Giorgio Petrocchi
Vita di Dante
alla memoria sempre presente
di mia Madre
I
I MITI DELL'INFANZIA
Non è
legittimo inoltrarci troppo nella puerizia e nell'adolescenza di Dante, alla
ricerca dell'identità umana, dei sentimenti, delle esperienze del
fanciullo e del giovinetto. Ma è impossibile anche il non presentarci il
problema, non tanto per i richiami continui che nelle sue opere accadranno
sulle sensazioni, gli impulsi del bambino[1],
ma piuttosto per la necessità di intuire il sorgere d'un intelletto
precocemente interessato ai sentimenti, d'una sensibilità velocemente
instradata sul sentiero della riflessione di pensiero, d'una memoria
prodigiosa. Sin dagli anni giovanili, infatti, tanti eventi della storia
fiorentina e italiana ed europea del quarto ventennio del Duecento restano
impressi per sempre in lui, se i racconti a lui resi dai familiari[2]
si coniugano così strettamente con quelli appresi, letti, narratigli
più tardi, da costituire un saldissimo nesso. E questo nesso è
destinato a proliferare col tempo, a divenire uno dei fondamenti della Commedia,
a riuscire a lavorare profondamente nel suo interno, sino a divenire materia
vissuta, a far che gli eroi e le vittime e i perversi uomini di quel periodo
divengano persone quasi contemporanee, personaggi coi quali converserà
come se fossero stati da lui direttamente conosciuti, come se anch'egli avesse
vissuto quegli anni: immediatezza dei sentimenti, delle inquietudini d'un
Manfredi o d'un Farinata.
Il nostos
dantesco a Firenze, non raggiunto nella vita ma vagheggiato sino all'explicit
dell'opera maggiore, si unisce senza soste o ripensamenti a tutta la storia
civile del Duecento, ma con tre zone distinte d'influsso e di riecheggiamenti
nella memoria, a seconda che si tratti di avvenimenti della prima metà
del secolo, sino alla morte di Federico II (1250), ovvero di fatti e personaggi
della storia immediatamente precedenti la nascita o svoltisi lungo gli anni
della puerizia, dall'avventura di Manfredi[3]
alle vicissitudini ghibelline di Pisa e di Firenze, ovvero di tutti gli
accadimenti uditi e visti dall'età della giovinezza all'ultimo spegnersi
di terrene vicende nei canti finali del Paradiso, dalla notizia
improvvisa dei Vespri (21 marzo 1282) alle difficoltà tra Venezia e la
Romagna, ai primi inizi dell'impresa di Ludovico il Bavaro[4],
allorché sta ancora combattendo in Germania contro Giovanni di
Lussemburgo e Federico d'Austria, e, per finire, alle oppugnate prescrizioni di
papa Giovanni XXII.
Potrebb'essere
persino superfluo segnalare che la prima fascia cronologica interessa Dante
solo episodicamente, e se ci dà qualche particolare[5],
non è tale da sovrapporsi all'occasione, ma questa lo determina: i
pontificati “francescani” di Innocenzo III e di Onorio III. Tutte e due le
prime fasce hanno zone di silenzio, ma assai più la prima della seconda,
anche se questa s'apre con la glorificazione di Federico II, spiccante nel
panorama della storia europea come l'ultimo imperadore de li Romani[6],
come il protettore, mio segnor, che fu d'onor sì degno[7],
l'eroe, con Manfredi, del De vulgari eloquentia, I, xii, e si chiude con l'accorato
rimpianto sul tramonto svevo, da Manfredi a Corradino, attraverso il resoconto
delle efferatezze di Ezzelino III da Romano, i successi viscontei a Milano e
angioini a Napoli. Lungo tutto l'arco di quegli anni gli uomini e le cose
prendono posto fissamente nel poema, in modo sempre più continuo,
sì da poter costringere (il che non faremo) ad una lunga elencazione.
Gli eroi positivi o negativi, Farinata o Carlo I d'Angiò, costituiscono
punti di riferimento continui della lectura dantesca, e lì
troveranno meglio la loro collocazione. Di tutta la storia coeva c'è da
dire per converso che la nomenclatura è così esaustiva, concerne
tanto direttamente il tessuto del poema, era entrata in qualche parte della Vita
Nuova[8],
entra in tante zone delle Rime della giovinezza e della maturità,
per lo più in quelle a carattere realistico, per riaffiorare con note
dolenti nelle rime dell'esilio, è centro esplicito delle Epistole
e implicito delle Egloghe, è l'elemento motore della Monarchia,
era affiorata anche nel Convivio e nel De vulgari eloquentia,
è prima e dopo l'asse portante dei corrucci e delle invettive
anti/proimperiali, antifrancesi e antipapali, dapprima pro e poi contro il
Guelfismo, dapprima contro e poi a favore del Ghibellinismo, è insomma
così onnipresente, da Firenze alla Sicilia, da Verona alla Francia e
all'Inghilterra, da Ravenna a Roma e ad Avignone, così che è
elenco inutile riportare tutte le vicende echeggianti in Dante e tutti i
personaggi del suo tempo. E anzi ha destato e desta qualche curiosità,
sovente vana, la ricerca del perché del silenzio sopra alcuni, invero
pochi casi, e insomma l'assenza di Giano Della Bella o di Benedetto XI,
l'oscurità in cui è avvolto il caso di Celestino V (anche se non
si vuol credere che sia lui l'ombra misteriosa del Vestibolo infernale), il
silenzio su alcune nazioni quasi che Dante non ne conoscesse l'esistenza, e la
conosceva invece (diciamo la Polonia), solo che non c'è stato modo di
citarla, così come sono assenti tra i papi e gli imperatori del Duecento
alcuni non irrilevanti, non si dice della meteora di Celestino IV, ma, ad
esempio, Alessandro IV o Gregorio X o (il papa della sua giovinezza) Niccolò
IV, o, tra i secondi, l'imperatore Corrado IV, che non è il secondo
vento di Soave[9],
com'era apparso ad antichi commentatori colui che è invece il figlio non
d'una presunta Costanza di Baviera, ma di Beatrice dell'Alta Borgogna, Enrico
VI.
Il fatto essenziale
è che tutta la storia contemporanea che conta è presente in
Dante, in proiezioni differenti se allusa da giovane, se giudicata nei primi
anni dell'esilio, se condannata nell'ultimo decennio della sua vita: quello per
noi decisivo, e che vede la messa in atto dell'Inferno, la scrittura e
la conclusione del Purgatorio e del Paradiso. E la proiezione
è duplice: sia quella dell'uomo che procede d'anno in anno lungo quella
storia e se ne fa idee, impressioni, eccitazioni diverse, sia del poeta che
è tenuto a rispettare la datazione del viaggio escatologico (la
Settimana santa del 1300), e quindi è indotto a “sdoppiare” le
suggestioni del personaggio-Dante che intraprende il cammino per i tre regni
dell'oltretomba cristiano, coi giudizi d'un esule con dieci, quindici,
vent'anni di peregrinazioni per l'Italia e di successivo inasprimento
psicologico verso gli eventi della realtà circostante.
Il maggior tramite di
questa presenza della storia in Dante, non è tanto il trascorrere degli
eventi dalla maggiore età del poeta sino all'estremo periodo,
giacché qui la storia coesiste e convive con Dante. Egli ne è in
un breve periodo un personaggio sia pure non principale, entra in contatto con
qualche protagonista (Bonifacio VIII a Roma, Enrico VII a Vercelli o a Milano,
Corso Donati e Vieri de' Cerchi, tutti i Donateschi e i Bianchi a Firenze, e
qui anche Carlo Martello, e s'era fregiato dell'amicizia di uomini di potere,
come Nino Visconti). Il tramite maggiore, il più suggestivo
perché in qualche modo più sfuggente e avvolto nelle brume della
memoria, è quello costituito dalla storia “orale”, dalla tradizione di
eventi così com'erano stati vissuti dai consanguinei o conosciuti dagli
uomini di più adulta età (Brunetto Latini, per citare subito
l'esempio maggiore), o filtrati attraverso altri racconti di membri di altri
casati. Si rifletta solo un momento quale miniera di notizie sulla storia
fiorentina e italiana dovett'essere l'amico Guido Cavalcanti, la cui famiglia
sarebbe scesa dalla Francia o dalla Germania, aveva avversato la rivolta di
Schiatta degli Uberti, era stata tra i fondatori del Guelfismo fiorentino (in
un'epoca in cui gli Alighieri contavano poco o nulla), aveva partecipato al
tentativo di pacificazione tra Guelfi e Ghibellini (Guido in prima persona,
mandato a nozze con Bice figlia di Farinata) e alla pace del cardinal Latino,
schedata come tra i Grandi negli Ordinamenti di Giustizia, correa dell'alleanza
tra i Cerchi e gli Adimari. La “memoria” di Guido si trasferisce in quella di
Dante. Il ricordo degli eventi del 1248 e del 1260 entra nel ricco bagaglio
delle nozioni storiche di Dante anche attraverso gli eventi dell'amico e del
padre di lui, l'eresiarca del canto X dell'Inferno, condannato nella stessa
buca rovente con il consuocero, a risuggellare ancora una volta, non senza una
stridente ironia, il fallimento del matrimonio tra due casati sempre più
avversi politicamente. E se di Monna Bice sappiamo ben poco, è evidente
che Dante l'aveva conosciuta, entrando così in un rapporto di “memorie”
con la figlia di Farinata prima ancora di conoscere, nell'esilio, i figli e i
nepoti di lui.
Per un verso o per
l'altro, in modo più conforme o maggiormente alla lontana, tutti gli
album di famiglia dei grandi casati fiorentini sono aperti all'avida
consultazione della “memoria” storica di Dante, quei casati la cui elencazione
nel canto XVI del Paradiso rischia per noi d'essere scarsamente
parlante, ma per il poeta evocava, nome per nome, situazione per situazione,
una folla di ricordi struggenti o polemici. E nel novero delle reminiscenze di
famiglia, nulla vieta che possano, anzi debbano essere collocate quelle
derivanti dal casato della madre, se essa è figlia di Durante degli
Abati, e da quello della moglie, una parte se non tutto l'immenso archivio dei
Donati.
Tuttavia l'asse della
memoria di Dante, della sua tradizione di storia “orale”, è costituito
da Bellincione Alighieri, l'avo del poeta; di lui, figlio di Alighiero I, nato
sul finire del sec. XII, spettatore di tutta la storia fiorentina sino oltre il
1270 (le ultime sue notizie risalgono al 1269, ma è probabile che
vivesse ancora adolescente il poeta). Bellincione aveva assistito sia alle
vicende pubbliche che a quelle private del casato; sapeva della sorte degli
Elisei, di Moronto, della sanguinosa faida tra i nobili nel corso della quale
era morto Geri Del Bello. Non aveva conosciuto l'avo Cacciaguida, ma aveva
ereditato dal padre il culto di questo piccolo nobile che era stato armato
cavaliere ed era morto eroicamente in battaglia. Per la sua stessa posizione
cronologica nel cuore del Duecento dovett'essere una miniera di notizie, tutte
avidamente apprese dal fanciullo Dante, tutte o gran parte risorgenti nella
reminiscenza tardiva quando i contenuti del sacrato poema lo porteranno
ad utilizzare fatti e personaggi in gran copia. Così di tradizione in
tradizione, dalla famiglia alle consorterie amiche, lo spirito di Dante si
riempie di miti, coltivati profondamente proprio perché attingevano le
proprie radici in tutti i ricordi dell'infanzia, visti certamente per un
tramite rispettato per la sua equanimità di giudizio[10].
L'adulto Dante non
potrà rileggere la storia, soprattutto a partire dal secondo biennio
dell'esilio, nello stesso modo in cui gli veniva favoleggiata dall'avo
Bellincione; le sue nuove convinzioni politiche lo impegneranno a rivedere
tante cose del mondo guelfo, a riesaminare, ad esempio, tutta la politica degli
Angiò. Ma i miti dell'infanzia dovevano parimenti rimanere integri,
resistere potentemente in lui, e mescolandosi coi giudizi dell'età
matura, far scaturire quella visione complessiva d'un secolo di storia che
troviamo operante nella Commedia, e affiorante nelle valutazioni
specifiche che di alcuni fatti vengono date nelle opere minori. Il favellare
dell'avo, la replicazione di questi racconti in bocca all'indotto ma non
insensibile Alighiero II, qualche ricordo materno servivano a fargli figurare
lo splendore di un'età passata dinanzi alla quale il rimpianto è
totale, e che serve col distanziarsi di quei fatti nel tempo a rappresentarli
coi colori della grandezza, della magnanimità, dell'eroismo: quegli
attributi che sono alla base del ritratto esemplare (anche perché
l'unico che si stacchi così nettamente) di Farinata e di ritratti
minori, tutti estremamente significativi, sospinti dalla nostalgia verso figure
ancora più antiche, d'un'epoca anche un po' antecedente Cacciaguida,
come Bellincio filius Bertae, Bellincione de' Ravignani, eroe di anni
remotissimi, 1170-80: un secolo prima di questa puerizia del futuro poeta.
Ripercorriamo con
ordine la storia del casato dantesco, riflettendo che forse siamo in grado di
conoscere dati che lo stesso poeta ignorava e di cui aveva memoria imprecisa,
sempre in virtù (o per colpa?) di questa storia “orale”. Egli sa con
certezza che la propria famiglia è fiorentina d'antichissimo ceppo, e ci
pone sulla buona strada parlando più volte delle proprie origini (da Inf.,
XV, 73-78 a Par., XV, 91-96, 130-148; XVI, 1-9, 34-35), con indicazioni
insolitamente precise poste in bocca rispettivamente al suo maestro, Brunetto
Latini, e al trisavolo Cacciaguida, soprattutto a questo, che, indicata
l'origine fiorentina, ci rende edotti del nome di due suoi fratelli, Moronto[11],
e Eliseo, nome quant'altro mai illustre se riuscissimo ad esser certi ch'egli
sia effettivamente il progenitore dell'insigne casata degli Elisei, così
importante nella storia fiorentina del Duecento. Un documento del 1131
documenta l'esistenza di un Cacciaguida “filius Adami”; la estrema
rarità del nome ha indotto il Barbi a concludere che si tratta
dell'ascendente del poeta; in tal caso conosceremmo il nome anche del
quadrisavolo di Dante, questo Adamo vissuto, dunque, due secoli prima del
nostro.
L'aureola del
martirio di Cacciaguida costituì indubbiamente, assieme al titolo di
cavaliere di cui l'aveva armato Corrado III, il maggiore onore della famiglia,
accanto ad altro titolo, meno rilevante ma assai suggestivo per l'esule nelle
corti dell'Italia settentrionale: l'origine padana (Ferrara?) della moglie di
Cacciaguida, di val di Pado, e dal nome di lei, Aldighiera o Adegheria o
anche Alagheria, la causa del cognome, la cui forma, oscillante nei documenti e
nei manoscritti delle opere dantesche, andrà poi consolidandosi nelle
due forme Alaghieri e Alighieri, quest'ultima ormai invalsa nell'uso. Si
suppone che questa moglie padana fosse figlia di un Aldighiero degli
Aldighieri, ed or dunque siamo in grado di risalire ai quadrisavoli del poeta:
una genealogia fiorentino-padana che per il Dante degli ultimi anni
suonerà doppiamente gradita; così l'abitudine di alternare il
nome di Alighiero con altro: usanza che il poeta spezzerà, ma che
ripristineranno i suoi figli, con Alighiero e Alighiera di Pietro e Alighiera
di Jacopo.
Cacciaguida ebbe due
figli, Preitenitto (padre di un Bonareddita) e Alighiero, il qual ultimo, il
bisavolo del poeta, ebbe in moglie una figlia di Bellincione Berti, quest'altro
antico eroe della vetusta e gloriosa età di Firenze, anch'esso
ascendente del poeta. Alighiero I visse tra il finire del sec. XII (nel 1189
è presente in un atto assieme al fratello), e venne a morte poco dopo il
1201: Dante dirà che Alighiero I ha girato per più di cento anni
nella prima cornice del Purgatorio: il che è stato un dato di fatto
assunto per forzare la data di composizione della Commedia, ma è
evidente che Dante non potesse avere dati sicuri, per quanto tutto fosse
affidato alla memoria dell'avo Bellincione, ai “racconti” di famiglia. Da
Alighiero I nacquero Bello, capostipite del casato dei Del Bello, padre di Geri
(altro personaggio del poema), e Bellincione, come già s'è detto
l'avo di Dante, un personaggio che dovette illuminare con la sua presenza di
ricco uomo d'affari, d'abile mercante di terre e lavoratore d'esse, d'astuto
prestatore di denaro, tutta la puerizia del poeta. Bellincione era in stretti
rapporti d'affari con la nobiltà fiorentina, e forse a ciò si
deve che il nipote potesse ricevere un'educazione non da grasso borghese, ma
quasi d'aristocratico. Bellincione e i suoi erano stati coinvolti in tutte le
gravi vicissitudini della storia fiorentina di metà secolo, e per due
volte aveva conosciuto la via dell'esilio. Ne abbiamo conferma dallo stesso
poeta, là dove mette in bocca a Farinata la sarcastica allusione: sì
che per due fiate li dispersi, e cioè nel 1248 (sino al rientro dei
Guelfi nel gennaio del 1251), e soprattutto dopo la battaglia di Montaperti (4
settembre 1260): esilio più lungo, per quattro anni, sino al 1264,
l'anno della morte, per l'appunto, di Farinata: complessivamente sette anni
d'esilio, i quali tuttavia non danneggiarono molto gli affari di Bellincione,
ancor vivo (come abbiamo già detto) nel 1269, quando sarà redatto
l'estimo dei danni ricevuti dai Guelfi durante la supremazia ghibellina.
Bellincione ebbe vari
figli, ciascuno dei quali riuscì ad incrementare la fortuna paterna, e
così il primo dei sei figli maschi, Alighiero II, che una mala sorte
legata alle accuse di Forese Donati nella tenzone con Dante tende a descrivere
come quasi un malfattore, che ha avuto a che fare con la giustizia, e un
perverso usuraio, come tale non degno della sepoltura religiosa: sono accuse
che fanno parte del divertissement “giocoso” tra Forese e Dante, e come
tali non di gran conto. Certamente non fu uomo di cultura, e la fama di
prestatore di denaro poteva facilmente sconfinare con la nomea di usuriere; ma
i dati in nostro possesso non consentono di giudicarlo come un malvagio, un
poco di buono, né dobbiamo condannarlo soltanto perché il figlio
non ne ha tessuto l'elogio (aveva forse altri motivi per non farlo, non
eventuali condanne penali). Alighiero II seppe comunque conservare la
vitalità finanziaria della famiglia, e non far mancar nulla ai quattro figli
avuti da due matrimoni. Sposò in prime nozze una giovinetta di nome
Bella[12],
la quale gli diede due figli, Durante detto Dante, e una figlia che andò
sposa a Leone Poggi; morì in giovane età, e Alighiero si
risposò quasi subito, con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, la quale gli
diede altri due figli, Francesco e Tana, poi andata in moglie a Lapo
Riccomanni.
Tutto ciò che
concerne la madre di Dante, è, dunque, avvolto nell'oscurità, e
del pari quel che sappiamo invece dai documenti relativi ad Alighiero II, non
ci pone in alcuna connessione con la puerizia, la giovinezza, le abitudini del
grande figlio primogenito.
II
NASCITA E PRIMI STUDI
Da un complesso e
minuzioso esame delle testimonianze interne ed esterne, possiamo affermare con
quasi assoluta certezza che Dante nacque in Firenze in un giorno tra il 14
maggio e il 13 giugno dell'anno 1265 (più probabilmente verso la fine
del maggio), nella casa degli Alighieri nel popolo di S. Martino del Vescovo,
di fronte alla Torre della Castagna, casa che era stata di Geri Del Bello,
più tardi di Alighiero. Gli elementi sono molti e molto solidi, e si
basano su un'attenta rilettura di numerosi passi danteschi relativi alla data
dell'immaginario viaggio nell'oltretomba, la primavera o la Settimana santa del
1300, e alla certezza che alla data del viaggio escatologico Dante era sui
trentacinque anni, Guido Cavalcanti (morto nell'agosto 1300) era ancora in
vita, non erano trascorsi tre mesi dalla data di lucrazione del Giubileo di
Bonifacio VIII.
Se siamo sicuri
dell'anno e del periodo, la costellazione dei gemelli (O glorïose
stelle, o lume pregno / di gran virtù… / con voi nasceva… / quegli
ch'è padre d'ogne mortal vita [il sole] / quand'io senti' di
prima l'aere tosco[13]), non del
giorno, possiamo invece esser certi della data del battesimo: 26 marzo 1266, il
giorno del Sabato santo in cui, secondo l'antica consuetudine ancora per molti
anni in atto a Firenze, in una pubblica cerimonia che comportava grande
concorso di folla[14] tutti
i fanciulli nati nell'ultimo anno venivano recati al fonte battesimale, il fonte
/ del mio battesmo rammentato con struggente malinconia in Par.,
XXV, 8-9, il mio bel San Giovanni (per l'appunto nel passo della prima
cantica poco sopra citato), l'antico vostro Batisteo delle parole di
Cacciaguida (in Par., XV, 134). La cerimonia cadde quell'anno
esattamente ad un mese dalla battaglia di Benevento, mentre in Firenze, giunta
la notizia della sconfitta e della morte di Manfredi, i Guelfi rialzavano la
testa nella speranza di ripristinare al più presto un governo popolare,
e gli Alighieri esuli (non tutti i membri del casato, solo una parte d'essi) si
preparavano a rimetter piede in città.
Il suo nome di
battesimo fu Durante (in omaggio al nonno materno?). Dirà molto
più tardi F. Villani: “Poetae in fontibus sacris nomen Durante fuit, sed
syncopato nomine, pro diminutivae locutionis more, appellatus est Dante”.
E del resto il poeta non ebbe mai ad adoperare il nome di Durante, ma le uniche
due volte che lo cita, è nella forma ipocoristica. E il nome Durante non
appare in alcuno dei documenti in vita del poeta, né nel ricordato atto
del 1283, né nella testimonianza del 6 settembre 1291, né nei
verbali dei Consigli ovvero nelle sentenze di condanna. Soltanto una volta,
ventidue anni dopo la morte del poeta, in un documento di Jacopo Alighieri del
9 gennaio 1343, il nome Durante è citato e ripetuto altre due volte:
“Cum Durante, ol. vocatus Dante, cd. Alagherii de Florentia, fuerit condempnatus et
exbanitus per d. Cantem de Gabriellibus de Egubio”. Forse il figlio avrà voluto, per qualche suo
scrupolo o interesse, esibire nel testo documentale entrambi i nomi, per
maggiore sicurezza di regolarità dell'atto.
Nulla possiamo
inferire sulla puerizia di Dante, svoltasi certamente nella città di
Firenze, ma alternando con qualche soggiorno, come vedremo, nei poderi di
Camerata e di San Miniato a Pagnolle, che, con l'aggiunta di due piccole aree
nel popolo di Sant'Ambrogio, costituivano ormai, col mutare della situazione
della famiglia (dopo la suddivisione delle proprietà di Bellincione tra
sei figli maschi e varie femmine), tutti i beni degli Alighieri del ramo di
Alighiero II, a meno che questi non si fosse sbarazzato di proprietà
campagnole per accrescere i propri traffici in città. Delle vicende
politiche di Firenze il fanciullo non ebbe ovviamente visione diretta che a
partire da una certa età. La tradizione vorrebbe che il primo impatto
coi drammatici fatti della storia locale potesse accadere in occasione della
venuta in città (giugno 1273) di papa Gregorio X e del re Carlo
d'Angiò, in un evento che non sortì l'effetto sperato per la
pacificazione tra Guelfi e Ghibellini, ma che ebbe grande risonanza di
cerimonie pubbliche, se non altro per sancire la fine del decennio apertosi con
Montaperti e chiusosi con gli scontri del 1270, a Signa, tra gli esuli
ghibellini e i Guelfi di dentro. Ben più presente, alla memoria di
Dante, lo svolgimento successivo delle vicende fiorentine, sino alla pace del
cardinale Latino (febbraio 1280), e soprattutto sino alle battaglie (cui il
giovinetto assiste sgomento) della classe popolare contro i Grandi nel
1281-1282, violente e così continue da condizionare per sempre
l'atteggiamento politico d'un giovane membro di famiglia guelfa, testimone
attento anche se non pubblico protagonista. Purtuttavia, se è vero che
s'erano distinte in questo periodo personalità eminenti destinate a
impressionare la mente d'un adolescente, è anche necessario constatare che
la Commedia non conterrà con maggior copia fatti e personaggi
della puerizia e prima adolescenza anziché del periodo immediatamente
precedente: basti pensare al fascino con cui saranno sentiti alcuni
protagonisti del decennio precedente[15]
rispetto allo scarsissimo rilievo o addirittura silenzio sull'opera di Giano
Della Bella e dei suoi coetanei. Anche le conseguenze politiche dei fatti del
1260-1270 possono aver contribuito a determinare l'interesse di Dante
adolescente sia per i racconti che ne aveva dall'avo, avvolti nella leggenda,
sia per le conseguenze che essi avevano avuto sulla politica fiorentina
dell'ultimo Duecento. Tra i primi ricordi che Dante avrà avuto, giacché
s'è fatto il nome di Farinata, sarà stata non tanto la
decapitazione dei fratelli dell'Uberti (Dante è ancora un bambino),
quanto la spietata sentenza di fra Salomone da Lucca (16 ottobre 1283) contro
l'eretico capoghibellino, a distanza di quasi vent'anni dalla morte.
Non ha rapporti con
le vicende politiche, ma fu senza dubbio episodio sconvolgente per il fanciullo
la morte della madre Bella, presumibilmente tra il 1270 e il 1275. Egli
tacerà su questo dolore della puerizia, ché l'espressione di Inf.,
VIII, 45, benedetta colei che in te s'incinse è un calco
evangelico (da Luca 11, 27), però non privo di interna risonanza
emotiva: si trattava pur sempre di ricordare la propria madre, sebbene egli
avvertisse quell'esigenza tipica della tradizione retorica, secondo la quale il
poeta deve tacere sui propri prossimi parenti. Avanzabile è però
l'ipotesi ch'egli abbia voluto immortalare la propria genitrice, fors'anche
perché non serbava più una memoria distinta, sicura.
Poco dopo la morte di
Bella, Alighiero II contraeva nuove nozze (tra il 1275 e il 1278?).
Evidentemente anche della matrigna, Lapa di Chiarissimo Cialuffi, il poeta
tace, ma costei non fu una perfida noverca, anzi il suo nome è
legato positivamente alla sorte degli Alighieri per molti e molti anni,
riuscendo essa a stringere rapporti veramente buoni tra i due figliastri e il
proprio figlio Francesco e la figlia. Certamente un amore profondo fu tra Dante
e la propria sorella di sangue, colei che andrà in moglie a Leone Poggi,
e cui Dante allude nella donna giovane e gentile… di propinquissima
sanguinitade congiunta in Vita Nuova, XXIII, 11-12; la nascita dei
tre fratelli del poeta si pone tra il 1273 e il 1280, ma si può anche
riflettere sul superlativo propinquissima rispetto ad una possibile
designazione “normale” di “parente propinqua” per una sorellastra, per ritenere
che Bella, morendo, lasciasse sia un fanciullo di cinque-sei anni che una bimba
di pochi anni o mesi. Tutto ciò meglio giustificherebbe il ruolo che la
giovane donna svolge nel celebre episodio della Vita Nuova.
Gli anni
dell'adolescenza conoscono poi due altri eventi privati: l'uno, che dobbiamo
coerentemente porre nel 1274, è il primo incontro con Beatrice; l'altro
è l'istrumento dotale di Gemma Donati il 9 gennaio 1277. Il primo, come
ognun sa, è ricostruito dall'interno del testo della Vita Nuova (Nove
fiate già appresso lo mio nascimento… II, 1), nell'esordio
così colmo di riferimenti numerologici e simbolici, eppur tale da
permettere qualche spiraglio ad un effettivo ricordo autobiografico, sottolineato
dalla precisazione del quasi completo volgere del nono anno di vita, quasi a
uno medesimo punto, e dunque tale da consentire a moderni commentatori
anche la citazione del mese: maggio 1274. Si deve d'altronde ritenere che non
Dante adattasse la propria storia al tornare e ritornare del numero nove, ma la
combinazione del nove più nove alla data del 1283 confermasse in lui la
verità dei numeri nel primo e nel secondo apparimento dell'angiola
giovanissima (II, 8). Il documento riguardante Gemma non ha alcun rapporto
col primo, anzi sembrerebbe esserne persino in contraddizione; ma il documento
del 1277 non è una generica promessa di sponsali (e nemmeno, ovviamente,
un vero e proprio atto matrimoniale data l'età dei due fanciulli), ma “un
vero instrumento dotis, cioè un atto che si fa al momento di
combinare effettivamente un matrimonio”[16],
anche se si conveniva tra le parti di rimandare la celebrazione solenne del
rito e la consumazione ad un tempo successivo. L'atto del 1277 non è
rimasto in originale, ma è citato in un documento molto più tardo
(del 1329), in cui Gemma reclamava la sua parte dotale sui beni confiscati del
marito; dall'atto si possono trarre elementi utili non soltanto per stabilire
la data effettiva delle nozze di Dante (cfr. tra breve), ma pur per relegare
tra le leggende ch'egli fosse stato in giovane età novizio in S. Croce,
confermando dunque che i primi studi si svolsero esclusivamente in ambiente
laico, presso uno dei tanti doctores puerorum che esercitavano la
professione nella città di Firenze, fors'anche alla scuola d'un Romano
“doctor puerorum populi Sancti Martini” di cui in un documento dello stesso
1277 (la scuola che si conosca, più vicina alle case degli Alighieri).
L'educazione che
Dante poté ricevere da fanciullo presso un “doctor puerorum” fu certo
un'istruzione elementare di grammatica, come da Conv., II, xii, 2-4, non soltanto sugli ardui
testi di Cicerone e sugli esametri di Virgilio (ben conosciuti solo più
tardi e forse solo durante il soggiorno a Bologna), ma sul latino molto
più agevole dei Disticha Catonis, del Liber Esopi, dell'Elegia
di Arrigo da Settimello. Non v'era studio alcuno dei volgari, ma l'interesse
per essi penetrava nella scuola dal di fuori, dagli ambienti cittadini e
familiari che avvertivano l'importanza da darsi ai documenti in volgare per le
varie esigenze sociali, ed erano fortemente sensibilizzati dalla nascente
poesia volgare fiorentina. La cultura francese, alcun tempo prima che Dante si
ponesse allo studio della lingua d'oïl e di quella d'oc, e quindi prima
ancora dell'incontro con Brunetto Latini, sfiorava l'ambiente frequentato dal
fanciullo Dante attraverso le pratiche dei mercanti e gli echi della
divulgazione letteraria di stampo popolare. La condizione economica degli
Alighieri, abbastanza buona durante l'adolescenza del poeta, poteva
consentirgli di frequentare coetanei appartenenti alle consorterie dei Grandi e
di scambiare letture, notizie di poeti e di lingue straniere, impressioni e
interpretazioni dei fatti salienti della vita politico-sociale della
città, in modo da poter dar principio ad idee e giudizi propri
all'indomani della pace del cardinale Latino, in quel 1280 in cui il casato
degli Alighieri si trovava al centro della cronaca cittadina con la rissa
sanguinosa e la morte di Geri Del Bello: remota genesi emozionale di un
episodio dell'Inferno, il primo in cui appaia seppur in ombra un parente
del poeta (XXIX, 18-36), ma anche il penultimo, prima di Cacciaguida, e molto
dopo l'evocazione della sorella nella Vita Nuova, di Francesco, della
Tana e di Belluzzo nella Tenzone con Forese Donati.
L'adolescenza di
Dante si chiude con un altro lutto familiare, si potrà anche dire senza
alcuna conseguenza e risonanza nella sua memoria poetica, ma certo gravido di
effetti e di incognite nella vita materiale della famiglia: la morte di
Alighiero. Non è possibile stabilirne la data se non per
approssimazione: tra il 1281 e il 1282, al limite anche ai primissimi del 1283,
l'anno in cui Dante vende un modesto credito di ventun lire. Per la causa della
morte di Alighiero, se ucciso e invendicato ovvero per decesso naturale, e per
l'ipotesi della scomunica a cagione d'eresia e d'usura, si può dire che
tutte le soluzioni restano aperte. Ma importa il fatto che ora le
responsabilità dell'orfano, divenuto maggiorenne, ancora in giovane
età a capo di una famiglia non piccola, relegavano alle spalle
un'adolescenza abbastanza tranquilla e agiata, verso una giovinezza non scevra
di insidie anche sul piano della gestione patrimoniale della famiglia, e per di
più in un difficilissimo momento politico.
III
GLI ANNI GIOVANILI
Di una così
intensa fanciullezza, di questi anni giovanili ricolmi di tante appassionanti
vicende politiche, non rimase certamente a Dante un'immagine sfocata, imprecisa,
lacunosa, ma serbò per sé, per il tempo a venire, una serie di
profonde e durature suggestioni. E tuttavia esse non si affidano soltanto
all'accumulo di lutti familiari o di cruenti spettacoli di risse cittadine, ma
anche ad una doviziosa esperienza “all'aria aperta”, di “cose viste” una sola
volta magari, ma impresse stabilmente in un intelletto che fu precocissimo, in
una sensibilità nativa forte e autentica, in una memoria che fu sempre
eccezionale, acutissima.
Abbiam visto che la
puerizia s'era svolta non soltanto in città, ma anche nei poderi
familiari, tra i colli e i boschi e i campi aprichi della campagna fiorentina.
Forse più tardi le traversie della vita non gli concedettero che pochi
momenti di svago come fu in quelle primavere ed estati di Camerata e di San
Miniato a Pagnolle; donde le tante figurazioni naturali che creeranno in lui un
immediato rapporto analogico coi fatti del vivere umano. C'è bisogno di
ricordarle tutte? Il fulmineo balzo del ramarro sotto la gran fersa de'
dì canicular, lo splendere delle lucciole giù per la
vallea, il lamento del villanello che scambia la brina per neve (errore
più d'un cittadino o d'un fanciullo non abituato alla vita di campagna,
che non d'un villanello), l'uscita dal chiuso delle pecorelle timidette
atterrando l'occhio e 'l muso: gli oggetti, insomma, “poveri”, la
semplicità d'una natura tanto vagheggiata quanto è ancora tra le
poche cose destinate a rasserenare momentaneamente l'animo amaro del vecchio
esule; oggetti “poveri” e poverissimi: la mosca, la zanzara, il topo, la rana,
la biscia, l'anitra ecc. accanto a qualcosa di più insolito o “nobile”:
il battere del becco delle cicogne, il volo fitto degli storni, quello lento e
voglioso delle colombe, e altre immagini legati al gusto, qui davvero nobile,
delle cavallate e delle cacce: il cinghiale, il lupo e i lupacchiotti, i
veltri, il falcone: elementi d'un vivere aristocratico nelle campagne che gli
fu più tardi familiare ma di cui certo aveva contezza già dalla
fanciullezza; oggetti, tutti, congrui ad arricchire di termini umili o meno
umili il già ricco vocabolario dantesco, pur quelli di modesto vivere
agreste o domestico non certamente respinto per disdegnoso gusto, ma che
senza smancerie o compiacenze idilliche, estranee al suo animo, disvelano
l'amore del poeta per ogni aspetto della natura, sempre accarezzata nel
ricordo, sovente ricercata ancora, durante i duri momenti d'uno o d'altro
viaggio di città in città dell'esilio.
Con la morte del
padre e col raggiungimento della maggiore età Dante si trova a dover
assumere nuove responsabilità familiari, e certamente vi fa fronte come
può, scarsamente dotato per una vita d'affari, la qual pur aveva fatto
la fortuna (modesta come si vuole, ma sussistente) di Bellincione e di
Alighiero, e forse ad un certo momento sostituito dal fratellastro Francesco,
il quale sembra aver ereditato il senso pratico degli Alighieri, e più
tardi provvederà, in un indubbio rapporto d'affetto per il fratello
maggiore e per le sorelle, a prendere in mano l'azienda mercantile e agraria
alighieresca.
Gli anni sono mutati
anche a Firenze. Il quadro politico è per un certo momento meno rissoso,
e il governo popolare regge bene le sorti dello Stato. Dante è tuttavia
uno spettatore inerte, per un buon periodo, di queste vicissitudini politiche,
anche se esse contribuiscono a consolidare gli ideali civili ch'egli aveva
ereditato dall'avo Bellincione: fedeltà allo Stato guelfo, accettazione
del nuovo Governo delle Arti (1282), relativa situazione di stabilità
durante il capitanato di Paolo Malatesta (quel personaggio che poi vedremo di
scorcio in uno degli episodi più celebri della Commedia: il canto
di Francesca), una serie d'incontri, di passaggi di personalità, di
varie esperienze di governo di cui Firenze è teatro. Scorre così
un triennio: il quale si apre con le giornate fiorentine di Clemenza d'Asburgo,
nel marzo 1281, messaggera di pace tra l'Impero e gli Angioini, e si chiude nel
1283 col passaggio di Carlo I d'Angiò, nel marzo, e di Carlo II,
nell'autunno.
Dante incappa in qualche
prima difficoltà di carattere pratico, né era uomo da seguire i
metodi sbrigativi (non diciamo disonesti) del padre. La vendita del credito
può, però, essere intesa come un comune atto di riscossione di
quanto dovuto alla famiglia, o anche l'inizio d'un nuovo modo di condurre gli
affari; ma grava il sospetto che si tratti d'altra cosa: cioè di
disinteresse per quel che poi chiamerà il civil negozio,
disinteresse destinato col tempo a tramutarsi in uno stato di necessità
per cui non è più sufficiente la rendita sui capitali, ma
occorrerà intaccare il capitale, e poi, di difficoltà in
difficoltà, accendere qualche mutuo, indebitarsi insomma per poter
provvedere alla famiglia e a sé, anche al suo modo di vita che tende a
identificarsi con quello della classe aristocratica, ad assumere le costumanze
sociali d'essa senza averne la potenza economica.
Nel contempo la
famiglia, come si suol dire, cresce. Dante celebra il matrimonio “effettivo”,
che possiamo datare al 1285 circa; nasce il primo figlio: 1287 circa; poi gli
altri, in numero ancora disputiamo di quattro o di tre: Pietro, Jacopo e
Antonia senz'altro, e forse, come primogenito, un Giovanni, presente in un
documento notarile del 1308, e di cui non si sa nulla: forse, però,
figlio di un omonimo del poeta, un Dantino di Alighiero vissuto a Padova (ma
è forte la tentazione di scorgere dietro i tre nomi di apostoli i tre
santi che interrogheranno il poeta nel Paradiso).
La vita familiare e
le accresciute difficoltà non dissuadono tuttavia Dante dal seguire la
sua stella. La vocazione letteraria, vedremo, è molto precoce, e
per consolidarla egli vuol attendere a studi regolari all'università di
Bologna (studi che, come esamineremo tra breve, è costretto ad
interrompere quasi subito, se non forse si reca a Bologna per altri motivi).
L'intreccio tra vicende pubbliche e private, familiari e letterarie è
strettissimo, e non è facile seguirle tutte assieme. È questo il
momento per ricordare che in pari tempo egli ha incontrato i personaggi più
rilevanti della sua vita intellettuale giovanile: in primis il maestro
Brunetto Latini, e poi Guido Cavalcanti, e amici politici, non scevri di
interessi culturali: Nino Visconti, e anche Guido da Polenta, podestà in
Firenze tra il 1° luglio e il 18 novembre del 1290. Ciò che più
conta, è però l'incrocio con le vicende della sua realtà o
invenzione poetica, leggibili nelle Rime giovanili e soprattutto nella Vita
Nuova: nel 1283 la riapparizione di Beatrice e la nascita della poesia
d'amore, almeno quella cognita, col sonetto A ciascun'alma presa e gentil
core; nel 1285 circa: la cosa per la quale me convenne partire de la
sopradetta cittade e ire verso quelle parti dov'era la gentile donna ch'era
stata mia difesa[17]; subito
dopo (1286 circa) la corrispondenza poetica con Dante da Maiano; forse nello
stesso 1286 o l'anno successivo il lavoro di volgarizzamento e di reinvenzione
letteraria culminante nei due testi del Fiore e del Detto d'Amore;
di certo nel 1287 le rime del periodo bolognese e la presumibile data del
matrimonio di Beatrice (il lettore non sottolinei troppo queste coincidenze, ma
esse esistono, ed elementi differenti della vita poetica dantesca continueranno
a coesistere, sì che possiamo tenerli distinti quanto vogliamo, ma la
coincidenza non è affatto eliminabile in sé); le date certe,
immediatamente successive, della morte di Folco Portinari e di Beatrice: 31
dicembre del 1289 la prima, l'8 giugno o il 19 giugno del 1290 la seconda:
data, questa, destinata a rimanere memorabile nella vita del poeta. Eppure
occorre insistere sulle coincidenze; l'anno 1289 è anche la dura annata
militare di Campaldino e di Caprona.
Purtuttavia è
impresa disperata seguire contemporaneamente le vicende pubbliche dello Stato
fiorentino e quelle private, letterarie, amorose di Dante. Ed è
opportuno, offerti i dati essenziali dell'intreccio di fatti, operare una netta
differenziazione di trattazione: la scrittura di Vede perfettamente onne
salute da un lato e dall'altro la presenza del poeta sul sanguinoso terreno
di battaglia di Campaldino, l'amicizia con Guido e Cino e la testimonianza
della sortita di Caprona.
Pare difficile
stabilire un rapporto tra la fabula della Vita Nuova e le vicende
familiari di Dante. Analogamente appare complicato stabilire un rapporto di
causa ed effetto tra il matrimonio di Dante e il suo traviamento. Si propone
una datazione delle nozze al 1285 per ricercare una indicazione intermedia tra
le varie che sono state proposte[18]. Non
convincono, d'altronde, altre ipotesi, come quella del Torraca[19]
che tende a spostare il matrimonio il più tardi possibile, dopo le
vicende narrate nella Vita Nuova, quasi che la storia di questo libro
debba di necessità presupporre un Dante totalmente libero da impegni
coniugali e tutto assorbito dall'amore per Beatrice e dallo strazio per la
morte di lei. Né convince la serie consecutiva Beatrice ® “traviamento” ® matrimonio, quando si conosca la
capacità dell'intelletto dantesco a muoversi su piani paralleli e coevi:
da un lato l'attività pubblica, d'altro lato quella letteraria, almeno
per tutta la zona della giovinezza. Né si debbono creare meraviglie che
l'esperienza del Fiore possa in tutto o in parte coincidere con quella
della Vita Nuova, ovvero che tra le rime realistiche e quelle
dottrinarie debba di necessità esserci uno iato. I vari fatti, le varie
occupazioni dell'intellettuale Dante Alighieri possono essere anche coincidenti
temporalmente.
