Landolfi sia, nella critica di questi “articoli letterari”, un Gogol a Roma.

E l'infatuazione di Landolfi non poteva dunque ricondurre altro che a Landolfi, in modo tautologico che Љ di estrema importanza per mettere a fuoco alcuni processi formativi della sua invenzione, alcune costanti della sua ricerca letteraria, o se non altro certe variazioni sul tema dominante nella creazione landolfiana.

Così che, accanto ai nomi che la critica ha citato a più riprese, quali Nerval, Valéry, Rimbaud, Baudelaire, Leautaud, Poe, Sade, noi troviamo capiùoli dedicati ad altri autori e scrittori e artisti che per certi aspetti possono illuminare il volto oscuro e imprecisato dello scrittore di Pico: e sono autori che hanno seguito l'idea di una letteratura come condanna, come lacerazione, o come identità con la drammatica esperienza dello scrivere, o che nella dannazione di un contrasto vita-arte, non hanno smesso un istante di “servire Dio e il Diavolo, anzi servendo sempre l'uno medesimo Dio”. Tra cui possiamo trovare autori italiani (Papini e D'Annunzio) ma anche Van Gogh, Camus, Gide, Balzac, Claudel, Goethe e i cari russi, verso i quali Landolfi nutre una sconfinata ammirazione.

I russi soprattutto campeggiano in queste note come i più vivi autori che in mille modi riconducono a Landolfi scrittore tragico e beffardo. Cechov (o Cehov come scrive lo slavista Landolfi, giustifcando in una nota la grafia più reale, pag. 148) ha la parte più cospiùua in queste pagine; A lui Landolfi dedica cinque saggi: “Gli ultimi anni” (p. 78); “L'amore per Lidia” (p. 85); “Vienna, Venezia e Sahalin” (p. 98); “Il mistero di Cehov” (p. 145); “Novantatre letture” (p. 173).

Ma di Cehov Landolfi sottolinea anche il rigore, la verità, la forza morale, in una puntualizzazione quanto mai efficace per far giungere al centro della personalità cehoviana più intensa:

Malgrado i suoi vivaci interessi umani, sociali, letterari, malgrado ciò che in qualche sua opera si può ben chiamare profondità di pensiero, il suo nome non resta legato ad alcun sistema, ad alcun movimento, e neppure beneficia di qualche facile formula: il suo “messaggio” non si cambia facilmente in moneta spiùciola. noto che per tutta la sua vita egli desiderò scrivere un romanzo e che si sentì menomato per non esserci riuscito, ma uno ne andava scrivendo, sebbene a minuzzoli, tra i maggiori di tutte le letterature; aperto sul mondo come i mille occhi di un insetto, i quali ne formano poi uno solo. Ed è tra le pagine di questo sparso romanzo che bisognerà, con amore, con pazienza persino, cercare il suo vero volto.

Un altro autore russo trattato con simpatia è Tolstoj, al quale sono riservate le pagine più sottili di tutta la raccolta, in tre capiùoli che riepilogano il mondo non solo dello scrittore di Guerra e pace, ma del popolo russo: “Journal di Tatjana” (p. 8); “Breviario Tolstojano” (p. 106); “Il capriolo Tolstoj”(p. 156).

E certo comunque che in Gogol a Roma non si ritrova alcuna traccia di critica accondiscendente (vedi “Il caso Beckett”), o laudativa senza motivo (come in “Le poesie di Minou”), ma piùttosto una critica avveduta, eclettica, che, mentre afferma, nega, o clamorosamente stronca senza aver l'aria di fare un rabbuffo (“Pasternak col batticuore”). Ed è in queste incisive indicazioni che troviamo anche alcuni momenti di sosta, di sospensione pacata, in cui, seguendo Landolfi, si viene condotti ai temi del gioco (“I giochi del caso”, dove si trova anche un giudizio sulla difficoltà del “tradurre”); alla disquisizione sull'intelligenza degli animali:

Se il cuore attribuisce a questi nostri compagni di vita, gli animali, facoltà pari o addirittura superiori alle nostre, rifugiando in una zona di affascinante mistero il loro silenzio, ossia quanto di loro (ed è il più) ci resta ignoto, la ragione è forzata ad attenersi a quel criterio analogico, o diciamo sperimentale, che sembra il solo possibile in fatto di conoscenza; forzata, può sentendolo sapendolo, insufficiente e in certo senso illegittimo... Come tutti gli esseri, gli animali hanno più affetti (dei quali non v'è chi potrebbe dubitare) che pensieri, e allo stesso modo che un'indagine sistematica sull'intelligenza femminile vizia e vizierebbe i nostri rapporti colle donne e la nostra comprensione stessa di tali delicate e comnlicate creature, queste indagini rischiano di compromettere una intesa bene o male stabilitasi coi nostri meno tronfi compagni d'esistenza. Più gravemente parlando: l'interesse degli animali è probabilmente accentrato su oggetti a noi sconosciuti, donde la necessità o di sorprenderli e seguirli nei loro sentimenti per la via medesima del sentimento, o di rinunciare del tutto a definirli (“Intelligenza degli animali”).

O ci si imbatte nella riconoscenza per un Verne, scrittore che ha attirato nelle sue fantasie spasmodiche il giovane Landolfi, al quale qui viene reso un tributo riconoscente:

Giulio Verne! Per degnamente pagare il debito di riconoscenza che abbiamo verso questo consolatore della nostra tetra infanzia e talvolta della nostra non meno tetra maturità, vorremmo disporre di una penna tenera e fantastica, patetica, libera e frizzante come la sua; eppoi di una penna tanto o quanto critica, da mostrare che egli ha un posto ben definito nella letteratura francese (“Il sedentario Giulio Verne”).

Altrove ci vengono svelate le difficoltà della traduzione (“Il traduttore errante”) o i punti nevralgici di una poesia amata come l'equivalente di un'anima ferita, sempre tesa a misurarsi con la propria empietà, che diversifica autore e poeta da una retriva esistenza, in cui Landolfi si riconosce, tenta di svelarsi, ma che spesso sfugge come una immagine speculare inafferrabile:

Paul Eluard fu in realtà una nobile figura di poeta e di uomo, che non si prenderebbe a gabbo (come pure talvolta, viste alcune sue bizzarrie, si è tentati di fare) senza empietà. La sua poesia delicata, di costituzione oltre che di sentimenti, la quale da un estremo rivela il de Musset appena a grattarla, dall'altro si perde in vaghe musicalità, è ad ogni modo, nella sua parte centrale e più valida, una voce pura della letteratura contemporanea (“La poesia involontaria”).

E poi restano le pagine dedicate a Camus, delle più profonde che siano state scritte sull'autore della Peste (“L'ingiusto Camus”); o a Proust, sentito come autore eccelso, sia pure ridimensionato da Landolfi nelle sue punte più ovvie e precisabili:

Proust può persino nella Recherche apparire anacronistico, nel senso che le sue scoperte (d'altronde non tutte sue) son poi divenute, e in parte gi… erano, moneta corrente al punto da sfiorare l'ovviet…--il che del resto non significa altro se non che la sua opera è perfettamente centrata nel tempo e (salvo il paradosso formale) perfettarnente tempestiva; persino nella Recherche la sua frase ricca, anzi sovraccarica, che è una sorta di lassa interiore, costitutiva se mai ve ne furono, può apparire petulante, a tratti addirittura inudibile. Ma se lì tali particolari, deteriori o no, son rifuse in ciò che volgarmente si chiarna una potente sintesi, sostenute da un vigoroso ingegno che ha preso interamente coscienza di s‚ e di autorità rese accettabili, qui (in Contre Sainte-Beuve) in questa prosa narrativa, serbano qualcosa della loro gravezza: incertamente, dubitosarnente (specie in principiù) lo scrittore cerca di liberare le sue gemme, ossia la sua materia e la sua espressione medesima, dalla ganga che le imprigiona “La lezione di Proust”).

Infine D'Annunzio: punto focale di una genialità che Landolfi sente vicina, precisa, ancora autentica nel rissoso scorrere di modi e mode del Novecento, al quale Landoldedica una commemorazione in occasione dell'uscita di una biografia circostanziata del poeta abruzzese, Vita di Gabriele D'Annunzio edita da Sansoni nel 1957, e dovuta alla penna di Guglielmo Gatti (“Una vita di D'Annunzio”).