Concludo col dire che
è importante per noi che esistano due versanti, l'uno pubblico-politico,
l'altro familiare-amoroso e insomma privato, sui quali agire contestualmente,
ai fini di stabilire l'influsso dell'uno sull'altro e viceversa, e anche la non
permeabilità d'entrambi. Tra quel che diremo sull'attività
militare di Dante e il testo della Vita Nuova, può non esserci
alcun rapporto, o soltanto un filo sottilissimo di correlazione; ma è
rilevante, invece, che questo rapporto esisterà in futuro, e che la Commedia
attua un autobiografismo profondamente diverso da quello sia delle Rime
d'amore che di quelle realistiche, in quanto nel poema tutte le linee
dell'esperienza “totale” di Dante congiurano assieme per arricchire il tessuto
culturale e umano sia dell'Inferno (e soprattutto dell'Inferno),
sia delle altre due cantiche.
IV
L'ATTIVITÀ MILITARE E IL
SOGGIORNO A BOLOGNA
Si può
ritenere che sui vent'anni Dante si trovasse coinvolto nel suo primo impegno
militare.
Nell'autunno del 1285
erano scoppiate ostilità (non si può parlare di vera e propria
guerra) tra Siena e Arezzo; gli Aretini, capeggiati dal vescovo Guglielmino
degli Ubertini, riuscirono a far insorgere a proprio favore gli abitanti di
Poggio Santa Cecilia, inviandovi forti truppe; i Senesi il 27 ottobre strinsero
d'assedio la cittadina e chiesero subito l'aiuto di Firenze; il 15 novembre i
Savi decidono d'inviare cinquanta stipendiari (il numero è poi
raddoppiato dalle Capitudini); il 27-28 novembre parte la cavallata fiorentina
(comandava la lega toscana Guido di Monfort; una parte del corpo di spedizione
resta a sorvegliare i passaggi del Valdarno; il castello cadrà molto
più tardi, tra il 7 e l'8 aprile del 1286). La possibilità che
Dante facesse parte della spedizione si regge esclusivamente sul passo di Vita
Nuova, IX, 1-2, Appresso la morte di questa donna [l'amica di
Beatrice] alquanti die avvenne cosa per la quale me convenne partire de la
sopradetta cittade e ire verso quelle parti dov'era la gentile donna
ch'era stata mia difesa, avvegna che non tanto fosse lontano lo termine de lo
mio andare quanto ella era. E tutto ch'io fosse a la compagnia di molti quanto
a la vista, l'andare mi dispiacea sì, che… li suoi occhi [di Amore]
mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo
quale sen gia lungo questo cammino là ov'io era.
Il brano può
avere un duplice significato: trattarsi di un'aristocratica passeggiata o
caccia, insomma d'un diporto secondo le tradizioni della nobiltà cui
Dante cerca di tenersi più accosto possibile (la sua poca… nobiltà
di sangue, se vogliamo leggere a nostro uso il verso del canto XVI del Paradiso,
gli consentiva di comportarsi così), ovvero essere una vera e propria
spedizione militare: così hanno voluto il Del Lungo, il D'Ancona, lo
Zingarelli e altri. A favore di questa seconda ipotesi militano alcune
circostanze: che la spedizione era composta da una compagnia di molti,
che Dante vi si era recato per obbligo (me convenne), fors'anche che la
cavallata si concludesse con una ritornata e avvenisse lungo l'Arno. Ora
la strada di Valdarno è la più corta per chi, passando per
l'Incisa, intendesse recarsi a Poggio Santa Cecilia. Permane indefinito il
riferimento alla località ove si trova la prima donna dello schermo,
eppur persuasivo perché nel clima della fabula della Vita
Nuova introduce un riferimento ad una reale circostanza. Scartiamo altre
ipotesi: quella affacciata dal Balbo, e cioè riferirsi all'andata a
Bologna, o quella sostenuta dal Witte, alludersi alla battaglia di Campaldino;
resta in piedi, quantunque come mera possibilità, che l'episodio della Vita
Nuova apra uno squarcio su un fatto del tutto estraneo alla storia d'amore,
quasi un ulteriore elemento dell'allontanarsi temporaneo da Beatrice.
Però va segnalato che è equipollente l'altra possibilità,
anzi oggi più diffusa: d'una piacevole cavalcata di comitiva nobilesca,
com'è nello spirito del sonetto dello stesso par. 9, Cavalcando
l'altr'ier per un cammino, col suo carattere, scrive De Robertis,
“favoloso e fantastico”[20]. Vero
è che i condizionamenti psicologici del sonetto potevano nascere anche
da un'occasione affatto opposta alla cavalcata di spiriti nobili.
Aggiungo che non
possediamo notizie sulla ritornata a Firenze degli stipendiari, ma
è probabile che essi prendessero parte soltanto alla prima fase
dell'assedio, e in tal caso la lontananza di Dante dalla città non
sarà stata più lunga di due o tre mesi al massimo.
L'anno successivo, il
1287, ci consente invece una certezza: il soggiorno a Bologna, breve ma sicuro.
Vedremo tra poco lo stacco tra le primissime rime e queste riconducibili ai
mesi (non più che sei-sette mesi) trascorsi da Dante nella città
del grande Studio, ma anche il nuovo modo di poetare; si passa dal guittonismo
delle prime alle chiare esperienze dello Stilnovo bolognese delle seconde, non
tanto il sonetto sulla Garisenda, ma altre rime, quali Se Lippo amico se' tu
che mi leggi, ovvero La dispietata mente, che pur mira, o anche Deh
ragioniamo insieme un poco, Amore: stilnovismo tutto bolognese, ancora
esente da quei temi e da quella esecuzione letteraria che subito dopo
riveleranno la presenza del Cavalcanti, e quindi il possesso d'una poetica
tutta fiorentina, e immediatamente tutta dantesca e distinguibile da quella
degli altri poeti concittadini. Ed è la somma di queste esperienze che
ci induce a credere che i volgarizzamenti del Fiore e del Detto
debbano essere sia pur di poco precedenti; un Dante che attenda a rendere il Roman
de la Rose nel proprio volgare in quel modo in cui l'ha reso, può
sospettarsi soltanto il poeta che nel contempo ha tenzonato con Dante da
Maiano.
Se vogliamo sforzarci
di dare una data più approssimata o approssimabile a questo soggiorno in
Bologna, dovremmo pensare al semestre tra l'estate del 1286 e i primi mesi del
1287. Fatto si è che pochi mesi dopo (secondo semestre del 1287) il
notaio Enrichetto delle Querce era già in grado di trascrivere sul
proprio registro il sonetto dantesco Non mi poriano già mai fare
ammenda, adespoto nel Memoriale bolognese, ma evidentemente una
lirica che era divenuta abbastanza presto ben nota in città se il suo
testo poteva essere trascritto in calce ad un documento notarile, per occupare
lo spazio lasciato libero dal testo del rogito. Il sonetto si presta a varie
interpretazioni, ma quella vincente sembra essere la più facile: il
poeta è così intento a fissare la meraviglia della torre della
Garisenda, che non si accorge (e poi se ne rammarica) del passaggio d'una bella
donna: forse una gentildonna della famiglia dei Garisendi (o anche “Beatrice
lontana”, ipotesi debolissima), o, se si vuole, la vicina torre degli Asinelli;
in ogni caso il sonetto è, come ha scritto il Contini, “una divertita
iperbole di scuola”; e non occorre troppo addentrarsi nella ricerca dell'oggetto
più degno d'ammirazione che non la Garisenda, ma piuttosto sottolineare
la fluidità del dettato poetico, d'un letterato insomma che s'è
da tempo industriato nelle giostre del poetare per tenzone e per superiore divertissement
stilistico, d'un letterato giovane ma che ha già fortuna e nella sua
città e in Bologna, sì da lasciare così vistosa traccia in
uno dei più interessanti (per noi) Memoriali bolognesi.
Più tardi
questo soggiorno di Dante a Bologna sarà confuso con altro periodo o con
altro soggiorno. Il Villani scriverà: “fu scacciato e sbandito di
Firenze, e andossene allo studio a Bologna, e poi a Parigi”; e il Boccaccio nel
Trattatello aggiungerà: “Egli li primi inizi, sì come di
sopra è dichiarato, prese ne la propria patria, e di quella, sì
come a luogo più fertile di tal cibo, n'andò a Bologna” (nella
redazione breve aggiunge ancora: “non picciol tempo vi spese”, mentre nelle Esposizioni
tace del tutto sul viaggio). Ritroveremo un “Dante de Florentia” in una
testimonianza del 27 ottobre 1291, ma sarà lui? Comunque la sua fama
è già consolidata anche in Bologna se Pietro di Allegranza in un
memoriale del primo semestre del 1292 riporta Donne che avete intelletto
d'amore.
L'anno 1287 è
anche quello dell'esilio da Bologna di Venedico Caccianemico: forse sin da quel
momento la vicenda della Ghisolabella s'imprime nella ferrea memoria del poeta,
il quale la ricorderà nel canto XVIII dell'Inferno:
I' fui colui
che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del Marchese,
come che suoni la sconcia novella.
Con tutta
probabilità durante i mesi di Bologna Dante deve aver stretto conoscenza
o maggiore amicizia con giovani fiorentini che i documenti dicono esser
presenti in quel periodo allo Studio: Jacopo Cavalcanti, parente di Guido,
ovvero Dante degli Abati, da non identificarsi col Durante degli Abati presunto
avo del poeta, ma certamente suo congiunto e forse nipote, in ogni caso
coetaneo del poeta; altro amico fiorentino a Bologna poté essere Gianni
degli Infangati. È arduo congetturare che Dante potesse entrare in
dimestichezza col medico Taddeo Alderotti, che proprio in quel 1287 accorreva a
Roma al capezzale di Onorio IV, e col giurista Francesco d'Accorso; per
supporlo, occorrerebbe esser convinti che Dante a Bologna frequentasse
veramente lo Studio, e in tale ipotesi che sia stato studente di diritto, o di
grammatica e filosofia, o addirittura, ch'è tra le possibilità la
più fragile, medicina. La necessità, propugnata oltremisura al
fine d'assegnargli, come si sa, un cursus honorum universitario, ha
fatto spingere più d'uno studioso all'opinione già ricordata d'un
ritorno a Bologna tra la fine del 1291 e gli inizi del 1294; per siffatta
necessità si son volute attribuire al poeta testimonianze relative a
ladri e truffatori fiorentini operanti a Bologna, come quel “Dante de
Florentia” del citato documento del 27 ottobre 1291[21].
Per
il 1288 nulla possiam dire che riguardi Dante direttamente. Ma la storia
fiorentina, quando nel 1287 con l'ingresso delle cinque arti medie accanto alle
sette arti maggiori si incrementa la base popolare nei consigli dello Stato,
registra avvenimenti di rilievo che possono essere posti in rapporto col poeta,
se non altro per analogia alla certa partecipazione sua agli scontri guerreschi
dell'anno successivo.
Il 1288 è
l'anno della “raunata di gente a cavallo e a pié” degli Aretini,
comandati da Guglielmino degli Ubertini, e della presa d'iniziativa da parte
dei Fiorentini, i quali “si dispuosono di contrastare”, come racconta il
Villani, “all'aroglio degli Aretini, e impuosono tra loro ottocento cavallate
con ricchi e grossi cavalli, e bandirono oste sopra Arezzo”. In rapida
successione vediamo scorrere i fatti d'arme di Badia a Ripoli, poi di Leona,
delle Conie, di Asciano e di Laterina. Campeggiano negli scontri personaggi e
vicende che poi ritroveremo nella Commedia: Nino Visconti a Firenze, e
inoltre Maghinardo da Susinana, Jacopo del Cassero, la cattura del conte
Ugolino, la morte di Lano a le giostre dal Toppo (27 giugno).
La memoria del poeta
ritornerà poi a questi fatti e uomini, i quali tuttavia per il momento
non possono essere messi in relazione con la sua vita, ad eccezione della
presenza del Visconti a Firenze. Personalmente non credo[22]
che Dante si trovasse presente a questi scontri, e nemmeno che fosse soldato
nel territorio di Arezzo, addirittura presente all'assedio di Arezzo e al
violento scontro tra Senesi e Aretini, in cui pur presero parte stipendiari
fiorentini (come dalla provvisione del 27 luglio). Il massimo dell'ipotesi
possibile vede una concentrazione di forze da parte dei Fiorentini, e di
conseguenza l'inizio di un impegno militare al quale Dante tra breve
dovrà far fronte. Proprio l'infittirsi della guerra è invocabile
come probabile causa della partenza di Dante da Bologna, in qualche modo
“richiamato” o direttamente o per scrupolo morale a far ritorno in patria, per
porsi al servizio d'essa. Del resto era necessario anche per lui come per tutti
i giovani fiorentini della sua “leva” un certo periodo di allestimento e
preparazione all'arte della guerra. Dal che si può dedurre che, lasciata
Bologna, s'addestrasse coi suoi coetanei all'esercizio delle armi in attesa di
recarsi al fronte.
Il ricordo dei corridor
che egli aveva visto battere per la terra vostra, o Aretini[23]
non è necessariamente da mettersi in rapporto coi fatti del 1289, e meno
ancora con quelli dell'anno precedente.
Certissima è
invece, come accennavamo, la presenza di Dante alla battaglia di Campaldino (11
giugno) e alla sortita di Caprona (16 agosto). Almeno io la dò per
certa, tanto i due episodi, più importante il primo, più evidente
il secondo, sono strettamente assimilabili alle cose “viste” dal poeta, “viste”
e sentite come l'alta pagina della morte di Bonconte da Montefeltro, frutto di
una violenta espressione personale in uno scenario ben noto a lui: la
topografia del campo di battaglia, l'infittirsi delle nubi e infine lo
spaventevole esplodere dell'uragano. Tuttavia la lezione è autentica, e
risuona dalla traduzione (è da ritenere fedelissima) che il Bruni rese
d'un'epistola perduta, forse la stessa Popule mee, quid feci tibi?:
Tutti
li mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono
cagione e principio; del quale priorato, benché per prudenzia io non
fussi degno, niente di meno per fede e per età non ne ero indegno,
perocché dieci anni erano già passati dopo la battaglia di
Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi del tutto morta e
disfatta, dove mi trovai non fanciullo nell'armi, dove ebbi temenza molta, e
nella fine allegrezza grandissima, per li vari casi di quella battaglia[24].
Queste parole, alle
quali occorre affidare la massima autenticità, gettano luce su una serie
di elementi di giudizio: anzitutto, per dir qui Dante d'essersi trovato “non
fanciullo nell'armi”, sembra si possa inferire che Campaldino fu la prima
esperienza militare, ché altrimenti non avrebbe rilevato l'età,
sebbene questo particolare serva prevalentemente a rapportare la
maturità del giovane rispetto alla “temenza” subita per lo scontro
sanguinoso; poi che la partecipazione a Campaldino non fu tra le milizie di
riserva, ma tra quelle chiamate all'urto diretto col nemico; infine, e
soprattutto, che il testo dantesco relativamente a Campaldino non si doveva
fermare all'espressione sopra riportata, giacché il Bruni ebbe a trarne
più circostanziati dati: la posizione di Dante nella prima schiera dei
cavalieri, il fatto (importantissimo quale testimonianza diretta) che il
raggruppamento dei feditori a cavallo venne in un primo momento battuto e
superato dalla cavalleria aretina, e che fu proprio questo eccessivo avanzamento
dei cavalieri nemici ad allontanarli troppo dalla fanteria e a causare la
sconfitta dei nemici di Firenze ad opera soprattutto di Corso Donati (G.
Villani, Cron., VII, 131). Il Bruni può aver aggiunto qualche
cosa di suo (si veda nel passo sottocitato l'espressione “e per notizia della
cosa saper dobbiamo che Uberti, Lamberti ecc.”), ma è certo che tutti
gli elementi estraibili dall'epistola perduta (“e disegna la forma della
battaglia”) sono stati utilizzati:
[…]
intanto che in quella battaglia memorabile e grandissima, che fu a Campaldino,
lui giovane e bene stimato si trovò nell'armi combattendo vigorosamente
a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo pericolo:
perocché la prima battaglia fu delle schiere equestri, nella quale e'
cavalieri che erano dalla parte delli Aretini con tanta tempesta vinsero e
superchiarono la schiera de' cavalieri fiorentini, che sbarattati e rotti
bisognò fuggire alla schiera pedestre. Questa rotta fu quella che fe'
perdere la battaglia alli Aretini: perocché i loro cavalieri vincitori
perseguitando quelli che fuggivano per grande distanza, lasciaro addietro la
sua pedestre schiera; sicché da quindi innanzi in niuno luogo interi
combatterono, ma i cavalieri soli e di per sé sanza sussidio di pedoni,
e i pedoni poi di per sé sanza sussidio de' cavalieri. E dalla parte de'
Fiorentini addivenne il contrario, ché per esser fuggiti i loro
cavalieri alla schiera pedestre, si ferono tutti un corpo, e agevolmente vinsero
prima i cavalieri e poi i pedoni. Questa battaglia racconta Dante in una sua
epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della
battaglia; e per notizia della cosa saper dobbiamo che Uberti, Lamberti, Abati,
e tutti gli altri usciti di Firenze erano con li Aretini; e tutti li usciti
d'Arezzo, gentiluomini e popolani guelfi che in quel tempo tutti erano
cacciati, furono co' Fiorentini in questa battaglia […][25].
Si tengano inoltre
presenti altre reminiscenze militari di Dante in Purg., XXIV, 94-96,
XXXII, 19-21, oltre al cit. Inf., XXII, 4-5, che possono esser messe in
rapporto con la decisiva esperienza di Campaldino, con gli esercizi preparatori
allo scontro, con la susseguente impresa contro Pisa.
L'impresa di Caprona
porta Dante in altra zona delle operazioni militari della Taglia guelfa, in un
territorio dove forse egli non s'era ancora recato: la Toscana occidentale:
Nel
detto anno 1289 del mese d'agosto, i Lucchesi feciono oste sopra la
città di Pisa colla forza de' Fiorentini, che v'andarono quattrocento
cavalieri di cavallate, e duemila pedoni di Firenze, e la taglia di loro e
dell'altre terre di parte guelfa di Toscana, e andarono insino alle porte di
Pisa, e fecionvi i Lucchesi correre il palio per la loro festa di San Regolo, e
guastarla intorno in venticinque dì che vi stettono ad oste, e presono
il castello di Caprona, e guastarlo[26].
La disputa della
piazzaforte di Caprona era iniziata dalla primavera; occupata dapprima da Nino
Visconti, capitano dei guelfi pisani fuorusciti e alleato dei Lucchesi, era
stata ripresa da Guido da Montefeltro (due grandi personaggi della Commedia
che qui si fronteggiano!). I Fiorentini, incoraggiati dalla liberazione di
Carlo II d'Angiò (che il 2 maggio era giunto in città,
trattenendosi tre giorni tra feste e tornei), non poterono subito dar man forte
ai Lucchesi, impegnati com'erano nello sforzo militare con gli Aretini.
Sconfitti questi a Campaldino, e rientrati in città (24 luglio), i
Fiorentini distolsero una parte del loro esercito, facendolo marciare alla
volta dei confini di Pisa. Il poeta era tra i quattrocento cavalieri che
consentirono al Visconti di riprendere il castello (16 agosto), dopo qualche
giorno d'assedio; lo dimostra indubitatamente l'episodio di Inf., XXI,
94-96, così vid'ïo già temer li fanti / ch'uscivan
patteggiati di Caprona, / veggendo sé tra nemici cotanti (un altro
ricordo militare nella bolgia dei barattieri, forse a meglio caratterizzare il
tono “comico” di questa zona delle Malebolge).
I biografi han tratto
la deduzione che durante questa impresa nascesse l'amicizia tra Dante e il
giudice Nino, probabilmente già conosciuto durante il precedente
soggiorno del Visconti a Firenze, e più strettamente frequentato durante
il successivo esilio in città. Non si può invece consentire
all'ipotesi che dopo Caprona Dante entrasse in Pisa, città sempre
rimasta in mano ai Ghibellini; è da ritenere, invece, che il corpo di
spedizione fiorentino facesse subito ritorno in patria, non avendosi tra l'altro
notizia d'altri scontri tra la Taglia guelfa e i Ghibellini nel periodo
immediatamente successivo.
Col rientro a Firenze
Dante viene a trovarsi nel momento saliente dell'avventura narrativa del libello.
La successione dei fatti ha le sue leggi invalicabili, eppure è duro
passare da eventi di così “esterna” rilevanza agli elementi d'una fabula
che vuol sempre essere affatto privata, avulsa dalla realtà circostante,
consegnata tutta ai valori astratti del simbolo e del sentimento. Tuttavia le
vicende della società politica di Firenze riescono in qualche parte ad
attenuare la distanza tra l'iter psicologico e quello della cronaca. Il
governo popolare si consolidava, dopo Campaldino, ma il prestigio che i Grandi
avevano conquistato sul campo militare, costringeva i popolani ad una
controffensiva sul fronte interno impegnandoli da un lato in opere di
più decisa riforma sociale, quale l'abolizione delle servitù nel
contado (il 2 agosto, proprio mentre s'appresta il distaccamento contro Pisa
ghibellina), dall'altro consigliandoli ad affrettare l'approvazione delle
“provvisioni canonizzate” (nel settembre), un argine contro la cattiva
amministrazione finanziaria del Comune. Tutto fa, o farebbe, ritenere che per
un intellettuale, strappato dagli obblighi militari ai diletti della poesia
cortese, e da quegli obblighi avvicinato a conoscere meglio stati d'animo ed
esigenze dei vari ceti cittadini, per di più provvisto ormai
d'esperienza nel campo delle ambizioni politiche di varie città della
Toscana, stesse per dischiudersi un periodo di più acuto interesse per
la vita della propria città. Veniamo a trovarci, invece, davanti ad una
data: 31 dicembre 1289, ch'è quella della morte di Folco Portinari. Se
gli elementi estraibili dalla Vita Nuova possono offrire qualche volta
un elemento di giudizio o di semplice orientamento nel succedersi della vita
giovanile di Dante, si dovrebbe dedurre che col ritorno a Firenze riprendesse
anche l'attività poetica, almeno col sonetto Ne li occhi porta la mia
donna Amore, rispetto al quale la morte del genitore di tanta maraviglia
avvenne non molti dì passati, in Vita Nuova, (XXII,
1), e la divulgazione di Donne ch'avete, la scrittura di Amore e 'l
cor gentil sono una cosa precedono di non molto (autunno dell'89, dunque?,
con la definitiva revisione e divulgazione di Donne ch'avete?; sono
tutte domande che il biografo non può formulare senza avvertirne tutta
la fragilità). Dante possiede più d'un motivo per ricordarsi con
esattezza l'episodio della morte di Folco Portinari, di cui noi abbiamo
contezza per via diretta[27]: anzitutto
l'elaborazione di Voi che portate e di Se' tu colui, ch'è
però argomento sempre debole, come i precedenti, dato che Dante
può aver composto i due sonetti, come gli altri, in epoca successiva,
adattandoli alla circostanza narrativa del funerale del genitore, del pianto di
Beatrice, della disperazione del poeta; poi i nove dì della dolorosa
infermitade, sofferti con l'amarissima pena (in Vita Nuova,
XXIII, 1) dell'incubo per la possibilità della morte di Beatrice, de
lo errare della sua fantasia (anch'essi probabile fictio
poetica per introdurre con patetico racconto la canzone Donna pietosa);
infine, e sopra ogni altra cosa, la data della morte di Beatrice (in Vita
Nuova, XXIX, 1), della quale s'è già discorso a proposito
degli elementi che abbiamo a disposizione per stabilire l'anno di nascita, e
cioè il 19 giugno o l'8 giugno 1290.
Ognuno sa che, per
quanto si possa accrescere o diminuire i dati di fatto relativi alla Beatrice
“storica” rispetto al personaggio poetico, la data predetta non può
essere in alcun modo esclusa dal novero degli eventi centrali della vita di
Dante. E si deve, di conseguenza, attribuire una qualche fiducia all'ipotesi
che le rime che precedono o immediatamente seguono l'evento funesto, dal
calendimaggio di Io mi senti' svegliar al successivo Un dì si
venne a me, da Voi, donne, che pietoso atto mostrate sino
all'elaboratissima (e pertanto di concezione immediata ma completata in epoca successiva)
Donna pietosa, siano opere che per ogni verso riguardano fatti della
biografia dantesca del 1290, se non certo prove letterarie di quell'anno
fatale, in cui vediamo la storia di Firenze evolversi per accadimenti e
sviluppi che pur ritorneranno più tardi alla memoria del poeta, anche se
non ebbero a riguardarlo da vicino (nel marzo ritorna in Firenze Nino Visconti;
dal 1° luglio al 18 novembre è podestà di Firenze il signore
ravennate Guido da Polenta il Vecchio, padre di Francesca, e da quella fonte si
sarà sparsa in città la storia dell'eccidio di Rimini, consumato
un lustro prima; proprio nel giugno i Fiorentini “feciono la terza oste sopra
la città d'Arezzo”, Villani, Cron., VII, 140; nel settembre si
riprendono le ostilità sul fronte di Pisa, e si distingue con le
“masnade” pisane la perizia militare di Guido da Montefeltro, riconquistatore
dei castelli di Montefoscoli e di Montecchio, ibid. 141; nuove imprese in
Romagna del demonio dei Pagani, Maghinardo da Susinana; podesteria
aretina di Galasso da Montefeltro). Se riflettiamo al sempre più intenso
e severo impegno letterario, sul limitare dell'anno che dovrebbe veder l'inizio
(secondo le congetture di molti) del cosiddetto “traviamento”: 1291, e non
molto prima dell'inizio della Vita Nuova in quanto inserimento delle
liriche anche antiche in una suggestiva cornice “romanzesca”: 1292, c'è
da ritenere improbabile altro effetto della morte di Beatrice che non quello
d'una maggiore consapevolezza letteraria. E si dovrà sfatare, di
conseguenza, l'ipotesi che Dante, affranto dal dolore, abbandonasse il secolo
per vestire per qualche tempo l'abito penitenziale del frate[28].
Si vedrà tra breve quanto possa accogliersi della tesi che vede Dante
allievo di S. Croce oltre che di S. Maria Novella, ma è bene premettere
che non si deve nemmeno opinare ch'egli entrasse da giovane nel Terz'Ordine
francescano, e a fortiori nel Prim'Ordine.
In Conv., II, xii, 1-7 lo scrittore, in sede di esposizione
allegorica e vera, racconta che come per me fu perduto lo primo diletto
de la mia anima […] io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non
mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo (il che non può
significare più anni di stasi dopo il giugno '90, ma un anno o meno d'un
anno) si pose a leggere Boezio e Cicerone, non subito interamente intesi
giacché egli era fornito, oltre che d'ingegno, soltanto dell'arte di
grammatica; ma, appreso il valore della filosofia, cominciai ad andare
là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li
religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Tradotto con
l'indispensabile cautela, il noto passo del Convivio consente di dedurre
tre fasi nella formazione intellettuale di Dante: quella retorico-grammaticale
(1275-1286 circa, dagli studi dell'adolescenza all'insegnamento di Brunetto e
al Fiore), quella filosofico-letteraria (1287-1290 circa: amicizia col
Cavalcanti, soggiorno bolognese, attività poetica sino ai disegni
letterari susseguenti alla morte di Beatrice), quella filosofico-teologica
(1291-1294 o '95 circa: presso le scuole de li religiosi, il culto
sempre più personale della Donna Gentile e della lode di Beatrice,
cioè filosofia e teologia, sino alla conclusione della Vita Nuova,
per l'appunto 1294 o 1295)[29].
Un'interruzione nel processo intellettuale non vi poté essere; sempre
Dante attese allo studio e all'arte della rima, sia pur con prospettive e con
impegni che s'intensificano col tempo, lasciando ben presto alle spalle Donato,
Prisciano, forse Eutiche, per la cultura “militante” di Brunetto, aperta ad un
dialogo diretto coi classici e in continuità di rapporti con la
letteratura di Francia dell'ultimo mezzo secolo, in un lungo studio e in
un grande amore che, nel momento in cui l'avvicina a chi per lungo
silenzio parea fioco, approfondisce i valori morali e spirituali riposti
dietro la voce di Virgilio e degli altri auctores; ne discopre
l'attualità, esige un sempre maggiore impegno attorno ai testi filosofici.
Del magistero di
Brunetto su Dante nulla dicono gli antichi biografi, Villani, Boccaccio, ecc.;
la notizia compare nel Lana, nel Falso Boccaccio (“E fu già tempo,
ch'elli fu maestro di Dante”), nel Buti, in Benvenuto, ma non è
più che chiosa del testo di Inf., XV, 85 m'insegnavate come
l'uom s'etterna, sù nel mondo, ma non in modo continuo,
quanto ad ora ad ora. Dunque non fu certo uno studentato effettivo;
piuttosto l'autore del Favolello costituì tramite concreto e
aggiornato tra i classici latini, retorica e filosofia medievale, poesia
volgare francese da un lato, e dall'altro le molteplici ambiziose aspirazioni
della giovane società intellettuale di Firenze, posta dalle vittorie
politiche sopra un piedistallo di grande prestigio, in Toscana e fuori; fu
dunque insegnamento stilistico, oltre che filosofico-morale.
L'ingresso nelle scuole
de li religiosi non comporta sostituzione d'un tipo di cultura ad altra,
invece arricchimento e perfezionamento di quella ricchezza e circolarità
di interessi sia nel campo della retorica che in quello della filosofia, in
pari dignità d'impegno, giacché egli è e resterà in
futuro intellettuale attento alle realtà di pensiero e letterato
impegnatissimo a realizzare queste realtà in forme poetiche ad esse
pienamente adeguate. E in aggiunta ad esse una sorta così gagliarda
d'impegno politico da rendere completa la sua fisionomia.
Pensiamo oggi che
Dante frequentasse sia lo studio di Santa Croce, francescano, sia quello di
Santa Maria Novella, domenicano. Forse è in quest'ultimo ch'egli
poté compiere esperienze dottrinarie più profonde e vaste,
ripercorrere i testi della Scolastica, essere interessato alle dispute contro
l'Averroismo, assumere familiarità con le opere di sant'Alberto Magno e
di san Tommaso d'Aquino, conquistarsi lentamente ma con sicurezza una sua
particolare visione filosofico-teologica, insomma divenire il theologus
Dantes, nullius dogmatis expers, come più tardi suonerà per
lui l'epitafio di Giovanni del Virgilio. Ciò accadde non attraverso un
regolare, o quasi regolare, curriculum studentesco, ma attraverso un
dibattito aperto, continuo coi maestri dello studium generale; tanto
più che non è sicuro che i laici fossero ammessi a frequentare le
biblioteche degli studia. Ma l'humus spirituale scaturisce anche
e soprattutto dalla vicinanza coi circoli di Santa Croce, ricchi di vita
ascetica, ricolmi di quella energia morale e di quelle esperienze
mistico-profetiche che in Dante sono sicuro approdo del suo anelito
francescano, della sua frequentazione anche coi testi di san Bonaventura da
Bagnoregio.
Se non seguì
seminari di teologia morale e nell'uno e nell'altro studium, dunque
disputò coi filosofanti a tutti i livelli; ed ebbe fertili
incontri con Remigio de' Girolami, con Ubertino da Casale, con Pietro di Giovanni
Olivi, i quali nomi vanno fatti a tutte lettere per comprendere il profondo
travaglio dal quale nascerà il Convivio e scaturirà di
lontano il sacrato poema. Le stesse immagini di Beatrice e della Donna
Gentile sono colorate di riflessi dottrinari che hanno in questo momento la
loro solida fondazione. Nel momento in cui si andava modificando la situazione
politica fiorentina con gli Ordinamenti di Giustizia del 1293, e, soprattutto
per quel che afferirà alle vicende di Dante con i Temperamenti concessivi
del 1295, lo scrittore è in pieno lavoro, il filosofo s'è
già quasi tutto formato: il primo s'è espresso con la Vita
Nuova, il secondo sta fermentando alla vigilia d'un ampio disegno di grande
enciclopedia del sapere, il Convivio e prima del Convivio le rime
dottrinarie, vero e proprio cursus honorum del futuro autore della
“divina” Commedia.
V
DALLE RIME GUITTONIANE ALLA “VITA
NUOVA”
Il far storia dei
documenti d'archivio, il valutare appieno i fatti della vita pubblica fiorentina,
i riferimenti autobiografici pur anche, e infine le vicissitudini private
rischierebbero d'apparire una pura e semplice cronistoria esterna se non si
tentasse di penetrare all'interno della storia poetica, di quel lungo anche se
veloce tirocinio letterario che vede già ben abile e noto il primissimo
Dante, quello del sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, con cui si
aprirà più tardi la Vita Nuova ma che resta la
testimonianza più antica del poetare dantesco, e poi la risposta
all'inchiesta di Dante da Maiano sull'interpretazione d'una sua visione del
dono d'una ghirlanda da parte d'una bella donna col sonetto Savete giudicar
vostra ragione, e infine la tenzone del “duol d'amore” sempre col Maianese
(cinque sonetti, tre del Maianese e due dell'Alighieri), il momento più
qualificante del guittonianismo del nostro, con una caratterizzazione anche
siculo-provenzale oltre che siculo-toscana, ma una tessitura stilistica
chiaramente guittoniana, giuocata su rime difficili, equivoche o identiche, su
gallicismi d'elevato gusto retorico, su una forzatura del fenomeno retorico
della replicatio. Tuttavia s'evidenzia il dono d'un intellettuale che sa
inserirsi di prepotenza nella composita società comunale toscana, e
disvela una politezza lessicale e musicale la quale potrebbe far sospettare che
tutte le rime guittoniane abbiano fruito d'una successiva accurata
rielaborazione. Il timbro fiorentino è flagrante, sia pure d'una
fiorentinità maianesca, e in essa la singolarità dei contenuti,
anche e soprattutto dove Dante guarda meno ai provenzali e ai siciliani e
più ai toscani, si dipana tuttavia da una capacità di scuola, in
specie ove si discettano i concetti espressi da Dante da Maiano.
Vale la circostanza
che i provenzali e i siciliani sono già conosciuti, se non tutti in
molta parte, e anche se sono letti in chiave toscana non perdono alcune loro
prerogative di forma e di concettosità. Il giudizio su Guittone e i
guittoniani dovett'essere estremamente positivo, e ciò spiega la circostanza
della condanna che poi il Dante della Commedia (condanna, o
semplicemente limitazione) esprimerà, quasi per voler allontanare da
sé qualsiasi sospetto d'esser rimasto in qualche cosa un seguace della
scuola siculo-toscana; eppure certe rime dell'Inferno, poi evitate nelle
altre due cantiche, proclamano che il poeta non s'è scostato
completamente di dosso il residuo di questo giovanile apprendistato.
Anche se vogliamo non
dare un giudizio assoluto di queste rime, e condizionarle alla circostanza che
la loro analisi di stile giuoca in funzione della vicenda biografica, un
interrogativo si pone come centrale: la fase guittoniana di Dante è sua
propria caratteristica che segna un ritardo o una misconoscenza del nuovo modo
di poetare di Guido e di Lapo, nel mentre i due fiorentini s'erano già
staccati risolutamente dal clan dei guittoniani di Firenze, ovvero la
svolta di Dante è coeva a quella di Guido (amici almeno dal tempo di A
ciascun'alma e di Vedeste, al mio parere quando nemmeno Guido
è fuori dal guittonismo), allorché i poetae novi di
Firenze riescono a procurarsi i testi di Guinizzelli e anzi è Dante a
recare da Bologna i materiali di studio? Il ritardo tra lo stilnovismo
originario (Bologna tra il 1265 e il 1274, data dell'esilio del primo Guido, o
sino a qualche anno dopo la morte, 1276, con la divulgazione del canzoniere
guinizzelliano e l'assestamento di tutta la nuova rimeria bolognese) e il
neo-Dolce Stile fiorentino, pensabile per l'appunto soltanto nel decennio
successivo, si può eccellentemente giustificare con la difficoltà
di scalzar subito il predominio di Guittone (là dove a Bologna non era
esistita una grossa personalità, capace di frenare la storia dottrinaria
e poetica del Guinizzelli); ma è indubbio che lo sfasamento è
anche nelle cose, cioè nel tempo di “viaggio” da una cultura regionale
ad un'altra.
La cronologia delle
rime del Cavalcanti e di Dante non è accertabile sino al punto di
precisare (ammesso che la storia della poesia tolleri perentorie cronotassi) i
momenti risolutivi della giovinezza poetica dell'uno e dell'altro amico, almeno
avanti Guido, i' vorrei. L'età maggiore e il prestigio familiare
del Cavalcanti giuocano un ruolo superiore allo stesso confronto dei testi del
canzoniere d'uno e d'altro, sì da mutuare l'ipotesi (che ne potrebbe
ammettere una tutt'affatto diversa se non opposta) della priorità di
Guido, “maestro” dell'Alighieri. Nulla sappiamo di rapporti diretti tra
Cavalcanti e Bologna, ma conosciamo con buona sicurezza, come s'è visto,
il primo soggiorno bolognese di Dante, così da affermare che poco oltre
i vent'anni questi poté avere esperienza diretta del clima poetico di
Bologna, e aver contezza di Guinizzelli più di quanto non
potessero gli amici presumibilmente rimasti a Firenze. È temerario
inferire che fu proprio Dante a trasportare nel pieno del 1287, di Bologna in
Firenze, il canzoniere guinizzelliano e altre rime bolognesi; tuttavia è
possibile concedere che la “svolta” concettuale e programmatica ebbe a prodursi
press'a poco nel medesimo periodo, e che il soggiorno bolognese può aver
consentito a Dante una relativa autonomia di formazione culturale, nel cammino
da Guittone al Dolce Stile, con la possibilità d'una verifica personale
dell'ambiente e dei contenuti della nuova scuola. Si suol dire che il
Cavalcanti giunse per primo ad una personale teorizzazione, e che Dante sino
alla vigilia di Donne ch'avete vive nel clima di Donna me prega;
comunque ciò non significa che nello sviluppo cronologico del movimento,
Dante si trovi ad intervenire nell'arengo poetico in un momento successivo
rispetto al passaggio da l'uno a l'altro Guido, proprio quel Dante che
si fa dire da Bonagiunta d'esser stato lui, colui, a trarre fore
le nove rime (Purg., XXIV, 49-50), per primo o almeno in modo da
creare per primo con Donne ch'avete un più consapevole ed elevato
movimento di idee e di tecnica letteraria, non le “proprie” nove rime,
si badi bene, ma le nove rime in senso assoluto nella storia della
poesia fiorentina.
Quando l'esegesi dei
canzonieri bolognesi si farà sforzo comune dei giovani letterati
fiorentini, e in questo ambito Cavalcanti confermerà la sua posizione
più autorevole di poeta di più antico cursus honorum,
accadrà che una storia d'amore disposta in senso narrativo (la Vita
Nuova) occuperà tutta la mente di Dante, ma si produrrà anche
un movimento in direzione inversa: quasi che egli, alla ricerca del personale senhal,
lo identifichi in un personaggio (Beatrice personaggio), lo elevi a numero e a
simbolo, ne tragga una vicenda tutta propria sino alla poetica della lode,
inscrivendo più degli altri coetanei la propria concezione dell'amore in
una “nuova vita”, in un canticum novum che è movimento (o inizio
d'un movimento) verso l'assunzione del valore di Beatrice nel concetto stesso
della Grazia e della Teologia. Più che per gli altri stilnovisti le
occasioni che avevano indotto Dante all'affermazione delle nove rime,
scaturivano dalla contrapposizione d'un rinnovamento rispetto alla stasi
morale, d'un'assoluta originalità di esperienze rispetto al
convenzionale e al consueto, immettendo la nozione di Amore-virtù, di
Amore “novissimo” all'interno di una “nuova” tecnica letteraria che oscura e quasi
annulla le precedenti forme del poetare, e supera le prefabbricate situazioni
psicologiche dei siculo-toscani sintetizzando energicamente o analizzando
sottilmente gli elementi dell'indagine morale. La fantasia dantesca, già
vivida e pungente all'epoca dell'esperienza guittoniana, s'è fatta tra
il 1291 e il 1294 più concreta nel lento ma progressivo incardinarsi in
un organismo filosofico. Il poeta si serve d'ogni elemento della fabula
narrativa della Vita Nuova per conservare desta la propria acuta,
sovente sofferta sensibilità, e per rintracciare, al fondo della
coscienza, una serie di notazioni morali, tutte concretamente riconducibili
all'uomo-poeta, e perciò naturalmente adatte ad accogliere quel che di
“nuovo” s'agita nei sentimenti: singolarità di stato morale, autenticità
dell'inquietudine, consapevolezza di godere una “novella età”, godimento
di vocaboli e immagini in un clima di rarefazione della realtà e di
trasfigurazione d'ogni simbolo. Nella lode di Beatrice la stupefatta
ammirazione per la donna si trasferisce in un superiore piano di elevazione
concettuale che perfeziona il repertorio visivo di Guido (subito emulato,
presto superato durante il corso redazionale della Vita Nuova) nel
traguardo d'uno stile personalissimo, d'una concettualità più
aerea e melodiosa di quella degli altri Stilnovisti.
Nella Vita Nuova
si condensano una serie di esperienze della Consolatio di Boezio,
incentrate soprattutto nelle proposizioni filosofiche, ma notevoli anche nel
rapporto tra poesia e prosa, nella “fiducia nella possibilità di una
soluzione poetica”[30] sin
dall'immagine dell'apparizione di Amore accanto al letto in “bianchissime
vestimenta” per proseguire in echi di maggiore concentrazione nell'effigie del
momento dello smarrimento di Dante. Il ciceroniano Laelius e la boeziana
Consolatio (giacché va esclusa la conoscenza delle Saturae
Menippeae di Varrone) fermano sin dal primo momento in un rigoroso schema
letterario il proposito di comparare l'autobiografia col ragionamento morale e
la poesia con la prosa, sia quando i primi elementi determinano i secondi, sia
allorché sono i secondi a funzionare da fomite retorico e stilistico,
nella generale cornice della visione. La diversità sostanziale con la
struttura di Boezio sta nello sfasamento cronologico dell'esecuzione
letteraria: la meditazione di Boezio scaturisce da un'alternanza di forme in
poesia e in prosa (prosimetro sincronico), la riflessione dantesca si distanzia
nel tempo in quanto la prosa, per lo più, rievoca uno status
emozionale che era già stato espresso in poesia e che perviene dunque
alla condizione poetica attraverso una lunga scansione temporale (prosimetro
diacronico): il che non vieta che esistano momenti del “libello” in cui la
prosa inizia il tema, lo modula, ne stabilisce gli elementi essenziali,
affidando poi alla poesia l'ulteriore sviluppo del tema stesso e la sua
risistemazione in poesia, soprattutto a partire dal cap. XX.
Evidentemente
ciò non va affermato rigidamente, ma quale piuttosto un modulo con cui
presentarsi al lettore, confrontare se stesso nel breve giro d'un'univoca
esperienza personale (Boezio) o in un lungo monologo narrativo che coinvolge
tutte le occasioni della propria giovinezza e persin puerizia (Dante); un libro
di un uomo prossimo a chiudere la vita (Boezio) e un uomo che si apre per la
prima volta ad una grande avventura terrena (Dante); un libro dove la morte
è sentita entro la coscienza dell'autore e la Filosofia consola un
disilluso che ha ben poche speranze dinanzi a sé, e un libro dove la
morte è della persona amata e semina nel cuore del poeta, conscio del
dolore che l'ha per sempre colpito, i progetti d'una vita da dedicare tutta
alla confortante Filosofia e al suscitante Amore, congiunti in un superiore
disegno di “mirabile visione” che sarà un altro modo, questa volta
affidato alle “parole sciolte” del Convivio e alla totalità
d'un'esperienza che nella Divina Commedia congiunge le “parole sciolte”
(le sottostrutture dell'oratio soluta) alla risurrezione della morta
poesì e alla consapevolezza dell'alta fantasia che non
ripudia le rime aspre e chiocce nel rievocare la propria storia umana in
un quadro reso immenso anche in virtù dell'eccezionale accumulo di molte
altre esperienze oltre quelle, sublimi ma pur limitate nel fine ultimo,
dell'Amore. Proprio per questo motivo la struttura del Convivio non
proclama un raffronto diretto di poesia e prosa, ma quest'ultima è un
minuzioso commento a quella, è da considerare un necessario gradus ad
Parnassum dalla mescidanza diretta di poesia e prosa della Vita Nuova
alla globalità del pensare, vivere, esprimersi in sola poesia del sacrato
poema, all'interno del quale la fermezza “tetragona” della terza rima
distrugge qualsiasi residuo di oratio soluta, di verba soluta modis,
non consentendo più nemmeno un barlume di locuzioni di nascita o
elaborazione prosastica, affidandosi ad uno strumento sempre e ovunque lirico,
liricizzante persino le digressioni filosofiche e teologiche pur echeggiate da
una remota memoria prosastica.
Anche nel milieu
dei nouveaux critiques l'attenzione alla struttura della Vita Nuova
è costante, proprio per le molte peculiarità che presenta
rispetto alle forme del romanzo francese contemporaneo. Il Sollers[31],
sulla scia soprattutto di Althusser e nel momento in cui si volge all'esame dei
testi partendo da un'astratta teorizzazione, incontra nella Vita Nuova
la presenza di distinti livelli d'enunciazione: un primo, che è il processo
d'intersezione in cui la vita dell'individuo narrante, possiamo proprio dire
dell'io narrante, s'incontra con la vita d'una figura, Beatrice (in questo
momento avviene “la nascita linguistica del soggetto, in una dimensione
quotidiana e cosmologica”[32]). Il
Sollers avanza l'equazione, definita paradossale: “qualcuno fa parlare, egli
parla, egli parla per qualcuno”, motivo che effettua la triplice conseguenza di
Dante autore-vittima, traduttore e destinatario, e di Beatrice sollecitatrice
delle tre condizioni, autrice di tutti i moti del poeta-prosatore, destinata a
sparire (ripetizione del mito di Euridice) pur conservando una costante identità
anche nell'ultima parte del “libello”. Scrive Sollers:
Si
direbbe che per Dante l'essenziale sia di non esser mai in riposo, di poter
spiegare ogni fenomeno, ogni tratto dei suoi poemi, ma per trasferire la
comprensione e il risultato provvisorio che ha ottenuto nel movimento perpetuo
del desiderio: creazione e critica non saprebbero star separate. L'amore non
possiede nulla e non vuol possedere nulla: la sua sola verità (ma
infinita) è di affidarsi alla morte. In questo senso, la morte di
Beatrice è la chiave del linguaggio di Dante, giacché più
che la morte di un altro, essa è la sola maniera che egli ha di vivere
la sua e di parlarla. A partire da questa morte, il commento passa d'altronde
al livello di racconto, lasciando che il poema termini in silenzio[33].
Certamente la
triplice composizione della Vita Nuova (poesia, prosa narrativa, critica
letteraria) è un unicum irrepetibile nel suo genere, come il De
consolatione di Boezio è un unicum tripharium di poesia,
prosa autobiografica, prosa filosofica: e forse la triplicità di Boezio
è stato fomite incessante per l'autore della Vita Nuova nel
momento in cui inserisce l'autobiografia d'amore nel dettato poetico, per poi
sottoporre questo ad un giudizio stilistico-metrico e attraverso l'esame della
forma e del metro risalire ai valori della testimonianza morale, anzi sia
morale che religiosa, e contemporaneamente ai valori del linguaggio, alla cui
coerenza di modulo espressivo dell'amore e della morte non rinuncia mai, creando
uno stupefacente miracolo di supremo modello letterario, che conserva e
consacra tutti i requisiti, aspetti, costanti e varianti della operazione
letteraria.
L'evidente
impossibilità di procedere secondo una direzione univoca, che conglobi
diacronicamente e sincronicamente l'attività dell'uomo politico a
contatto con una situazione etico-sociale in continuo fermento e l'impegno del
letterato, il quale alle prime letture di Provenza e di Francia, di Sicilia e
di Toscana va unendo un interesse sempre più profondo alla filosofia
della Scolastica e alle voci degli auctores classici, è
complicata da altro ostacolo che ora ci interessa in modo specifico per
definire la specie del dantesco prosimetrum: disporre le Rime e
in esse i componimenti poetici della Vita Nuova lungo un ordine
cronologico anche approssimativo e in quanto tale confrontabile con l'ordine di
composizione indubbiamente molto più lineare e coordinato della prosa
della Vita Nuova e riscontrare assetti e fasi di chiara autonomia
formale e concettuale, oltrepassando il momento del melodioso afflato amicale
rappresentato dal sonetto Guido, i' vorrei, e tracciando un itinerario
tutt'affatto personale e originale, con sempre più accentuato
superamento tanto del pensiero quanto dell'esperienza che i suoi coetanei
avevano del volgare illustre.
Insomma la Vita
Nuova non è opera di chi come Boezio, nella solitudine del carcere,
opera una complessa recherche di sé e in poesia e in prosa, ma
piuttosto il prodotto di un uomo che attende contestualmente a vivere una vita
letteraria ed una politica sin dal lavoro attorno al volgarizzamento del Roman
de la Rose (se esso è opera del primo periodo, e non si vede come
possa essere collocato verso le ultime battute del sec. XIII). La
necessità di attingere a moduli espressivi estranei alle scuole cortesi
(o di Guittone o del primo Guido), i frequenti imprestiti linguistici allotri
all'usus della cultura fiorentina di metà Duecento, esigenze
grammaticali e sintattiche inaudite, esperimenti particolarmente difficili sulla
rima, istanze di conservazione dei gallicismi onde poter meglio rendere la
patina del testo originale e una certa qual atmosfera aulica, creano nel “Ser
Durante” del Fiore e quindi del Detto d'amore l'obbligo di
raccogliere tutti i materiali utili anche nel settore della tradizione
realistica post-giullaresca e post-goliardica. L'autore del Fiore non
aveva dinanzi a sé gran copia di elementi in volgare: il Tesoretto
e il Favolello (ma non tutto), le rime comiche e quelle cortesi di
Rustico messe a confronto di modo che già in Firenze Dante trovava prova
della necessità di misurarsi nei due stili, il volvol e lo sturbignon
minacciati sul capo della vecchia rabbiosa dal Guinizzelli, infine le
prove anomale del Cavalcanti, sempreché il sonetto sulla scrignutuzza
non sia esso stesso sotto l'influsso di Dante giovane e magari dello stesso Fiore,
e non ne anticipi toni e scelte lessicali. Doveva quindi effettuare una
ponderosa fatica di adattamento della lingua del Roman de la Rose,
ricchissima, al repertorio lessicale italiano troppo scarno, se non proprio
povero, rispetto al patrimonio culturale e linguistico francese.
Il particolarissimo
impegno dell'autore del Fiore non dovrà essere, tuttavia,
chiamato a giudizio per accrescere le difficoltà che lo studioso incontra
nel tentativo di assegnare un ordine approssimativo a quei testi che non
divennero mai pezzi d'un “canzoniere”. Si dovrà per converso riconoscere
che un'ipotesi di maggiore intensità del divertissement comico (e
comico ed elegiaco!) nella zona centrale del periodo della giovinezza
letteraria di Dante, e cioè il momento saliente ed eccellentemente
costruttivo della Tenzone è pienamente ammissibile, corrisponda o
no alle clausole e alle peculiarità del cosiddetto “traviamento”. In una
sede come questa, dunque, accennare ai problemi basilari della Vita Nuova,
rispetto a quelli delle rime realistiche, infine delle dottrinali, ha un senso
non del tutto generico, e risponde da un lato alla varietà d'interessi e
di costumanze di vita della Firenze tardo-duecentesca ove le classi magnatizie
e popolari si fronteggiano con un'evidente maggior fruizione della poesia da
parte dei nobili, ma anche si permeano a vicenda degli ideali e del gusto
d'entrambi i fronti, d'altro lato anche ad un'ineliminabile ricerca di linee di
sviluppo linguistico-stilistico, nell'analoga direzione perseguita dal Contini
nell'indagare il “nodo” Rose-Fiore-Commedia, un “nodo” ov'è
notevole il transito da un'opera di due autori ad un'opera che più
univoca non potrebb'essere attraverso l'ulteriore replicatio di un “io”
narrante. S'intende che per la borghesia e la parte popolare più evoluta
la scelta della prosa era assai più parlante.
Quanto all'elemento
elegiaco nella versione del Roman de la Rose (assai attraente per chi
scandagli i lacerti dell'esperienza della satira latina, nemmeno qui riuscirei
a parlare di spoudogeloion), difficile è discettare sulle
caratteristiche che Dante, nella parte concepita ma non scritta del De
vulgari eloquentia, avrebbe assegnato allo stile elegiaco: assai
probabilmente egli aveva dinanzi a sé soltanto la tradizione giullaresca
e goliardica, ma non è da escludere qualche lacerto di conoscenza
frammentaria di Terenzio, di Orazio satiro, di Persio e di Giovenale. Ma
non è irricevibile l'ipotesi che il giovane Alighieri, almeno sino alla Tenzone
con Forese Donati, meno attratto dalle possibilità del tono mediano e
assai più dall'icastica contrapposizione tra il tragico e l'elegiaco,
attribuisca ai suoi giuochi realistici e alla corposa natura delle contentiones
e del vituperium il valore che in sede teorica, una decina d'anni
più tardi, si preparava ad assegnare al terzo e infimo stile. Si
intuisce dalla contemporaneità di diversissimi esercizi letterari
(tragico di Guido, i' vorrei, comico di Sonar bracchetti,
elegiaco di Chi udisse tossir la malfatata) il piacere delle nette
antitesi stilistiche, in gran parte non recuperabili dai depositi della
letteratura toscana di metà Duecento, ma da inventare ovvero da scoprire
attraverso coeve consultazioni dei Francesi e dei Provenzali e prelievi di
calchi demotici anche plebei, d'un plebeo ricuperato a livello d'usus di
“masnade” aristocratiche che hanno gusto a trivializzarsi anche
nell'espressione verbale.
Tutte le opere giovanili
di Dante vivono al tempo medesimo nella società pubblica e in quella
letteraria (le quali possono incontrarsi più volte, mai coincidere in
ogni impulso e interesse), sì da vedere nella Vita Nuova la forma
suprema d'un civile consorzio, il quale conversa attraverso i vari personaggi
dell'opera (Beatrice, le donne dello schermo, la donna pietosa, ecc.) con un
pubblico pronto a recepire la veste allegorica e l'argomentare dottrinario, e
tributare onori all'autore per aver unificato poesia e prosa del libello,
parole legate e parole sciolte, la raffinata enunciazione di concetti
amorosi nel chiuso della speculazione individuale del poeta e l'animato
discorso romanzesco aperto alle richieste narrative della collettività:
insomma tutte le aspirazioni d'una élite che aveva conservato
come sacro il patrimonio dell'antica cultura (da Cicerone a Boezio) e pur era
volta ad allegoricizzare e spiritualizzare i problemi dell'umano amore nella
visione religiosa della vita attuale. “Il dialogo poesia-prosa”, ha scritto il
De Robertis, “assume, su un diverso piano, il carattere di dialogo tra poesia e
prosa, tra poesia di ieri e poesia di oggi, fra tradizione e innovazione”[34];
e in effetti l'elegante racconto e la limpida presentazione del tema
concettuale costituiscono elementi d'una forte attrazione verso il nuovo stilo
della poesia, destando l'interesse del pubblico “non specializzato” dell'Italia
duecentesca e incoraggiandolo a penetrare nei misteri d'una nuova concezione
dell'amore cortese. Anche il tessuto prosastico, tuttavia, assimila ed esprime
a quel pubblico novità sostanziali, presentando rispetto alla prosa
dottrinaria del tempo una chiarezza di locuzioni, una scioltezza di ritmo, un
fascino “romanzesco” destinati a costituire il vero “successo” letterario
dell'opera, più che i testi poetici, i quali comunque presentavano fatti
nuovi d'indiscutibile presa sul lettore borghese di fine Duecento. Eppure
dinanzi c'è, è vero, un Dante del quale noi possiamo identificare
gli auctores classici (si pensi allo sforzo notevole e ardimentoso che
la dantologia contemporanea ha fatto in direzione di Orazio e di Persio, di
Giovenale e di flores della commedia latina, persino delle Bacchides
plautine), ma questo Dante vive in un consorzio letterario che può non
aver lasciato tracce in scritti, eppur aver maggior sentore del prosimetrum
di quanto non si possa evincere dalle orme che, lievissime, sono rimaste nel
sabbione infuocato della Commedia, in un crogiuolo di auctoritates
che non vuol essere un repertorio di tutte le cose lette.
Ordunque, all'avido
pubblico duecentesco che vuole un suo liber, non in latino o in
francese, ma nella sua propria lingua, la Vita Nuova, nell'offrire una
struttura assai originale di “romanzo-poemetto allegorico”, rivelava il netto
superamento e, al tempo medesimo, il perentorio inveramento dei fermenti
innovatori che le prime rime avevano potuto esprimere soltanto in modo
episodico; il superamento è nell'ordine stesso della struttura
letteraria che abbandona le occasioni (inchieste e referendum di Dante da
Maiano, tenzoni cortesi con Chiaro Davanzati, dubbi comunicati a Puccio
Bellondi — se son di Dante Tre pensier' aggio, Già non
m'agenza, Chiaro, e infine Saper vorria, da voi) per diversa
e più alta occasione, conquistata mediante la disciplina del labor
limae sui prodotti giovanili, penserei in gran parte riscritti e aggiornati
stilisticamente all'atto di inserirli nel racconto, e nel complesso impegnando
quella “tecnica dolce” di cui ebbe a parlare il Contini, e che riesce a
“cancellare il suo sforzo”, risolvendosi su di un “piano tessuto scrittorio
modulato senza dislivelli”. La disposizione simmetrica delle parole e dei
costrutti, l'inconfondibile melodia di attacchi famosi quanto irripetibili
nella storia della nostra lirica avanti la nuova musica verbale del Petrarca: Tanto
gentile e tanto onesta pare ne è soltanto l'esempio più
flagrante, ma Venite a intender li sospiri miei è il caso
contrappuntisticamente centrale di questo dantesco itinerarium, l'abile
transito tra il ritmo del verso e il tono dell'oratio soluta, la
maestria della rima e l'asciutta concinnitas delle glosse esegetiche in
tema di retorica o di dottrina, la consumata abilità che ormai ha Dante
nell'assimilare gli elementi della cultura classica sino a spingersi a citare
Omero (sono auctores ora consultati direttamente, ora mutuati attraverso
la chiosa dei dittatori e le disputazioni de li filosofanti,
perfettamente equilibrati con l'insegnamento dei Padri e dei Dottori della
Chiesa): tutti questi elementi risultano guidati e riplasmati da una personale
concezione dell'amore, che deve al Guinizzelli e al Cavalcanti nella misura in
cui originalmente li trasforma e intimizza, e risulta sempre in perfetta
coerenza con l'“ispirazione” d'amore d'uno spirito assetato di assolutezza
ragionativa e di purezza affettiva, eppur continuamente richiamato dalle
proprie ragioni letterarie alla poetica della “oggettivazione” dei sentimenti,
e cioè alla perspicua e dinamica funzionalità concettuale della loda
di Beatrice, per la qual loda non sono sufficienti la sola poesia ovvero
la sola prosa, ma debbono essere chiamate ad esprimersi entrambe e assieme, in
un tutto unico.
L'essenza di questo
tutto unico, poesia più prosa, e prosa più poesia, si disvela
nell'armonica distribuzione del materiale poetico nella “cornice” della Vita
Nuova, con vistosi effetti derivati da innata predisposizione al racconto
(il “romanzo” che sarà poi la Commedia), sì che si sarebbe
tentati, qualche volta almeno, di credere col lettore del libello che le
rime sottintendano alla ragione narrativa, mentre questa è in effetti,
come tutte le cornici, un supremo adattamento, un esercizio post factum
rispetto alla poesia, una misura squisitamente letteraria che serve a
concretare il “momento della realtà” rispetto al “momento
dell'immaginazione”, annullando tutte le lectiones varianti del lavoro
in un unicum testuale. Vero è che noi sappiamo, e sapremo, assai
poco sulle fasi di elaborazione della Vita Nuova, ma forse potrebbe
esser giustificato colui che pensasse non soltanto che la poesia, precedente la
prosa nel suo primario concepimento, è stata sottoposta a definitivo
assetto al momento dell'inserimento nel journal della vita giovanile e
rinnovata, ma anche che è coevo il processo ispirativo rispetto a quello
dottrinario, la causa del poetare rispetto all'effettivo verseggiamento, e
inoltre nascono in momenti estremamente ravvicinati se non affatto coincidenti,
le rime per Beatrice e quelle per le donne dello schermo o per la donna
pietosa.
Unica tra le varie
opere dantesche ad apparirci del tutto fiorentina, nella lingua come nel
fondale narrativo ovvero nel tipo di cultura da cui nasce, la Vita Nuova
si esprime per moduli di letture che la dominano, dischiusi ad influssi di
Sicilia e di Provenza, di Bologna e d'altre città toscane, ma
fondamentalmente consegnati ad un processo di mediazione stilistica che
è fiorentina, ad un orizzonte cittadino che è quello del pubblico
cui in primis l'autore si rivolge nei suoi appelli al lettore, insomma
agli spettatori-attori d'una luttuosa storia d'amore che s'erano preparati alla
vicenda dolorosa mediante una precedente vicissitudine e che ora il poeta
chiama a testimoni.
Conclusa la vicenda
letteraria del “libello”, il giovane poeta si pone obbiettivi diversi, anche se
per il momento non maggiori (quasi tre lustri separano la fine della Vita
Nuova dall'inizio effettivo dell'Inferno); e non è quindi
possibile passare di colpo dal prosimetrum del romanzo-poemetto (ovvero,
se posso correggermi, romanzo-piccolo canzoniere) a quell'invenzione di tragedia
virgiliana accresciuta da moderne esigenze di commedia, a quel monstrum
di variationes spaziali-temporali-culturali che sarà il poema,
ove la fase della commedia passa ad un certo momento attraverso l'elegia,
si riscatta ed è “pura” e “disposta” a trasferirsi in tragedia;
si può dire d'un passaggio dalla Firenze duecentesca del libro giovanile
ad un'Europa trecentesca della Commedia, in perfetta analogia con quanto
si verifica tra l'elegia fiorentina della Tenzone e il realismo
toscano ed extra-toscano dell'Inferno. Con questa differenza di
prospettiva: che la Vita Nuova è un'opera conclusa in se stessa,
anche come panorama d'una vita aristocratica in Firenze (la città non era
allora scevra di lutti politici, ma questi sembrano relegati in una zona morta
che non macula il clima estatico della storia d'amore), mentre gli esperimenti
realistici sono più dichiaratamente fiorentini, dall'onomastica alla
toponomastica, dalle usanze demotiche al lessico becero, ma con pur sempre
saggi o assaggi d'una materia stilistico-letteraria che sarà destinata a
confluire in un'occasione più grande, sì da esserne, come pare,
non autorizzata la divulgazione. La Vita Nuova, invece, è stata
scritta per essere divulgata a molti, nel senso che induce a riflettere sulla
vasta funzione educativa che Dante si proponeva d'esercitare con un'opera
“attraente” e organica, qual è il “romanzo” della vita giovanile
rispetto alle minori possibilità insegnative che potevano esprimere gli
aristocratici canzonieri dei bolognesi e degli amici fiorentini. In tal senso
ho tentato la definizione “romanzo-piccolo canzoniere”, con questa
diversità e sostanziale e formale: che le rime della Vita Nuova
hanno una loro struttura autonoma di rerum vulgarium fragmenta rispetto
alla prosa, mentre quest'ultima non può pretendere al rango di “racconto
lungo” svincolabile da quel complesso poetico e assurto a pièce
narrativa a sé stante.
S'è detto
precedentemente qualche cosa sul rapporto non solo strutturale, ma anche
stilistico-linguistico tra poesia e prosa della Vita Nuova. È
opportuno osservare da vicino alcuni elementi tecnici[35],
tenendo presente la circostanza già annunciata che il rapporto
poesia-prosa si fa flagrante a partire dal cap. XX, per infittirsi nella zona
successiva, in particolare nel XXIII, nella canzone Donna pietosa e di
novella etate, mentre tutta la prima parte del romanzo è per lo
più in forma di chiosa amplificativa della lirica o in una posizione
nettamente divergente:
Il
discorso in poesia e quello in prosa dispongono gli stessi temi in maniera
assai diversa. Dante nella prosa comincia con la sua infermità, poi il
suo sogno, e in fine l'intervento della donna giovane e gentile e delle
altre donne; nella canzone comincia invece con l'intervento della donna pietosa
e delle altre donne, e dal verso 30 espone il sogno sotto forma di narrazione
tenuta alle donne. La prosa si attiene cioè a una successione
cronologica delle azioni, la poesia porta il sogno nel dialogo con le donne,
col gusto stilnovistico del dialogo, e si avvia sulla presenza della Donna
pietosa e sul pianto del poeta, realizzando l'attesa per conoscere la
ragione di quel pianto. […] La prosa della Vita Nuova, se dà
scarsissime indicazioni locali, s'indugia talora su precisazioni temporali. […]
Tali indicazioni temporali non sono presenti nella canzone; come sono anche
della sola prosa i particolari realistici andare per vedere lo corpo ne lo
quale era stata quella nobilissima e beata anima (par. 8); quando io
avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti
s'usano fare, mi parea tornare ne la mia camera (par. 10); e della sola
prosa sono anche le precisazioni, l'una localistica, l'altra, per così
dire, anagrafica della Donna Gentile[36].
L'esame fitto e
concreto del Baldelli ha posto in rilievo la collocazione, nella prosa, di
vocaboli quali corpo, faccia, testa, visi di donne
scapigliate, visi diversi e orribili, mentre il linguaggio poetico
rifugge da una siffatta scelta lessicale: a scapigliate si
opporrà disciolte, e si condensa in parole non prosastiche quali frale,
smagati, caunoscenza.
L'effetto della
differenziazione poesia-prosa è considerato dallo stesso autore nel
rapporto tra il sonetto Deh peregrini che pensosi andate e la misura del
proposito manifestato dal poeta, la sua giustificazione a posteriori: il
che contrasta, nella prima parte della Vita Nuova, con l'esistenza di
prose amplissime, di vasta tessitura sintattica, a premessa e parerga di
sonetti, e con la sua specie latineggiante, anzi col fitto insorgere di
flagranti latinismi sconosciuti alla poesia, tutta strutturata sulle
consuetudini del verseggiare “nuovo”, ricche di echi di stile “dolce” di
recente coniazione, e che non gradiscono gran copia di elementi estraibili
dalla retorica classica e dalle reminiscenze scritturali, le quali non hanno
grande possibilità di collocazione all'interno del linguaggio poetico:
il che non sarà possibile a partire dagli ultimi canti del Purgatorio
alla tessitura formale della terza cantica.
VI
LE RIME REALISTICHE. LA “TENZONE”
CON FORESE
Abbiam detto che il
volgarizzamento del Roman de la Rose deve essere ritenuto opera
giovanile, e non si vede come infatti il Fiore e di conseguenza il Detto
d'Amore trovino uno spazio sul finire del Duecento, quando Dante è
impegnato nelle alte, “tragiche” esperienze delle Rime dottrinali, e
ancor meno ai primi del Trecento. Nel “Ser Durante” del Fiore l'esigenza
di dover attingere a moduli espressivi estranei alla scuola di Guittone, i
frequenti imprestiti linguistici allotri all'usus della cultura
fiorentina di metà sec. XIII, complesse esigenze di grammatica e di
sintassi, prove particolarmente ardue in tema di rima, necessità di
conservare e al tempo stesso trasformare e adattare i gallicismi, al fine di
meglio rendere la patina del testo originale: tutti questi elementi e altri
congiurano ad impegnare il poeta a raccogliere tutti i materiali utili anche
nel settore della tradizione realistica post-giullaresca e post-goliardica.
L'autore del Fiore non aveva dinanzi a sé gran copia di elementi
in volgare: il Tesoretto e il Favolello (ma non tutto), le rime
comiche e quelle cortesi di Rustico; gli elementi sono tutti messi a confronto
e utilizzati per rime del tipo di Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare,
sui piaceri della caccia in un milieu aristocratico, con una prima parte
lieve e aggraziata, e una seconda parte (trattasi di un sonetto) in cui il
poeta riflette sul suo pensamento amoroso: opera di chi conosce e apprezza le
prove di Folgore da San Gimignano. In queste e altre date del realismo
giovanile dantesco giuocano molto le letture delle rime “giocose” del
Guinizzelli e del Cavalcanti. Insomma Dante si cimenta anche in questo campo, e
lo fa con tanto impegno, con una così profonda ammirazione per il
lessico di tono basso, persino un certo gusto dell'osceno e del licenzioso
quale s'addice ai componimenti dello stile elegiaco, da far ben presto rapidi
passi anche in questa direzione, così che si possa affermare senza tema
di smentite che tra i realisti tardo-duecenteschi l'Alighieri è in
primissima posizione, così come tra i poeti del Dolce Stile.
Tra il poderoso
lavoro di adattamento al volgare italiano della lingua del Roman de la Rose
e i sonetti della Tenzone con Forese Donati c'è un collegamento
strettissimo, c'è una linea linguisticamente e letterariamente
ascendente, saliente.
Il divertissement
dei giocosi l'attrae, lo eccita, gli fomenta quella sua straordinaria dote
d'inventare hapax, di forgiare nuovi conî lessicali, di tentare
soluzioni sintattiche arditissime. Si tratta di vedere se questo interesse
abbia a che fare o no col cosiddetto “traviamento” di Dante, pur considerando
che quel che conta, in definitiva, è il Dante poeta, il poeta di quel
“nodo centrale” Rose-Fiore-Commedia.
E questo poeta si
esperimenta sin da giovane in tutti e tre gli stili della poesia medievale:
è un grande scrittore “tragico” nella Vita Nuova, “comico” nel Sonar
bracchetti, “elegiaco” in Chi udisse tossir la malfatata.
L'estensione dello stile tragico giunge dai momenti di maggiore elevatezza
retorica delle rime in morte di Beatrice, anzi da tutta la rappresentazione
dell'amore e della solitudine dopo la morte in attesa della mirabile visione,
sino a momenti di delicato sentire espressivo di Per una ghirlandetta,
di Deh, Violetta, che in ombra d'Amore, ovvero di Di donne io vidi
una gentile schiera. Lo stile “comico” non è ancora l'eccezionale
punto d'incontro dei tre stili nella Commedia (incontro che coniuga
sovente l'intera gamma delle teorie degli stili all'interno dello stesso
episodio, nella struttura dello stesso canto del poema). Nello stile “elegiaco”
si sviluppa tutta la tessitura della Tenzone con Forese. Vero è
che noi non sappiamo nella necessaria interezza quale potesse essere la
posizione teorica di Dante rispetto al linguaggio della elegia
medievale, ma quel che possiamo inferire, è più che sufficiente
per sottolineare la ricchezza dei giuochi realistici, la corposità della
natura letteraria delle contentiones e dei vituperia, l'accumulo
d'un lessico greve, licenzioso, sfrenato nella sua stessa goduta libertà
di misurarsi con l'avversario, non meno provveduto di lui, sulla strada della
contumelia verbale.
Se il Dante di quegli
anni si sperimenta in tante direzioni (e lo stesso “elegiaco” è sovente
una mescidanza di “comico-elegiaco”, o medio-basso; non c'è dunque
l'adozione separata, staccata prima d'uno stile, poi d'un altro, ma un gustoso collage
che si confronta, sull'altro versante, col collage alto-medio,
cioè “aulico-comico”, tragico-mezzano), non dobbiamo cadere nell'errore
di disgiungere i vari momenti, ma sceverare la contestualità o quasi
come quella di operazioni Vita Nuova-Fiore, rime per le donne dello
schermo e sonetti vituperosi contro Forese, cortesie aristocratiche e
bècere piazzate. Soltanto apprezzando siffatta contestualità
sarà poi possibile comprendere le ragioni di quel monstrum
linguistico che è la Commedia, e leggere la Commedia
valutando il latino delle Egloghe, le rime sciolte, l'oratio
soluta del racconto visionario-messianico con l'ardente prosa latina delle Epistole,
naturalmente delle maggiori.
Alle radici di questa
contestualità sta la circostanza che tutte le opere giovanili dantesche,
nessuna esclusa, vivono al tempo stesso in una società letteraria e in
una società pubblica, servono per i diletti di una raffinatissima élite
e cercano un pubblico sempre più vasto, addestrato già dalla
lettura della Vita Nuova ma che di buon grado apprezza le piacevolezze
del parlar scurrile, le risate sguaiate della Tenzone, i sottintesi
maliziosi e le simbologie erotiche del Fiore. Le due società
convivono, ma solo in parte coesistono in una suprema forma di civile
consorzio.
Il “traviamento”
è l'esatto opposto dell'innamoramento, o meglio l'annullarsi d'esso, il
disperdersi di quelle virtù che l'Amore suscita e da cui è
accompagnato; non c'è amore senza parvenza, ombra, timore di peccato e
necessità di espiazione. Tutta la storia della Commedia
sarà congegnata in questa prospettiva di misura ascetica, di processione
di colpe e ravvedimenti. La Vita Nuova e la Tenzone sono i due
termini della questione attorno a cui si dipanerà tutta l'esperienza del
viator del poema. Se si volesse offrire una spiegazione letterale ai
particolari espressi nella Commedia, si dovrebbe dedurre che il
traviamento ebbe inizio subito dopo la morte di Beatrice:
Sì tosto
come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui…[37]
spiegazione letteraria o referente autobiografico? ovvero
tutte e due le cose assieme, una sovrapposizione di causa ed effetto secondo le
modalità dei romanzi cortesi? In tal caso il volgere i passi suoi per
via non vera sarebbe a poca distanza dal giugno 1290; ma se dobbiamo dar
tempo al poeta di redigere la Vita Nuova, dobbiam pure collocare
l'inizio del “traviamento” in anno immediatamente successivo, e considerare il
decennio meramente indicativo, essendo l'elemento fondamentale per Dante
piuttosto il terminus d'un generico decennio che trova la sua
consacrazione nel momento della selva, dopo che Beatrice, esperiti tutti i
tentativi, decide di mostrarli le perdute genti: 25 marzo o, se si
vuole, 8 aprile 1300. Ma il decennio di dispersione e d'allontanamento da
Beatrice sarà indicativo d'una situazione o dottrinale o psicologica o
letteraria ove il terminus a quo addita le cause efficienti e le centra
nel rimprovero del Cavalcanti in I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte,
il terminus ad quem la maturata convinzione di dover intraprendere una più
concreta e vasta realizzazione della mirabile visione. Conoscendo la
perspicacia numerologica e l'impegno prospettico dell'autore della Commedia,
si può ritenere che il decennio del traviamento conoscesse suddivisioni
in curve paraboliche che situano il “vero” momento della dispersione nella zona
centrale del lasso 1290-1300. È deduzione tradizionale che la Tenzone
con Forese ipotizzi il momento “più grave” del traviamento, e la data
presumibile della Tenzone coincida col punto centrale del decennio: negli
anni 1293-1296, non troppo presto rispetto all'annovale della morte di
Beatrice, non oltre ovviamente la data del decesso di Forese (1296).
Con ciò non si
vuole affatto affermare che l'accadimento materiale del contrasto letterario
con Forese Donati debba avere di necessità una data, un anno, ma che
invece Dante ha voluto ad arte assegnargli una posizione mediale nella sua
storia letteraria, di riflesso nel ricordo che della Tenzone ha o
potrebbe avere nell'episodio della cornice dei golosi, soprattutto in Purg.,
XXIII, 55-60, 85-93, e un po' in tutto il canto. Cosicché le congetture
del Contini e del Pernicone sulla contemporaneità tra Vita Nuova
e Tenzone restano validissime sul terreno della produzione letteraria
dantesca, anche se Dante non avrebbe mai finto che le due fabulae
possano essere coeve; una sua volontà di disporre le Rime a mo'
di canzoniere sarebbe approdata inconfutabilmente alla scelta di due ben
distinte zone per il libello e per il contrasto.
Il “traviamento”,
infatti, non fu da Dante reputato di natura stilistico-retorica, per essersi
prestato ai giuochi della tradizione giocosa sin dal sonetto Sonar
bracchetti, e cacciatori aizzare (la “pluralità degli stili” cui ben
s'è riferito il Contini), ma può anche concernere una certa
dispersione d'impegno letterario che ebbe a verificarsi nel periodo successivo
alla morte di Beatrice (l'“abbattimento” di cui ebbe a parlare Barbi[38]),
pentimento di disperdersi, ultimata la Vita Nuova, in rime spicciolate,
senza affrontare strutture e temi di grande respiro. Un semplice confronto di
“mole di lavoro” tra il decennio che va dalla fine della Vita Nuova
all'inizio del Convivio, e il ventennio (o quasi) successivo, mostra il
desiderio di Dante di trarsi da un'attività frammentaria e
pluridirezionale e concentrarsi in opere organiche: una salvazione letteraria,
insomma. L'altra e più probante ipotesi, che vede nel traviamento una follia
filosofico-teologica, trova più piena giustificazione in quanto il
traviamento è immesso in una crisi che minacciava di disgregare il Dante
poeta, introdurre elementi devianti nella sua storia intellettuale,
disimpegnare il Dante politico davanti ai grandi fatti che s'andavano
producendo in Firenze con gli Ordinamenti di Giustizia, ma soprattutto
allontanare l'animo dai temi della loda a lui congeniali e che gli
avevano procurato, assai più delle rime comiche, la fama di poeta
novus, di dittatore di nove rime.
Si deve concludere
affermando che la collocazione della crisi nella data del viaggio oltremondano
(1300) è puramente indicativa d'una fictio poetica in atto,
dunque dell'esigenza di situare la visio non reale ma
simbolico-narrativa in un momento che rispondesse alla complessa argomentazione
allegorica e numerologica; e che, infine, lo smarrimento filosofico-religioso
consta di due tappe, l'una riversata nel turbamento conseguente la morte di
Beatrice, l'altra in un'epoca più vicina al 1294 che non al 1300: “Là
sù di sopra, in la vita serena”, / rispuos'io lui, “mi smarri'” in una
valle, / avanti che l'età mia fosse piena, come in Inf., XV,
49-51, il che, detto ad un uomo di cultura quale Brunetto Latini, sottolinea
gli elementi filosofico-letterari del traviamento rispetto a quelli psicologici
e morali, senza peraltro escludere questi (alla fine Brunetto è un
dannato per sodomia!): “E dunque il traviamento di Dante”, ebbe a concludere il
Marti, “non è solo amoroso, né solo religioso, o intellettuale, o
morale, o stilistico, e sarà stato magari tutte queste cose insieme
senza essere specificamente nessuna di esse”[39],
tentando una soluzione sincretica rispetto alla tesi del Barbi sulla
dissipazione morale, del Pietrobono su quella religiosa, del Maggini sopra una
deviazione d'ordine amoroso, del Contini circa un traviamento stilistico, e
rintracciandone le cause in una ricerca della realtà, in un netto
distacco dalla metafisica del Dolce Stile, per il desiderio di immergersi nella
realtà onde “viverla dal di dentro in un atto di effettiva e totale
presenza, guidata dall'inflessibilità dell'imperativo etico”.
Siffatta soluzione
sincretica ci consente di seguire d'ora in poi l'itinerario letterario di Dante
in una conformità più ravvicinata alle vicende politiche,
poiché sappiamo che esse, tutte esse nessuna esclusa, entreranno nel
materiale incandescente della Commedia, e non dovremo più
supporre fili quasi invisibili tra l'attività pubblica e quella privata.
Nel contempo, ora che abbiamo acquisito la coesistenza d'un Dante “tragico” e
d'un Dante “comico” (d'un comico con forti tentazioni verso lo stile basso),
possiamo indagare con maggiore libertà l'approssimarsi del poeta alle
ragioni supreme della sua invenzione letteraria, fictio e non fictio
che sia, e a quelle, per lui non meno rilevanti e attraenti, del giuoco
verbale, sia esso adagiato nelle forme suavissime dello Stilnovo
fiorentino, sia esso sbrigliato dietro i capricci verbali, il continuum
inventivo, l'“indicatore lessicale” che guida il lettore nei meandri dei
procedimenti realistici della Tenzone.
L'interesse
documentario della Tenzone risiede propriamente nella serietà
dell'impegno letterario di Dante anche in questa prova, nonostante i lazzi
osceni, i giuochi equivoci di parola, il dileggio licenzioso: cioè
ch'egli ha voluto innalzare a modello d'arte la vituperatio iocosa
sapendo d'avere un pubblico che, conscio dei risultati raggiunti in stile
tragico, non s'aspetta di meno negli esperimenti comici.
La scelta dei
termini, la loro collocazione in rima o fuori di rima, l'asprezza stridente
delle spezzature rivela un poeta che è andato ben oltre Rustico Filippi
e che se non prosegue su questa strada, lasciando che sia Cecco Angiolieri a
percorrerla tutta, è perché il deposito di questa esperienza gli
è più che sufficiente per potersi impegnare in un'operazione
“comica” di ben altra portata che un semplice scambio di sonetti ove, pur
superando in vigore e in coerenza (per l'appunto all'interno della vituperatio)
il suo amico Forese, il quale resta nel complesso non meno pungente ma ben
più generico e parolaio, le dimensioni della disputa non possono andare
oltre un certo limite letterario, fuori del quale tutto scadrebbe a pretestuoso
ed effimero, e c'è bisogno di ben altra occasione sul piano narrativo,
come sarà lo scambio verbale tra Mastro Adamo e Sinone nel canto XXX
dell'Inferno, e sul piano dello stile comico svariante nella Commedia
lungo un arco amplissimo di moduli stilistici, con un'attenzione superbamente
gigantesca volta a cogliere tutte le possibilità morfologiche, lessicali
e sintattiche inaugurate sì dai giocosi toscani, e ben esperite da lui
stesso nella disputa con Forese, ma ora recate ad una summa comica
così vasta nell'Inferno, da relegare la Tenzone al rango
di semplice prova d'autore.
VII
ESORDI DI UN UOMO POLITICO
In tutto questo
periodo in cui si registra la nascita del singolarissimo intellettuale avido di
sapere e pronto a misurarsi con altrettale maestria nel campo della poesia
cortese e in quello del realismo borghese (il risultato nel primo è
molto più considerevole, ma anche la Tenzone è un evento
importante nella storia delle nostre lettere soprattutto se posto in
connessione con la genesi interna dell'Inferno, dei canti centrali delle
Malebolge), il nome di Dante è presente soltanto in un documento
d'archivio, per la verità di scarso rilievo: una presenza nell'atto di procura
di un tal Guiduccio di Ciampolo da Petrognano, il quale nomina in data 6
settembre 1291, in una causa contro un Aringhiero, il notaio Maschio del fu
Bernardo: fungono da testimoni un altro notaio, ser Bonaventura del fu Tano, e
“Dante cd. Allaghieri populi Sancti Martini Episcopi”. Pure è questo il
periodo in cui si collocano due fatti letterari: la questione di Lisetta e la
corrispondenza poetica con Aldobrandino Mezzabati, capitano del popolo in
Firenze tra il maggio 1291 e il maggio 1292; ma la risposta di questi al
sonetto dantesco Per quella via che la bellezza corre sembra quasi
tenere ancora in corsa il gusto aristocratico della rimeria d'amore con un che
di realisticamente vivo e pungente, a meno che il tutto non vada spostato a
quando il Mezzabati non era più a Firenze. Ma questo complica
ulteriormente il problema dell'identificazione della donna, anzi delle due
donne dello schermo (vedi Vita Nuova, V-VIII e X), la cui presenza
tuttavia può entrare nel giuoco narrativo della Vita Nuova ma non
necessariamente esser posta in rapporto al “traviamento”. Si può
prospettare quindi una Fioretta come prima donna dello schermo (vedi la ballata
Per una ghirlandetta), poi ripresentata sotto le vesti della Pargoletta
o della Pietra (si veda tra breve), ovvero Fioretta e Violetta esser la stessa
persona, mentre la Pargoletta andrebbe isolata nel contesto delle tre liriche
dedicatele (I' mi son pargoletta bella e nova, indi Chi
guarderà già mai sanza paura, infine, se è essa nella
conclusione di una rima “petrosa”, Io son venuto al punto de la rota), e
quindi Pargoletta e Pietra esser la stessa persona. Nella diatriba intorno alle
donne contrapposte a Beatrice quale motivo d'allontanamento entra anche la
donna pietosa, entra persino Matelda, entrano infine, per ultime poiché
riferibili una forse, l'altra con sicurezza, all'età dell'esilio,
l'“alpigiana” della canzone montanina Amor, da che convien pur ch'io mi
doglia, la donna lucchese Gentucca di Purg., XXIV, 37 sgg., la quale
risulta anteposta di appena sei canti alla riapparizione di Beatrice.
Tutte le congetture,
a questo punto, restano aperte: anche se nessuna donna reale possa esser posta
in antagonismo a Beatrice, e ciascun personaggio appaia la proiezione,
differentemente variegata, d'una fitta tipologia psicologico-amorosa che serve
ora da mezzo di contrasto, ora da fondale, ora da contraltare alla loda
di Beatrice.
In questo stesso
periodo il poeta, reduce dai campi di battaglia, si veniva a trovare sempre
più a contatto con la vita politica della città. Le vittorie
militari, sul duplice fronte d'Arezzo e di Pisa, rendevano più
impegnativa l'attività di Firenze all'interno della città, a
distanza di tanti anni dall'impetuoso e oltranzista risveglio guelfo dopo il
ripristino della carica del capitano del popolo (speranzoso tentativo di far
tornare la vita politica di Firenze all'aureo momento del “primo popolo”) e dal
successivo tentativo d'un governo bipartito guelfo-ghibellino, che certo aveva creato
nell'animo dei giovani della generazione di Dante suggestioni destinate a
fruttificare nel tempo, speranza d'una pace giusta e definitiva tra le fazioni,
purtuttavia di scarsa durata dinanzi al lento prevalere della Parte Guelfa,
dapprima (1281) con l'energica stretta anti-ghibellina del governo dei
Quattordici, poi con la creazione dei priori (1282), qualche anno dopo con
l'ingresso delle cinque Arti medie nei Consigli del Comune (1287).