Il volume di Landolfi, dunque, nonché battere strade impervie, ma segnate dall'entusiasmo landolfiano, non fa cenno alcuno (o solo in pochi capiùoli dedicati per lo più ad autori stranieri) alla letteratura degli anni in cui veniva stilando queste note critiche; letteratura che sarebbe arbitrario, nella sua complessiva valutazione, assimilare a quel giudizio sulla poetica di Robbe-Grillet di cui si ha traccia in Rien va (“Da un mese la mia lettura di gabinetto [di W.C.] è sempre uno smilzo libretto del Robbe-Grillet, che non riesco a finire”, p. 51), ma che tuttavia autorizza a pensare alla poco considerazione in cui teneva detta letteratura il critico e lettore Landolfi. Giudizio severo, venuto da uno scrittore che forse appartiene a una corrente ottocentesca di grande prestigio, piùttosto che al nostro immediato Novecento, se in questo volume ha voluto scegliere deliberatamente gli autori più prossimi a quel secolo; scelta che può forse trovare la sua vera giustificazione nella concezione della critica come creazione, sintetizzata in un giudizio estremamente illuminante, là dove, appunto, Landolfi afferma che “denunciare una contraddizione non è ancora risolverla criticamente, giacch‚ in sede critica ogni dissidio deve può essere placato e ricondotto all'unità, positiva o negativa che sia”.

14

La nota ossessiva, lancinante, sotterranea, che ormai sta corrodendo la coscienza di Landolfi, è quella del salto nel buio, della morte come ultimo traguardo a una maturità che incombe: già era apparsa nitida nelle opere teatrali, già aveva preso forma lirica in Viola di morte.

I sette racconti che compongono il volume stampato da Rizzoli agli inizi del 1974, nati sotto quel segno e sotto quella impronta, mostrano come Landolfi non solo ritorni con la memoria ai “temi” della vita che più gli sono stati cari, come quello dell'amore assoluto, capace di redimere un peccatore dai suoi sbandamenti; o quello della rivisitazione di antiche affezioni, riconosciute ormai prive di forza e di sostanza: lo scrittore ritorna anche agli stilemi espressivi prediletti, un tempo usati con destrezza, sapendo che nel riproporli egli corre l'alea di una imitazione di se stesso. Stilemi che gi… sono stati individuati in un dialogo fitto, in un linguaggio aulico, sostenuto ed eclettico, o in un'ironia micidiale che veste forme e volti sorprendenti che si muovono in situazioni abnormi, assurde e grottesche, ma mai come in questi racconti de Le labrene con quel segno prevaricante del disfacimento, della dissoluzione.

Le corrispondenze non arbitrarie tra questi racconti, o le situazioni che Landolfi viene prospettando in queste prose, potrebbero trovare conferma nella scelta di alcuni “racconti impossibili”, o negli scorci narrativi di In società e più ancora fervidamente in quelli di Un paniere di chiocciole ma la distanza stilistica tra quei racconti e questi del 1974 si può misurare appena ci si soffermi a rintracciare l'insistenza di certi vocaboli, di certe forme verbali, o ancora nelle descrizioni e nei dialoghi, molto significativi nel denunciare l'artificio, la macchinosità, l'ambiguità che maschera la bravura, quando non la volontà di apparire spregiudicatamente parodista impeccabile.

Tuttavia Landolfi opera sempre uno scarto tra ciò che dice e ciò che intende; e se sollecita una visione che si pone contro la norma comune lo fa per condurre oltre il punto più vulnerabile della sua ferita, tenta sempre di celare nella forma narrativa un suo abisso psicologico o una sua offesa profonda.

La prova lampante di questa sua digressione, va ricercata nel racconto “Le labrene”, che dà il titolo all'intera raccolta, e che impronta anche tutti gli altri racconti, con quella sua incidenza di grottesco e di lotta spiùtata tra l'apparenza e una verità ultima, assoluta, che ancora è la verità autobiografica dello scrittore, ormai in questo suo “secondo tempo” irreversibile.

L'uomo che ha ribrezzo ancestrale per certi animaletti caserecci, detti appunto ® labrene Ї, e che li insegue in ogni luogo della casa, mettendoli in fuga con strategie difformi, non Љ che l'incarnazione dello stesso autore, terrorizzato da una paura atavica per certe apparizioni, per certe sembianze sconosciute, che a volte prendono forma di ammonimento e di prefigurazioni oscure, a volte sono segni premonitori di ciò che attende “di là”, oltre il confine del visibile, un abisso che Landolfi già ci ha fatto conoscere come volto opposto della vita.

Un giorno uno di questi rettili in miniatura gli cade sul volto: la paura si muta in terrore, l'uomo perde i sensi. Risvegliandosi muto in una bara, può vivere l'avventura della morte apparente, dentro la quale non solo egli saggia il confine tra l'assurdo di una sua immobilità e la vita che scorre e fluisce d'intorno; ma può scoprire o tentare di prefigurarsi ciò che “continua” senza di lui, gli affetti, i volti, i sentimenti che gli sopravvivono, dentro i quali egli può anche essere sostituito o dimenticato .