La generazione
dell'Alighieri era comunque rimasta spettatrice soltanto degli eventi, e lo
resterà anche durante le campagne del 1289 e con le provvisioni
canonizzate, poi, nel successivo triennio: giugno 1290, quando i Fiorentini
“con loro amistà feciono la terza oste sopra la città d'Arezzo”[40],
saccheggiando le terre degli Aretini e quelle del conte Guido Novello;
settembre 1290, con le zuffe dell'esercito fiorentino contro Pisa ma anche le
nuove vittorie di Guido da Montefeltro che riconquista i castelli di
Montefoscolo e di Montecchio; 23 dicembre 1291, con la crudele impresa della
distruzione di Ampinana, nel Mugello, ma anche col nuovo colpo di mano del
conte di Montefeltro, il quale strappa ai Fiorentini il castello di Pontedera,
e i Fiorentini non riescono a organizzare la controffensiva:
Per
la qual cosa s'ordinò in Firenze generale oste sopra Pisa, e diedonsi le
'nsegne, e messer Corso Donati ebbe la reale; ma, qual si fosse la cagione, non
seguì, onde in Firenze n'ebbe grande ripitìo, dicendosi, che
certo grandi n'aveano avuti danari da' Pisani; per la qual cosa, e
sollecitudine di messer Vieri de' Cerchi allora capitano di parte, si rifece la
detta oste, e andossi insino al castello del Bosco, e là attendati,
venne in otto dì continui tanta pioggia, che per necessità si
ritornò la detta oste addietro, e appena si poterono ricogliere e
stendare[41];
14 gennaio 1292, con
le consulte fiorentine sulle proposte di pace avanzate da papa Niccolò
IV; 4 aprile, con la morte del papa e l'inizio d'una lunga sede vacante; giugno,
con altra scorreria questa volta vittoriosa contro la città di Pisa: “e
sì era in Pisa il conte da Montefeltro con ottocento cavalieri, e non
s'ardì a mostrare per la viltà che sentiva ne' Pisani, e stette
pure alla guardia della cittade”: fatti senza ragguardevole udienza nella
memoria di Dante, se si eccettui l'interesse sempre vivo per la figura del
Montefeltrano e per i fatti pisani. Tuttavia è proprio verso la
metà del 1292 che cominciano a fermentare eventi nuovi nella storia
politico-sociale di Firenze, sì da destare sempre di più
l'attenzione degli intellettuali della generazione dell'Alighieri; 10 giugno:
richiesta dei priori d'inserire nel Consiglio del Popolo trenta consiglieri in
sovrannumero; estate: un movimento sempre maggiore del ceto popolare, con
immediate ripercussioni nei dibattiti e nelle deliberazioni in seno ai Consigli
cittadini; novembre: animata discussione in vista della nomina dei nuovi priori[42];
e, fatto ancor più appariscente, il passaggio di Giano Della Bella dai
Grandi al partito popolare, inizio dell'agitata stagione del “secondo popolo”,
che sfocierà sul finire dell'anno nei documenti preparatori degli
Ordinamenti di Giustizia, sanciti il 15 gennaio del 1293.
Per quanto il '93
richiami altri elementi relativi a Dante, i 584 X 2 = 1168 giorni della
rivoluzione di Venere nel suo epiciclo e quindi la vicenda d'agosto
dell'apparizione della Donna Gentile (Conv., II, ii, 1, Cominciando adunque, dico che la stella di
Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e
matutina, secondo diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice
beata che vive in cielo con li angeli e in terra con la mia anima, quando
quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve
primamente, accompagnata d'Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la
mia mente), lo studio d'ora in poi fondamentale della filosofia, e al tempo
medesimo uno dei possibili momenti della tenzone con Forese, si mutuerebbe una
troppo facile immagine d'un Dante tutto “solingo in bei pensier d'amore”, in
luogo di quella d'un uomo di cultura che senza nulla detrarre dal proprio
impegno filosofico avverte il sopraggiungere d'una novella età politica,
che poco più di mezz'anno dopo lo vedrà svolgere, come sembra, un
ruolo diplomatico-culturale nient'affatto secondario, in quel 1294 che doveva
vedere la morte di Brunetto Latini; preparativi in Firenze per il passaggio di
Carlo Martello; apprestamento d'una delegazione cittadina, al cui comando
è posto Giano de' Cerchi, figlio di Vieri e coetaneo di Dante, col quale
aveva combattuto a Campaldino; arrivo ai primi di marzo del giovane principe
degli Angiò; indirizzo di saluto di Remigio de' Girolami in S. Maria
Novella; arrivo di Carlo II con la moglie e gli altri figli (11 marzo):
partenza dei reali sul finire dello stesso marzo 1294; soggiorno a Siena.
Tutto il contesto del
celebre episodio del canto VIII del Paradiso non ha consentito che
biografi e commentatori del poema esprimessero il benché minimo dubbio
sulla circostanza che Dante abbia fatto parte della delegazione fiorentina,
anzi fosse stato tra i più intrinseci di Carlo Martello (Benvenuto:
“Dantes… qui tunc ardens amore, vacans sonis et cantibus, uncis amoris
promeruit gratiam istius iuvenis Caroli”). Che l'impegno diplomatico non
distraesse Dante dalle fatiche letterarie, è provato dalla citazione che
proprio a Par., VIII, 37 vien fatta dal principe angioino della canzone Voi
che 'ntendendo, rammentata a bella posta dal suo autore forse perché
letta e commentata di persona a Carlo Martello, o argomento tra di loro di
conversazione accanto ad altre rime del Fiorentino, se non addirittura scritta
durante i preparativi dell'arrivo e nelle tre settimane di permanenza in
Firenze. Non è cosa insolita per Dante il ricorrere alle reminiscenze
che le anime della Commedia conservano delle canzoni di lui, non
soltanto a scopo di citazione esplicita, ma anche per presentare qualche elemento
orientativo sulla data, pur anche approssimativa, della loro composizione:
Casella e Amor che ne la mente mi ragiona.
Carlo Martello era il
primo personaggio politico di spiccata importanza che Dante ebbe modo di
conoscere da vicino, e del quale divenire intimo, d'un'amicizia che, a stare al
testo della Commedia, sembrerebbe esser durata a lungo, dopo la partenza
di Carlo (da Assai m'amasti a segnor mio ecc.); ma non si vede in
qual modo ciò potesse verificarsi, poiché il re titolare
d'Ungheria non ebbe a ripassare per Firenze, né è ricevibile
l'ipotesi che Dante con gli altri Fiorentini lo scortasse sino ai confini del
Regno di Napoli. Si dovrà affermare, per converso, che probabilmente
egli volle interpretare nella luce d'un grande affetto un breve episodio di
dimestichezza con un regnante, non già per esaltare se medesimo oltre
ogni misura, ma per meglio effigiare poeticamente l'atmosfera di quel cielo di
Venere e la raffinata cortesia di quel singolare personaggio tra gli
Angiò, l'eccezione a contrasto con la dura “ragion di Stato” e le colpe
morali del padre e dell'avo.
È nota la
compromissione politica di Carlo Martello in una vicenda, sempre nel '94,
centralissima nella memoria personale e poi “poetica” di Dante: l'elezione
papale e l'abdicazione di Celestino V, da Carlo Martello raggiunto nella
città dell'Aquila poco dopo il 5 maggio, a meglio rinsaldare le mene del
Ciotto di Ierusalemme; la presenza alla consacrazione episcopale, poi
all'incoronazione papale di Pietro del Morrone (17-21 e 29 agosto); più
tardi (13 dicembre) l'abdicazione; dieci giorni dopo l'ascesa di Bonifacio
VIII. Fu proprio Carlo Martello, in quanto vicario del Regno, ad inseguire e
catturare Celestino a Vieste, all'interno del suo feudo di Monte S. Angelo.
S'innesta qui
l'ipotesi della partecipazione di Dante all'ambasceria fiorentina a Napoli (5
ottobre 1294), durante la residenza che Celestino V fu costretto a prendere
nella capitale del Regno, già dal settembre: ipotesi fragilissima se non
addirittura insussistente, legata da un lato alla profondità
dell'amicizia che il poeta proclama d'aver avuto con Carlo Martello, il quale
col padre Carlo II aveva scortato il vecchio pontefice dall'Aquila a Napoli
(è possibile che tra gli ambasciatori fiorentini ci fosse un amico
personale del giovane principe? c'è chi ha risposto di sì),
d'altro canto implicata dal vidi e conobbi con cui viene identificata la
misteriosa figura del vestibolo dell'Inferno, e cioè, per i
più, Celestino V. Altri elementi, tra i quali la notizia aberrante
fornita dal Filelfo secondo cui Dante si sarebbe recato a studiare logica allo
studio di Napoli, ovvero il ricordo del monte Cacume, tra Roma e Napoli, ma ben
visibile anche da Anagni, se Dante vi si recò durante l'ambasceria
presso Bonifacio VIII nel 1301, possono esser ancor meno invocati, e lo stesso
si può dire per la precisione delle notizie che Dante rivela di avere
nella Commedia sulla situazione politica di Napoli e le prevaricazioni
di Carlo II d'Angiò, notizie che Dante potrà aver avuto in epoca
successiva. E del resto Dante nel 1294 non aveva una posizione politica tale da
far sì che potesse esser chiamato a far parte d'un'ambasceria: posizione
anzi impedita dagli Ordinamenti di Giustizia e rimossa soltanto coi
Temperamenti del 1295. La chiamata a far parte d'un corteggio di giovani
cittadini al servizio di Carlo Martello, si può però soggiungere,
non era necessariamente un incarico politico, ma piuttosto “cortigiano” al
quale il governo del “secondo popolo” poteva trovar utile delegare gentiluomini
in quanto tali esclusi dai pubblici poteri. Del rimanente anche coloro che sono
convinti esser Celestino V l'ombra dell'Antinferno, non insistono sulla
necessità che Dante conoscesse di persona Pietro del Morrone, e sono ben
lontani dal rifarsi alla vecchia congettura secondo cui Celestino V, in fuga
dopo l'abdicazione, sarebbe passato per Firenze.
Insomma non
v'è alcuna base di certezza per affermare che Dante seguisse il principe
angioino sino a Napoli e assistesse alle drammatiche vicende che portarono al rifiuto
il vecchio anacoreta della Maiella. Meno che mai è sostenibile la tesi
che Dante si fosse trattenuto a lungo a Napoli, anche durante il seguito delle
vicende dell'abdicazione, il tentativo di Carlo II, i malumori del popolo
napoletano e magari anche il conclave che sempre a Napoli si tenne e dal quale
usciva papa (il 23 dicembre), al terzo scrutinio, il cardinale Benedetto
Caetani, cioè Bonifacio VIII. Per concludere sono più forti le
ragioni che militano contro, anziché quelle a favore d'un soggiorno di
Dante a Napoli, a quell'epoca, e men che mai in epoca susseguente.
Era stato altamente
drammatico il dicembre del 1294 a Napoli: stanno dissolvendosi le speranze
riposte nella concreta possibilità di realizzazione del pauperismo e
dell'evangelismo di Celestino V, e inizia il pontificato teocratico di
Bonifacio VIII, che sin dal principio si annuncia gravido di incognite per la
politica svolta da Firenze. Il papa pone subito mano a rivedere i rapporti tra
quel Comune e la Chiesa, mentre Firenze è mossa dalla necessità
di riformare gli elementi fondamentali degli Ordinamenti di Giustizia. Gli
eventi si susseguono in rapida sequenza: si insedia un comitato per la riforma
dello statuto all'interno della chiesa degli Umiliati di Ognissanti; Giano Della
Bella è cacciato dalla città (nel febbraio del 1295); si fanno
rapidi preparativi per creare una diversa situazione giuridico-politica che
attenui lo stato di tensione tra l'oligarchia aristocratica e i popolani;
finalmente va in porto la nuova legge (6 luglio). Tutti questi eventi, proprio
per il rapido susseguirsi, sorprendono una parte dei cittadini, ma non Dante,
oramai con l'interesse desto per le cose pubbliche e il desiderio di uscir
fuori dell'ombra, in cui l'aveva relegato l'esclusione dalle cariche pubbliche
non soltanto degli ottimati, ma anche della piccola nobiltà.
Col 6 luglio Dante dovette decidere d'entrare sulla scena politica. Siamo noi a
congetturare tutto ciò, poiché né al momento, né
poi, Dante fa mai accenno alle cause del suo ingresso nell'agone politico, e
non accenna mai sia agli Ordinamenti di Giustizia (sepolti nell'oblio assieme
alla figura di Giano), sia ai loro Temperamenti, ma il giovane letterato di
aviti sentimenti guelfi provvede ben presto a porsi nella condizione prevista
dalla nuova legge: che i nobili potessero adire alle cariche pubbliche
purché iscritti ad un'Arte o Corporazione. La scelta cade sull'Arte dei
Medici e degli Speziali come quella più adatta alle sue condizioni
d'intellettuale, né egli vede in ciò un tradimento dei propri
precedenti ideali non essendosi mai confuso con le mene dei Grandi.
Ora noi sappiamo
quasi tutto circa le condizioni che consentirono l'iscrizione di Dante ad
un'Arte e quindi l'adito alla vita del governo popolare. Purtroppo non
possediamo più le matricole più antiche degli Statuti dell'Arte
dei Medici e Speziali; soltanto in un estratto tardo, del 1447, sotto la
rubrica “Al libro primo delle matricole di Firençe segnato "A"
che comincia nell'anno m. cc.° lxxxxvij” si trova scritto tra gli altri il nome
di “Dante d'aldighieri degli aldighieri poeta fiorentino. 15”.
Il Barbi[43]
ha dimostrato che l'inclusione del nome di Dante nella matricola del 1297 “non
vuol dire che esso non figurasse altresì in quella anteriore, essendo
uso che ogni tanto le matricole si rinnovassero e che gli interessati
ripetessero l'operazione”.
L'iscrizione cade in
una data assai prossima al 6 luglio 1295 se troviamo Dante a far parte dei
Trentasei del Capitano già nel semestre 1° nov. 1295-30 apr. 1296.
Indubbiamente le chiamate politiche di Dante, in tutto il periodo che va sino
all'ambasceria sangimignanese, furono in rapporto al suo prestigio personale,
non ad un'esperienza specifica nell'amministrazione della cosa pubblica, men
che mai al rango occupato all'interno della Parte Guelfa; il che si evince
dalla circostanza che il suo nome non compare nei Consigli della Parte o in
quello della Credenza o dei Sessanta. Anche se il periodo d'effettiva
importanza politica di questi Consigli è precedente al momento
dell'ingresso di Dante nell'arengo politico, i Consigli di Parte continueranno
nell'età successiva al periodo 1267-1280, e cioè alla pace del
cardinale Latino, allorché amministrarono in pratica la vita del Comune,
ponendo in ombra il Consiglio del giudice sindaco. Da quando entra in funzione
(1 ottobre 1289) il Consiglio dei Cento, un mese dopo le Provvisioni
canonizzate, i Consigli di Parte subiscono un'ulteriore decrescenza del proprio
potere, a vantaggio d'un notevole incremento delle istituzioni di governo, non
di partito. Il che fa buon giuoco a chi voglia scorgere nell'attività
pubblica di Dante il riflesso d'un impegno civico e morale, non l'effetto di
accordi e di compromissioni nelle anticamere del partito guelfo; donde la messa
in luce di prerogative e di istanze tipiche d'uno dei Savi o Richesti, come fu
il poeta nel 1295, al servizio del potere delle Arti.
Sicuramente definito
dal Barbi che Dante non poté prendere parte al Consiglio del 6 luglio,
le incombenze del consigliere politico nel semestre predetto non si espressero
in pubbliche dichiarazioni; le sue parole vengono verbalizzate in una diversa
seduta, il 14 dicembre 1295, quand'egli interloquisce in un consiglio di
Capitudini, esprimendo un parere, non conoscibile dalla schematica traccia del
verbale, attorno alle modalità necessarie per procedere all'elezione dei
futuri priori; la sua mansione di Savio gli veniva da una scelta ch'era stata
operata all'interno dei vari sesti, e Dante Alagherii è delegato
“de sextu portae Sancti Petri”, nel qual sesto era il popolo di San Martino. E
fu mansione non soltanto d'indubbio rilievo, ma così sicuramente
accertata da far revocare in dubbio, come s'è detto, ch'egli potesse far
parte dei Consigli di Podestà nel secondo semestre del '95,
poiché gli statuti fiorentini impedivano che la stessa persona fosse
membro contemporaneamente di due Consigli.
A seguito della
deliberazione del Consiglio dei Cento, del 23 maggio 1296, Dante viene a far
parte del consesso quando già dal precedente 1 aprile questo era entrato
in funzione; la cooptazione avvenne in luogo d'un consigliere mancante. Di
ciò è prova un altro verbale, dal quale risulta che il poeta
interloquì nella riunione del 5 giugno '96, convocata per deliberare
sopra alcune proposte di legge, per le quali Dante prese la parola onde
sostenerne l'approvazione: tali proposte riguardavano lavori di restauro e di
costruzione di edifici e inoltre due leggi di contenuto più specificamente
politico[44]:
la prima predisponeva provvedimenti affinché non venissero accolti in
città e nemmeno ospitati nelle campagne coloro che erano stati posti al
bando dal Comune di Pistoia (era grave il pericolo che venissero a costituire
forze disordinate e tumultuarie facilmente eccitate dai Magnati), la seconda
concedeva pieni poteri al Gonfaloniere di giustizia e ai priori affinché
potessero procedere contro chiunque, “et maxime magnates”, compisse atti di violenza
e di offesa contro popolani investiti di cariche pubbliche.
La situazione
s'andava ulteriormente deteriorando. I Grandi, esclusi dal governo, fomentavano
un continuo stato di tensione in città. Essi non avevano voluto piegarsi
al compromesso chiedendo l'iscrizione ad un'Arte, e quindi scatenavano una
lotta aperta, trovando proseliti un po' dappertutto, specialmente tra le frange
ghibelline o ex-ghibelline e nell'ambiente dei fuorusciti delle altre
città toscane. Continuavano a detenere il potere nel Consiglio di Parte
Guelfa, e di lì cercavano di contrastare la politica dei priori e del
Consiglio del Popolo. Situazioni d'attrito e di scontento cominciano a
determinarsi anche all'interno della Parte, dapprima tra le singole consorterie
magnatizie, indi col polarizzarsi della lotta intestina all'ombra delle sempre
crescenti ostilità tra i Cerchi e i Donati, poi con lo spianare la
strada ad una vera e propria suddivisione a livello di partito, già in
atto nel 1297. Ormai si parlerà esclusivamente della lotta tra i
Bianchi, seguaci della fazione cerchiesca, e i Neri, seguaci di quella
donatesca. Una vera e propria guerra nelle strade della città, in quelle
del contado, con immediati riflessi sui borghi e le cittadine viciniori, si
avrà più tardi, ma la situazione è tesissima.
Imparentato coi
Donati per parte della moglie Gemma (d'un ramo però collaterale e non
molto eminente), Dante è tuttavia coi Bianchi, vicino per temperamento e
per ideali a Vieri de' Cerchi e ad altri capi bianchi, ma non intende prendere
netto partito a favore di costoro: simpatia, vicinanza ideale, non molto di
più, non un'ascrizione al partito. Non erano lontani i tempi d'una
cruenta lotta come nella primavera del 1300, ma Dante fiuta il pericolo. Il suo
voto a favore dei due disegni di legge anti-magnatizia del '96 comincia a porlo
in una situazione difficile anche con l'ala più conservatrice dei
Bianchi, e la rottura coi Neri non è ancora effettiva, almeno
finché resta in vita Forese Donati (fratello di Corso), amico nella vita
anche se scherzoso avversario sulle scene letterarie. Nessuna delle due
fazioni, d'altronde, è così potente, ha talmente consolidato il
proprio predominio da poter osteggiare apertamente chi è rimasto, come
Dante, in una posizione prudente.
Del resto, a stare ai
documenti pubblici, dopo l'exploit del '95-'96 Dante sembra rientrare
nell'ombra. Purtroppo sono andati perduti i verbali delle Consulte dal luglio
1298 al febbraio 1301, ma se il poeta avesse avuto qualche incarico di spicco,
ne sarebbe rimasta traccia negli altri documenti. L'unico dato è che
anche nel 1297 Dante “arringatur”, ma il motivo e il contenuto di tali
interventi non dovettero essere di grande importanza; pure e semplici
dichiarazioni di voto.
Ancora una volta lo
studioso di Dante è richiamato al parallelo e (ancor per qualche anno)
non convergente svilupparsi d'una linea pubblica-privata e d'una linea
letteraria; si vedrà tra breve di quest'ultima, e come negli anni di cui
ci stiamo occupando, siano cautelosamente collocabili le “storie d'amore” con
la Pargoletta e con la Donna Pietra (1296-1297?), la prima parte della
corrispondenza poetica con Cino da Pistoia (Io ho veduto; Perch'io
non trovo; 1298?), poi Messer Brunetto, quindi Io sento sì
d'Amor (1299?). Sul versante della vita “reale” accanto ai documenti della
partecipazione politica si situano presenze archivistiche affatto private, a
documentare il sempre più difficile stato economico della famiglia
Alighieri, o di Dante soltanto se la vicinanza di Francesco deve intendersi
esclusivamente in chiave di garante “interno” alla situazione finanziaria del
poeta, gravato dal mantenimento dei figli: Pietro e Jacopo ormai adolescenti,
Antonia nata in questo periodo (ma ciò non è possibile; in questi
anni Francesco Alighieri è poco più che ventenne, e quindi non
ancora in grado di distinguersi come il membro economicamente vivo della
famiglia, come avverrà qualche anno dopo).
L'11 aprile 1297
Dante e Francesco rilasciano una quietanza per la somma di 227 fiorini e mezzo
attraverso un atto formale al creditore Andrea di Guido de' Ricci. Il 23
dicembre dello stesso anno gli stessi Dante e Francesco dichiarano d'aver
ricevuto da Iacopo de' Corbizzi un mutuo di 480 fiorini d'oro: evidentemente la
situazione finanziaria s'era aggravata nel corso del '97, e il secondo debito,
contratto forse per far fronte alla restituzione del primo, segna comunque a
fine d'anno un passivo piuttosto pesante, d'oltre 250 fiorini. Che le
difficoltà fossero molte, sta a provarlo l'intervento, nel secondo
mutuo, di vari garanti, di cui due particolarmente legati al casato dei
debitori: Manetto Donati, il suocero del poeta, e Durante degli Abati, il nonno
materno (beninteso se è propriamente questi il padre di Bella; la
questione, come s'è detto, è tutt'altro che sicura). Avrà
toccato in qualche modo anche Dante, se non altro per la comune
solvibilità rispetto ai due debiti del '97, un documento concernente
Francesco, per il quale il fratello del poeta, il 23 ottobre 1299, s'impegna a
restituire ad un tal Gano di Lotto Cavolini un mutuo di 53 fiorini d'oro. Anni,
dunque, particolarmente duri per Dante, alla vigilia poi di momenti di tale
gravità quali accadranno nel biennio “fatale” 1300-1301, che s'apre,
nella serie documentaria, con un'altra carta, non meno pesante proprio
perché legata a debiti contratti all'interno della famiglia (Francesco
s'è sollevato nel frattempo dalle strettezze, ed è già in
grado di dar una mano al fratello maggiore, come poi, durante l'esilio): il 14
marzo 1300 Dante promette di restituire a Francesco un mutuo di 125 fiorini;
tre mesi dopo, altra sottoscrizione d'impegno con Francesco: l'11 giugno 1300
Dante promette di restituire al fratello minore un debito di novanta fiorini,
non s'intende se ad estinzione o ad accumulo del precedente mutuo (direi
proprio ad aggravio, ché non appare negli atti alcuna quietanza
liberatoria; tuttavia è possibile fosse avvenuta con carta privata).
La motivazione
contingente del mutuo dell'11 giugno risiedeva nella circostanza che, dovendo i
priori rimanere giorno e notte nel palazzo della Signoria, nel corso
dell'intero bimestre, Dante potesse trovarsi nella necessità di dover
avere un po' di denaro liquido da lasciare alla famiglia, alla vigilia del 15
giugno. Per due mesi non avrebbe potuto seguire i suoi interessi. Ma ciò
toglie poco alle difficoltà di carattere generale in cui il poeta di
certo si dibatteva da anni e che non erano attenuate dalla situazione economica
di Firenze. La città, infatti, era in un periodo d'indubbia floridezza e
solidità delle strutture commerciali, ma la crisi era alle porte, con
quelle lotte che dilaniavano le classi e toccavano anche i Magnati, e
soprattutto con la corruzione e gli scandali che dilagavano. Ed è
evidente che i primi ad essere colpiti da una situazione del genere erano proprio
i borghesi che si sorreggevano, come Dante, su modesti redditi agrari e su una
limitatissima possibilità di traffici.
Lo scandalo
più clamoroso fu la confessione, resa però sotto tortura, da
Monfiorito da Coderta, podestà nel primo semestre 1299: confessione di
molte malefatte, coinvolgenti anche un falso messo in atto da Nicola
Acciaiuoli, il quale aveva alterato, con la complicità di Baldo
d'Aguglione, il libro notarile contenente la confessione di Monfiorito. Se ne
ricorderà tanti anni dopo il poeta quando rimpiangerà, la pura etade
/ ch'era sicuro il quaderno e la doga[45],
l'età dell'antica generazione fiorentina.
Fuori di città
il panorama era ancor più fosco. Bonifacio VIII aveva posto l'occhio
sulla città, anzi su tutta la Toscana: “Papa Bonifacius volebat sibi
dari totam Tusciam”. Per il momento le sue mosse sono molto caute, così
caute da convincere i governanti fiorentini che avevano in lui un alleato e un
protettore contro le pretese del vicario imperiale, Giovanni di Chalon; anzi
più che un protettore un amico, disponibile ad arbitrare la lotta tra le
due fazioni, quella favorevole al ritorno di Giano Della Bella e quella
contraria (1296), e ben felice che i Fiorentini gli dessero una mano
nell'assedio di Palestrina contro i Colonna (1297), mandando un contingente di
truppe.
Le guerre
continuavano a insanguinare le terre d'Italia. Il feroce Maghinardo Pagani
sconfigge i Bolognesi e conquista Imola (aprile 1296). Durante una veglia
funebre in casa Frescobaldi i Cerchi e i Donati vengono alle mani (dicembre
1296). I Veneziani sono battuti dai Genovesi sul mare, a Curzola (settembre
1298). Un'altra cruenta zuffa s'accende tra Bianchi e Neri entro la
città di Firenze (dicembre 1298). Federico II d'Aragona ingaggia dura
battaglia in Sicilia contro il fratello Giacomo e contro Carlo II
d'Angiò (1299), e s'avrà poi la battaglia navale di Capo
d'Orlando, con una nuova vittoria di Ruggero di Lauria.
Tutto ciò non
basta. A Firenze nello scandalo di Monfiorito è coinvolto, a torto o a
ragione, anche Corso Donati. Il capo dei Neri è riconosciuto colpevole e
viene posto al bando. È giunto il momento per Bonifacio VIII
d'intervenire, e lo fa prendendo le difese di Corso: lo nomina podestà
di Orvieto. Siamo sul finire del 1299. Forse la mossa di papa Caetani scatena
la reazione, con gli altri, dello stesso Dante, sino ad allora rimasto in
attesa, in silenzio. Molti Fiorentini, e tra questi Dante, sono ormai persuasi
delle mene di Bonifacio e della pericolosità della strategia dei Neri.
La pace in Firenze non può essere mantenuta che con la partecipazione
dei cittadini. Cade l'ultimo velo dinanzi alla sempre maggiore
parzialità di Bonifacio. Per Dante è venuto il momento di
scendere nell'agone politico.
VIII
DALLE “PETROSE” ALLE RIME
DOTTRINALI
Vediamo tuttavia
durante questo agitato momento della storia italiana, mentre in Dante non era
ancora maturato il dovere di gettarsi nella mischia politica, come si era
andata svolgendo la sua attività letteraria. Giacché è impossibile
seguire di pari passo questa e l'attività politica, ed è quindi
necessario che l'una o l'altra (meglio la seconda) vengano esaminate
inizialmente. Diciamo sùbito, tuttavia, che di quel convulso periodo
nulla trapela nelle Rime della maturità precedenti l'esilio.
Le rime d'amore per
la cosiddetta Donna Pietra possono essere collocate tra l'ultima decade del
dicembre del 1296 (a prestar fede all'interpretazione astronomica dei primi
versi di Io son venuto al punto de la rota) e la fine del 1297 o i primi
dei 1298, e sono quattro canzoni per un amore non corrisposto verso una giovane
donna, la cui durezza è paragonata alla pietra. Poco probabile, anche
perché il poeta riconosce esplicitamente di non aver voluto designare il
nome della donna, che essa avesse per nome proprio Pietra: verrebbe a mancare
il segreto del mascheramento. L'importante è che lo sviluppo psicologico
e stilistico delle quattro canzoni, da Io son venuto a Al poco giorno
e al gran cerchio d'ombra, da Amor, tu vedi ben che questa donna a Così
nel mio parlar voglio esser aspro, si svolge lungo una direttrice di
potente realismo, non scevro però di una voluta oscurità di
significati: il Contini[46] ha chiamato
le “Petrose” il secondo trovare oscuro di Dante, dopo il primo della
fase guittoniana, e nel quale il poeta si rifà alle fonti della propria
esperienza provenzale, riscoprendo il “valore energico ed evocativo della
parola”, scandita con una forza sino ad allora inusitata, e che apre anch'essa
verso la scansione verbale della Commedia.
Tuttavia le “Petrose”
non costituiscono soltanto un tentativo di nuovo linguaggio (che entro certi
limiti si può dire confluente dalle rime stilnovistiche e da quelle
realistiche contemporaneamente), ma preparano il teso processo ragionativo
delle canzoni dottrinali, anticipando persino, quantunque in una diversa
temperie, il modulo della presentazione e dello sviluppo del tema centrale.
L'eccezionalità di alcuni passaggi al confine di un pretto realismo non
abdica al timbro “tragico” del verso, tanto che, soprattutto nella seconda
parte di Così nel mio parlar, si è indotti piuttosto a
ricercare la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani,
cioè dietro la ripetizione della parola-chiave petra, mentre non
occorre disperdere il tipo particolare di esperienza compiuta da Dante in
questi anni. L'esordio minuziosamente indugiante sulla perifrasi astronomica
è un elemento che caratterizzerà tanti incipit di canti
della Commedia, ed esso definisce la struttura di questa canzone, una
delle maggiori cruces della dantologia, uno dei momenti salienti del
lavorìo letterario dantesco sul finire del sec. XIII. La canzone segna
poi un netto iato relativamente ai moduli del precedente verseggiare,
introducendo nella storia di queste Variae dantesche toni cupi, densi,
profondi e ritmi inquietamente prolungati, una voce oscura e quasi roca che
leggerà le parole d'angoscia e d'irrequietezza della passione, inserite
in uno scabro e sconvolto paesaggio invernale: Levasi de la rena d'Etiopia /
lo vento peregrin che l'aere turba (in Rime, C, 14-15), e fittamente
costellate da immagini di fredda neve e di noiosa pioggia, di morta…
erba e di crudele spina, di acqua morta e di freddura.
Siamo, come si vede, in un paesaggio peculiarmente da Inferno. E si
arricchisce sempre più la gamma espressiva di Dante, conoscendo inauditi
sviluppi e passaggi anche nell'analisi di segrete dolcezze riposte al fondo dei
turbamenti amorosi: ché li dolzi pensier non mi son tolti / né
mi son dati per volta di tempo, / ma donna li mi dà c'ha picciol tempo
(ivi, vv. 37-39).
Un certo rilievo
retorico avrebbe la possibilità di considerare successiva a Io son
venuto la canzone-sestina Al poco giorno, in quanto che si avrebbe
la prova di una qualità caratteristica della Commedia, e
cioè la variatio all'interno dello stesso sistema ragionativo o
discorsivo: il contenuto non è fortemente differenziato nei riguardi
dell'argomento di Io son venuto, ma mutano le tournures del verso
a partire dal bellissimo inizio per proseguire con l'effigie della nova
donna la quale si sta gelata come neve a l'ombra (vedi in Rime,
CI, 7-8), figura robustamente scandita sulla parola-rima e parola-chiave petra,
in una cornice paesaggistica ora diversa (sembra di passare d'un balzo dal
canto di Ciacco al Paradiso terrestre), fatta di antichi ma per Dante mai
consunti elementi poetici di fioretti e d'erba, e di ghirlanda,
dei colori gialli e verdi, dei riccioli, del verde dei vestimenti, del bel prato
d'erba, per disegnare in modo più icastico l'indistruttibile
fissità della passione: un tema già quasi petrarchesco, ma come
sconvolto e divorato da un'interiore crudele febbre. Il motivo della petra
si rivela funzionale in rapporto al freddo invernale (come poi in Amor, tu
vedi ben che questa donna); il sopraggiungere della fiorente primavera non
è scisso dal costante punto di riferimento alla donna “Pietra”; insomma
il sistema ragionativo dantesco si può appoggiare sulla comparazione
naturale in ogni momento, e così sarà poi nella Commedia,
ove non c'è moto dell'intelletto, impulso del cuore, intuito dei sensi
che non troverà immediatamente un luogo di contatto, verifica,
esemplificazione in fenomeni della natura: acustici, ottici, olfattivi, o l'uno
d'essi o due d'essi collocati assieme, giacché la narrazione di eventi
deve sempre essere sostenuta da una similitudine, ed essa esser tratta ora
dall'osservazione diretta, ora dalla reminiscenza letteraria d'un bel paragone
di Virgilio o di Ovidio, d'un loro episodio, d'un semplice attributo da essi o
da altri poeti classici conferito a quel singolo fenomeno della natura, a
quella singola rappresentazione di un oggetto. Cose “viste” e cose “lette” nei
classici costituiranno (e in qualche misura già costituiscono nelle
“Petrose”) un unicum su cui si esercita la formidabile memoria visiva e
auditiva di Dante, la sua capacità d'immergersi acutamente nel
paesaggio, e ivi reperire una maniera per esprimere proprie idee o sentimenti o
impulsi emotivi o auto-analisi o analisi del personaggio di cui intende
effigiare i tratti fondamentali: un dannato, uno spirito “astratto” del Paradiso,
un'ombra del Purgatorio, un luogo del paesaggio escatologico. L'itinerarium
di Dante per approdare alla massima sua opera è costantemente in
movimento, e attraversa, dopo le “Petrose”, le canzoni della maturità
prima e dopo l'esilio, la materia stessa del Convivio, ove noi
registreremo in parole sciolte passaggi e ragionamenti che ritornano
nella Commedia in una veste formale ancor più matura, in un
complesso ragionativo ancor più acuto.
Si giunge così
alle rime dottrinali, le quali collegandosi col Convivio, con l'inizio e
l'interrompimento d'esso, sembrano precedere l'inizio dell'Inferno quasi
senza frazione di tempo, in un continuum compositivo. Ovviamente
ciò va detto con qualche prudenza, giacché il lettore avverte
subito, al levarsi del sipario sulla selva selvaggia, che maiora
canamus; lo stacco c'è ed è fortissimo. Ma esistono anche
interni canali di collegamento, che andranno qui detti, ora e quando passeremo
a considerare la produzione dei primi anni dell'esilio. È lecito parlare
di “terzo stile” dantesco, indicato da decisi sviluppi retorico-stilistici e da
una presa di possesso maggiore della necessità, per Dante, di elaborarsi
una propria filosofia.
Nelle rime dottrinali
avvertiamo d'altronde che Dante intende costituirsi a filosofo, e che si
prepara a comporre un'enciclopedia filosofica. Che poi il Convivio resti
interrotto dal sopraggiungere della ideazione definitiva di quello che era
stato anni prima il disegno di una mirabile visione, al momento
ciò importa poco, e conta che Dante covi dentro di sé dal 1298
l'ambizione di un più grande Tresor, e non in lingua francese, di
una Summa philosophie, e non in latino. Per questa ragione io credo poco
a chi vorrebbe anticipare la concezione della Commedia in un'epoca in
cui Dante sta a Firenze: il soggiorno in città dal 1298 sino alla
partenza per Roma, starei per dire persino il periodo del priorato, sono tutti
dedicati a costruire le canzoni che serviranno per il Convivio e a
formarsi in modo tale da possedere tutto di tutto della filosofia. E questa
ambizione colora i primi anni dell'esilio, non soltanto, naturalmente, durante
la scrittura del Convivio, ma anche durante il tempo del De vulgari
eloquentia: opera questa atta a giustificare il volgare illustre del Convivio,
e solo parzialmente idonea a giustificare il passaggio dal Convivio alla
Commedia.
Le rime dottrinali
sono ancora aperte sul discorso della loda di Beatrice, in una zona
intermedia tra il simbolo della Donna Pietosa e quello della Donna Gentile.
Dante pesca nel proprio serbatoio d'un mai realizzato canzoniere, e riabilita Voi
che 'ntendendo il terzo ciel movete (che si direbbe del 1293), realizza
proprio sull'estremo limitare duecentesco Poscia ch'Amor del tutto m'ha
lasciato, tiene ancora sul tavolo e rielabora Le dolci rime d'amor ch'i'
solia, ove, supponendosi nell'argomento una contrapposizione, inesistente
in pratica, tra le rime dolci e quelle aspre e sottili, Dante proclama a
tutte lettere la necessità di un adeguamento totale della lingua alle
esigenze espressive di travagliate disquisizioni filosofiche, con larghi
ricorsi alla terminologia teologico-morale. Per giungere a ciò egli
tempera il calamo a tutte le difficoltà formali che la mirabile
visione poi presenterà, e non perde mai il contatto tra la
consapevolezza del preminente valore della ragione e la glorificazione della
vera nobiltà. Supera gli schemi allegorici del Dolce Stile e approda ad
una ars della filosofia di complessa e completa novità formale e
orditura sostanziale. Si celebra la vera natura dell'omo gentile, si
consacra la perenne validità di un pregio che non risiede nella
ricchezza (come avrebbero voluto affermare i Magnati; c'è
dell'anti-aristocraticismo materiale in questo superbo progetto del poeta,
fiero di appartenere ad un governo popolare), ma nella nobiltà dello
spirito.
Non interessa la
diatriba dei dantologi intorno alla possibile figura reale della Donna Gentile.
Importa al momento che attraverso essa Dante riapproda a Beatrice, e questo
ritorno, sul finire del Duecento, trova poi la propria sublimazione nella
scelta d'una data, a cavallo tra i due secoli, per fissare l'inizio e la
conclusione del ritorno a Beatrice: la Settimana santa del 1300.
IX
DAL PRIORATO ALLA CONDANNA:
LE VICENDE D'UNO SCONFITTO
Il 1300 sembrava
presentarsi come un anno tranquillo. L'indizione del Giubileo da parte di
Bonifacio VIII pareva cadere in un momento di pacificazione degli animi, a
Firenze, ora che Corso Donati era stato allontanato ed erano stati individuati
i complici dello scandalo dell'Acciaiuoli e di Baldo d'Aguglione, e i Cerchi
avevano stretto migliori rapporti col ceto popolare. I governanti attendono a
nuove importanti opere pubbliche: il palazzo dei Priori o della Signoria, la
nuova cerchia delle mura; nel contempo non trascurano di sorvegliare le mosse
dei Neri, così coinvolti nello scandalo. Naturalmente molti dei nuovi
governanti dovranno poi subire, come Dante, l'onta della condanna e
dell'esilio; i Neri non dimenticheranno certo lo scacco subìto.
Bonifacio VIII
continua nella sua astuta politica d'amicizia e di favoreggiamento coi Grandi
toscani, dai potenti conti Guidi e Alberti ai Buondelmonti. L'esigenza di
bandire il Giubileo non è da porsi in relazione con queste mene
temporalistiche: è un'esigenza di pietà e di devozione reale
(l'uomo, su cui grava la pesante condanna di uno Jacopone e di un Dante,
è profondamente religioso), ma di certo il Caetani non trascura il
versante politico della sua visione teocratica del papato.
Dante fu tra i
numerosissimi pellegrini venuti a Roma per lucrare il Giubileo (numerosi anche
i Fiorentini)? È una domanda che gli studiosi si sono posti in
connessione coi numerosi ricordi della città di Roma, molti ascrivibili
al tempo dell'ambasceria fiorentina del 1301, ma non quello della gran ressa
dei romei sul ponte Sant'Angelo:
come i Roman
per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l'un
lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro,
da l'altra sponda vanno verso 'l monte…[47]
Ma la circostanza
poteva esser nota a Dante dal racconto di altri pellegrini fiorentini, o dai
Romani l'anno successivo, recandosi a visitare quei luoghi. Ma se dobbiamo
assegnare una data al giubileo dantesco, essa non può esser posta che
nei primissimi mesi del 1300, prima dell'incarico presso San Gimignano e del
priorato, al più tardi nella Settimana santa, cioè proprio nei
giorni in cui andrà collocato il viaggio di Dante nella Commedia.
Il papa si volge
ormai al completo favore dei Donati, non volendo “perdere gli uomini per le
femminelle” (come racconterà il Compagni[48]),
e affretta i tempi. Vieri de' Cerchi, chiamato a Roma per stringere pace e
alleanza coi Donati, aveva declinato l'offerta insidiosa. Corso, lasciato Orvieto,
ottiene dal papa la nomina (8 febbraio) a rettore di Massa Trabaria, tra Cagli
e Urbino; in un certo senso s'approssima ai confini dello stato fiorentino, e
comunque gode di più aperta protezione pontificia. Per il momento non
avrà modo di rientrare in Firenze (dove giungerà soltanto, come
vedremo, nel novembre del 1301), ma fomenta la zuffa di Calendimaggio (che
erroneamente il Bruni pone nel periodo del priorato di Dante) e organizza di
lontano la radunata nera, qualche settimana dopo, nella chiesa di Santa
Trinita. I priori del bimestre aprile-giugno (quello precedente alla carica di
Dante) condannano a morte Corso e ordinano la distruzione delle sue case.
Dunque il conflitto tra Bianchi e Neri è ormai guerra aperta, senza
esclusione di colpi.
Tra la zuffa di
Calendimaggio e il convegno di Santa Trinita cade un incarico particolare
affidato a Dante (7 maggio): recarsi quale ambasciatore di Firenze presso il
vicino comune di San Gimignano, allo scopo di rinsaldare i rapporti,
nell'imminenza dello scontro finale, tra i due Comuni. Attraverso questa
ambasceria, senza dubbio d'una certa rilevanza, i Bianchi cercano di
assicurarsi l'alleanza delle città più vicine, e il poeta ormai
è più che esposto.
Davanti al Consiglio
generale di San Gimignano Dante svolge una relazione a nome dei Fiorentini, al
fine di organizzare l'elezione del nuovo capitano della Taglia guelfa di
Toscana e di convincere i Sangimignanesi a partecipare alla riunione; il che
nel frattempo faranno del pari altri ambasciatori fiorentini con i governanti
di altre città alleate, da Lucca a Prato, da Pistoia a Volterra, da
Colle a Poggibonsi e a San Miniato. Si tratta d'una iniziativa a vasto raggio,
e per essa Dante svolge una lunga perorazione che sortisce buon effetto: i
Sangimignanesi aderiscono alla proposta e nominano i loro delegati alla
radunanza della Taglia, che avrebbe dovuto aver luogo ad Empoli, ma si tenne,
forse troppo tardi, a Castelfiorentino nell'ultima decade di giugno, quando
Dante era già priore e attivo all'interno del palazzo priorale.
Ma la situazione
politica è tutt'altro che serena in città: due fatti che non
avrebbero dovuto riguardare direttamente Dante, ma che concernendo il priorato
precedente gli saranno stati in qualche modo imputati, più tardi: la
congiura che nel marzo Lapo Saltarelli, il gonfaloniere Lippo Rinucci-Becca e
ser Bondone Gherardi avevano scoperto e sventato nei riguardi di tre cittadini
di Firenze i quali in Roma, con la protezione del papa, tramavano contro
l'autonomia della loro città: la condanna, inflitta il 18 aprile,
provocò lo sdegno di Bonifacio, il quale pretese (24 aprile) attraverso
il vescovo di Firenze l'annullamento della sentenza; i consigli del Comune non
soltanto ricusarono nettamente le pretese papali, ma sfidando direttamente il pontefice
chiamarono il Saltarelli alla carica priorale (bimestre 15 aprile-15 giugno).
V'è ancora un
margine per le trattative, ma la nomina di Matteo d'Acquasparta a legato papale
per la Toscana, la Romagna e altre parti d'Italia (nomina avvenuta il 23 maggio)
crea una situazione diplomatica ancor più difficile. Egli avrebbe dovuto
esercitare le funzioni di paciaro tra le opposte fazioni di Firenze dopo lo
scontro di Calendimaggio e la riunione a Santa Trinita, ma in segreto s'adopera
a rafforzare al massimo i Neri, e in genere svolge una politica di favore per i
magnati e contro il partito popolare. Si trova in Romagna, quando, richiamato
dalla situazione di Firenze si precipita in città (siamo giunti ai
primissimi giorni di giugno), con un suo sottile accorgimento che avrebbe
dovuto mettere in crisi il reggimento popolare. L'accorgimento consisteva nel
limitare l'elettorato passivo per le nomine a priore ad una lista di nomi
scelti apertamente tra i migliori cittadini d'ogni sesto.
Attraverso questo
marchingegno anche i Neri sarebbero entrati nell'elenco, dal quale i nomi dei
sei priori prescelti sarebbero stati tratti per sorteggio e non per elezione
segreta. La votazione avrebbe sconfitto i Neri, il sorteggio non ne avrebbe di
certo esclusi più d'uno, e anzi c'era la probabilità che la
maggioranza del governo priorale passasse saldamente nelle mani dei Neri. Il
rivolgimento politico sarebbe stato completo.
Tuttavia i popolani
non si prestarono al giuoco dell'astuto frate, e imposero il vecchio sistema
elettorale. S'andò alle urne il 13 di giugno, e risultarono eletti Noffo
di Guido, Neri di Iacopo del Giudice, Nello d'Arrighetto Doni, Bindo di Donato
Bilenchi, Ricco Falconetti e Dante Alighieri. Subito dopo lo scrutinio i sei
eletti si ritirarono, com'era l'uso, in un convento, col nuovo gonfaloniere di
giustizia Fazio da Micciole.
Al mattino del 15
giugno Dante e i suoi cinque colleghi prendono possesso della carica nella
chiesa di San Piero Scheraggio e dinanzi alla ringhiera del palazzo priorale.
Immediatamente dopo entrano in palazzo, dal quale non sarebbero potuti uscire
per tutto il bimestre.
Dante è
giunto, dunque, alla massima carica dello Stato, e sarà proprio a questo
bimestre priorale che più tardi egli farà risalire la causa di
tutte le sue sventure d'esule: “Tutti li mali e l'inconvenienti miei dalli
infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio”, come dirà
in un'epistola perduta, ma letta da Leonardo Bruni[49].
E l'amarezza dell'esule sarà tale che nessuno dei protagonisti di quel
fatale periodo si salverà dallo sdegno, o, peggio ancora, dal polemico
silenzio del poeta. Quasi a voler cancellare ogni rapporto con quella compagnia
con la quale aveva pur così coraggiosamente combattuto, nessun
protagonista sarà salvato dall'avversione.
A poche ore
dall'insediamento i priori sono costretti a prendere una grave decisione. Il
notaio del Comune, ser Sostegno di Busatto, consegna loro e al gonfaloniere di
giustizia il testo della condanna dei tre congiurati (Noffo di Quintavalle,
Simone di Gerardo e ser Cambio da Sesto): il qual documento “dicti priores et
vexillifer iustitie acceperunt et apud se retinuerunt”, come registra
l'imbreviatura di Lapo Gianni, o meglio (s'è lo stesso, come pare, del
poeta amico di Dante), di ser Lapo di Gianni Ricevuti[50].
E alla sentenza diedero esecuzione: una multa “in libr. duobus milibus pro
quolibet” e il taglio della lingua (la qual ultima pena ha fatto raccapricciare
qualche nostro recente biografo, come se potesse apparire inelegante o
biasimevole che il poeta della “divina” Commedia si fosse macchiato di
siffatta crudeltà). Era la messa in opera d'un dispositivo giudiziario
del quale i nuovi membri dell'apparato esecutivo non avevano diretta
responsabilità e che non avrebbero potuto in alcun modo annullare senza
grosso rischio sul piano politico e, dunque, verso la politica del Consiglio
generale; purtuttavia resta sempre il prim'atto d'un programma autonomistico di
cui il second'atto segue subito dopo, quando ha luogo la discussione se
avanzare o meno richiesta ai Cento di concedere la balìa a Matteo d'Acquasparta,
che l'aveva domandata con impazienza e che, alla fine, l'ottenne dopo il 27
giugno, sebbene con notevoli limitazioni nell'esercizio d'essa. E l'ottenne a
causa dell'aggravarsi della situazione sul piano dell'ordine interno, quando la
sera della vigilia di S. Giovanni, il 23 giugno, i Grandi erano venuti alle
mani coi consoli delle Arti e notabili del governo popolare i quali sfilavano
in processione per recare in San Giovanni le offerte votive. Preciso ed
emozionato è il ricordo della zuffa nella Cronica del Compagni:
Andando
una vigilia di San Giovanni l'Arti a offerere, come era usanza, e essendo i
consoli innanzi, furono manomessi da certi grandi, e battuti, dicendo loro:
“Noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi
degli uffici e onori della nostra città”. I Signori, sdegnati, ebbono
consiglio da più cittadini, e io Dino fui uno di quelli. E confinorono
alcuni di ciascuna parte (Cron., I, 21).
I Donateschi vennero
condannati al confino nella terra perugina di Castel della Pieve; i Cerchieschi
a Sarzana, e tra quest'ultimi fu, com'è noto, Guido Cavalcanti: otto
capi per parte nera, sette per i Bianchi, e tutti con “loro consorti”,
familiari e famigli. “Il provvedimento, insomma, fu ispirato a giustizia, e non
fa torto a Dante, che lo approvò e forse lo propose, a Dante che, certo
non senza dolore, si trovò costretto a includere fra i confinati Bianchi
anche il suo primo amico Guido Cavalcanti”[51].
La lacuna dei verbali dei consigli dal luglio 1298 al febbraio 1301 non
consente di dir di più sopra questo momento così centrale nella
vita del poeta, ed è appena il caso di ricordare che né il
Compagni, né il Villani o altri cronisti danno alcun peso alla partecipazione
di Dante ai fatti del 1300 (si vedrà che non è così,
invece, per il 1301).
I Bianchi si recano
subito al loro confino di Lunigiana, ma i Neri si rifiutano di partire per
l'Umbria. La balìa del cardinale Matteo non si esercita nella giusta
direzione: i Neri non sono puniti, e anzi il paciaro cerca di ottenere milizie
da Lucca per imporre con la forza il suo arbitrato. I priori (e non è
difficile pensare che Dante spingesse più degli altri la reazione
governativa) chiedono ai Lucchesi di non dar seguito alla richiesta
dell'Acquasparta e di scongiurare il pericolo d'uno scontro armato tra le due
città, e le fazioni d'esse.
Viene il momento del
conflitto aperto tra i Bianchi e il cardinal Matteo, sostenuto sempre di
più da Bonifacio VIII. È dunque scontro aperto tra il papa e i
sei priori, dal nostro punto di vista tra Bonifacio e Dante; il paciaro sa
trarre eccellente spunto da un incidente, forse procurato ad arte: un popolano
attenta alla vita di Matteo tra il 15 e il 18 luglio, comunque prima del 19. I priori
tentano di placare le ire del legato papale, decidendo di offrirgli una coppa
d'argento piena di duemila fiorini d'oro, ma il cardinale rifiuta. Il governo
però non disarma, e i Neri sono costretti a prendere la via dell'esilio.
Il cardinale d'Acquasparta cede per il momento, e più tardi, 28-29
settembre, scaglia l'anatema sui governanti fiorentini e abbandona la
città. I Bianchi sembrano avere partita vinta; i priori scadono, e
dobbiamo pensare che Dante uscisse da palazzo con l'impressione d'aver vinto,
anzi stravinto.
I nuovi priori
revocano il bando ai sette Bianchi, e questo atto fu quello che provocò
la condanna da parte di Matteo. Nell'ombra Bonifacio prepara la vendetta.
Nell'epistola perduta, e di cui abbiam detto resta memoria nella Vita
scritta dal Bruni, Dante si giustifica
che
quando quelli di Serezzana [Sarzana] furono rivocati, esso era fuori
dell'uffizio del priorato, e che a lui non si debba imputare: più dice,
che la ritornata loro fu per l'infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il
quale ammalò a Serezzana per l'aere cattiva, e poco appresso morì[52].
Nella mia Biografia
di Dante mi sono intrattenuto sulle cause di questa revoca del bando. Basti
ora dire che fu certamente un errore politico, in quanto prova che ci fu
faziosità dei priori a vantaggio d'una delle due parti, e che Dante, ben
conscio della conseguenza di questo errore, si sarebbe dissociato
dall'avventata decisione politica. Per il momento la sua vicinanza coi Bianchi
non è compromessa, ma più tardi individuerà in quella
vicenda (lo si deduce dal tono della lettera) un profondo dissenso con quella
parte con la quale continuerà tuttavia a collaborare ancora un altro
anno, sino alle estreme conseguenze.
Molti dei successivi
eventi[53]
non sono riferibili a Dante in modo diretto. Del resto, come s'è detto,
siamo privi dei necessari documenti d'archivio. Il nome di Dante riappare il 14
aprile 1301, giorno nel quale egli interloquisce nel Consiglio delle
Capitudini, per due volte nella stessa giornata (una seduta al mattino e una al
pomeriggio?). Esiste anche un documento privato del 2 marzo: una garanzia che i
due fratelli Dante e Francesco offrono per un mutuo contratto da Durante degli
Abati, ma si tratta di un particolare non molto rilevante.
La seduta del 14
aprile era stata convocata per deliberare sui modi dell'elezione dei priori, e
Dante si schiera per la proposta più avanzata: sorteggio su quattro
nomi, e non due, per ogni sesto. Il prestigio politico di Dante è dunque
intatto, e lo sarà ancor di più il 19 giugno, quando hanno luogo
sedute del Consiglio dei Cento: la prima aperta ai consigli generale, speciale
e delle Capitudini delle Arti, la seconda “ristretta” ai soli Cento. Tra le due
importanti sedute, del 14 aprile e del 19 giugno, Dante aveva assolto anche ad
un'incombenza che possiamo dir minore, durata due mesi e “sine aliquo salario”:
fu infatti ufficiale e sovrastante ai lavori di costruzione della via di S.
Procolo che dal borgo della Piagentina sarebbe giunta sino all'Affrico. La
delibera era stata assunta dal consiglio dei Sei sindaci, e non è che
per eseguire l'incarico fosse richiesta una particolare esperienza di
“urbanista” o di architetto: si trattava, a detta del Barbi, di una modesta
opera di rafforzamento della via “tra campi e casupole”, non di costruire
palazzi o giardini sul fianco della via. Però, per quanto modesta,
l'incombenza rivestiva una certa responsabilità amministrativa: il che
prova la stima d'onestà che i concittadini avevano per il poeta.
Ma veniamo alla
seduta del 19 giugno. È un fatto centrale nella vita di Dante. A nome
del papa, Matteo d'Acquasparta chiedeva cento cavalieri per l'impresa papale in
Maremma contro Margherita Aldobrandeschi. Nella prima seduta due oratori si
erano pronunciati a favore dell'accoglimento della richiesta di Bonifacio VIII,
un altro propose un rinvio, il solo Dante si scagliò contro: “Dante
Alagherii consuluit quod de servitio faciendo d. pape nichil fiat”. Nel
contempo si pronunciava a favore d'una richiesta di minor peso politico:
l'assunzione della difesa di Colle Valdelsa.
La questione viene
riproposta lo stesso giorno, ora nel consiglio ristretto, e Dante conferma la
sua netta opposizione, ma prevale con 49 voti positivi e 32 contrari il parere
favorevole d'un altro oratore, successivamente ratificato dagli altri Consigli.
Da
ciò emerge che nelle file dei Bianchi non fosse completa concordia, come
l'accorta previdenza della maggioranza, guidata dai Cerchi, non piacesse a
tutti. Dante doveva tuttavia esercitare un forte ascendente, dal tempo del suo
priorato, come capo di una minoranza nella fazione dominante[54]…
Il che, com'è
evidente, gli sarà particolarmente imputato al momento della condanna, e
potrà influire, assieme alla precedente presa di posizione del 14
aprile, nella specifica accusa di baratteria[55].
Altre tre volte
ancora, e saranno le ultime prima del bando, il nome del consigliere Dante riappare
nei verbali dei Cento, in seduta allargata il 13 e il 20 settembre, in
ristretta ai soli Cento il 28 dello stesso mese: si pronuncia favorevolmente
alla conservazione degli Ordinamenti di Giustizia e in genere del governo
popolare, indi si pronuncia in senso positivo alla richiesta d'autorizzazione
da parte di Bologna al trasporto di granaglie, da Pisa al territorio bolognese,
passando per quello fiorentino, e infine, il 28 settembre, a favore
dell'accoglimento di otto proposte (di cui importanti la concessione della
balìa ai priori per procedere contro reati di violenza e aggressione o
di falsa testimonianza), proposte che tendevano a snellire le procedure
istruttorie e giudiziarie in un momento di sempre maggiore confusione e
criminalità nell'ordine pubblico; più rilevante, tuttavia, fu sul
piano politico l'amnistia concessa a Neri, figlio di Gherardino Diodati
(quest'ultimo priore nel bimestre precedente quello di Dante), condannato
innocente per un delitto di sangue; e l'importanza dell'episodio s'evince dal
fatto che la sentenza era stata emessa dal podestà Cante de' Gabrielli
di Gubbio, il quale, ritornando podestà il 9 novembre 1301, avrebbe
avuto un motivo in più di risentimento contro il consigliere che aveva
fatto annullare il suo dispositivo (il nome di Gherardino riapparirà
nella sentenza di condanna del 27 gennaio 1302 con Dante, ma neanche questa
coincidenza può essere ritenuta prova di parzialità da parte del
magistrato eugubino).
Solo in apparenza la
politica dei Bianchi può sembrare nel complesso avveduta verso il papa
ed energica nei riguardi dei Neri; in realtà la sfida rivolta a
Bonifacio da parte d'una minoranza oltranzista e la repressione subìta
dai Neri a Pistoia, città chiaramente soggetta alla politica fiorentina
(apri li orecchi al mio annunzio, e odi. / Pistoia in pria d'i Neri si
dimagra; / poi Fiorenza rinova gente e modi[56]),
affrettano la decisione d'intervento militare. Carlo di Valois era già
dall'11 luglio in territorio italiano, e Bonifacio è certo di poter
utilizzare la spedizione per i suoi fini egemonici sulla Toscana. La precisa
ricostruzione che delle consulte del 19 giugno ha reso il Barbadoro[57],
mostra l'efficacia, oltre che politica anche procedurale, dell'intervento
negativo di Dante, cui si deve forse l'inusitata ampiezza della verbalizzazione
per illustrare l'ordine del giorno della seconda riunione. La negazione degli
aiuti, prima a Carlo d'Angiò e poi a Bonifacio VIII, è la causa
prima e fondamentale del processo del 1302, i cui giudici dovettero consultare
più volte quei verbali per formulare l'accusa a Dante; vero è che
il breve tempo intercorso, poco più di sei mesi, non rendeva poi
necessaria una rigorosa ricerca negli atti, tanto la virulenza dell'Alighieri
doveva essere impressa nella memoria di tutti[58].
L'atteggiamento pubblico di Dante è un crescendo di temerarietà e
di coerenza, e se ne potrebbero documentare meglio le varie fasi se si vuol
credere al Barbadoro sull'effettiva esistenza d'un'arringa dantesca anche nella
consulta del 15 marzo 1301, diretta a respingere le richieste dell'Angiò,
donde l'errore d'un postillatore trecentesco che fa riferimento ad una
differente deliberazione, afferente a donativi offerti a Carlo di Valois nella
provvisione del 26 marzo 1302, quando Dante era da varie settimane al bando[59].
L'imminenza del
pericolo, dopo l'incontro bolognese tra Carlo di Valois e i Neri (Compagni, Cron.,
II, 3), il passaggio del principe francese lungo i confini dello stato di
Firenze, l'arrivo a Roma, la presentazione ufficiale alla presenza del papa in
Anagni (5 settembre), consigliarono i governanti ad un'estrema e forse
anch'essa improvvida mossa: inviare un'ambasceria presso Bonifacio. Quando
partì la missione? E fu certamente Dante tra di essi? Nell'assenza di
documenti pubblici, tocca dar massima fede al resoconto del Compagni (che il 15
ottobre entrava in Palazzo come uno dei priori), confermato subito dopo
dall'Ottimo e da un compendio del Villani, più tardi dal Bruni. Dino da
principio non registra i nomi degli ambasciatori, ma soltanto le terribili
parole del Caetani:
Giunti
li anbasciatori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in
segreto: “Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e io
vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace.
Tornate indietro due di voi; e abiano la mia benedizione, se procurano che sia
ubidita la mia volontà” (Cron., II, 4).
L'incipit del
paragrafo successivo, “In questo stante furono in Firenze eletti nuovi
Signori”, fa riflettere che l'ambasceria era partita qualche giorno prima delle
nuove elezioni, anticipate al 7 d'ottobre per offrire una tempestiva prova di
buona volontà; e anzi il colloquio stesso con Bonifacio è sentito
dal Compagni come un fatto precedente i comizi di ottobre. È dunque
probabile che l'ambasceria partisse da Firenze a brevissima distanza dal 28
settembre, non essendo da escludere che, in tutta segretezza e senza lasciarne
traccia nei verbali, fosse stata decisa in questa stessa seduta o, comunque,
contestualmente alla medesima sessione di lavori. Si deve al Del Lungo
l'ipotesi che, per volontà dei Fiorentini, all'ambasceria si unissero
anche messi del comune di Bologna: cinque uomini di toga che, eletti il 1°
ottobre, si misero subito in cammino. Il Compagni narra l'episodio di Ubaldino
de' Malavolti, che si fermò per istrada “per raddomandare giurisdizioni
d'uno castello il quale teneano i Fiorentini, dicendo che a lui appartenea”,
non è detto, però, che tutta la missione tardasse a muoversi, ma
soltanto che ciò impedì ai Bolognesi di giungere a tempo. E
d'altronde il problema non ha un'importanza rilevante, poiché Carlo di
Valois s'era mosso da Anagni prima del 20 settembre, e intorno al 16 ottobre
era già a Siena. Per giungere a Roma in tempo per fermare l'inviato di
Bonifacio a Carlo, l'ambasceria avrebbe dovuto esser formata molto tempo prima,
e aver già patteggiato la resa ai voleri del papa almeno dalla
metà di settembre: il che non fu.
Il Compagni ci dice
il nome degli ambasciatori (o di tre d'essi se la missione diplomatica fu più
numerosa) in due fasi: quello di Maso Minerbetti e del Corazza da Signa
allorché narra che due dei Fiorentini furono rimandati indietro dal
pontefice, e quello di “Dante Allighieri che era anbasciadore a Roma” (Cron.,
II, 25), quando elenca i principali Bianchi condannati nel 1302. E il poeta, or
dunque (personaggio troppo influente perché Bonifacio potesse correre il
rischio di rimandarlo a Firenze), restò in corte, per vario tempo,
almeno fin quando gli giunge notizia del precipitare della situazione in
Firenze, della vanità del suo incarico a Roma, del pericolo ch'egli
stesso corre ove si trova, e i suoi familiari e sodali in patria, per la
violenta repressione posta in opera dai Neri vincitori, anche con distruzioni e
saccheggi di case, comprese quelle degli Alighieri. Il Minerbetti e il Corazza
saran dunque ripartiti prima che giungesse alla corte papale la nuova
dell'ingresso di Carlo di Valois a Firenze; 1° novembre, ma prima del 4 erano
già in città; Dante si sarà mosso soltanto dopo che
giunsero a Roma le notizie della nuova Signoria nera (7 novembre), della
presenza in città di Corso Donati e di Cante de' Gabrielli, del ritorno
di Matteo d'Acquasparta, della fuga dei Bianchi, come c'è dato di
conoscere dalla drammatica cronistoria del Compagni, e infine delle eloquenti
provvisioni della nuova Signoria il 24 novembre, che confermavano in diritto il
nuovo stato di fatto.
Resterebbe ancora da
chiederci se l'ambasceria fosse ricevuta da Bonifacio in Anagni o a Roma, e se
dunque Dante si spingesse sino alla città natale del Caetani[60].
Certo si è che Bonifacio VIII era solito, per lo più, di
trattenersi ad Anagni sino all'autunno inoltrato: nel 1297 rientrò a
Roma ai primi di novembre (nel 1299 il 27 settembre, nel 1300 il 3 ottobre, nel
1301 il 2 ottobre, nel 1302 il 14 settembre, nel 1303 il 18 settembre:
sconvolto dopo l'onta di Sciarra Colonna). L'ipotesi che pertanto la drammatica
udienza avesse avuto luogo nel palazzo papale di Anagni, e in data successiva i
messi del comune di Firenze si portassero a Roma al seguito del pontefice,
è tuttavia piuttosto fragile. C'è inoltre da discutere intorno ad
un'altra possibilità, non pare considerata dagli studiosi: è
sicura una precedente ambasceria fiorentina nel novembre 1300 (l'udienza
avvenne l'11 nov.): che il Compagni confondesse questa con quella del 1301
designando Dante nell'elenco dei condannati del '2, non è possibile, ma
ha un filo di probabilità l'ipotesi che scrivendo “era anbasciadore a
Roma” intendesse dire non che lo era al momento della condanna (come, a
ragionare per il sottile, non era più da qualche mese, essendo caduta la
Signoria che l'aveva mandato in missione), ma lo “era stato”. In tal caso Dante
sarebbe stato ambasciatore un anno prima, avrebbe in quell'occasione lucrato il
Giubileo, e tutte le impressioni romane (la pigna, il Laterano, il Castello,
Montemario ecc.) si riferiscono ad un unico soggiorno, nell'autunno del 1300.
Offriamo quest'ipotesi pur rendendoci conto che appare nel complesso un po'
meno solida di quella tradizionale, sebbene resti il dubbio che la presenza di
Dante alla corte di Roma nel 1300 poteva avere un significato politico,
all'indomani del suo priorato e delle sue scelte imparziali tra Bianchi e Neri
dopo lo scontro della vigilia di San Giovanni, e sortire qualche effetto di
mitigazione degli sdegni e delle mene bonifaciani, mentre la partecipazione
all'ambasceria da parte d'un uomo che da solo, nei Consigli del 1301, s'era
levato a parlare contro le richieste del pontefice, rischiava d'aver soltanto
l'aspetto d'una provocazione grave verso la terrificante suscettibilità
di Bonifacio.
Valga questa o
l'altra possibilità, comunque resta in piedi l'interrogativo se durante
le violenze dei Neri e agli inizi delle inquisizioni verso i Bianchi ch'avevano
avuto cariche pubbliche, Dante lasciasse tempestivamente Firenze come nel
Villani, nel Boccaccio, in Marchionne di Coppo Stefani ovvero, proveniente da
Roma (e, se si vuol dar credito al Bruni, a Siena “intesa chiaramente la sua
calamità”), non stimasse prudente ritornarvi. Da principio Dante avrebbe
anche potuto sperare di non essere coinvolto nella repressione; insomma nel
dicembre 1301 e nei primissimi giorni del 1302 poteva essere ancora in
città. Ma quando la situazione fu chiarissima per tutti, la fuga divenne
inevitabile: Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente… collocato
in Par., XVII, 55 sgg. subito dopo La colpa seguirà la parte
offensa / in grido, come suol; ma la vendetta / fia testimonio al ver che la
dispensa.
I Consigli bloccarono
ogni procedimento che era stato promosso dalla precedente amministrazione dello
Stato, dandone espresso ordine l'11 gennaio al podestà Cante de'
Gabrielli. Nuovi processi erano messi in atto, e tutti i vecchi in pratica si
riducevano ad un'amnistia generale. La seconda decade del gennaio passò
con una febbrile impostazione di nuovi procedimenti, istruiti con tale
rapidità che il 18 gennaio Cante già era in grado di pronunciare
la prima sentenza e il 27 successivo era già in condizioni di
pronunciare la sentenza di condanna in contumacia di vari fiorentini: tra di
essi è Dante. Una vera e propria istruttoria sommaria, con rapidi tempi
per la citazione, il bando, l'emissione della sentenza. Tale celerità
dà ragione dello scarso fondamento giuridico delle imputazioni.
Dante già da
tempo non si doveva esser fatto illusioni in proposito. Ma era già fuori
di Firenze prima dell'ordinanza dell'11 gennaio, ovvero fece in tempo a
mettersi in salvo tra la prima sentenza (che non lo riguardava, ma aveva tutta
l'aria di non rimanere la sola) e la seconda? Tutto ciò che egli aveva
fatto come membro autorevole dei Consigli e come priore, gli si ritorceva
contro: soprattutto l'atteggiamento drastico assunto verso Bonifacio VIII e
Carlo d'Angiò. Ma la nuova magistratura aveva rivolto a lui e agli altri
condannati un'altra accusa: d'aver brigato a favore della cacciata dei Neri da
Pistoia. Il tutto senza alcuna prova, anzi soltanto fama publica referente.
I condannati
sarebbero stati esclusi in perpetuo dalle cariche pubbliche, multati con
un'ammenda di cinquemila fiorini piccoli, banditi per due anni al confino quali
falsarii et baracterii. Qualora non si fossero presentati a pagare
l'ammenda, “omnia bona talis non solventis publicentur, vastentur et
destruantur, et vastata et destructa remaneant in comuni”.
I condannati non si
presentarono a giustificarsi delle gravissime imputazioni, né pagarono
l'ammenda. La seconda condanna intervenne più tardi (forse il Gabrielli
era impegnato in troppi processi?, forse si sperava in una resipiscenza o
dell'uno o dell'altro dei condannati? forse voleva comprendere in un unica sentenza
più imputati?). Fatto sta che solo il 10 marzo Cante emetteva la
condanna a morte di Dante e di altri quattordici imputati: “si quis predictorum
ullo tempore in fortiam dicti comunis pervenerit, talis perveniens igne
comburatur sic quod moriatur”.
La lettura del celebre
documento è uno dei momenti più impressionanti per chi
intraprende lo studio di Dante. Ma, ci chiediamo, il poeta certo seppe della
condanna a brevissima distanza di tempo, e forse ne lesse addirittura una copia
di citazione?
X
I PRIMI ANNI DELL'ESILIO
“Uscito adunche in
cotal maniera Dante di quella città” (Boccaccio), “bene che fosse
guelfo, e però, sanza altra colpa” (Villani), senza dubbio per molto
tempo non s'allontanò dai confini dello stato fiorentino: “ed il primo accozzamento
fu in una congregazione delli usciti, la quale si fe' a Gargonsa” (L. Bruni)[61].
Egli è solo, come recita concorde la tradizione, a principiare dal
Boccaccio: “Lasciati adunque la moglie e i piccoli figliuoli nelle mani della
fortuna, et uscito di quella città, nella qual mai tornare non doveva”.
Scarsissimi i suoi mezzi di sostentamento. Saccheggiati i suoi beni di casa dai
Neri trionfanti: “gli fu corso a casa e rubata ogni sua cosa, e dato il guasto
alle sue possessioni”. L'unico a potergli tendere una mano fu il fratellastro
Francesco, il quale, per nulla compromesso dalle vicende politiche che avevano
rappresentato la rovina anche economica del poeta, poté continuare i
suoi traffici in città, e non gli fu difficile mantenere, anche
personalmente (come poi vedremo all'epoca del soggiorno ad Arezzo), contatti
col fuggiasco. E le notizie che a questo provenivano da cittadini o viandanti
oppur compagni d'esilio provenienti da Firenze, allontanavano per il momento
alcuna speranza di poter rimettere piede in patria o che la situazione
generale, sullo scacchiere toscano, si volgesse a proprio favore.
Anche se già
da questo momento è scarsissima la sua fiducia nell'abilità
diplomatica e nell'energia guerresca dei Bianchi, siamo ancora lontani dalla
rottura, ed egli, d'altronde, non ha alcuna possibilità di sviluppare un
proprio disegno politico. Cede alle mene “revanchiste” dei Bianchi la personale
posizione di fallito leader dell'ala oltranzista filo-popolare e anti-bonifaciana.
E giunge al punto di trovar conveniente, pur di tornare in patria, l'alleanza
che a Gargonza prima, poi a S. Godenzo in Mugello, i Bianchi sconfitti
stringono coi Ghibellini da tantissimo tempo in esilio. Il che fu indubbiamente
un colpo di scena sul fronte politico, l'inizio d'un sistema di alleanze che
sembra poter recare qualche frutto con la conquista dei castelli di Figline e
di Piantravigne (primavera del 1302) e l'aiuto considerevolissimo d'una potente
consorteria qual è quella degli Ubertini, per rivelarsi poi un grosso
sbaglio politico, dacché l'ingresso dei Ghibellini nel territorio
fiorentino rinfocola le preoccupazioni d'altre città guelfe di Toscana,
consente a Carlo di Valois di ritornare sui propri passi, pone Bonifacio VIII in
condizione di raddoppiare il suo appoggio ai Neri di Firenze, e soprattutto
mette costoro in grado di incrudelire con le citazioni, i bandi, le
imputazioni, le condanne. Giustamente oggi[62]
s'anticipa la data dell'incontro di Gargonza, in Val di Chiana, al mese di
febbraio del 1302, prima delle sentenze di morte del 10 marzo che ne sono, per
l'appunto, l'effetto più vistoso.
Che Dante sia nella
lista dei condannati a morte è prova che, come nel Bruni, sia stato
presente all'“accozzamento” di Gargonza, e comunque ch'esso sia avvenuto con
l'appoggio e per iniziativa anche di lui. Forse fu soltanto una radunata
informale, senza che tutti i capi vi partecipassero; mentre S. Godenzo è
altra cosa. L'8 giugno, nella pieve mugellana, convengono con Dante sedici
fiorentini che s'impegnano a risarcire il casato degli Ubaldini d'ogni
danneggiamento che potesse derivare ai loro beni dall'imminente guerra contro
Firenze, “occasione novitatis seu guerre facte vel faciende”[63].
La radunata di tutto lo stato maggiore dei Bianchi, con Vieri de' Cerchi in
testa, è resa ancora più pericolosa, sulle falde dell'Appennino e
a poche miglia dalla città di Firenze, dalla contemporanea presenza di
famiglie ghibelline che da decenni attendevano l'occasione per una guerra senza
quartiere contro i governanti guelfi “intrinseci”; tra di essi, particolarmente
denso di significato l'arrivo degli Uberti, nella persona soprattutto di Lapo:
una vicinanza indiretta ma non meno emblematica tra il cantore del canto X
dell'Inferno e il suo magnanimo protagonista.
La promessa di
rifusione dei danni e l'ipoteca di tutti i beni dei Bianchi e dei Ghibellini a
vantaggio degli Ubaldini erano atti indubbiamente necessari dinanzi alla
prospettiva d'una guerra lunga, costosa e rovinosa; ma non certo poté
essere l'unico argomento della radunata di S. Godenzo, soltanto quello apparente
e verbalizzabile. In realtà si trattò di stabilire tutti i modi
della organizzazione e condotta della guerra, i limiti della resa che poteva
esser chiesta ai Neri sconfitti, soprattutto la futura possibilità
d'un'alleanza politica tra due partitanti così lontani negli ideali e
nei programmi, e che non so quanto avrebbe potuto convivere nel tempo, e in
particolare far rivivere gli ordinamenti democratici ch'erano stati della
tradizione dei Bianchi dinanzi ai tentativi di restaurazione d'istituti e costumi
aristocratico-feudali che i Ghibellini avrebbero cercato di porre in opera,
riuscendo miracolosamente a ripetere una nuova Montaperti a distanza di 43
anni.
Ma il miracolo non si
ripeté. Dopo i successi iniziali di Serravalle, Piantravigne, Gaville e
Ganghereto, dopo la sollevazione di Montagliari e Montaguto, cominciano i primi
rovesci, e i confederati sono costretti a retrocedere sul fronte del Mugello e
di Romagna, e perdono Piantravigne (metà luglio) per tradimento di
Carlino de' Pazzi, che indusse a tradire anche tre dei suoi congiunti, e
pattuì col nuovo podestà fiorentino, Gherardino da Gambara, in
400 fiorini d'oro il prezzo del suo tradimento.
Non pare possibile
che Dante scendesse in battaglia, ma è certo che non si tenne lontano
dalla zona degli scontri, sospesi col sopraggiungere del maltempo. E allora
egli deve ancora una volta (e non sarà l'ultima!) riflettere sulla
necessità di spostarsi dal territorio immediato della guerra, per
prestare meglio la sua opera come intermediario politico, e attendere ad una
migliore preparazione delle ostilità del 1303. E si reca a Forlì[64]:
autunno del 1302.
Ma anche la guerra
della primavera del 1303 si risolse negativamente per Dante e per i Bianchi. Il
lavoro di preparazione svolto da Dante presso il signore di Forlì, Scarpetta
degli Ordelaffi, lo portò ad essergli vicino anche durante il periodo
delle ostilità, e forse il poeta fu presente all'espugnazione di Castel
Puliciano, se non proprio al fulmineo e vittorioso sopraggiungere del nuovo
podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli, tanto è immediata
l'impressione di quel fatto nel Purgatorio:
Io veggio tuo
nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne
loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce
de la trista selva…[65]
quasi trasferendo sul campo di battaglia l'eco delle
sanguinose repressioni dei Neri. Un documento successivo pone problemi precisi:
il nome di Dante, il 18 giugno del 1303, non è tra i firmatari dell'atto
d'obbligazione a pagare i mercenari della guerra del Mugello; conseguentemente,
e anche per la ristrettezza del tempo, Dante non è tra gli ambasciatori
che da Forlì giungono a Bologna, il 25 giugno successivo.
Egli era già a
Verona? E v'era come semplice rifugiato ovvero quale ambasciatore dei Bianchi
presso gli Scaligeri? Lo storico Biondo Flavio parla di questa ambasceria
bianca, e anche se erra attribuendone la controparte a Cangrande della Scala (a
quell'epoca ancora giovinetto, così come ricorderà Dante in Par.,
XVII, 79-81), l'ambasceria sembra sicura, dopo l'infausta conclusione della
guerra del Mugello, tra il maggio e il giugno, quando “i bianchi e' ghibellini
usciti rimasero rotti e sciarrati”.
In un mio studio[66]
mi sono intrattenuto a lungo sulla vicenda biografica a Verona, e sono venuto
alla conclusione che essa ebbe luogo tra il maggio-giugno 1303 e il marzo 1304.
Non ne ripeterò i ragionamenti ivi svolti, se non per sottolineare che
l'ospitante nel primo refugio, primo ostello del fuggiasco poeta
(lo ricorderà nello stesso canto XVII del Paradiso, vv. 70-71) fu
certamente Bartolomeo della Scala, venuto a morte il 7 marzo 1304. A tal
proposito è da ricordare la lettera di risposta al cardinale
Niccolò da Prato scritta da Dante a nome di Aghinolfo da Romena e del Consilium
et Universitas Alborum, cioè dello stato maggiore dei Bianchi,
lettera sicuramente databile alla metà dell'aprile del 1304. Ma il documento
preciso e inconfutabile sono proprio i versi del succitato canto del Paradiso
nella loro logica successione: la congiura contro Dante (dal 1300 al 1301): Questo
si vuole e questo già si cerca, il complotto tra Bonifacio VIII e i
Neri all'epoca in cui si svolge il viaggio immaginario di Dante
nell'oltretomba, e cioè all'epoca in cui parla il personaggio
Cacciaguida; subito dopo i perniciosi effetti: La colpa seguirà la
parte offensa, la colpa dei disordini in città sarà
più tardi attribuita ai vinti Bianchi; la conseguenza finale, voluta da
Dio: la morte di papa Bonifacio e di Corso Donati: ma la vendetta / fia
testimonio al ver che la dispensa. Altri elementi da addurre sono la
testimonianza fondamentale di Pietro Alighieri, la confusione di Boccaccio che
individua nel gran Lombardo Alberto della Scala, l'impossibilità
che sia Alboino.
Ora ci si pone
l'interrogativo. Quale circostanza determinò la partenza di Dante da
Verona? Forse la morte di Bartolomeo? Sembra poco probabile, mentre appare
più convincente l'ipotesi del sopraggiungere a Verona d'una notizia del
tutto sconvolgente per Dante: dopo l'elezione a pontefice del mite Benedetto XI
(sul quale il poeta già da qualche mese faceva affidamento), la nomina a
proprio legato e paciaro in Toscana del cardinale Niccolò da Prato (31
gennaio), con lo specifico compito di mettere pace in Firenze alle lotte
intestine, accresciute ora dal conflitto sorto tra Corso Donati e Rosso della
Tosa. Certo s'era sparsa la voce che il compito del paciaro non era limitato
soltanto a quest'ultimo compito, ma egli aveva l'incombenza di arrivare ad una
pace generale tra i Guelfi, consentendo ai Bianchi di ritornare in
città.
Il 17 marzo 1304 i
Consigli fiorentini concedevano la balìa al cardinale. C'era
necessità per Dante di trovarsi nelle vicinanze del territorio in cui il
cardinale operava, anche perché il suo arbitrato era in
difficoltà per l'accordo che era stato precedentemente steso tra Bianchi
e Ghibellini. Dante sente che la sua presenza è indispensabile per
indirizzare bene la politica della Universitas Alborum, nel cui seno era
stato tra i protagonisti e la sua voce doveva essere ancora molto ascoltata.
Insomma è
certo, per me, che immediatamente Dante si mise in cammino. Quando
Niccolò da Prato manda con lettere un confratello presso il Consiglio
bianco, Dante è sul posto, e stila, direi verso i primi d'aprile,
l'epistola già ricordata, lettera che deve intendersi, come ha ben detto
il Mazzoni nel commento a questa Epist., I, “la notificazione ufficiale
della avvenuta delibera formale, presa da tutti i fuorusciti, nella loro
organizzazione e per le loro rappresentanze, di affidarsi in totum al
legato pontificio, compromettendo in lui ogni trattativa di pace”[67].
Se è possibile
che nell'aprile Dante scrivesse dalla Toscana (l'epistola potrebb'essere stata
anche redatta dalla Romagna), il mese successivo è certamente in
Toscana, e a ridosso del confine dello stato di Firenze, allorché redige
(maggio-giugno) una missiva di cordoglio ad Uberto e a Guido conti di Romena
per la morte del loro zio, il conte Alessandro. Ma in quale località
della Toscana? Tutto fa ritenere che la sede fosse ormai ad Arezzo, giacché
quivi il 13 maggio 1304 il fratellastro Francesco Alighieri, con la garanzia
d'un altro fiorentino, Capontozzo dei Lamberti, prometteva di restituire un
prestito di dodici fiorini d'oro ottenuto dallo speziale Foglione di Giobbo.
Francesco teneva dimora e mercato fiorente in patria, e quindi non aveva alcuna
necessità di contrarre mutui in altro luogo; evidentemente s'era recato
apposta ad Arezzo per aiutare con un modesto finanziamento il suo grande
congiunto, il cui nome, per quanto alto cominciasse a suonare nel campo delle
lettere, poco valeva ai fini commerciali. Del resto il Bruni ci dice che gli
esuli bianchi “fermarono la sedia loro ad Arezzo”, e viene ad implicitamente
confermare il soggiorno del poeta nella città toscana.
Da questo luogo Dante
segue con ansiosa speranza, poi con crescente delusione l'evolversi delle
vicende, e qui avvenne (giova congetturarlo) la sua rottura coi Bianchi, non
convinto com'era della validità della spedizione in Val di Mugnone. I
fatti si susseguono con drammatica rapidità: 18-20 aprile: l'arrivo dei
delegati bianchi in città, con una piccola rappresentanza d'esuli
ghibellini; il 26 aprile: la pace di Santa Maria Novella, effimero tentativo di
comporre un contrasto insanabile; qualche giorno dopo la riconciliazione tra il
Comune e le casate degli Ubertini, dei Griffoni e dei Gherardini di parte
Bianca; 9 maggio e sgg.: viaggio del paciaro a Prato e a Pistoia, e congiura
pratese di Corso Donati; 29 maggio: lettera di Benedetto XI ai Fiorentini,
osanna popolari ai Bianchi ma anche ad alcuni vecchi Ghibellini, tra cui Lapo
nipote di Farinata; tumulti dei Neri e resistenza dei Cerchi e dei Cavalcanti;
8 giugno: il paciaro consiglia Bianchi e Ghibellini ad uscire da Firenze; 10
giugno: i Neri appiccano il fuoco a varie case della città; stesso 10
giugno: Niccolò da Prato lascia Firenze; ultima decade di giugno: i Neri
consolidano il loro potere in città impadronendosi di tutte le cariche
pubbliche.
In tutto questo
periodo Dante, coi capi della Fraternita bianca, non si mosse da Arezzo:
eccellente luogo per seguire lo svolgimento dei fatti ed eventualmente per
intervenire, anzi, come si spera nella prima fase delle trattative, per
rientrare pacificati in patria. Tra fine giugno e primi di luglio la Universitas
Alborum si consulta sul da farsi, ed è doveroso congetturare che
Dante fosse tra i più attivi consiglieri, anzi riprendesse la pienezza
dei suoi poteri e obblighi consiliari. Ma la situazione era profondamente
mutata da quella di cui Dante era stato protagonista nel biennio 1300-1301; il
poeta, forte dell'esperienza politica che ha contratto in tutto questo periodo
è maturato durante il pacato momento del soggiorno veronese, non
è più nel rango di imperterrito oltranzista della lotta senza
quartiere. Ha conosciuto molto bene, ormai, anche l'ambiente dei Ghibellini
“usciti”, e sa che con i colpi di mano non si può far molto; che
c'è bisogno d'una situazione politico-diplomatica del tutto solida e
ampia per poter sperare di rovesciare la Signoria nera.