L'amore che immagina o che gli sembra nato da tempo tra sua moglie‚ un cugino, scoperto durante una visita funebre dei due alla sua bara, pirandellianamente fa emergere il grottesco che è in ogni situazione, dove le parti possono essere scambiate, e subentrare una “forma” a un'altra, denunciando tutto il vuoto che si insinua anche nelle ragioni più vitali della nostra esistenza.

L'uomo sta per essere sepolto: ma ha un attimo di ribellione, il morto resuscita, con la sorpresa e lo spavento di tutti. Ritornato alla vita, per lui è una resurrezione piena di dubbi, d'inquietudine, un'altra morte.

Spia, incredulo, i due amanti, cerca ossessivamente “la verità”: ma questa è irraggiungibile, come lo è di ogni cosa del mondo. La verità è solo una finzione dei sensi, così come di reale vi è solo il volto assurdo della labrena, i suoi occhi “tondi, sporgenti, lucenti”, gli occhi della morte, ci dice Landolfi, che attende al vaglio, che attende ai confini in un oscuro presagio o come estremo destino dell'uomo. Conoscerla in viso -- oggi scoperta nello sguardo delle labrene -- è farla vivere in una dimensione che ha il sapore della profanazione, ma è anche lo squarcio che si apre sul vuoto, sul nulla, è l'irrealtà dei nostri sogni, delle nostre sure mondane, delle nostre più labili speranze.

Il tono del primo racconto si rinviene anche in alcuni altri: in “Encarte” (dove Landolfi ci sottopone lo scambio delle parti fra due gemelli, con epiùogo morale) in cui lo scrittore--mediante uno stratagemma-- ci dice che nessuna distinzione può essere fatta per l'uomo, se un destino comune annulla ogni scelta di tempo, passato presente e futuro si fondono, e ci rende tutti simili, un volto per tutti, senza singolarità o identificazione, se non nella sembianza che ci viene da una corrosione indifferibile.

Così pure in “Pellegrinaggio”, forse il più perfetto racconto del volume, dove il senso della decadenza fisica viene riscattato da un ideale di bellezza spiùituale e affettiva, a cui Landolfi ricorre, nella memoria, attraverso un “pellegrinaggio” a simulacri che ha lasciato nei luoghi della giovinezza: qui--nel racconto--a una donna che ha costituito per lui momenti di felicità, ma alla quale--tornato a cercarla--ne rinviene mutati gli aspetti, le sembianze, com'è dei segni disseminati lungo la vita, ai quali si può tornare appena quando l'anima, sfidando la morte, li sa evocare. Gli altri racconti, al contrario, non sono che esercitazioni in chiave parodistica o allegorica, di situazioni irridenti la condizione umana negli aspetti di costruzione, di normatività vincolante o di paradossale frustrazione. La stessa forza narrante, che si serve di un “parlato” eccentrico, tutto contrappuntato di salaci battibecchi, di sfide dialettiche, si spegne qui di fronte allo “scherzo” volutamente beffardo, sia nella prospettazione delle situazioni, sia nel condurre a compiùento epiùoghi morali, un tempo sottintesi, o calati nella costruzione espressiva con vigore e con diverso stile.

In “Perbellione” lo scherzo sta alla superficie, non immerge in nessuna possibile rifrazione, si snoda con usuale correttezza linguistica, ma niente più. Così dicasi di “Crittogramma”, dove se una punta di luce sembra venire è da ricercare nel tema dell'amore, trovato come d'incanto nell'ammonimento che Landolfi sembra darci, di contro all'orizzonte piatto e utilitaristico della civiltà moderna.

Così pure in “Uxoricidio”, racconto a tesi, in cui Landolfi si serve dei procedimenti da “giallo”, ma sul pieno dei risultati abbastanza modesto. A parte, invece, va considerata l'ultima prosa, “Conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni “, in cui, sotto forma di “teatrino”, già con altra mano da Landolfi impiùgato nelle dissertazioni critiche sulla sua prosa, o sulla logica della condizione esistenziale, lo scrittore ritrae lo scontro ironico con uno (o con molti) dei suoi critici, ai quali imputa una sciatteria e una impreparazione critica ad interpretare nonché le sue opere, il suo linguaggio.