I Bianchi discutono
accanitamente sul da farsi, e Dante si trova solo, o quasi solo, a combattere
gli ingenui e pericolosi ottimismi dei suoi colleghi di Parte. Viene messo in
minoranza, e l'Universitas decide di riprendere l'ostilità
scendendo in campo contro i Fiorentini “intrinseci”. È questo il momento
in cui Dante si distacca dalla compagnia malvagia e scempia, e arroga a
sé il vanto, d'ora in poi, di far parte per se stesso.
Forse, nella foga della discussione, qualche Bianco avrà accusato Dante
di tradimento o di debolezza: che tutta ingrata [la compagnia], tutta
matta ed empia / si farà contr'a te. La morte di Benedetto XI, il 7
luglio, rende ancor più precaria e pericolosa l'iniziativa dei Bianchi.
Si leva il campo. Il 19 luglio i Bianchi e i Ghibellini “apparvero sulle alture
a nord della città”. Il 20 luglio ha luogo la disfatta della Lastra in
Val di Mugnone (che in realtà fu battaglia particolarmente combattuta
entro le mura di Firenze, persino davanti a San Giovanni): ma, poco
appresso, ella, non tu, n'avrà rossa la tempia. Quattrocento tra
Bianchi, Ghibellini e confederati di Bologna, Arezzo e Pisa cadevano sul campo
di battaglia: Di sua bestialitate il suo processo / farà la prova
(abbiamo voluto chiosare quei terribili eventi con l'unica voce che ci preme
far ascoltare: quella del poeta).
Il duro, certo
sofferto ma fors'anche troppo reciso distacco di Dante dalla compagnia
data qualche settimana avanti la disfatta della Lastra[68].
Propenderei a credere che Dante non provvedesse a lasciar subito Arezzo, ma di
qui seguisse lo svolgimento dell'impresa che aveva previsto fallimentare: da
Arezzo, dove la numerosa colonia di esuli fiorentini gli dava ancora la
parvenza di poter fare qualcosa di diverso e di costruttivo sul piano politico,
e in effetti di poter sventare sino all'ultimo la partenza delle truppe per il
confine dello stato di Firenze, per tentare operazioni diplomatiche in
direzione diversa, per poter continuare a mantenere rapporti con la famiglia
per il tramite del fratellastro. Se tutto ciò può esser ritenuto
verosimile, se dunque la partenza da Arezzo è successiva all'annuncio
infausto della sconfitta del 20 luglio, se ne potrà trarre la conseguenza
che il poeta della Commedia era in Arezzo in quello stesso 20 luglio in
cui nasceva il poeta dei Rerum vulgarium fragmenta. Il Petrarca
ricordava bene, scrivendone al Boccaccio nel 1366, la singolare coincidenza
della sua nascita nel giorno in cui i concittadini del padre avevano tentato di
vendicare con le armi l'onta dell'immeritato esilio.
Sentita la nuova
della terribile disfatta, ormai vanificate le speranze di rientrare in patria,
Dante sente l'inutilità della sua presenza in Toscana; decide, come
sembra certo, d'esulare in Italia Settentrionale. Non può tornare a
Verona, dove signoreggia l'avverso Alboino, ma può sembrargli confacente
la dimora in qualche corte che, per affinità di ideali e di munificenza
verso i dotti poeti, possa apparire consimile a quella ch'era stata la Verona
del tempo del Gran Lombardo. S'aprono anni nei quali è
difficilissimo seguire le vicende di Dante, sovente impossibile.
Un soggiorno
prolungato a Treviso alla corte di Gherardo da Camino, tra l'estate 1304 e la
metà del 1306, non è impossibile, sempreché non si voglia
considerare che quei due anni siano trascorsi esclusivamente nella città
della Marchia Trivisina, ma comprendano una serie di spostamenti,
più o meno prolungati nel tempo, tra Padova e Venezia e altre
città non lontane. Ognun sa quanto le prime due cantiche della Commedia,
e in particolare l'Inferno, siano colme di reminiscenze e allusioni alla
zona del Veneto. La tradizione insiste molto su questi ricordi, dalla ruina
dell'Adige all'arzanà dei Veneziani e al castello di Tiralli,
dalle dighe dei Padovani lungo la Brenta al Bacchiglione, al Piave, al drappo
verde di Verona, al padoano nel gruppo degli usurai (Reginaldo degli
Scrovegni, accanto ad un futuro dannato padovano, Vitaliano del Dente), ecc. Il
lettore del De vulgari eloquentia valuta la notevole esperienza che
Dante possiede dei dialetti veneti: le sincopi deformanti dei participi dei
Padovani, la citazione onorifica di Aldobrandino de' Mezzabati, il ricordo d'un
canto veneziano, “Per le plaghe de Dio tu no verras”, i crudi accenti degli
abitanti di Aquileia e dell'Istria; al limite delle cose non “viste” ma sentite
dire: i sepolcri di Pola, il Carnaro, ecc. Un commentatore rigoroso qual fu
Benvenuto da Imola segnala la circostanza dell'incontro con Giotto a Padova,
dove si vuol che il poeta ammirasse la cappella degli Scrovegni (dunque tra il
1304-1305)[69].
Se si guardi ad uno
solo di questi elementi, poco esso potrebbe provare, ma l'intera messe di
suggestivi ricordi ha in complesso un peso determinante per ritenere possibile
la presenza di Dante nel Veneto, né si potrebbe affermare qualche altro
periodo avanti la composizione e la divulgazione dell'Inferno possa
essere ipotizzato fuori del biennio 1304-1306, prima di ritrovare con certezza
il poeta mentre sale l'erta (6 ottobre 1306) che da Sarzana porta a
Castelnuovo, come procuratore di pace presso il vescovo di Luni, da parte dei
nuovi suoi ospiti Franceschino, Corradino e Moroello Malaspina. È pur
vero che vi sarà un'altra zona buia nella vita di Dante avanti la
divulgazione dell'Inferno (da porsi sul finire del 1314), ma è
difficilmente pensabile che nel periodo 1309-1310 (impossibile poi più
tardi) il testo dell'Inferno restasse aperto ad inserti così
cospicui. Tuttavia, se si deve lasciare aperto il discorso sul soggiorno veneto
del '4-'6, occorre con fermezza respingere (come del resto ha fatto la critica
dantesca più autorevole) qualunque ulteriore tentativo di identificare
il poeta col “Dantino quodam Alligerii de Florentia et nunc stat Paduae” dal
documento già ricordato del 27 agosto 1306, ovvero col “Dante toscano”
ricordato in un documento di Parenzo del 4 ottobre 1308, come di recente
s'è tornato a riproporre; non meno labili sono le costruzioni che si son
fatte, d'un soggiorno a Treviso tra la morte di Gherardo e quella di Rizzardo, giacché
soltanto con questa cronologia si comprendono le ragioni dell'elogio del primo
e del biasimo del secondo.
La lunga disputa tra
i Malaspina e i vescovi-conti di Luni nasceva dalle continue pressioni che la
consorteria magnatizia effettuava sulle terre sotto il diretto dominio
vescovile. Se Dante accetta la nomina a procuratore, vuol dire che egli
è sul posto da qualche tempo per poter fruire della fiducia di tutti e
tre i rami dei Malaspina, e già doveva aver svolto altre meno importanti
incombenze consiliari. E deve aver accettato di buon grado, poiché la
pace con il vescovo Antonio consentiva non soltanto di por fine allo stato
d'ostilità tra i due poteri, ma di rafforzare la posizione dei Malaspina
nei riguardi del guelfismo toscano, non precludendo loro la possibilità
d'un benevolo aiuto da parte delle autorità ecclesiastiche della
Toscana, costituendo infine un precedente per quel che sarà ancora per
vari anni l'assillo del procuratore: il ritorno a Firenze. I Malaspina
assumevano così un prestigio notevole, e, quel che è meglio, non
contro le mire della Curia, in un momento in cui il nuovo papa, Clemente V
(eletto il 5 giugno del 1305), potrebbe ancora presentarsi in Italia, il che
invece non farà né in questi momenti, né poi, con
ulteriore cruccio di Dante.
Lo scambio di sonetti
tra Cino (Cercando di trovar minera in oro) e Dante in nome del marchese
Moroello (Degno fa voi trovare ogni tesoro), e di quelli diretti tra i
due poeti (Dante, quando per caso s'abbandona e Io sono stato con
Amore insieme, che è accompagnato da Epist., III, per il
Mazzoni del 1306) non è necessariamente riconducibile a questo periodo,
ché vige anche l'ipotesi d'una successiva permanenza di tutti e tre i
corrispondenti alla corte di Enrico VII, al momento della presenza di Moroello
durante la pacificazione di Vercelli (ottobre 1310). Per quanto si debba
ricordare con somma cautela l'episodio narrato dal Boccaccio (ritrovamento in
Firenze dei primi 7 canti dell'Inferno e inoltre delle carte affidate da
Gemma a Dino Frescobaldi, il quale le recapita a Moroello affinché
questi persuada l'autore a riprendere il lavoro interrotto con l'esilio), il
caso opinato può riguardare tanto l'autunno del 1306 quanto
un'età immediatamente precedente, mai un periodo così tardo come
quello dell'incontro di Vercelli[70].
Dante non
soggiornò poco tempo in Lunigiana; poco dopo la partenza, dunque nel
1307, offertosi il Casentino come terra di breve sosta al peregrinare del poeta
(forse ospite del conte Guido di Batifolle), egli a limine suspirate postea
curie separato posa i piedi iuxta Sarni fluenta, e gli appare una
donna meis auspitiis undique moribus et forma conformis (Epist.,
IV, 2), come legge la missiva nuncupatoria della canzone Amor, da che
convien pur ch'io mi doglia[71]. Si potrebbe
in extremis postergare la quarta epistola ad un momento successivo al
soggiorno lucchese, quindi subito dopo il 1308; ma non se ne vede proprio la
necessità, ché il tono encomiastico della lettera tradisce il
ringraziamento per un'ospitalità recente e ancora abbisognosa d'elogi.
Lucca, invece, può star bene dopo l'episodio casentinese, perché
ne riceve luce, in fondo, anche il documento della presenza del figlio
“ipotetico” Giovanni, non solo ma con gran parte della famiglia; lo stesso Barbi,
oltre ammettere temporanee soste a Lucca anche prima del periodo che stiamo
trattando[72],
non è lontano dal ritenere che Lucca possa essere stata la sede stabile
di Gemma Donati e dei figliuoli, appena il più giovane dei maschi,
Iacopo, ebbe raggiunto i quattordici anni. Il massimo del soggiorno lucchese,
raddolcito dall'ospitalità della donna Gentucca, si muove dalla fine del
1307 o dai primi dell'8 (l'atto mercantile che riguarda Giovanni è del
21 ottobre 1308) ai primi del '9, giacché con editto del 31 marzo 1309
il Comune di Lucca faceva divieto agli sbanditi e ai condannati fiorentini di
permanere in città e nei territori limitrofi.
Si ricollegano al
periodo lucchese, ma non necessariamente determinati da esso anziché da
precedenti soste, i folti ricordi che nell'Inferno e nel Purgatorio
permangono della città, non importa se tal volta mossi da risentimento
polemico, di quella terra [in cui] ogn'uom v'è barattier, fuor
che Bonturo; / del no, per li denar, vi si fa ita, Inf., XXI, 40-42,
perché non c'è reminiscenza di terra e di popoli che non sia
anche comprensiva di rammarichi, rimbrotti, polemiche sovente anche astiose.
Nel famoso luogo di Conv.,
I, iii, 4, Dante parla della sua pena…
d'essilio e di povertate, fa cenno a sue molte peregrinazioni, tutte in
terra italiana: per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende,
peregrino, quasi mendicando, sono andato, senza far riferimento a viaggi
oltremontani, ché se essi vi fossero stati, avrebbero pur aggiunto
gravezza maggiore alle sofferenze dell'esule, non lontano soltanto dalla sua
città, ma dalla stessa nazione. La “leggenda” del viaggio a Parigi[73]
non potrà essere situata, or dunque, che successivamente
all'interruzione del trattato filosofico ovvero, in tempo più stretto,
alla scrittura del primo libro, e precedentemente alla spedizione italiana di
Enrico VII. Le continue peregrinazioni del legno sanza vela e sanza governo
non rallentano mai l'attività letteraria di Dante, cui possono essere
assegnati in questo primo settennio d'esilio opere come il De vulgari
eloquentia, il Convivio, rime varie e tutto o quasi l'Inferno.
Se osserviamo con attenzione i due momenti meno turbati e più propizi al
lavoro, l'anno scaligero 1303-1304 e il triennio lunigiano-toscano 1306-1308
(con particolare riguardo per il soggiorno presso Moroello e a Lucca rispetto
alla breve avventura casentinese), si sarebbe tentati di suddividere le tre
parti fondamentali di questa produzione in un modo all'incirca come il
seguente: a Verona il De vulgari eloquentia la cui datazione canonica,
per motivi interni al testo, è del 1303-1304; in Lunigiana il Convivio
(1304-1307); a Lucca l'Inferno nella sua completezza esecutiva, non nel
disegno e nella verseggiatura (dunque sia 1304-1308 che 1306-1309:
verseggiatura che è anche dell'età della Marca Trivigiana).
Ovviamente è
questo un discorso meramente schematico, giacché per vario tempo la
composizione del trattato linguistico e quella dell'enciclopedia filosofica
s'intrecciano e si completano a vicenda, e non si può far iniziare sic
et simpliciter la composizione dell'Inferno al momento della “crisi”
che cade al termine dell'assai complesso commento alla canzone della
nobiltà. A parziale prova di quanto s'è detto, è
conveniente osservare che la stesura del De vulgari eloquentia non
suppone un lavorio concettuale e culturale dello stesso genere di quello del Convivio,
e quindi può essere stata opera sollecita e di getto, altrettanto
rapidamente e bruscamente interrotta come principiata, mentre la chiusura del
IV libro del Convivio avviene, si direbbe, col punto fermo.
I primi testimoni del
viaggio di Dante a Parigi sono anche i più importanti, e difficilmente
confutabili. Il Villani scrive: “e poi a Parigi, e in più parti del
mondo”, mentre il Boccaccio chiosa: “e già vicino alla sua vecchiezza,
non gli parve grave l'andarne a Parigi, dove non dopo molta dimora con tanta
gloria di sé disputando più volte mostrò l'altezza del suo
ingegno, che ancora narrandosi se ne maravigliano gli uditori”. Parlano di
questo viaggio, poi, il Pucci, il Buti, Benvenuto, il Serravalle, ma ne tace
Pietro di Dante, ne tace Leonardo Bruni[74].
È probabile che il soggiorno parigino venisse interrotto dalla notizia
dell'imminente discesa di Enrico VII, ma di questo vedremo più tardi
(cfr. Cap. xiii).
Si potrebbe qui
aprire un altrettanto lungo discorso attorno alla espressione del Villani: “e
in più parti del mondo”. Qui la dantologia di cinquanta, sessant'anni fa
s'è proprio sbizzarrita, e non vogliamo qui riferirne nemmeno gli
estremi, e per quel che riguarda le contrade più insolite d'Italia, e
per varie città fuori d'Italia: Oxford, Colonia, ecc.[75].
XI
ENCICLOPEDISMO FILOSOFICO E
TEORESI DELLA LINGUA
Il Convivio e
il De vulgari eloquentia, il trattato filosofico e quello sul volgare,
sono rimasti interrotti, com'è noto, rispettivamente il primo al quarto
libro concluso, il secondo al quattordicesimo capitolo del secondo libro. Il Convivio
doveva essere composto di quattordici trattati, preceduti da un altro ancora
che servisse da proemio, ciascun trattato preceduto e chiosante una canzone (le
tre canzoni del Convivio sono Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete,
Amor che ne la mente mi ragiona, Le dolci rime d'amor ch'i' solia).
Invece il De vulgari eloquentia sarebbe stato compreso in quattro libri.
Dunque i due trattati sono stati interrotti l'uno quasi ad un quarto della
fatica, l'altro quasi a metà. Ciò vuol dir poco, in una
statistica ad essi relativa, ma è sintomatico il fatto che il Convivio
si spezza ad un luogo molto lontano dalla conclusione, e quindi la sostanza
d'esso, un'enciclopedia del sapere, un “banchetto” culturale tra uomini dotti
viene a mancare perché il disegno della Commedia assorbe questa
stessa tensione culturale ma trasferisce in una struttura più aperta ad
un grande pubblico e riferita fuori degli schemi trattatistici; mentre il
trattato linguistico si spezza quando il poeta ha finito d'esaminare le
qualità dello stile tragico, e deve analizzare il secondo stile, quello
mezzano, il comico, e il terzo stile, quello basso, l'elegiaco: impresa che gli
si veniva a vanificare nel momento in cui scava e trova in sé la
possibilità d'esprimersi in uno stile “trifase”, che ha dell'uno e
dell'altro, e ora poggia sul tragico, ora procede lungo i binari del comico
(donde una ragione del titolo: Comedìa rispetto alla tragedìa
per eccellenza, l'Eneide di Virgilio), ora sussume vocaboli bassi,
elegiaci. La filosofia deve trovare spazio adeguato perché entri la
teologia, e questa avrebbe dovuto richiedere da sé sola un altro
“convito”; e sarà bene che entrambe le scienze, quella umana e
razionale, quella divina e mistica, si rivelino al lettore sotto le specie di
figure umane, Virgilio e Beatrice, Stazio e san Bernardo, Brunetto Latini e i
tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, tutte storiche. Anche Beatrice
è in questo particolare senso una figura “storica”, un'immagine stabile
e precisa nella “storia” personale del poeta, poco importa se fosse soltanto un
senhal medievale o Bice di Folco Portinari, “nata de domo quorundam
civium florentinorum qui dicuntur Portinarii”, come scriverà Pietro
Alighieri, moglie “di un cavaliere de' Bardi, chiamato messer Simone”, e che
“nel ventiquattresimo anno di sua età passò di questa vita, negli
anni di Cristo 1290”, come scriverà il Boccaccio.
I due trattati, o
ciò che resta d'essi, possono essere stati scritti l'uno dopo l'altro,
ma la circostanza che entrambi restino interrotti (e la causa di questa
interruzione non può che essere il maggior pondo del poema sacro,
anche se possono esistere concause: più per il De vulgari eloquentia,
meno per il Convivio, l'arduo impegno che essi comportavano in sede
strettamente teorica) fa ritenere probante l'ipotesi che il poeta attendesse ad
essi quasi contemporaneamente.
Certamente sono
primissime opere dell'esilio, di quell'esilio che l'ha già fatto fremere
nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, là dove
esprime lo strazio di persona “discacciata e stanca”, colpita dalle rovinose
condizioni dello jus divinum et naturale impersonato nella prima delle
tre figure della canzone; di quell'esilio che gli fa gridare
E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e
dolersi
così
alti dispersi,
l'essilio che
m'è dato, onor mi tegno[76]
L'ipotesi d'una quasi
contemporaneità d'azione letteraria è, ripeto, molto
affascinante, e tiene conto, nei limiti del possibile, delle necessità
d'appoggio e di sosta del lavoro secondo le possibilità offerte dal
luogo del soggiorno, insomma un minimo (non si dice di più), un minimo
di sostegno presso un centro di cultura qualificato, il che per un lavoratore
“solitario” come Dante non significa mai apertura totale verso un preciso milieu
letterario e filosofico, che so?, uno Studio o una grande corte onusta d'uomini
di cultura, ma pur sempre la possibilità di consultare qualche opera di
classico pagano o di scrittore cristiano.
La biblioteca
dell'Alighieri non fu certo molto ricca. La povertà del soggetto non lo
consentiva, e così i continui traslochi da un luogo all'altro. Tuttavia
si può opinare che possedesse una dozzina di auctores, tra
classici e cristiani, un'epitome (magari una sola) storica e una geografica, o
storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali,
francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di
Guido Faba. Avrà consultato qualche biblioteca? Sarà andato, a
Verona, nella Capitolare? Se lo avrà fatto, non avvenne certamente per
scoprire classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di codici
dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che
già conosceva.
Non sembra dunque
recare offesa ad un certo ordine logico della mente di Dante, assegnare a
momenti e città differenti il nucleo sostanziale della produzione letteraria.
E si può dar subito spazio al problema della composizione del De
vulgari eloquentia da assegnare al primo rifugio veronese, e che pur
nell'affinità gemellare col Convivio quanto all'esposizione di
concetti celebrativi della dignità del volgare italiano, sembra che
abbia una certa precedenza. In tal senso il rapporto tra Dante e il suo tempo
è più comprensibile come indice del grandioso influsso ch'egli
esercitò sulla cultura linguistica del suo tempo, anziché come
studio dell'influenza che l'età produsse sopra di lui; considerando
queste fondamentali prospettive, poco importa soggiungere come l'altissimo
concetto ch'egli aveva dell'arte e della cultura si traducesse, infine, in una
visione troppo letteraria della nuova lingua, ché nella Commedia
provvederà, con l'intuito fulmineo e la forza ineguagliabile del suo
genio espressivo, a temperare la sua stessa concezione teorica, immettendo nel
vivo dello stile i fecondi e vivi apporti della parlata comune e dei dialetti,
soprattutto del dialetto fiorentino nel quale, sostanzialmente, venne scritto
il suo capolavoro ma è anche redatta la prosa del Convivio (si
sarebbe tentati di dire che anche il trattato linguistico, se fosse stato
elaborato in volgare, presenterebbe una peculiare veste fiorentina! e non c'è
necessità di soffermarsi sul tessuto fiorentino del suo “tragico” e
“aulico” linguaggio nelle canzoni dottrinali). Infatti nel passo di Conv.,
I, v, 9 se coloro che partiron
d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi
crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da
loro discordante. Di questo si parlerà altrove più compiutamente
in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza,
è evidente che la materia del De vulgari eloquentia, per quanto
già iniziata fosse la stesura, gli appare meno rilevante o, comunque,
meno urgente.
I limiti lunghi tra
il terminus a quo e quello ad quem (dopo il 29 agosto 1302 -
prima del febbraio 1305) possono essere ristretti alla zona esattamente
centrale: autunno 1303-fine inverno 1304. Vero è che il ricordo come
ancora vivente di Giovanni I di Monferrato nel De vulgari eloquentia (il
marchese morì nel gennaio 1305) è da valorizzare soltanto per la
sezione iniziale, I, i-xv, e quindi la stesura del secondo
libro può anch'essere successiva; ma la brevità del testo
rispetto all'ampiezza del disegno iniziale del Convivio non pretende uno
spazio di tempo della misura di circa tre anni, anche gran parte della
documentazione sui dialetti e sulla struttura della canzone poteva essere
assicurata da precedenti ricerche o esperienze (i “materiali” di stile di cui
dispone ogni scrittore!), compiute sul vivo dell'elaborazione personale della
propria lingua e metrica, usufruendo inoltre d'elementi quasi tutti mnemonici e
pochissimo di consultazione diretta (versi altrui, battute dialettali,
osservazioni colte al volo, trasferimento e dato teorico di scelte operate in
pratica da un decennio). Direi anzi che la sommarietà delle nozioni che
il poeta possiede di alcune zone linguistiche d'Italia (diciamo di quelle che
poi furono la sede delle sue peregrinazioni, non d'un'Apulia o Sicilia o
simili), sta a mostrare che il De vulgari eloquentia si colloca prima e
non dopo le peregrinazioni nella Marca Trivigiana e nell'Italia centrale:
quelle che gli faranno affermare invece nel Convivio (I, iii, 4) per le parti quasi tutte a
le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato,
mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al
piagato molte volte essere imputata, che non ha rispondenza in analoga
dichiarazione nel De vulgari eloquentia, dove è registrato
soltanto il proprio stato d'esule: Nos autem, cui mundus est patria velut
piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo
diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam
sensui spatulas nostri iudicii podiamus, I, vi, 3 (cfr. anche I, xvii,
6, Quantum vero suos familiares [i poeti volgari] gloriosos efficiat,
nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus).
Tale registrazione risulterà generica formalmente per la diversa
impostazione trattatistica del De vulgari eloquentia rispetto al Convivio,
in sostanza anche perché l'esperienza geografico-culturale dell'esule
è ancora limitata, e la difesa delle posizioni di scuola sue e dei suoi
amici del Dolce Stile non lascia all'inizio esplicito spazio a convinzioni
politiche precise o a confessioni personali, che pure hanno modo d'espandersi
in forma oscura anche nei primi paragrafi (ad es. il ricordo di Pietramala,
passaggio obbligato durante i preparativi della guerra mugellana e i viaggi tra
la Toscana e Bologna).
L'esordio del De
vulgari eloquentia è opera d'un uomo che tende celeriter a
valorizzare l'originalità della propria impostazione di studio e il
frutto dell'aqua nostri ingenii, quasi sollecitato da esteriori motivi
che l'inducano a stendere un trattato che possa procacciargli udienza presso le
corti o meglio in una città illustrata dallo Studio (donde le gentili
espressioni indirizzate a Bologna, proprietaria del miglior volgare municipale,
I, xv, 6, e d'un dialetto
armoniosamente equilibrante la mollezza dei Romagnoli con la gutturalità
dei Lombardi, I, xv, 3;
città che è stata sede di illustri maestri dell'arte del dire, I,
xv, 6). Tuttavia dall'iniziale
proposito accademico è subitaneo il passaggio all'occasione politica,
che erompe irresistibilmente allorché al cenno sulla condizione di chi
patisce exilium iniuste pur amando la gloria, si mescola con
obbiettività di trattatista la convinzione di quanto sia errato ritenere
che in Italia non vi siano regioni e città magis nobiles et magis
delitiosas della Toscana e di Firenze: dove è opportuno cogliere il
dato iniziale dell'autore come non scevro ma nemmeno ancor corrucciato da
risentimenti politici verso la città natale, e richiamato
all'aspirazione d'una patria linguistica più vasta perché
retaggio dell'intera nazione e perché apportatrice di ideali ed esigenze
culturali non ristretti ai sentimenti, ai programmi d'una sola città,
quanto invece proiettato nell'amplissimo orizzonte del mondo politico italiano.
È pur vero che la lingua delle grandi canzoni dottrinali non s'intende
senza l'elaborazione teorica del De vulgari eloquentia nel II libro, ma
è anche questa a risultare condizionata e sorretta dal lavoro ormai
decennale attorno allo stile e alla metrica della canzone, cosicché ben
si potrà intendere la preoccupazione d'una teoresi linguistica nella
zona anche cronologicamente intermedia tra il testo della singola canzone e la
lezione concettuale dei previsti quattordici commenti: teoresi che vede non
soltanto l'esaltazione della propria opera di filosofo-poeta, maestro di
componimenti morali (Doglia mi reca dell'amico di Cino), quanto in modo
meno flagrante la rispondenza dei requisiti di “illustre” (illustrante e
illustrato), di aulico e di curiale ad ogni elemento espressivo di questa e
delle altre canzoni, esempio vivente di stile tragico, con gravitas
sententie, con superbia carminum, con excellentia vocabulorum,
modello palese di elevata utilizzazione dei più nobili risultati
linguistici, metrici e retorici dei Siciliani, dei toscani di scuola
guittoniana e degli Stilnovisti, come pure d'abile utilizzazione dei
Provenzali.
Non è meno
importante un ulteriore nesso tra i due trattati: giustificare il concetto d'un
volgare anti-municipale e affatto aulico e curiale come preparazione d'un
disegno enciclopedico di totale fruizione nazionale, il Convivio, a
tutti i livelli e aree linguistiche. Quando si trasporta tutto questo intenso
lavorio speculativo e applicativo (il De vulgari eloquentia, il Convivio,
e per qualche illustre dantista anche la Monarchia) sul piano delle
rispondenze biografiche, ci si stupisce ancora una volta della possanza
intellettiva d'un uomo che, in anni di così turbinosi accadimenti
interiori e repentini spostamenti di contrada in contrada d'Italia, sia
riuscito a conservare una così grande capacità di concentrazione
mentale: davvero un poeta è Dante dall'intelletto imperturbabilmente (o
quasi) in continua condizione di lavoro; si oserebbe dire di lui che mai s'era
veduto e si vedrà un animus tanto agitato in una mente
così serenatrice e ordinata. Ed è questo, anche, il segreto d'una
“memoria” invincibile e inestinguibile di cose lette e di cose sentite, tutte
in un assieme di circostanze traumatiche com'è per l'Alighieri il
semplice vivere in un'età di grandiosi sconvolgimenti politici, tutti i
poli opposti (tra Medioevo e Umanesimo, tra autunno del feudalesimo e trionfo
delle libertà comunali) i quali enuclea la visione storica di quel
periodo nella vastità dei temi della Commedia. In tale
prospettiva prendono luce le anticipazioni del mondo della Commedia riscontrabili
dapprima nel De vulgari eloquentia, poi nel Convivio: l'amara
riflessione sulle colpe dell'umana natura nella prima cantica: Dispudet,
heu, nunc humani generis ignominiam renovare! Sed quia preterire non possumus
quia transeamus per illam, quanquam rubor in ora consurgat animusque refugiat,
percurremus. O semper nostra natura prona peccatis, o ab initio et nunquam
desinens nequitatrix! Num fuerat satis ad tui correptionem, quod per primam
prevaricationem eluminata, delitiarum exulabas a patria?, I, vii, 1; il calco biblico delle
invettive del Paradiso: O sine mensura clementia celestis imperii! Quis patrum tot
sustineret insultus a filio? Sed
exurgens non hostili scutica, sed paterna et alias verberibus assueta,
rebellantem filium pia correctione necnon memorabili castigavit, I, vii,
5; il dispregio per la vana superbia dei principi degeneri nell'Antipurgatono: in
obprobrium ytalorum principum […], qui non heroico more, sed plebeio secuntur
superbiam, I, xii, 3;
l'esaltazione delle virtù dell'Impero onninamente sparsa nel poema,
massimamente nel canto VI della terza cantica: Siquidem illustres heroes,
Fredericus cesar et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem
sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia
dedignates, I, xii, 4; la
presunzione dei cittadini di Firenze, I, xiii,
1; l'ottusa insensibilità dei Toscani, qui alle eleganze del dire, I, xiii, 3, nel Purgatorio ai
sentimenti di pace e di giustizia, XIV, 28-66, nelle parole di Guido del Duca:
sono due spie dell'analogo assillo per la degenerazione dei costumi; infine la
nostalgia della patria lontana nell'esordio di Purg., VIII e dapprima
nell'exemplum di stile severo in De vulgari eloquentia II, vi, 5, Piget me cunctis pietate
maiorem, quicumque in exilio tabescentes patriam tantum sompniando revisunt.
Il filosofo che parla
delle superiori finalità dell'anima umana nel De vulgari eloquentia,
e teorizza sul concetto di dignità e sul triplex iter delle
istanze dell'uomo, fonda nozioni che saranno più centrali nel Convivio.
A chi legga con attenzione il noto passo del trattato linguistico (II, ii, 6-8), non potranno sfuggire
intonazioni ragionative e predisposizioni di materiale filosofico che appaiono
formulate in modo preliminare rispetto al Convivio; entrambi sono
trattati, ma quello linguistico esige e tempi e spazi minori, mentre
l'enciclopedia filosofica poteva comportare il lavoro d'un decennio e in essa
Dante riponeva speranze di plausi e d'ufficiali riconoscimenti ben maggiori,
coinvolgendo una somma d'implicazioni letterarie tutte o quasi di diretta
responsabilità dell'autore, ben poco essendo affidato (rispetto almeno
alle trattazioni volgari del Duecento) alla scolastica ripetizione di concetti
e nozioni scientifiche, morali, retoriche d'uso comune e di stanca glossatura
negli Studi. Un alto proposito insegnativo aveva presieduto alla duplice fatica
di Brunetto Latini e a molte somme e tesori precedenti, con lo scopo d'istruire
i lettori attraverso un'esposizione il più possibile completa dello
scibile umano; Dante non segue questa strada, blocca sin dall'inizio la materia
ai campi più varii ma pur sempre concentrati della filosofia morale,
astrae centralmente dalla metafisica e dalla fisica, dalle scienze matematiche
e dalla geografia astronomica, e soltanto ne utilizza gli elementi e la fenomenologia
là dove questi siano deputati a risolvere il singolo caso etico, il
quale è visto sempre in connessione col preciso dettato dei versi delle
canzoni, di modo che il risultato sia al tempo medesimo letterario e
filosofico, e sfugga ad un limitato fine d'esclusiva proiezione
dell'enciclopedismo del Duecento. Inoltre il proposito trattatistico cede
più volte alla veemente carica d'idealità morali e politiche
delle quali era nutrito l'animo dantesco, e anzi se ne andava sempre più
nutrendo verso la direzione che sarà indicata nella Monarchia ma
è già intuibile nei concetti di perennità dell'Impero
romano, di vitale difesa dei diritti del volgare, e nel vigoroso entusiasmo per
tutto ciò che è nobile e dotto; la moderna concezione della
nobiltà dello spirito.
La suddivisione della
materia nei quattro libri è presto detta; ma non è tale da farci
comprendere con esattezza quale sarebbe stata la struttura generale dell'opera
ove recata a compimento, né da renderci edotti del timbro filosofico-letterario
dei libri successivi, così come delle ragioni poetiche che avrebbero
presieduto. Nel proemio l'autore proclama il suo ripudio del linguaggio delle
scuole e il desiderio, anzi la necessità di adottare il “prezioso”
volgare, intendendo fermamente difenderlo dai “cattivi d'Italia”, i quali
“commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano”. Nel secondo
trattato il poeta celebra il profondo contrasto tra il ricordo struggente
dell'amore per Beatrice e il nuovo innamoramento per la Donna Gentile, che è
figura solo in parte rispondente alla donna pietosa della Vita Nuova in
quanto simbolo della Filosofia. Nel terzo trattato si esaltano le somme
virtù della Donna Gentile e si celebrano gli intensi piaceri che nascono
dall'innamoramento per essa. Infine nel quarto trattato si enuncia il concetto
del privilegio della nobiltà.
Le tre canzoni, a
commento del II, III e IV libro, chiariscono da per sé sole la pregnanza
dottrinaria del trattato. Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete
consente di scorgere un Dante attento a valutare il rilievo poetico dell'amore,
inteso quale moto spiritale che si agita entro i fatti contingenti e li
supera, sublimandoli emotivamente e discernendoli concettualmente come
accoglimento di universali valenze dottrinarie. Amor che ne la mente mi
ragiona rivela i limiti che il dittatore è consapevole di avere in
se stesso per l'alta barriera per cui la limitatezza dell'intelletto constata
di soffrire oggetti incomprensibili o solo parzialmente afferrabili per via dei
sensi, in virtù del sentimento d'amore insito nel miracolo della
presenza di Beatrice e del rispetto sommo per l'elevatezza della Donna Gentile.
Le dolci rime d'amor ch'ì' solia è canzone di pura ed
elata consapevolezza della difficile arte del rimare e della necessaria
coerenza tra di essa e le esigenze del mutamento del percorso intellettivo; per
offrire la completa dimostrazione che la nobiltà non è quella del
sangue, bensì dell'intelletto e poiché “l'esercizio di ogni
virtù presuppone la perfezione del soggetto operante, che è
appunto la nobiltà, mentre questa può essere nell'uomo senza che
ci sia operazione di virtù”[77],
è inderogabile l'abbandono del soave stile che aveva messo in
atto nel trattar d'amore, e s'impone ormai l'uso di una rima aspr'e
sottile proiezione storicamente solida che il nuovo stile sarà sottile,
e cioè acuto, ingegnoso, aspro e cioè austero, nobilmente
improntato: e sarà dunque lo stile plurigenetico ma omogeneo che nella Commedia
verrà messo in atto ogniqualvolta dovrà essere trattata una
materia d'alto sentire.
Il riflesso
dell'esperienza personale è necessario all'inizio, quasi a stabilire una
preliminare connessione tra il tempo storico delle canzoni (in un momento,
goduto in patria, di libera applicazione di pensiero, nel transito elaborativo
e sempre più teologizzante da Beatrice alla Donna Pietosa, dalla Donna
Gentile di nuovo e definitivamente a Beatrice) e il tempo della prosa, di forte
grumo concettuale perché sono anzi vissuti da un uomo che non siede a
la beata mensa, non si qualifica scienziato sic et simpliciter, ma
fruitore di scienza, e non ha alcuna possibilità d'attendere a studi
specifici poiché è portato a diversi porti e foci e lidi dal
vento secco che vapora la dolorosa povertade, è costretto a
raccogliere le briciole del convito dei dotti dato che altro le circostanze non
possono consentirgli che chiosare le quattordici canzoni sì d'amor
come di vertù materiate (Conv., I, i, 14).
Se dunque avanza
un'eccezione alla norma per cui parlare alcuno di se medesimo pare non
licito (Conv., I, ii,
2), è per giustificare due motivi personali che ha dovuto addurre, ed
entrambi evinti da quelle cagioni di fuori da l'uomo, estranee alla
volontà del filosofo-poeta che pur vorrebbe aver possibilità di
“tempo libero” e di libertà di movimenti, indispensabili all'uomo di
scienza, mentre egli, Dante Alighieri, esule fiorentino, è insidiato
dalle preminenti esigenze del vivere sociale, la cura familiare e civile
di cui in Conv., I, i, 4
(in concreto gli obblighi cancellereschi e secretariali ora presso un signore,
ora presso un altro; non già il ricordo, sempre più lontanante,
dei doveri politici in Firenze), ed è inoltre impedito nel libero
esercizio degli studi dai luoghi in cui è costretto a vivere (dove la
persona è nata e al caso ora è nutrita), da Verona
alla Lunigiana, capitali politiche ma non centri di studio, città remote
dalle Università, da ogni Studio ma anche da gente studiosa
lontano; da qual passo, per quanto lo scrittore s'affanni a considerare una
simile possibilità degna di biasimo e d'abominazione, è
agevole dedurre la solitudine di Dante intellettuale nelle prime città
dell'esilio, l'impossibilità di comunicare ad alcuno alcunché dei
suoi interrogativi e fabbisogni culturali (forse soltanto a Ravenna e all'epoca
del Paradiso Dante avrà il privilegio di vivere in un consorzio
di agguerrita vivacità intellettuale soprattutto nell'arte di spezzare e
manucare lo pane de li angeli; e in quest'arte sono ormai istrutti anche
i figli). Tuttavia egli avverte anche il pregio estremo della solitudine in
quanto l'eccessivo commercio con gli uomini non è causa di maggiore
perfezionamento interiore, così come vuol rimproverarsi che per ragioni
indipendenti dalla sua volontà è apparito a li occhi a
molti in modo da far sembrare la propria persona inferiore alla fama (Conv.,
I, iii, 5, e cfr. poi I, iv, 2 sgg.): Ahi, piaciuto fosse al
dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata!
ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria
pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate, I, iii, 3.
Il passo celeberrimo
raffigura con virulenza amara i ricordi del recente bando, i quali, per quanto
feriscano l'animo del poeta, non si mescolano ad alcun atteggiamento di voluta
rottura coi governanti. Tra il I libro del Convivio e i primi canti
dell'Inferno c'è veramente un salto, che poco si giustifica coi
due o tre anni di distanza tra le due scritture, e meglio trova ragione
nell'atteggiamento palesemente polemico degli anni di revisione della prima
cantica: 1313-1314. Firenze è ancora la bellissima e famosissima
figlia di Roma, e al dolce seno della patria non sono vaticinate
sciagure, né sono vituperati come degenerati e corrotti i suoi
cittadini. V'è soltanto l'autoritratto d'un uomo infelice, perseguitato
dall'avversa fortuna. Bene a questo proposito e a questo momento della vita di
Dante si possono attribuire le parole con cui il Bruni toccò
dell'atteggiamento speranzoso, cauto, rispettoso del poeta, il quale s'era
ridotto “tutto umiltà, cercando con buone opere e con buoni portamenti
racquistar la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea revocazione di
chi reggeva la terra”[78]; tristezza,
nostalgia, anche disperazione dunque, in quegli anni, non ira ed esecrazione.
Soltanto in Conv., IV, xxvii,
2 (evidentemente in qualche mese l'atteggiamento verso Firenze s'è
andato modificando, e ne era già stata prova in II, xiii, 22 l'ambiguo riferimento alla
cometa apparsa in Firenze nel principio de la sua destruzione, il 6
novembre del 1301, pochi giorni dopo il fatale arrivo in città di Carlo
di Valois) alla malinconia del primo libro e al tragico senso di disperazione
del secondo s'aggiungono accoratezza, inquieta preoccupazione e pietà
dei dolori di Firenze, accalorata invocazione di giustizia, ma non biasimo
virulento e dura apostrofe: Oh misera, misera patria mia! quanta
pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa
che a reggimento civile abbia rispetto! E siamo alla vigilia
dell'interrompimento del Convivio, quando ben poco tempo dovrebbe
intercorrere dalle invettive di Ciacco:
La tua
città, ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena…
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi.
Le immediatezze del Convivio
sono altre, anche, e in direzione diversa: il sarcasmo contro Alboino della
Scala, dalla cui signoria s'era staccato con disdegno pochi mesi prima (che
è sarcasmo “a caldo”, da porre a raffronto con quello lanciato con
altrettale immediatezza nel De vulgari eloquentia contro il secondo
Totila, Carlo di Valois); lo strale, indiretto ma non meno eloquente, contro i signori
di sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono (Conv.,
I, vi, 3; nessun suo ospite, in
particolare, ma in piccola parte tutti costoro); il costante ricordo, accanto
al simbolo, degli anni in cui la sua vita non era vedovata dal trapassamento
di quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli e in terra con la mia
anima (II, ii, 1), e dei
successivi, intensamente applicati allo studio della filosofia sino a riuscire a
sentire de la sua dolcezza (ivi, xii,
7); tante notti di sacrificio (III, i,
3, Oh quante notti furono, che li occhi de l'altre persone chiusi dormendo
si posavano, che li miei ne lo abitaculo del mio amore fisamente miravano!)
sino a debilitare la vista così che le stelle mi pareano tutte
d'alcuno albore ombrate, III, ix,
15; lo sprezzante giudizio sui successori di Federico II, ultimo imperatore
de li Romani — ultimo dico per rispetto al tempo presente, IV, iii, 6[79];
l'addolorata consapevolezza delle tristi condizioni italiane, misera Italia,
che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!, IV, ix, 10, e pur era destinata ad esser
sede dell'Impero (i signori elogiati in IV, xi,
14, son tutti d'azione cento-duecentesca, sino a Galasso di Montefeltro che per
l'appunto muore nel 1300; si spingono agli anni del Convivio i soli
Gherardo da Camino e Guido da Castello); la notazione ancora favorevole per il nobilissimo
nostro latino Guido montefeltrano (IV, xxviii,
8), e gli accenni a personaggi viventi o a casate ancora preminenti, il
prefetto Manfredi da Vico, i Sannazzaro, i Piscitelli: poche aperture sulle
vicissitudini che in quegli anni angustiavano il poeta, ma sufficienti a
proclamare che le eccezioni all'imperturbabilità del lavoro
intellettuale (cui ci si riferiva poc'anzi) aprono verso un mondo non soltanto
vario e complesso, ma differente per zone e ambiti politico-sociali difficili,
ricchi di conflitti e d'amarezze, che non possono non riflettersi, in diversa
misura, sul poeta, il quale “sente” da per sé solo, ma “sente” anche
quello che era l'animus della gente “media” e del popolo per le infinite
lotte che insanguinano l'Europa e il giardin de lo imperio.
Per por rimedio ad
esse è necessario un nuovo messaggio di pace e di giustizia, e questo
non può essere espresso nella fitta arida trattatistica d'un'opera come
il Convivio; ci vuole una nuova poesìa, un nuovo modo di
poetare (la scoperta della terzina, martellante metro, rispetto ai tempi lenti
della canzone o alla brevità del sonetto), l'inserimento di queste
tematiche in un disegno affatto nuovo o comunque non ancora sollevato a vetta
d'ispirazione letteraria. Lo spazio bianco che intercorre tra il commiato di Le
dolci rime e i primi versi dell'Inferno, così nuovi,
così imprevedibili ove si consideri lo status delle lettere
italiane ai primi del Trecento, è coperto dalla ripresa del giovanile
progetto della mirabile visione, dal fulmineo intuito d'un nuovo
linguaggio, dalla percezione di un grandioso disegno strutturale (così
grandioso eppur così velocemente concepito). Una grandiosa rivoluzione
poetico-letteraria irrompe con le prime terzine dell'Inferno. La svolta
che ha la nostra letteratura è radicale, puntante verso l'alto tutte le
motivazioni filosofiche del Convivio. Veramente tutto andava abbandonato
per dedicarsi alla comedìa. Almeno per vari anni, ché poi
l'andamento regolare della composizione, l'habitus culturale indotto, l'usus
quasi normale del flusso della ispirazione, potrà consentire anche
qualche momento d'interruzione.
Lo vedremo.
Sarà il momento della Monarchia. Sarà il momento delle Egloghe
o della Questio. Non tanto il momento delle Epistole,
giacché esse non contrassegneranno l'interrompersi del lavoro attorno
alla Commedia, anzi l'accompagnano, ne sono illustrate e lo illustrano:
è la corrispondenza d'un intellettuale che non si arresta più
dinanzi a nessuna difficoltà, e che le proprie opere, quella immensa
della Commedia e quella relativamente modesta della Questio, le
reca tutte a conclusione, e le Epistole le marca tutte a fuoco con l'impressione
veemente del proprio temperamento, con l'accumulo duro eppur profondo delle
proprie occasioni del vivere.
XII
PRESENZA DELL'“INFERNO”
Si sono accennati e
si riprenderanno tra breve i problemi relativi alla vita del poeta in
connessione col momento e con i luoghi in cui venne composto l'Inferno.
Per motivi di discorso più appropriato non s'è voluto scindere
l'interrogativo intorno alla data di concezione della prima cantica dal
resoconto sulle vicissitudini dell'esule. Sappiamo bene che c'è il
rischio, se questa fosse l'unica strada praticata, di “leggere” l'Inferno
dall'esterno, di rifiutarsi di indagare le cause interiori della sua genesi o
rendersi conto soltanto di quelle prettamente retoriche, stilistiche,
filosofiche: la scelta di uno schema escatologico che trovava precedenti
illustri nell'Eneide e nelle Sacre Scritture, soprattutto in san Paolo e
nell'Apocalisse, più che nei poemi duecenteschi; la scelta d'uno stile
“mezzano” che è pronto a rendersi permeabile alle altezze dello stile
tragico e alle bassure di quello elegiaco; l'adozione d'un disegno
aristotelico-tolemaico delle colpe e della loro suddivisione. Ma anche questi
punti dell'ottica di lettura dell'Inferno vanno enunciati e spiegati, se
non altro per completezza d'informazione, da poi che è assai difficile
in questi settori riuscire ad esprimere un qualche barlume di cosa nuova.
Il germe, l'abbiam
già detto e più d'una volta, è nel proposito enunciato al
termine della Vita Nuova, di dedicare alla vicenda dell'amore di
Beatrice e della situazione morale del poeta dopo la morte della gentilissima
una più degna sede letteraria, collegata alla “mirabile visione”. Nel
germe c'era appena l'idea di una “seconda” Vita Nuova, forse d'un
poemetto allegorico, ma a poco a poco, nel mentre il poeta attende ad altre
iniziative anche nel settore pratico, s'allarga, si consolida, si fissa in un
grande poema che consentisse non già in un sogno terreno (cosa non
impossibile, epperò inutile fantasticheria), ma nell'aldilà di
una “mirabile visione” di incontrare di nuovo Beatrice, di riprendere il
dialogo spirituale e amoroso interrotto dalla precoce dipartita di lei. Forse
(e sottolineando questo “forse”) in origine si dovè trattare soltanto
d'una visione paradisiaca, d'una visio beatifica della donna
beatificante. Ma la gran somma di esperienze umane fatte dal poeta sconsigliava
soltanto un “trionfo” dell'Amore e della Eternità, dove non avrebbero
potuto trovar posto, o allogarsi troppo di stretto, tutte quelle esperienze di
vita reale: politica, morale, sociale, pubblica e privata, fiorentina e
toscana, italiana ed europea. Prende corpo in luogo d'una visio
paradisiaca una visio generale dello status animarum post mortem;
così Dante non veniva meno al suo compito, ma lo integrava con una gran
copia di fatti e personaggi che difficilmente erano collegabili alla vicenda
della loda di Beatrice, e s'immergeva nella realtà contemporanea,
non in quella sempre più remota del 1290.
Il viaggio d'uno
spirito vivente nell'aldilà non era estraneo alla cultura medievale, e
probabilmente Dante nel tracciare le linee generali del suo poema si rendeva
conto che non poteva evitare il confronto con la Visio sancti Pauli, con
la Navigatio sancti Brandani, con la Visio Alberici ovvero con la
Visio Tungdali, col Purgatorio di san Patrizio o con i poemi di
Giacomino Veronese e di Bonvesin da la Riva o col Libro de' Vizi e delle
Virtudi, se si vuole anche con un'opera musulmana, il Libro della Scala,
tradotto dall'arabo in castigliano per ordine di re Alfonso. Dato e non
concesso che l'Alighieri conoscesse tutta questa letteratura escatologica
(ritengo che ne avesse letto soltanto qualche campione, ma molti anni prima, sì
che gliene era rimasta un'impressione piuttosto generica), certo si è
che egli ha voluto fare un'opera totalmente nuova, e per ampiezza di
costruzione e soprattutto per completezza, giacché tutti i luoghi di
tutti i regni dell'oltretomba cristiano dovevano essere oggetto della visita
del personaggio-viator, dello studio analitico del poeta-profeta della
rigenerazione dell'umanità. Tutta quella letteratura escatologica,
comunque sia, andava riordinata secondo schemi più organici e sicuri,
staccando il rapporto terra-aldilà, supponendo sin dall'inizio che il
protagonista fosse immerso in una visio in somniis, deducendo gli
scomparti dalla tradizione filosofica dell'aristotelismo diretto o mediato
attraverso la Scuola, scoprendo un rapporto immediato tra i segmenti della
struttura e i personaggi da far emergere dalla propria memoria. Le
affinità, quelle poche che ci sono, con i poemi duecenteschi, integrate
dalla conoscenza di rappresentazioni delle arti figurative, arricchite da un
confronto diretto coi classici, possono al massimo aver dato qualche porzione
d'immagine o fatto emergere qualche cosa letta; non di più. Le due vere
“fonti” del poema sono l'Eneide, quale costante ricordo d'una grande
esperienza letteraria di descrizione di una discesa agli Inferi, e la Bibbia,
come somma di visioni profetiche annunciate nel Vecchio, vissute nel Nuovo
Testamento, e come grande costruzione mistico-visionaria. Un sacrum
commercium s'instaura tra Virgilio e san Giovanni Evangelista, tra altri auctores
classici e san Paolo o i Padri o i mistici della tradizione benedettina o di
quella francescana. Questi grandi libri erano del tutto ignoti agli indotti
autori di poemi o poemetti duecenteschi, o ne avevano una pallidissima idea, e
così per la Etica nicomachea e la Retorica di Aristotele,
per il De Officiis di Cicerone, per tutto il patrimonio morale insito in
Virgilio e in Stazio, in Agostino e Bernardo, in Alberto Magno o Bonaventura o
Tommaso.
Pare opportuno far
ritornare alla nostra memoria qualche esempio: l'idea di collocare il Paradiso
terrestre sopra la cima d'un alto monte era già presente in scritti di
Padri della Chiesa orientale, e così san Bonaventura aveva situato il
Paradiso in un'atmosfera pura, e la struttura dell'oltretomba risponde ai tre gradi
conoscitivi elaborati da san Tommaso. Questo per ciò che riguarda
situazioni della seconda e della terza cantica; il sito dell'Inferno appare
più vicino, invece, alla concezione classica, secondo lo schema
aristotelico-tolemaico delle colpe. Tuttavia si tratta di elementi accessori,
ché tutta la topografia e geografica e morale dell'oltretomba è
sottoposta ad una profonda revisione, sia per quel che concerne il vario
paesaggio, sia per l'animazione d'esso attraverso simboli e figure di
trapassati.
Insomma il discorso sulle
“fonti” della Commedia finisce per ritornare alla potenza creativa del
suo autore, il quale utilizza episodi della mitologia classica in forma
estremamente libera, situandoli nell'aldilà (così la selva
popolata dalle Arpie, la diversa collocazione dei fiumi infernali,
l'utilizzazione ad esempio del Letè e dell'Eunoè). Altrettanto
dicasi per la figura dell'inferno come un'immensa voragine conica a forma di
gigantesco anfiteatro, aperto nell'emisfero boreale sino al centro della terra,
con un asse verticale che unisce Gerusalemme al centro del globo; se l'ingresso
è situato nelle vicinanze della città santa, l'inferno è
all'interno d'una sfera, la terra, immobile al centro dell'universo.
L'anfiteatro
infernale è diviso in nove cerchi concentrici, ma di circonferenza
sempre più stretta sino a scendere nel pianoro circolare dov'è
confitto Lucifero; con lo stringersi della circonferenza e il passaggio da un
cerchio all'altro, s'aggrava la colpa, che ha tre suddivisioni fondamentali,
rispondenti a tre male disposizioni: l'incontinenza, la bestialità e la
malizia. Dopo il primo cerchio, occupato dal Limbo, dal secondo al quinto
cerchio trovano collocazione i dannati per incontinenza, cioè coloro che
non hanno saputo frenare gli istinti naturali dell'uomo: lussuriosi, golosi,
avari e prodighi, iracondi e accidiosi. La seconda grande sezione infernale va
dal sesto al settimo cerchio, dagli eretici ai violenti (divisi questi in tre
gironi: omicidi e predoni, suicidi e scialacquatori, bestiemmiatori sodomiti e
usurai). La malizia, cioè la frode, è rappresentata nell'ottavo
cerchio (frodolenti contro chi non si fida, collocati in dieci borse o “bolge”,
per l'appunto le Malebolge) e nel nono cerchio (frodolenti in chi si fida:
traditori dei congiunti, della patria, degli ospiti e della Chiesa e
dell'Impero).
Come si vede lo
schema aristotelico è adoprato con grande libertà, ed esistono,
né poteva avvenire altrimenti, peccati non contemplati da Aristotele,
come ad esempio quello di eresia; ma, quel che più importa, ristrutturato
secondo una originale creazione poetico-narrativa che s'insinua nella linea
centrale del poema: il viaggio d'un uomo vivente dal peccato alla redenzione,
assetato di sapere, indotto dai simboli infernali a riflettere sulle proprie
colpe: dai simboli e dagl'incontri con personaggi storici antichi e
contemporanei.
Anche di recente[80]
è stato riesaminato il problema della rilevanza che ha per Dante la
cultura dei due Ordini Mendicanti, e quanto del francescanesimo da un lato,
dall'altro della cultura domenicana sia penetrato nella tessitura della Commedia,
prima nella struttura del Convivio:
i
principî fondamentali dell'ideologia domenicana — pace ordine gerarchia charitas
— saranno anche quelli di Dante. La stessa idea di un intellettuale consigliere
del principe e mediatore del sapere e del consenso, come è espressa nel De
Vulgari eloquentia e nel Convivio, trova un corrispettivo nella
teoria e nella prassi conventuale[81].
ed è osservazione condivisibile a condizione che non
si obliino altri “vettori” fondamentali dell'esperienza dantesca: tra i quali
sono preminenti la tradizione dei classici, l'esigenza di uniformarsi alla voce
degli antichi e dei Padri, e accanto ad essa, in un rilievo tutto da
ridefinire, l'importanza della cultura benedettina e di quella agostiniana,
evidenti nell'apparato della mistica della Commedia la prima,
nell'escavo di sé, nella ricerca delle proprie stesse ragioni
dell'essere cristiano, la seconda. Ma è certo che la presenza della
cultura domenicana investe in maggior copia di situazioni l'apparato filosofico
dell'Alighieri, e la spiritualità francescana alcuni temi centrali della
Commedia: l'ansia di purezza, il ripudio dei beni terreni, i sentimenti
di carità e di povertà, mentre gli altri due cardini del
messaggio di san Francesco d'Assisi (dalla Regula non bullata al Testamentum:
testi che indubbiamente Dante conosceva, e bene), cioè l'umiltà e
l'obbedienza, la “sacra obbedienza”, sembrano se non estranei, poco consentanei
al temperamento di Dante. Cosicché la distinzione operata dal Bologna[82] è altrettanto
condivisibile:
Soprattutto,
per i frati che optano con lucidità di metodo per il sermo planus e
maternus, la Commedia dantesca brilla come il maggior faro
etico-letterario non solo dell'età moderna. A differenza dell'ordine
domenicano, che in Dante intuì forse il più massiccio ostacolo
alla sua ipotesi d'una cultura integralmente religiosa, quello francescano
dedicò al monumento poetico dell'età nuova una mai interrotta
venerazione, in esso probabilmente individuando il supremo, laicissimo ma
teologicamente solidale, tentativo di una reductio quasi-bonaventuriana
del sapere alla via mistico-speculativa, che oltretutto l'etica municipale
della Commedia innestava con maggiore omogeneità nell'esito
urbano del francescanesimo.
Sono, per concludere,
istanze più che valide, a condizione che non restino isolate in un
più generale contesto d'esame dell'intera zona d'influenza della Commedia,
contemporaneamente operante su più fronti, sovente in modo
rivoluzionario, e al tempo stesso nascente da una gran copia di scaturigini
politiche e dottrinarie.
Per la struttura
dell'Inferno è opportuno intendere bene quelle che sono le due
linee conduttrici dell'intero poema: l'itinerario ascetico-morale e quello
stilistico-linguistico, da individuare all'interno di un organismo compatto,
particolarmente ed eccezionalmente solido quale è la Commedia. Ma
altre correnti di sviluppo perseguono i due indiscutibili propositi di
perfezionamento, dell'uomo di fede e del letterato, e contribuiscono a rendere
più ricca la compagine del poema: dalla politica alla cronaca
contemporanea, dal rapporto coi classici latini alla esperienza teologica, dal
percorso del protagonista redimibile a quello di altri viandanti (Virgilio, poi
Stazio, poi Beatrice e san Bernardo) o personaggi stanti, da Ciacco a Farinata,
da Brunetto a Ulisse e Ugolino, da Manfredi a Forese, da Piccarda a Carlo
Martello, in una galleria veramente infinita di uomini diversissimi, di cose
antiche e moderne, di esperienze d'orrore e di gaudio, di sofferenza e di
cristiana letizia. La Commedia da questo angolo visuale appare non un
monumento immobile, ma un'opera in continuo movimento, un'opera che perfeziona
e sviluppa se stessa di canto in canto.
Sarebbe sufficiente
considerare la varietà del colorito linguistico, in un'alternanza di
zone di chiaro impegno letterario “illustre” a momenti di forte afrore “comico”
e di passaggi flagrantemente “elegiaci”, scurrili, violentemente trivializzati,
con scelte peculiarmente demotiche, senza che la tenuta stilistica generale ne
abbia mai a soffrire, ma contribuendo a creare un assieme ricchissimo di
prospettive di scrittura come anche di angolazione etica, in cui il
protagonista non sta immobile, ma migliora sé di momento in momento,
passa dalle esperienze più aspre al supremo momento della triplice
visione della Divinità, in un'alternanza di toni e timbri che non ha
l'eguale nella letteratura del Medioevo: donde il carattere dirompente,
culturalmente, della “divina” Commedia, un'opera che apparve subito ai
contemporanei come tutto affatto fuori della norma, una straordinaria summa
del sapere. Gli itinerari della Commedia si muovono in un comune
tracciato, nonostante la varietà delle situazioni, le differenze
sostanziali, ad es. a pochi canti di distanza, tra una Francesca e un Farinata:
due mondi che sembrano quasi opposti, comunque ad una prima impressione
diversissimi, ma restituiti all'unicum proprio dalla presenza di
Dante-personaggio, il quale espia due peccati diversi, nel primo caso quello
della lussuria, nel secondo l'eresia, e quindi unifica zone remote,
apparentemente remote, di modo che tutti gli aspetti della vita morale vengono
chiamati in causa, tutta la problematica filosofica (nel primo caso la
concezione dell'Amore, nel secondo l'errore ideologico) è in costante
presa con gli argomenti trattati, e unitario si ridisegna lo schema
esemplificativo: il viaggio nell'oltretomba cristiano, viaggio che costringe e
impegna assiduamente il poeta a tendere con straordinaria fermezza all'Uno,
richiamato di volta in volta sotto differenti motivazioni, ma sempre
richiamato, sempre il fine fondamentale del poema.
Nella
impossibilità di operare una netta distinzione tra allegorie e simboli,
occorre assegnare piuttosto la costruzione allegorica al complesso della
struttura dell'Inferno e la presenza dei simboli alla singola
individuazione di personaggi portatori di simbologie particolari, il tutto in
stretto rapporto con l'idea centrale del poema come viaggio d'un'anima che si
stava perdendo e riesce a salvarsi e a fruire della visione della
Divinità. Il testo poetico, ce lo spiega lo stesso Dante all'inizio del
secondo trattato del Convivio, va interpretato secondo quattro sensi: il
primo è il senso letterale: la lettera precisa che ogni singola
invenzione proclama; il secondo è il senso allegorico, nascosto dietro
la fabula, al pari di come sotto la “bella menzogna” si cela la
Verità; il terzo è il senso morale, che viene ad essere definito
e compreso secondo la propria utilità; il quarto è il senso
anagogico o “sovrasenso”, l'esplicazione spirituale di un testo che è
strutturato in funzione della salvezza dell'anima e della beatitudine celeste.
Sotto questa quadruplice interpretazione del testo cadono non soltanto le Sacre
Scritture, ma anche i classici pagani, in particolare l'Eneide di
Virgilio, il cui messaggio poetico è spiegato in tutti e quattro i modi,
e persino i differenti miti pagani, quelli ad esempio descritti da Ovidio nelle
Metamorfosi, tutti suscettibili di valenza allegorica in senso di
preannuncio di fatti dell'era cristiana. Naturalmente è soprattutto
sulla Bibbia che si svolge l'explicatio dantesca, e in essa emerge, per
profondità di annunci e di riferimenti simbolici, l'Apocalisse di
san Giovanni.
Alla luce di questa
interpretazione tutti i simboli della Commedia trovano la loro
collocazione esatta nel contesto di quel grande messaggio profetico e
visionario che il poema sacro vuol essere, vera e propria nuova Bibbia
per gli uomini nuovi della presente e della futura generazione, e l'apparato
simbolico cresce col procedere del viaggio escatologico, per infittirsi nel Paradiso,
ove non è immessa un'interpretazione quasi esclusivamente filosofica,
qual è quella del Convivio e dell'Inferno, ma una sia
teologica che filosofica, presente negli ultimi canti del Purgatorio e
dispiegantesi per tutti i cieli della terza cantica. Nell'Inferno resta
centrale la figura del Messo celeste, giunto a dischiudere la porta della
città di Dite a Dante e a Virgilio, ma un notevole significato è
espresso anche dal Veglio di Creta, la cui spiegazione deve essere posta in
raffronto con la soluzione che nella Bibbia Daniele dà del sogno di
Nabucodonosor: il preannuncio della fine degli Imperi terrestri. Strumento per
la predicazione e l'attuazione della palingenesi è il Veltro, figura non
soltanto biblica ma strettamente connessa a significati attuali, offerti dalla
situazione etico-politica contingente, quella dell'età di Dante. Altre
simbologie, di carattere più particolare, vengono offerte dai diavoli,
ciascheduno dei quali riconducibile ad una complessa chiave di lettura cui la
demonologia offre spunti descrittivi e parziali spiegazioni.
Per comprendere le
invenzioni demoniache non è sufficiente far ricorso alla ricerca
medievale e perciò dantesca di trovare un'unità o un'analogia tra
la cultura classica e quella cristiana, poiché proprio nel campo della
demonologia tali affinità creerebbero incognite non facilmente
risolvibili. Gli scrittori cristiani erano convinti che le potenze del male, le
forze demoniache erano state giustamente intese come tali dai classici, anche
se essi, prima della Rivelazione, non erano in grado che di fornirne
rappresentazioni letterarie. Ha ben detto il Padoan che
per
il cristiano il demonio si caratterizza anzitutto come forza violenta e
bestiale che agisce nel bruto istinto della distruzione e che assume forme in
una mescolanza mostruosa di figura umana e figura animalesca.
Per rappresentare il
mondo infernale Dante non poteva eliminare le rappresentazioni letterarie della
classicità, e anche le divinità non infernali, i personaggi della
mitologia, dovevano essere immessi nel circolo; donde la sua scelta di affidare
a personaggi mitologici il compito di custodi dei cerchi, e ad alcuni d'essi
compiti anche più rilevanti nell'allegoria del viaggio escatologico.
Considerevole è l'esempio di Gerione, che anche nella letteratura
classica era collegato a miti infernali, e Virgilio l'aveva collocato tra i
mostri posti a custodia dell'Averno, “forma tricorporis umbrae” (Eneide,
VI, 289). Il servizio che il mostro rende ai due poeti, facendoli discendere a
volo dal settimo all'ottavo cerchio, è lungamente descritto, da quando
su invito di Virgilio Dante si scioglie d'una corda di cui era cinto e la porge
al maestro che la protende in un profondo burrato, all'attesa di un misterioso
evento, all'apparizione del mostro orrendo, al volo spaventevole, all'approdo.
La descrizione, di forte densità realistica, è tutta svolta in
chiave simbolica: il significato della corda, il modo irripetibile del
traghettamento aereo, i connotati del mostro, figura della tentazione e della
frode onnipresenti (Gerione ammorba tutto il mondo), ecc. Il che serve ai
nostri fini a presentare un caso, fra i tanti, in cui non viene presentata una
sola allegoria, ma l'episodio racchiude in sé simboli diversi eppur
convergenti in un'unica struttura narrativa che tutti li prospetta nel clima
arcano dei sovrasensi e nel rapporto tra di essi e la lettera, e che ha una sua
facciata esterna, avventurosa e romanzesca, tra le più “incredibili” e
perciò più insegnative dell'Inferno.
L'insegnamento che
l'episodio impartisce a Dante, non viene dalla viva parola d'un dannato ma dall'evidente
concentrazione di tutti i simboli, in un caso narrativo in cui tra il
personaggio Dante e il personaggio Gerione non viene a crearsi nessun rapporto,
anzi il poeta prova repugnanza anche per il contatto fisico col mostro; al fine
di evidenziare l'estraneità del protagonista, il ripudio totale della
frode, la più grave delle offese che possano essere rivolte a Dio, e
anche la più composita (le dieci bolge, la quadripartizione di Cocito),
tesa a ingannare l'uomo in forme molteplici, e dinanzi alla quale la ragione,
che è Virgilio, ha modo di costruire un sistema di protezione e persino
di utilizzazione, a fin di bene, per lo spaurito alunno.
Tutti i motivi dell'animus
cristiano di Dante andranno scorti e apprezzati nella rigorosa assunzione d'ogni
fermento umano, d'ogni reazione emotiva, d'ogni status psicologico,
d'ogni impulso morale in un ritmo spirituale che tutti li comprende e li
colorisce, ed è per l'appunto la perfetta fusione del movimento di
purificazione ascetica e dell'iter mistico, immersi in un ardente
crogiuolo di passioni terrene, politiche, personali. Le profezie post factum
cui dianzi alludevamo, servono a rendere ancor più incandescente e
attualizzante il magma politico, a rendere più spontaneo lo sfogo
passionale; esse sono irregolarmente disposte in varie parti dell'opera, non
più nell'Inferno che nelle altre cantiche: onde più
efficace risulterà, all'indagine del fatto poetico, la schietta vivezza
della reiezione morale e della provocazione politica. Il poeta si affida
felicemente alle sorprese del viaggio, alla casualità degli incontri:
è il viator nell'oltretomba cristiano che reca con sé
tutto il bagaglio delle proprie quotidiane esperienze d'uomo di parte e di
battaglia; è l'asceta che non mortifica in sé una nozione astratta
di peccato, ma un peccato concreto, personalizzato e “visualizzato” nei singoli
personaggi che incontra: conosciuti o sconosciuti (Ciacco o Francesca), antichi
o moderni (Ulisse o Farinata), venerati o esecrati (Brunetto Latini o Filippo
Argenti), oggetti d'odio, di pietà (o pièta),
d'ammirazione, di biasimo, di curiosità, di sdegno, d'attrazione, di
ripulsa.
Ma questo “viaggio di
un'anima”, ci si chiede, è un'invenzione letteraria o una profondissima
istanza dello spirito? Gli studiosi di Dante si sono interrogati se la Commedia
sia una vera e propria visio in somniis o una mera finzione poetica.
L'interpretazione del poema come verace visio mystica fu particolarmente
apprezzata dagli antichi esegeti, e, ritenuta valida anche dal Foscolo,
è stata ripresa anche in tempi recenti (ad es. da Bruno Nardi): la Commedia
fu sentita come
vera
visione profetica, apparsa [a Dante] dopo le accese meditazioni sull'Eneide
e sulle visioni profetiche e apocalittiche della Bibbia […] E se visioni e
rivelazioni ebbero S. Francesco e i suoi compagni, perché non poteva
averne Dante? Né d'altra parte, è necessario che il lettore
moderno pensi e creda quel che Dante ha pensato e creduto della sua vicenda,
bensì che egli intenda e giustifichi storicamente quel modo di pensare e
di sentire, senza ritenerlo demenza
(ha scritto, per l'appunto, il Nardi)[83]. Ma oggi si tende a
valutare la Commedia soltanto come fictio poetica, la quale
trovava i precedenti nelle “finzioni” dell'Eneide e faceva coincidere le
res dell'escatologia con i verba della narrazione letteraria:
poema letterario, dunque, sebbene d'argomento mistico, non resoconto d'un vero raptus
mistico, d'un sogno, concepito con la consapevolezza di dar vita ad una fictio
poetica.
Il “viaggio di
un'anima”, quantunque opera d'un letterato, deve essere avvolto nelle ambagi di
un allegorismo fitto, in parte arcano, sempre presente in ogni episodio e
personaggio del poema. L'allegoria è elemento inscindibile della
creazione letteraria.
Perché
ciò avvenga sono necessari vari percorsi d'indole narrativa, risolti per
lo più con la straordinaria invenzione di crescite e susseguenti
attenuazioni dell'io narrante, cioè l'io parlante che sente,
anche quando non conversa con Virgilio o con le ombre se non in forma meramente
didascalica e indiretta, di una retorica “inversa”, nel mentre che l'io
audiente e vedente è continuamente sollecitato e anzi sconvolto da
una serie di particolari fonici e visivi. La rappresentazione muove sovente
dall'apparato scenico del fantastico per insinuarsi in un simbolismo
anfibologico, il quale integra il paesaggio (d'ispirazione diretta o d'eco
virgiliana o classica in genere, qualche volta d'ascendenza scritturale) con
una ricca messe di figure allegoriche e con copia d'esemplificazione sulla
nascita dello speech, non tanto il linguaggio in sé quanto la produzione
del linguaggio.
Gli episodi si
collocano in una temperie che è diversa: ora contingente, legata
propriamente ad una esperienza dantesca del passato, ora misterico-profetica;
in entrambi i casi si dilata in svolgimenti eminentemente narrativi e al tempo
medesimo d'esperienza religiosa dei fatti, in una nuova lettura delle cose
sulla base delle esigenze del canticum novum, per immergersi nei
chiaroscuri delle scene tragiche con l'attenzione ben desta a cogliere, di
volta in volta, la qualità dell'impegno dantesco inteso a congiungere
storia politica e storia culturale, due storie entrambe centrali per il
richiamo che proviene all'intelletto del poeta dalla esemplarità della
singola individualità rappresentata, esemplare se modesto personaggio o
eroe del mondo antico (Ciacco o Ulisse), se personalità politica
(Farinata, Ugolino, i tre cavalieri fiorentini) o letteraria (Brunetto Latini)
o del mondo aristocratico femminile (Francesca da Polenta), ovvero congiungente
due dei vari mondi in uno, per lo più quello politico e quello
culturale: Brunetto e Pier delle Vigne, con conseguenze d'alto livello
retorico. Questo livello produce ora strette possenti di scorci narrativi,
dialogati ora veementi ora effusi, contatti linguistici diversi, differenti
modi di partecipazione del viator inseriti in una sorta di grandioso
iperbato della costruzione generale del poema oppure della cantica ovvero del
canto, con tensioni crescenti verso l'ultima parte del singolo episodio,
nell'incalzare inevitabile della catastrofe, per esempio, e sono esempi
massimi, nella zona terminale del racconto di Francesca e di quello di Ugolino,
centrati nei finali così come Ulisse, così come (poniamo per un
momento tra i personaggi del poema) l'io narrante Dante, che stringe il
ritmo del racconto sul finire d'un canto o lo rallenta in piane ma non meno
seducenti chiuse didascaliche, quando non riesce a produrre serie di
rallentamenti e di spezzature più volte all'interno del singolo
episodio. Si veda il caso esemplare del canto dei papi simoniaci, ritmato sugli
incipit grandiosi, sugli attacchi del dialogato.
In ogni evenienza del
racconto, e ciò vale anche per il Purgatorio e il Paradiso,
l'apparecchio profetico è sempre disposto senza alcuna casualità,
secondo un disegno che vede sempre più impegnato il visionarismo
dantesco nel procedere del viaggio escatologico. La Commedia come
profezia lanciata agli uomini di buona volontà si disvela anche in
episodi che nulla di esplicitamente profetico sembrano manifestare, rispetto ad
altri momenti dove vige una profezia in atto, sia riguardante la vita di Dante
(da Ciacco e Farinata a Cacciaguida), sia la problematica spirituale d'ordine
generico: la linea d'un profetismo funzionale alla missione del nuovo Enea e
nuovo san Paolo, iniziantesi col Veltro e procedente sino agli ultimi canti del
Paradiso, ove a figure simboliche si sostituisce lo stesso Dante, egli
profeta d'una nuova rigenerazione dell'umanità. L'assenza d'astrattezza
in questa linea di profetismo è riguadagnata continuamente col ricorso
alle vicende personali, non perché egli intende proporsi ad esemplare,
ma in quanto ha avvertito d'esser stato soggetto d'una particolare rivelazione:
e dunque le vicende personali sono quelle dell'uomo futuro rispetto ai giorni
della Settimana santa del 1300, non riferibili ad un passato mai obliato ma mai
collocato sotto una luce personale. Mentre tanti fatti del decennio precedente
restano coperti da una fitta coltre allegorica, tutto ciò che si svolge
successivamente alla data del viaggio è implicitamente o esplicitamente
riferito. Non manca nessun passaggio, non manca alcun personaggio del ventennio
1300 e anni successivi, nei limiti in cui la loro collocazione è
possibile, giacché nessuno sforzo deve essere compiuto al riguardo. Sono
sottolineati le cause e gli effetti dell'esilio, i temi della terrena ingratitudine
e dell'abbandono d'ogni presenza amica (per esempio nel canto di Pier delle
Vigne), dell'inestricabile legame tra la personalità degli uomini e la
sfortuna politica. Pur variando la situazione etico-psicologica, i fatti
restano quelli che sono. Si tratterà, secondo la portata della singola
occasione, d'un incontro con un dannato e poi con un'anima purgante, infine con
un beato, di accrescere o attenuare le peculiarità dell'io parlante
che sente, dell'io audiente e vedente. Questo io può anche
esimersi dal commentare il singolo episodio quand'esso è parlante per
proprio conto e serve utilmente a congiungere storia politica con storia
culturale (Brunetto Latini) o ad accentuare l'una rispetto all'altra, in una
indefinita varietà di soluzioni tutte richiamabili all'essenza dell'io
totale, non un eroe che va a costruirsi una nuova patria (Enea), non un
prediletto da Dio chiamato ad insegnare la sua scienza (san Paolo), ma un'anima
che vuole raggiungere la patria celeste, additata come conoscibile e godibile
dai segnali ricevuti dalla fede cristiana: lungo nostos al cielo,
dunque, ma sempre attraverso un viaggio percorso per le vie della terra.
La conoscenza che il viator
Dante acquisisce dei vari tipi e forme della dannazione, non vuol rimanere pura
acquisizione del vario modo in cui l'uomo può cadere in peccato e come,
non essendosi pentito, lo sconti in eterno. Il viaggio nell'oltretomba deve
servire a Dante stesso, deve fornirgli i mezzi per poter poi ripudiare il
peccato e indicare agli altri, all'umanità intera cui la Commedia
è indirizzata, la maniera per evitarlo. La singola dannazione non ha
sviluppi interni, non diminuisce o progredisce col tempo: l'anima patisce le
pene dell'Inferno nella stessa perenne intensità; né l'incontro
che essa ha con Dante può in qualche guisa alleviare o accrescere il
modo della condanna, stabilita per l'eternità. Tuttavia (e anche in
questo è la prova della straordinaria capacità inventiva del
poeta) sul terreno narrativo i personaggi si comportano in modo diverso,
poiché il colloquio con Dante lascia qualche segno visibile sulla loro
dannazione. Il viator è in un certo modo uno strumento della
“vendetta” di Dio. Cogliendo un ramicel da un gran pruno o percotendo il
piè nel viso ad una Dante accresce la pena d'un suicida, Pier delle
Vigne, o d'un traditore, Bocca degli Abati. La notizia che Dante fornisce a
Farinata, che i Fiorentini continuano a detestare il nome di lui, fa sospirare
di sofferenza e d'amarezza il vecchio capo-ghibellino. Così nel Purgatorio
Dante è strumento della clemenza di Dio arrecando a Nino Visconti la
certezza che otterrà preghiere propiziatrici dalla figlioletta Giovanna,
e così via.
Ma non è in
ciò il significato essenziale del viaggio escatologico di Dante
nell'Inferno: conoscendo il peccato, constatando a quale dannazione esso rechi,
il poeta attua in sé il primo grado del processo ascetico, quello di
prendere nozione del male. E proprio perché, procedendo di cerchio in
cerchio dell'Inferno, il peccato si fa più grave, l'esperienza morale compiuta
dal personaggio-Dante si avvertirà sempre più aspra, l'orrore si
farà più forte ogni volta si scende d'un grado verso il centro
della voragine, maggiore sarà lo sgomento del personaggio, maggiore la
sua sorpresa, più icastico e drammatico il modo della rappresentazione letteraria.
Tutto ciò non avverrebbe se il protagonista del viaggio assistesse
soltanto ad uno spettacolo schematico e scheletrico d'uno o d'altro peccato,
trovandosi dinanzi a dannati senza nome (in qualche caso egli visita zone senza
individuare i singoli dannati, ed è felicissima variatio
narrativa); le ombre hanno una identificazione storica precisa, furono uomini e
donne del lontano passato, persino della mitologia pagana, o dell'immediato
ieri, amici o nemici toscani coi quali ha vissuto la propria giovinezza, o di
cui ha sentito parlare in quanto operarono in una generazione immediatamente
precedente la sua, o che ha dovuto fronteggiare in vita: il tremendo nemico
Bonifacio VIII. E per attualizzare la temperie umana dell'Inferno, per
vivere più intensamente quel mondo, inventa l'espediente di far
profetizzare i fatti successivi al 1300 dalle anime che incontra (i dannati non
conoscono il presente, ma hanno la prescienza del futuro).
Non v'ha dubbio che
la realtà contemporanea sia il fatto che più intensamente incide
sulla misteriosa nascita e sull'espressivo rigoglio dell'arte dantesca, sol che
si comprenda nella dicitura dei realia il complesso d'un cinquantennio
di storia pubblica soprattutto italiana. L'exemplum dell'episodio di
Francesca da Polenta non è eccezionale, dato che quella vicenda è
avvertita da Dante come un fatto non di cronaca privata, ma tale da aver
assunto i contorni d'una vicissitudine pubblica. L'elemento delle admonitiones
impresse al ductus morale del poema dà al racconto di Francesca
il respiro d'una confessione non privata, ma offerta alla pietà
di tutti i contemporanei: ed è questo fenomeno di pubblica
esemplarità che spiega la reazione, non personale ma a nome di tutti,
dello svenimento del Dante personaggio. Questa incidenza di fatti reali
è più avvertibile nell'Inferno, ma è tutt'altro che
assente nelle altre cantiche: nel Paradiso Piccarda sopravanza in
potenziale poetico Giustiniano, san Francesco è personaggio più
forte di san Benedetto, e la contemporaneità di Cacciaguida resta
funzionale al racconto dell'esilio del remoto nipote, e le vicende fiorentine
assumono il contorno della nostalgia d'un guelfo deluso e di un quasi
neo-ghibellino com'è l'io scrivente. Del resto il numero dei
personaggi contemporanei in tanto è prevalente sopra la series
degli antichi (di cui uno soltanto, Ulisse, si può dire che resti a pari
altezza dei moderni, nella sua aura fabulosa così icasticamente
attualizzata), in quanto lo scopo primario d'un'opera “comica” è di
rivolgersi a quel lettore primo-trecentesco naturaliter portato a subire
più il fascino dei fatti a lui noti, ben noti o poco noti ma sempre
richiamati dalla contemporaneità, che non l'ignoto mitico del folle
volo di Ulisse, la parola di Giustiniano, la esemplarità di Traiano,
il “caso” Rifeo.
Tuttavia le sorprese
che il poema desta al suo pubblico, non si fermano alla dicotomia
antico-moderno, ma la travalicano fornendoci fabulae ove l'antico e il
contemporaneo entrano in coniugio, producendo il rumoroso impatto della rissa
tra Mastro Adamo e Sinone (un caso che per noi può parere normale, ma
che per un lettore del Trecento produceva una sconcertante dissonanza). Questo
diverbio solo apparentemente si configura nella contemporaneità figurale
dei due dannati. È tale da costituire per Dante un problema di
“dialogato” allo stesso livello di scrittura, problema superbamente risolto con
il conio dei due “parlati” analoghi e al tempo stesso dissimili: vera
prosecuzione, con una complessità letteraria ben visibile,
dell'esperienza fatta oltre un decennio prima con la Tenzone, momento
isolato ma preparatorio di una più matura esperienza letteraria che va a
concludersi con la disputa di san Francesco col diavolo per l'anima di Guido da
Montefeltro.
In tutte e tre le
cantiche c'è un climax, ma di diversa direzione. Nel Paradiso
il vettore dello stile tragico spinge la scrittura ad una sempre maggiore
incorporeità, ad un linguaggio cui si confanno tutti gli attributi
dell'astrattismo (si osa troppo se si parla di astrattismo nel Paradiso?;
in altra sede abbiam visto che questo è possibile se ci si riferisce al
gusto dantesco per le arti figurative) e conosce sempre più impervie
mescidanze di locuzioni teologali e di fluidità narrativa “normale”,
secondo i consueti stilemi del racconto escatologico. Nel Purgatorio
tutto è in funzione di una più concreta visualizzazione
figurativa, in lenta e costante preparazione del paesaggio esemplare del
paradiso terrestre e della varia personificazione animata dei personaggi
scritturali della processione mistica. Altra cosa è la gradatio
nella prima cantica. Tutto il linguaggio si spinge verso zone più buie,
coloriture più in ombra, maggiori crudezze non già di semplici
vocaboli (ché questa rudezza di tratto è già raggiunta nei
canti delle Malebolge), ma di vicissitudini umane. Il caso del conte Ugolino
è sintomatico anche per la sua collocazione sul finire dell'Inferno,
quasi a riassumere tutta la casistica morale del primo regno in un exemplum
che più sconvolgente non potrebb'essere. Dal che si deduce che non hanno
torto quei commentatori che leggono in chiave di antropofagia l'episodio. Altro
epilogo più drammatico non poteva esser dato alla cantica di un dannato
che si è cibato in vita delle carni dei figli con un atto non
inconsapevole come Tieste, ma doppiamente cosciente rispetto a Tideo; di modo
che tutte le colpe umane cadono sul padre così infelice come
demoniacamente attratto alla maggiore violenza possibile resa in sfregio e in
accusa alla giustizia divina: responsabile politico quale e ben più di Farinata,
sacrilego verso la dolcezza di figlio e senza alcuna pieta di vecchio
padre, ferocemente antropofago nella vita rivissuta all'inferno in una
prospezione figurale che lo vede rodere la nuca dell'arcivescovo Ruggieri con
una pari spietatezza che quella che in terra ebbe a mettere in opera verso i
figli (e nepoti) innocenti per l'età novella, e quindi
redenti. Essi sono dunque salvi, ora, mentre il Della Gherardesca riprova la
crudeltà d'un gesto che lascia però, per la “magnanimità”
dell'animo del poeta, largo spazio al rimorso e alla sofferenza perenne, con un
dolore ben più forte che il patimento di Farinata, la consapevolezza
dell'errore in Francesca, il rimpianto d'aver volutamente lasciato ogne cosa
diletta di Ulisse, il ricordo delle belle imprese accanto alle malvage d'un
Guido da Montefeltro, anche d'un Pier delle Vigne e dei tre cavalieri
fiorentini, Jacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi.