Ma come si avvertirà, sono prove scialbe, dove l'invenzione è ormai scontata, inerte, inefficace sul piùno espressivo, vuota d'emozione, che limita in modo inequivocabile i confini entro cui già inclina la vocazione narrativa landolfiana, ormai consunta fino alla disperazione, sia pure con dignità ravvivata da Landolfi attraverso il magistero della sua genialità.

NOTIZIE BIOGRAFICHE.

Tommaso Landolfi è nato a Pico (Frosinone) il 9 agosto 1908.

Poco o nulla si conosce della prima infanzia dello scrittore, se non ciò che si può desumere da alcune commosse ipagine dello stesso, contenute in Ombre (1954)segnatamente in “Prefigurazioni: Prato”), dove si apprende che morta la madre quand'egli aveva poco ,più di un anno e mezzo, fu messo dal padre nel Collegio Cicognini di Prato (lo stesso dove era stato il giovane D'Annunzio).

Laureato in lettere all'Università di Firenze, frequentò la cerchia degli 'ermetici', collaborando, tra l'altro, a “Campo di Marte” e “Letteratura”. Su quest'ultima rivista Landolfi esordcome narratore verso i trent'anni con Dialogo dei massimi sistemi (1937), che già offriva una compiùta immagine del più grande e vero Landolfi.

Alla vigilia della guerra fu a lungo in prigione per antifascismo.

Dopo il conflitto alternò soggiorni all'estero con lunghe pause a Pico, a Firenze, a Venezia, o sulla Riviera di Ponente (Arma di Taggia), attratto dalla sua sfrenata passione per il gioco.

Soggiornò per vario tempo a Firenze e a Roma, collaborando assiduamente al settimanale “Il mondo” di Mario Pannunzio, con prose d'arte, note di viaggio (puntuali su quel giornale i suoi “foglietti di viaggio”) e recensioni o articoli letterari: collaborazione che durò ininterrotta dal 1953 al 1958.

Ottimo traduttore dal francese e dal tedesco, Landolfi si rivelò slavista impeccabile con alcune versioni dal russo dei libri di Gogol e di Puskin, e con saggi sui maggiori scrittori russi dell'Ottocento.

Scrittore eccentrico spesso portato a trasfondere la propria biografia nelle figure dei suoi personaggi letterari, non si è mai sottratto a una forma di romantico “dandysmo” (sulla scia di un Byron o di un Baudelaire) o a quella di un “personaggio” stravagante e beffardo, ostentato e sorretto dalla propria creazione e invenzione, sulla falsariga dei classici dell'orrore (Poe, Hoffmann) o degli allucinanti surrealisti francesi (il Marchese di Sade, Lautréamont).

Dotato di una cultura profonda, subi la suggestione di quelle forme letterarie che incidono nel rapporto tra conscio e inconscio, tra ragione e istinto, con prevalenza per quegli intenti espressivi che tentano di far luce sull'essenza dell'uomo a diretto contatto con una realtà abnorme e inquietante, cercata fino all'ossessione, tanto da operare un continuo e folgorante impiego di forme stilistiche reinventate continuamente.

Schivo e appartato poco si conosce sulla sua vita privata, se non per quei brevi accenni che si possono rinvenire nella sua vasta opera, che per tanto tempo, fino almeno dopo il secondo conflitto mondiale, è stata privilegiata da una critica ristretta, specialistica.

Con gli Anni Cinquanta-- accanto a una maggiore attenzione critica -- sono stati tributati a Landolfi premi e riconoscimenti dei più— prestigiosi in Italia, come il Premio Selezione Marzotto nel 1955 e nel 1967 o il Montefeltro nel 1962 per tutta la sua opera. Precedentemente gli erano stati assegnati altri premi, tra cui ricordiamo: Premio Viareggio nel 1958 al volume Ottavio di Saint-Vincent; Premio Settembrini - Mestre nel 1962 al volume dei Racconti Premio Bagutta nel 1964 al diario Rien va; Premio Campiùllo nel 1964 per Tre racconti; Prernio Isola d'Elba nel 1966 per Racconti impossibili, Premio Moretti d'Oro nel 1967 per il secondo diario Des mois, Premio D'Annunzio nel 1968 per il volume di cinquanta elzeviri Un paniere di chiocciole, Premio Pirandello nel 1968 per un'opera teatrale inedita a Faust 67.

Attualmente, Landolfi vive a Pico, con la moglie e due figli, Minor e Minimus.

Fine.



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