La ricchezza delle
esperienze classiche di Dante, che non sarà certo quella della generazione
successiva, da Petrarca a Boccaccio, e avrà un indirizzo e una
finalità diversi da quella di Albertino Mussato, ma assume sul finire
del Medioevo una particolarità spiccatissima, s'accentua sempre di
più nella sua opera via via che si procede dalla filigrana ciceroniana
della Vita Nuova alle letture che sovraintendono alla preparazione del Convivio,
dagli echi virgiliani e ovidiani fittissimi dell'Inferno a tutta la
tessitura letteraria del Purgatorio e del Paradiso (ove il mondo
classico è soverchiato dalle ascendenze scritturali e patristiche). Non
è sufficiente, per comprendere il complesso della cultura classica di
Dante, fermarsi sugli auctores che ricorda esplicitamente (i personaggi
del Limbo) o sui passi che traduce o imita direttamente (Ovidio, Lucano,
ovviamente Virgilio). Occorre scandagliare più in profondità:
come è stato fatto per gli echi delle tragedie di Seneca nell'Inferno,
per Plauto, per Terenzio, per Persio, per Properzio, per Claudiano, per Boezio,
per le conoscenze indirette dei Greci, soprattutto di Omero, per l'Ars
poetica di Orazio, per le narrazioni storiche di Tito Livio, per le
biografie di Donato e di Servio su Virgilio, per san Girolamo. Ne esce fuori il
ritratto d'un intellettuale avidissimo di letture dei classici pur nelle
dimensioni e cognizioni della sua età, scarsamente propenso a porsi
problemi di critica del testo ma nemmeno ignaro della necessità di
attenersi al fedele dettato della voce degli antichi, oscillante tra
prevenzioni e limitatezze in uso nelle scuole di retorica del Medioevo, e
orizzonti più larghi di curiositas culturale già
adombrante l'inizio di un nuovo sapere del mondo latino (e, poi, greco), tra
supine ripetizioni di dati estraibili da epitomi ed enciclopedie d'uso
scolastico ed esegesi indubbiamente originali, dirette, acutamente meditate. Si
guardi ad un auctor che è personaggio fuggevolissimo del canto IV
dell'Inferno, e cioè Cicerone (Tulïo e Lino e Seneca
morale…), ma accompagna tutta la vita intellettuale di Dante, con la
vicinanza del De amicitia alla Vita Nuova, la consultazione
giovanile del De Inventione e della Rhetorica ad Herennium (nel
Medioevo attribuita con certezza a Cicerone), la presenza assidua del De
Officiis, del De Finibus, del De Senectute, la probabile
conoscenza del Somnium Scipionis. L'elenco si potrà estendere,
anche se esclude le lettere ciceroniane, certamente ignote a Dante, e non
sarà esente da una caratteristica medievale dalla quale sarebbe
improprio pensare che Dante possa liberarsi, e cioè la citazione d'un
classico al servizio d'un'interpretazione morale attualizzante e d'una messa in
movimento di spunti concettuali da piegare alla visione cristiana della vita
etica. Dietro l'inventio dei personaggi sta sempre una particolare auctoritas
classica o moderna, e coglierla nei suoi connotati essenziali è stato ed
è impegno costante della critica: così i moduli della cancelleria
imperiale dietro le parole di Pier delle Vigne, le clausole dell'eloquenza
politica nel parlato di Farinata, la severità del linguaggio dell'uomo
di scienza e di cultura nelle parole di Brunetto Latini, le costumanze di
lettura della società cortese (dai romanzi al trattato De Amore
di Andrea Cappellano) dietro la narrazione post-stilnovistica e fortemente
emozionale di Francesca da Polenta; ma al tempo medesimo Dante interviene di
persona in questo procedimento d'echi letterari, con la severità o la pièta
che contraddistingue la sua funzione di viator nell'oltretomba,
cosicché, soltanto per restare a Francesca, il poeta non oblia l'exemplum
morale per farsi vincere dalla commozione, e circoscrive in termini precisi, se
non proprio rigidi e afosamente rigoristici, la constatazione dell'umana
debolezza nel peccato di carne, constatazione che d'altronde Dante ha la
prudenza di non attribuire a se stesso o alla propria guida Virgilio, ma fa
scaturire direttamente dalle parole di Francesca, la quale non vuol essere
assolta, non pretende nulla per sé e per Paolo, ma riconosce apertamente
la potenza irrefrenabile della passione lussuriosa e la superiorità, non
discutibile, del giudizio divino. Tutta la critica contemporanea ha letto il
canto di Francesca dall'angolo dei sentimenti, sicuri e non romanticamente
oscillanti, del poeta-personaggio, in cui ha visto in forma non facilmente
percepibile ma non certo assente la violenza delle proprie stesse emozioni
d'uomo dietro l'indistruttibile necessità del giudizio.
Il simbolo anche in
altre evenienze si mescola di apporti culturali diversi. Il Veglio di Creta non
è soltanto figura scritturale, ma la collocazione geografica che Dante
dà alla statua apparsa in sogno a Nabucodonosor, è di per
sé sola prova di reminiscenze classiche; nell'isola di Creta i poeti
antichi avevano situato la sede della prima età dell'uomo; in essa si
svolgeva il mito di Saturno e dell'età dell'oro; in Creta era stata
rinvenuta dopo un terremoto, racconta Plinio il Vecchio, l'immagine di un
gigante; l'etimologia dei fiumi infernali, che nascono dal Veglio, è
attinta da Servio oltre che da Isidoro. Sul significato allegorico del Veglio
le interpretazioni dei dantisti sono state numerose, e sovente molto difformi
le une dalle altre: simbolo della superbia, immagine della varietà della
natura umana, allegoria dei vari periodi della storia umana dalla primitiva
purezza all'attuale degenerazione, simbolo dell'uomo corrotto dopo il peccato
originale. Di maggiore chiarezza allegorica è il Messo celeste: per
vincere la tracotanza dei diavoli (i quali avevano cercato d'usarla
anche contro Cristo, allorché discese in Inferno per liberare i giusti
dal Limbo) è necessario un intervento straordinario, esercitato da un
personaggio da ciel messo; il problema fondamentale dell'esegesi
dantesca verte qui sulla natura, fisionomia e identificazione del Messo: se
esso sia un angelo (che è l'ipotesi tradizionale, e tra i vari angeli
è prevalsa la scelta su S. Michele), un personaggio biblico (sia
vetero-testamentario, Mosè, sia evangelico: S. Pietro), un personaggio
della mitologia classica (Mercurio, Ercole, Enea) o della storia romana
(Cesare) o di quella contemporanea (Enrico VII); al problema si è
collegato anche il rapporto tra la particolare funzione descritta, dischiudere
le porte della città di Dite, e un ruolo che il Messo celeste eserciti
stabilmente nell'Inferno, in rispondenza alle fonti scritturali (nell'Apocalisse
è detto di un angelo che possiede le chiavi dell'Inferno; S. Paolo parla
di un arcano katéchon che vieta alle forze infernali di
scatenarsi in terra). Il Messo celeste è forse un angelo che
sovraintende al Limbo, ove sono avvertibili i segni di una presenza celeste, e
dove sappiamo che Beatrice, donna… beata e bella, può far
giungere il suo desiderio a Virgilio che si trovava tra color che son
sospesi, scendendo di persona, lo scender qua giuso in questo centro /
de l'ampio loco ove tornar tu ardi. In tal modo si viene a strutturare
un'ampia compagine allegorica all'interno delle gerarchie angeliche, sia pur
soltanto il solo Messo (e quindi S. Michele), anche in rapporto alla prima
cantica, oltre che alla costante presenza negli altri due regni oltremondani.
L'unità
drammatica Vangelo-storia contemporanea permea di sé tutto il discorso
del pellegrino escatologico, e ha come analogia simmetrica l'unità
drammatica Dante-Virgilio, la quale influisce in modo sensibile sulla pregnanza
concettuale delle varie apostrofi politiche, in quanto la ragione umana
suggerisce all'indignatio, ancor che passionale e istintiva, le reali
motivazioni del giudizio storico. Se non sempre, però spessissimo il
poeta dispone su un piano storico gl'incentivi della propria causa, e ne
individua nel canto XIX dell'Inferno la causa fondamentale nella
donazione (falso credita) dell'imperatore Costantino al papa Silvestro.
S'è molto disputato sull'opinione non sfavorevole che Dante s'era fatto
delle intenzioni del gesto imperiale e della nessuna responsabilità
diretta che l'Impero possedeva nei riguardi dell'uso degenerato e corrotto che
la Chiesa ebbe a fare del dono, da intendersi come semplice costituzione di
dote per le opere di carità che la Chiesa era tenuta a compiere. Ma
della dote i papi s'erano appropriati, facendo una vera e propria institutio
statale. Il concetto potrà cambiare nella Monarchia, ma all'epoca
dell'Inferno la donazione è vera e propria dote, e quindi
proprietà, presa fraudolentemente dai papi ma non soltanto gestita da
essi, non fructus come nella Monarchia, e cioè temporaneo
possesso per trarne gli utili.
Dal concetto di fructus
discendono tre soggetti giuridici per il dominio temporale: il proprietario
(l'Impero), il possessore (la Chiesa), l'usufruttuario (i poveri), mentre i
beni spirituali della Chiesa sono anche e soprattutto le cose di Dio,
cioè un patrimonio di esclusiva proprietà divina, che di bontate
/ deon essere spose, e sono invece materia d'adulterio. Motivazioni diverse
concorrono a rendere esecrabile per Dante (in ciò rimasto ben fermo
sulle stesse posizioni del periodo del priorato) il dominio temporale dei papi:
il traffico delle indulgenze, la vendita delle cariche ecclesiastiche,
possibili anche senza la donazione, sono indipendenti tuttavia dalla
temporalità nella misura in cui essa ha potenziato il desiderio di
ricchezze, ed esteso smisuratamente il mercimonio, che nella Curia di Roma ha
consentito
damnationem
meretricis magnae, quae sedet super aquas multas, cum qua fornicati sunt reges
terrae, et inebriati sunt qui inhabitant terram de vino prostitutionis eius (Apoc.,
17, I),
dunque la rinascita dell'immagine giovannea della Roma
pagana nella Roma cristiana, con l'aggravante della contaminazione tra la meretrix
e la bestia per l'inespressa volontà di unire due figure
apocalittiche in una, onde dare a questa un più icastico significato
allegorico e una più vivida rappresentazione, a rischio d'alterare
profondamente il testo evangelico. L'immagine terrificante dell'Anticristo
è reinterpretata da Dante con la figura della lupa, regina della nuova
Babilonia che stende i propri artigli su nazioni e città così
come la prostituta s'adagia sulle acque copiose.
Il personaggio
Virgilio che s'accompagna a Dante nel viaggio oltremondano da quando questi
retrocede in gran fretta dal pendio del colle alla bassura della selva (Inf.,
I, 61) al momento della riapparizione di Beatrice (Purg., XXX, 43) non
è scindibile dal poeta latino, della cui opera, del cui influsso
culturale, formale, morale Dante aveva mostrato profonda conoscenza ed effetto
già dalle opere giovanili. E però da queste, e poi dal Convivio
alla Commedia, il salto dell'ascendenza virgiliana è nettissimo
per intensità d'approfondimento e per copia d'interpretazione
allegorica. Al termine dell'educazione retorica e grammaticale giovanile,
Virgilio è già per Dante un auctor da interrogare
diuturnamente per conoscere le leggi morali che vigono nel mondo e quelle della
cultura classica, in nulla da rifiutare, tutte da apprendere, recepire, far
proprie, rivivere interiormente; nel Convivio Virgilio è
già il simbolo della saggezza naturale; nella Commedia è
subito oggetto d'un disegno provvidenziale, il quale fa sì ch'egli, non
potendo esprimere alcun valore inerente alla Rivelazione, simboleggi la
dipendenza e la soggezione della ragione umana alla trascendenza, e prepara
l'avvento della Rivelazione, avvia verso la teologia, dunque avvia Dante verso
Beatrice.
L'allegoria non
elimina mai, s'è detto, lo spessore culturale e l'identità
biografica di Virgilio, cantore di Enea e quindi cantore della storia di Roma e
della provvidenzialità di questa storia, uomo di somma cultura (famoso
saggio) e dunque “fonte” di qualsivoglia discorso poetico: maestro di stile
e d'auctoritas, profeta d'una novella età, intimamente partecipe
del processo di rinnovamento spirituale dell'umanità, non soltanto capace
di imprimere ai poeti futuri (Dante lo dice a Stazio) forza a cantar de li
uomini e de' dei, ma di rivelare agli altri (Stazio lo confessa a Virgilio)
la necessità del pentimento morale, e d'essere strumento diretto, in
conseguenza dell'intervento delle tre donne benedette, della salvazione
di Dante, con la sua presenza di “guida” anche col suo parlare onesto,
con l'energica efficacia della parola poetica, per mezzo della quale Virgilio
è in grado di manifestare la somma delle proprie esperienze storiche e
morali e di rendere chiara a Dante la portata del messaggio di Verità
divina di cui egli è “pagano” araldo, malinconicamente conscio del
proprio stato d'inferiorità verso le anime purganti e i beati.
Al personaggio il suo
alunno Dante attribuisce un'umanità straordinariamente viva e mobile
nelle emozioni, nei rimpianti, nella severità del maestro,
nell'accortezza della guida, nella perentorietà del dottore,
nell'affettuosità dell'amico più anziano, del “fratello
maggiore”. E questo personaggio Virgilio non è mai statico nei propri
atteggiamenti, i quali alcune volte sembrano quasi essere di “piglio” dantesco,
a cominciare dalla sdegnata apostrofe a Pluto, altre di sicurezza e d'imperio,
talaltre d'incertezza e di inquietudine, sì da creare nel complesso un'entità
fisionomica comprensiva d'ogni attributo umano, oltre che di completo Mentore
culturale, di diretto ispiratore di immagini all'alunno: il superbo
Ilïòn, l'umile Italia, ecc. Il suo incontro con l'altro
personaggio principale della Commedia, cioè Dante, non ha
soltanto significato simbolico nel contesto religioso e morale del poema, ma
è anche un preciso avvertimento letterario, preceduto e accompagnato dal
ripudio di un altro poeta, Ovidio, e della poesia erotica, per un più
ambizioso e difficile programma di rinascenza culturale: emblema letterario del
passaggio dalla poesia stilnovistica alla nuova ispirazione poetica di tipo
“virgiliano”. Procedono nella via dei cerchi infernali un auctor,
Virgilio, e un “nuovo autore” Dante, da un lato il rappresentante di quei philosophi
et inventores artium la cui auctoritas, aveva riflettuto l'Alighieri
nel Convivio, coincide perfettamente con un “atto degno di fede e
d'obbedienza”; d'altro lato colui che richiama se stesso alla più
modesta possibilità di scrivere e di agire; Virgilio quale profeta della
novella età che prende inizio da Cristo, e Dante quale profeta d'una
seconda nuova età, rigenerata (secondo Gioacchino da Fiore) dall'arrivo
e dal trionfo dello Spirito Santo sull'Anticristo. Il rapporto di fedeltà
e dell'ossequio verso il dottore e poeta e savio, nel
mentre che definisce i ritratti dei due personaggi, viene elevato da Dante ad
una superiore sfera di comprensione, sì da costringere il lettore
medievale ad ammirare sempre, dietro la sapienza di Virgilio, quella di Dante,
che si consacra erede ed interprete di tutto il patrimonio di civiltà e
di perizia poetica che Virgilio aveva consegnato alla cultura latina e a quella
medievale. Ha scritto il Curtius:
La
riscoperta di Virgilio da parte di Dante fa pensare ad un arco di fuoco che va
da una grande anima a un'altra grande anima. Nella tradizione europea non
c'è un incontro che colpisca di più, per la sua levatura, la sua
delicatezza, la sua fecondità, di quello dei due più grandi
Latini. Storicamente, si tratta dell'alleanza che il Medio Evo latino ha
suggellato tra il mondo antico e il mondo moderno. È soltanto nella misura in cui siamo capaci di cogliere Virgilio
in tutta la grandezza del suo genio poetico… che potremo comprendere Dante per
intero[84].
Non esisteranno
dunque differenze tra il personaggio storico e quello poeticamente
rappresentato da Dante, così come non possono accadere per altri
personaggi del poema. Secondo l'interpretazione dell'Auerbach d'un “realismo
figurale” (motivo esegetico e allegorico di tutto il Medioevo), per il quale i
personaggi e gli eventi del Vecchio Testamento preparano, annunciano e
prefigurano l'avvento di Cristo, e nessun uomo può realizzare nella vita
terrena la propria identità spirituale, ma soltanto nell'al di là
raggiunge la sua quidditas, anche Publio Virgilio Marone ha vissuto
nella vita terrena, nella sua età e nelle congiunture storico-culturali
che ad essa furono proprie, il preannuncio della sua vera essenza, si realizza
nella vita ultraterrena con la missione che gli è stata affidata di
guidare Dante nell'Inferno e nel Purgatorio. Il vero compimento di Virgilio
è qui, accanto a Dante, mentre lo sprona a procedere, gli impartisce
lezioni di verità umana, lo fa esperto di situazioni anche pratiche, gli
crea un clima di pietas o di severità morale che è
necessario al pellegrino escatologico perché il suo viaggio rechi alla
salvezza dell'anima. L'esser abitante del Limbo è già compimento
della “figura”, ma la missione affidatagli da Beatrice arricchisce il modo di
“compiersi”, lo colloca in un livello superiore a quello raggiunto da ogni altro
filosofo e poeta antico.
Simbolo della ragione
umana o della scienza umana, Virgilio è stato così inteso dagli
antichi e moderni commentatori come una ineliminabile necessità del
viaggio dantesco; si sono aggiunti nell'età del Risorgimento altri elementi
che sono valsi a condensare ulteriori significati nel dottore: il poeta
di Roma, e quindi l'incarnazione degli ideali politici che saranno sentiti e
rispettivamente discussi dall'autore della Commedia e della Monarchia;
il dantismo contemporaneo ha ulteriormente portato avanti il discorso del
debito culturale che Dante deve al poeta dell'Eneide (lo studio dei
virgilianismi danteschi reca indubbiamente ad una ricca messe di riscontri, di
simiglianze, persino di traduzioni letterali) e lo ha congiunto con quello
della missione provvidenziale assegnata a Virgilio. La ragione umana ch'egli
simboleggia non è quindi assoluta e autosufficiente, ma è
sottoposta alla fede, è mossa e a sua volta guidata dalla teologia
(cioè da Beatrice): una particolare tipologia della ragione umana. Anche
Virgilio è, a suo modo, fruitore dell'eccezionale grazia che è
stata commessa a Dante; anch'egli compie una profonda esperienza umana,
più nel Purgatorio che nell'Inferno, ma anche nei cerchi
infernali. L'incontro con Ulisse, ad esempio, non tocca soltanto il personaggio
Dante, che sembra quasi appartarsi, ma Virgilio, che con Ulisse può
intendersi, e che da Ulisse apprende cose che la “storia” non poteva fornirgli:
la conclusione del folle viaggio. Di questo interno itinerario
spirituale di Virgilio il suo figliuol non è inerte testimone, ma
compartecipe d'ansie e di speranze.
La presenza di
Virgilio andrà avvertita, dunque, nella sua globalità: sia
allegorica che culturale, sia morale che letteraria; guida del pellegrino, e
scrittore le cui opere, massimamente l'Eneide, l'alta tragedìa,
plasmano il linguaggio volgare di Dante, insegnano a narrare poeticamente,
suggeriscono continuamente nuovi stimoli, aprono verso altri orizzonti
culturali, confermano il valore messianico e palingenetico della poesia,
spiegano l'alta funzione della civiltà di Roma e la sua
continuità storica nella missione attuale dell'Impero.
Dicevamo che per
dovere d'informazione questi punti dell'ottica di lettura dell'Inferno
andavano enunciati, e li abbiamo riferiti così come li presenta la
dantologia vecchia e moderna. Ma si rischierebbe di non comprenderne la genesi,
di non rendersi conto della “struttura profonda” dell'Inferno se non se
ne ricercassero le ragioni dall'“interno” di Dante, dalle intime latebre d'uno
spirito inquieto, animoso, avido di sapere, fornito d'una prodigiosa memoria di
cose “viste” e “lette”, soggetto di profondi sentimenti e di un intenso senso
di sé, così da accertare in ogni zona dell'Inferno, e poi
del Purgatorio e del Paradiso, la costante presenza di un uomo ben
tetragono ma incline anche alla suavitas del canto d'amore di
Francesca, alla attualizzazione della plastica figura d'un capo politico quale
Farinata, alla enunciazione dei propri debiti culturali verso il maestro
Brunetto e nel contempo al grido d'orgoglio:
La tua fortuna
tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le
bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva
la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta[85]
alla ripresa della “favola antica” di Ulisse in un
contesto nuovo e attualizzante il folle volo, alla cupezza “scura” del
racconto di Ugolino, questi e tanti altri incontri che prospettano altrettali
proiezioni della grande summa di potenzialità emotiva. È
quel Dante che parla in prima persona. Dopo anni di tentativi più che
lodevoli attorno a rime e a trattati, il sedimento ora si solleva dal profondo,
immagini appena apparse sullo schermo della memoria prendono corpo, uomini
“letti” sui poemi degli auctores divengono figure viventi, fatti storici
si risollevano dalla morta gora di antiche cronache scritte od orali e
divengono emozionanti e laceranti episodi di realtà quotidiana.
La polisemia della
parola dantesca inizia sùbito, col primo canto dell'Inferno e
prosegue per tutti e cento i canti del poema sacro; la parola ha nel
fondo, nella zona più interna del suo significato, due stimolazioni,
legate l'una all'ordo della visione mistico-escatologica, l'altra, al
valore di rivelazione profetica, di preannuncio d'una novella età.
Accanto al carisma c'è poi il dono dell'insegnamento, cioè
l'ossatura epico-didattica dell'opera, in quanto deve servire all'agens
o viator (non evidentemente all'autore) e nel contempo al lettore, cui
il poeta si rivolge con continui “appelli” volti non tanto ad attirarne
l'attenzione, quanto a sottolineare il significato morale e insegnativo del
singolo exemplum descritto. L'opera deve essere utile, sì a colui
che dice io, ma soprattutto a coloro che leggeranno e ne resteranno
ammaestrati. Il che si evince ovviamente dal complesso dell'opera, ma anche da
singole zone d'una cantica, destinate ad uno specifico ammaestramento, d'ordine
pratico e parziale, con un'opportunità didattica che s'inquadra in un
messaggio generale, ma lo scompone in una serie d'insegnamenti localizzati e
funzionali ad una singola colpa, ad un singolo modo del riscatto morale, della
catarsi ascetica, dell'insegnamento etico politico.
Irrompe una poesia
nuova, non è la morta poesì che resurga (s'intende
che alteriamo il significato dell'attributo), ma un aggressivo èmpito di
veemenza creativa che ha bisogno di cose reali, di uomini dalla sanguigna
esperienza terrena, non importa se figure del proprio tempo o simulacri di una
antica civiltà. Vero è che questi protagonisti (poiché non
ci sembra a questo punto cosa buona chiamare soltanto “personaggi” Francesca o
Farinata, Ulisse o Ugolino) sono, secondo Auerbach, figure che realizzano loro
stesse nell'aldilà, nel “divenire immanente nell'essere senza tempo”.
Ciò è pur valido da un'angolazione filosofica, ma va pur
soggiunto che questi protagonisti si realizzano soltanto nell'efflatus vocis
dantesco, in quei rapidissimi ingressi dei personaggi che staccano nel silenzio
la loro voce: O Tosco che per la città del foco, ovvero E Se
miseria d'esto loco sollo, ossia Se' tu già costì ritto,
o anche Perché mi peste?, ovvero Tu vuo' ch'io rinovelli,
in Dante e per Dante: O Simon mago, o miseri seguaci o La bocca
sollevò dal fiero pasto, con Dante e nel suo modo irripetibile di
far poesia con le cose:
Quali colombe
dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate…
in una lunghissima galleria di immagini di sé: Io
non so ben ridir… Ma poi ch'i fui al piè d'un colle giunto…guardai in
alto…la notte ch'i' passai con tanta pièta… Di questa galleria fanno
parte gli appelli al lettore, gli scambi lenti ora o veloci del dialogo, i
lunghi indugi sulle similitudini, le perifrasi, gli scambi di parole, le
robuste oltre che callidae juncturae, gli armoniosi enjambements,
la forza incalzante e incrociata delle rime, i lunghi ritmi dell'endecasillabo,
le sue spezzature, i tagli netti del periodare o le ampie volture sintattiche,
le parole piane e quelle difficili, lo scontro (dove l'attenzione di Dante si
fa particolarmente viva) tra vocaboli del linguaggio aulico e di quelli del
mezzano, gli ingressi violenti dello stile infimo, i giuochi di parole
assonanzate, le rime interne, i solchi ampi tra terzina e terzina ovvero i
passaggi interni tra due terzine consecutive, le frantumazioni della terzina in
più periodi ovvero le coincidenze tra una terzina di proposizione
dipendente e una terzina di proposizione principale (o di due coordinate, in
parallelo). Le occasioni della narrazione sono talvolta affidate alla voce
dell'io narrante, ossia è Virgilio che spiega l'azione ed enuncia la
opportuna didascalia narrativa, ovvero ancora l'azione è dettata dalle
voci degli stessi personaggi. Si produce una vastissima gamma espressiva che
congloba sempre ed esalta la presenza dell'io narrante sulla scena, la sua
duplice individuazione in un personaggio o nell'autore dei versi, in una figura
astratta e indeterminata di viator penitenziale o in quel preciso viator
che è il fiorentino Dante Alighieri, uomo politico sconfitto ed esule,
partitante costretto a vivere lontano dalla patria, protagonista tra personaggi
a lui familiari o talmente lontani che, com'è il caso di Ulisse,
c'è bisogno di un tramite, Virgilio stesso: un tramite che d'altronde
è sempre operante, attivo, compartecipe degli stati d'animo dell'io
narrante.
Questo è il
segreto del vero autobiografismo nell'Inferno, umano e politico, come
poi nel Purgatorio un autobiografismo soprattutto letterario e di stile.
Lo scenario infernale, come poi quello all'aria aperta del Purgatorio,
è interamente occupato dall'umanità di Dante, il quale
riuscirà a rompere la quinta astratta dei cieli con la medesima
continuità della sua presenza. Dante compie la sua specie figurale
esclusivamente nel dettato poetico. Si può e si deve vedere anche nell'Inferno
il filosofo, in qualche passaggio pur il teologo, ma l'occupazione totale degli
spazi del poetare è la caratteristica fondamentale della prima cantica:
nella poesia dantesca il “divenire” si effettua in un sublimante vivere
dell'essere “nel tempo”, per voler capovolgere la formula auerbachiana,
applicabile a tutti i momenti della Commedia ma non proprio al suo
autore, in cui si muovono tutte le altre figure per confluire poi di nuovo in
lui e attualizzarsi nell'“essere Dante”, in un unicum spazio-tempo per
cui la glossa può spiegarci che Brunetto, Farinata, Ugolino e Francesca
e Pier delle Vigne sono coetanei o quasi, ma la poesia attualizza sia loro, sia
i coetanei dello stesso poeta, Ciacco o Vanni Fucci, sia e con pari apertura di
obiettivo i remoti Capaneo o Ulisse. Insomma Flegias e Filippo Argenti, Sinone
e Mastro Adamo coincidono temporalmente con Virgilio nella contestualità
narrativa della loro comparsa dinanzi a Dante. Dante non potrebbe parlare con
Ulisse, e la conversazione è tenuta da Virgilio, il quale discorre in un
tempo fittizio mentre Ulisse racconta in un tempo reale: nell'oggi della
poesia, giustificato sì con l'oggi della Settimana santa del 1300 in una
temporalità narrativa, ma soprattutto nell'oggi del poetare dantesco,
via via che stanno nascendo i canti dell'Inferno, poi quelli delle altre
cantiche.
In che cosa consiste
il “patto autobiografico” di Dante coi contenuti della sua poesia, nel momento
in cui avviene il simultaneo definirsi dello scrittore come persona reale e
autore del discorso? L'io che parla non è riducibile a nessuno dei suoi
testi in quanto li oltrepassa tutti. Tuttavia un più sottile, segreto
autobiografismo permea tutto il tessuto dell'Inferno, ed è
affidato alla sofferta consapevolezza che le proprie scelte politiche e di
conseguenza l'esilio, la vita errabonda di corte in corte, non siano o siano
state amarissime solo per sé, ma anche, e ancor più
dolorosamente, per i propri figli: l'“unico” dolore di Farinata è nel
veder coinvolti nella medesima condanna e per sua colpa quei del suo sangue; ed
è dolore anche del conte Ugolino, o di Mosca de' Lamberti. A questa
filigrana autobiografica, così ben messa in rilievo dal Bosco, si
rifanno molte delle scelte di facta e di mores. La biografia non
è impersonale, poiché i personaggi trasudano le passioni dello
stesso loro autore, e il rapporto tra fabula e verbum coincide
nell'esigenza di ricercare il verbum che procede contemporaneamente al signum.
Il poeta è forse un sopravvissuto alla sua stessa biografia, ma proprio
in virtù di ciò il fatto storico sopravvanza la presenza
materiale degli accadimenti del poeta, il quale supera anch'esso la sua
biografia per l'autenticità dei propri empiti emozionali e per la
verità massima assegnata alla funzione catartica che il viandante
escatologico subisce nel corso del suo itinerario per i cerchi infernali.
XIII
LA SUPREMA ILLUSIONE: ENRICO VII
Non è
possibile collocare con esattezza il punto iniziale dell'Inferno, anche
se è suggestiva l'ipotesi che i primi canti siano stati scritti durante
il soggiorno ad Arezzo (tarda primavera-estate 1304), da quell'importante
osservatorio politico dal quale Dante segue il succedersi degli eventi
politici, e portato avanti sino al 1308, l'anno dell'inizio del Purgatorio.
Sono supposizioni, è vero, ma rispondono in parte o in tutto allo
snodarsi della vita di Dante in quegli anni di peregrinaggio per la Toscana, e
la toscanità dell'Inferno è indubbia, anche per il
colorito linguistico che non mostra ancora quella larga conoscenza della lingua
delle corti settentrionali che si rivela invece nelle altre cantiche. Ma il
1308, spartiacque tra Inferno e Purgatorio, è anche un
anno saliente per un accadimento lontano, ma destinato poi a ripercuotersi sul Purgatorio:
il 27 novembre i sette Elettori di Germania, radunatisi in un convento di
Francoforte, s'accordavano finalmente a por fine alla sede vacante dell'Impero,
dopo la morte di Alberto I, ucciso presso alla Reuss il 1° maggio, e
designavano alla corona imperiale il giovane Enrico di Lussemburgo,
trentaquattrenne figlio di Enrico III di Lussemburgo.
La notizia giunse in
Italia all'incirca nel momento in cui nella cattedrale di Aquisgrana Enrico VII
cingeva la corona: 6 gennaio 1309. E forse la notizia non destò subito
in Italia una grande speranza, ma ben presto gli ambienti ghibellini e anche
quelli del fuoruscitismo guelfo bianco cominciano a nutrire qualche illusione
con la dieta di Spira, della fine d'agosto del 1310 (Dante è nel pieno
del febbrile lavoro attorno al Purgatorio). S'era conclusa da poco la
guerra di Corso Donati, ucciso il 6 ottobre 1308, e s'era manifestata in pieno
l'azione militare di Uguccione della Faggiuola. Anche all'interno le sorti del
ghibellinismo riprendevano a verdeggiare. Si guarda con interesse alle mosse
del giovane Enrico, al suo pronto rivelarsi un imperatore desideroso di
scendere in Italia e ripristinare la supremazia dell'impero: frattanto
necessitato a scendere a Roma per l'incoronazione papale.
Senza dubbio
iniziarono presto una serie di contatti diplomatici coi signori di varie
città dell'Italia settentrionale. L'incoronazione era stata stabilita
per il 2 febbraio 1312, ma l'alto Arrigo avrebbe potuto precedere la
cerimonia con una spedizione militare già vari mesi prima. E, con gli
altri, spererà Dante, il quale era troppo attento scrutatore della
situazione politica italiana per non rendersi conto che la discesa di Enrico
rappresentava ben più che un atto di ossequio all'autorità della
Chiesa: anzi una sfida a Clemente V.
S'è già
detto che la partenza del corteo imperiale poté essere forse la causa
dell'improvviso ritorno di Dante da Parigi, e giacché sappiamo da lui
stesso dell'incontro con Enrico VII, più importante durante le prime
fasi della spedizione che in un secondo momento, non è da scartare
l'ipotesi che questo incontro si fosse verificato prima che l'imperatore
varcasse le Alpi al Cenisio e raggiungesse Susa (23 ottobre 1310: come si vede
ben più d'un anno prima della incoronazione a Roma, e chiaramente con un
preciso disegno politico). Se tuttavia l'ipotesi di un incontro in terra di
Francia non reggesse, è certo che Dante poté essere ricevuto
dall'imperatore molto presto, allorché rendette ossequio al giovane
Lussemburghese e benignissimum vidi et clementissimum te audivi, cum pedes
tuos manus mee tractarunt et labia mea debitum persolverunt[86]:
durante il soggiorno di Torino?, o nella tappa di Asti, in quella di Vercelli?,
o meglio ancora appena Enrico giunse a Milano (23 dicembre), alla vigilia della
incoronazione reale (6 gennaio 1311), o fors'anche durante la stessa cerimonia
così toccante per il cuore del vecchio esule, ripieno di speranza che
col proseguire dell'azione politico-militare anche Firenze fosse “liberata” dal
dominio dei Neri ed egli potesse farvi ritorno al seguito delle milizie
imperiali?
Una cosa è,
comunque, certa: Dante si trova in quei mesi nell'Italia settentrionale; ha
preso contatto coi signori dell'Italia ghibellina, con gli ambasciatori, anche,
di Cangrande della Scala, al seguito di Enrico sin dal soggiorno ad Asti: 2
dicembre.
Il momento è
solenne. Tutti gli antichi fuorusciti fiorentini, Ghibellini e Bianchi, sono
intenti a seguire le mosse dell'alto Arrigo, e impazienti vorrebbero che
egli non ponesse ulteriori indugi, e subito puntasse al cuore della Toscana.
Con la speranza prende corpo in Dante una diversa o comunque più precisa
convinzione politica. Dapprima la esprime con la quinta epistola nella quale l'humilis
ytalus si rivolge ai signori e ai popoli d'Italia. Questo “dapprima” quando
cade? Prima dell'incontro con Enrico, e cioè quando egli è ancora
in movimento dalla Germania verso la Francia, e di qui avanza verso il Cenisio?
Si può affermare di sicuro soltanto che essa precede l'incontro
personale con Enrico: dunque ottobre-novembre 1310, e fu il miglior biglietto
di presentazione che Dante potesse produrre al giovane monarca. La fitta
elaborazione della quinta epistola aveva richiesto qualche tempo, e quindi
almeno questa poteva esser stata iniziata in Francia, terminata in Italia poco
prima dell'incontro. Enrico quasi certamente non doveva saper nulla su Dante
prima di giungere in Italia, ma quella solenne missiva rivestiva, per la
missione che egli intendeva intraprendere, un'importanza fuori del comune. Era
l'avallo che tutta la intellettualità italiana rilasciava alle sue
ambizioni di gloria nella terra in cui s'erano distinti i suoi predecessori nel
sec. XII e nel XIII: una patente di nobiltà politica che più alta
e ispirata né Federico I, né Federico II avevano mai ricevuto da
un dotto italiano.
L'irrefutabile prova
dell'epistola casentinese del 17 aprile, col ricordo dell'incontro del poeta
col suo monarca, contrasta con l'affermazione del Boccaccio secondo cui Dante
sarebbe rientrato da Parigi mentre Enrico è all'assedio di Brescia
(maggio-settembre 1311); e inoltre la precedente epistola agli scelleratissimi
Fiorentini e i seguenti biglietti a nome della contessa di Batifolle fanno
pensare a un interesse precipuamente volto alle cose di Toscana, da un lato, e
dall'altro a una certa durata del soggiorno in Casentino (dove non può
essersi recato come messo di Enrico, ché anzi scrivendo tam pro me
quam pro aliis mostra di esser portavoce di tutta la comunità degli
esuli fiorentini). È da qualche mese in questa regione, forse già
dal gennaio, se il 31 marzo, pridie Kalendas Apriles, avverte la necessità
(così per la settima e la decima delle Epistole) di adornare la lettera
con una precisazione di tempo e luogo, in finibus Tuscie sub fontem Sarni,
a documentare, come in Epist., X, una sorta di pubblica affermazione di
legame, per quel poco che durerà, col signore di Poppi, Guido di
Batifolle, perpetuando un'ospitalità con tutta la famiglia dei Guidi che
gli aveva concesso anni prima momenti di relativa serenità (la canzone Amor,
da che convien) e d'intenso lavoro attorno all'Inferno. Il ramo
casentinese però, nonostante la presenza di così illustre
patrocinatore, si va mostrando e si mostrerà ancor più
nell'autunno successivo piuttosto tiepido verso l'imperatore che non i consorti
di Romena e di Modigliana. Si deve riflettere che fu questa tiepidezza (destinata
a divenire ben presto distacco, infine ostilità) a consigliare Dante sul
finire dell'anno a cambiare dimora, e degli abitanti a serbare pessimo ricordo
(i brutti porci di Purg., XIV, 43, in allusione indiretta ai
Guidi conti di Porciano, Modigliana e Urbecche). Mentre Enrico VII riceveva a
Pisa l'omaggio dei signori di Toscana, Guido di Batifolle (il futuro vicario di
Roberto d'Angiò a Firenze) e in genere il ramo casentinese della
consorteria s'erano ormai riavvicinati ai Fiorentini e apprestavano armi per
difenderli.
Tuttavia,
finché Dante fu a Poppi, l'ambiente politico si mostrava propenso a che
un suo illustre ospite si facesse banditore delle finalità politiche
della spedizione imperiale, rampognando i Fiorentini della loro superba
ostilità e vaticinando terribili castighi (Epist., VI), incitando
(Epist., VII, del 17 aprile) Enrico a non indugiare nelle terre
dell'Italia settentrionale, irretito in angustissima mundi area, e a
calar fulmineo sulla Toscana, dove s'annida la volpe sicura dai cacciatori, et
Florentia, forte nescis?, dira haec pernicies nuncupatur (VII, 15, 23)
è la vipera che s'avventa contro le viscere della madre. Da Poppi
compone e trascrive tre lettere che la moglie di Guido, Gherardesca di
Batifolle, invia all'imperatrice Margherita (Epist., VIII, IX, X)
scritte tra la fine di aprile e il 18 maggio: indispensabile officio di un
dotto dittatore ai signori che lo ospitano e lo tollerano anche soltanto per
esprimere auguri e consensi per le imprese vittoriose di Enrico: occupazione di
Cremona, inizio dell'assedio di Brescia. E non dovettero essere le sole missive
che Dante ebbe a scrivere nel 1311 in Casentino, se a questo periodo (e io
credo solo a questo periodo e non all'anno precedente) si può far
risalire l'epistola che avrebbe inviato a Cangrande della Scala in merito
all'altezzosa risposta che i Fiorentini avevano dato all'imperatore; epistola
perduta ma che ebbe a vedere Biondo Flavio, e variamente significativa, anche
perché scritta in previsione della necessità di riallacciare i
rapporti col signore di Verona, conosciuto giovinetto nel 1303-1304 e di nuovo
incontrato durante i festeggiamenti milanesi in onore di Enrico (ma la
conoscenza della lettera da parte della cancelleria di Scarpetta dovrebbe
portare alla conseguenza che la missiva partisse da Forlì: ciò
crea moltissimi dubbi, superabili ove si pensi che Pellegrino Calvi poteva
essere informato dell'epistola in quanto Dante avrebbe provveduto a notificarne
il testo presso le più importanti corti settentrionali, come era
avvenuto per Epist., V).
Il soggiorno in
Casentino si fa dunque sempre più rischioso e precario. Il Boccaccio
accenna nel Trattatello in laude di Dante[87]
a una sosta “col conte Salvatico in Casentino”; potrà essere possibile
che Dante beneficiasse dell'ospitalità del conte Guido Salvatico di
Dovadola nel 1307, non nell'11, poiché anche e soprattutto Salvatico
s'era nettamente schierato coi Neri; si è supposto in via subordinata
che il soggiorno nascesse dalla necessità di persuadere Guido a volgersi
contro i Neri nel 1307, a favore di Enrico nell'11, ma l'ipotesi pare a me
esilissima.
Non avvenne che
l'imperatore ascoltasse i consigli e le implorazioni di Dante e di altri come lui:
invece
di dirigersi su Bologna e sulla Toscana, seguendo non una saggia riflessione,
ma l'impeto dell'ira, mosse verso Nord contro Brescia, che si trovava anch'essa
in rivolta, e per mesi si accanì nella lotta contro una città, la
conquista della quale non poteva avere alcun valore decisivo. Quando alla fine
ci riuscì, egli stesso fu un vincitore vinto[88].
Il 15 maggio Enrico
s'era mosso per Brescia; il 18 settembre, soltanto, la città cadeva, e
l'imperatore nella sua così ritardata marcia verso il centro dell'Italia
devia su Genova, dove giunge nell'ottobre (e dove il 14 dicembre veniva a
morte, di peste, l'imperatrice Margherita). Nel contempo spedisce ambasciatori
a Firenze per imporre l'obbedienza; 25 ottobre: i messi giungono alle porte
della città, ma non riescono a stabilire alcuna intesa col governo nero,
anzi sono costretti a fuggire. L'oltraggio inflitto agli ambasciatori spinge
Enrico (20 novembre) a imbastire un regolare processo contro la città, e
per esso furono escussi vari testimoni; non v'è indizio che Dante fosse
chiamato a deporre, ma la sua posizione in seno ai governanti fiorentini non
era certo migliorata dopo le pubbliche dichiarazioni delle epistole
casentinesi, note tutte ai Neri, non soltanto quella a essi diretta. Quando
Firenze, con la cosiddetta “Riformagione” di Baldo d'Aguglione aveva concesso
l'amnistia (2 settembre 1311) a vari guelfi al bando — e il motivo essenziale
fu forse quello di procacciare nuove entrate all'erario cittadino coll'incasso
delle penalità degli ex condannati — Dante è tra gli esclusi, coi
figli di Cione del Bello e molti altri anche dello stesso sesto di Porta San
Pietro.
A metà di
febbraio del 1312 Enrico parte da Genova; il 6 marzo a Porto Pisano “pose piede
su quella terra di Toscana che doveva essergli fatale”[89].
L'elemento di fatto dell'incontro del Petrarca fanciullo con Dante suole, per
maggiore consenso degli studiosi, cadere in questa evenienza, a Genova nel
1311. Dal punto di vista strettamente dantesco l'episodio, collocato a Pisa tra
la seconda metà di marzo e l'aprile del 1312, dà maggiori
garanzie, anche in ordine alla convergenza dei motivi che avrebbero potuto
spingere Dante e ser Petracco (che il figlio illustre vorrà più
tardi innalzare a un rango di esule pari a quello dell'Alighieri) a tentare
ancora una volta le intenzioni di Enrico VII in ordine a un'immediata
spedizione contro Firenze e, a seguito della delusione di ciò,
allorché l'imperatore prende la strada di Roma, allontanandosi
dall'obiettivo che più premeva al padre del Petrarca e a Dante, la
necessità per Petracco di prendere la strada di Marsiglia e di Avignone,
per Dante di allontanarsi dalla Toscana. Gli ostacoli a che Dante potesse aver
osato soggiornare a Pisa al tempo della discesa imperiale, lui che aveva
lanciato la terribile invettiva contro la città di Ugolino, cadono al
semplice ragionamento che a quell'epoca l'Inferno non era ancora
pubblicato. L'esclusione dall'amnistia del precedente 2 settembre e le lontane
cause del ribandimento del 1315 (di cui poi si dirà) hanno più
forte rilievo quando si consideri che il reo non era lontano dai confini di
Firenze, anzi s'era spostato dal quasi-neutrale Casentino (donde dapprima
soltanto un diniego di amnistia) alla nemicissima città di Pisa; per cui
si comincia a preparare per il poeta e i suoi più fiera condanna; non
dimentichiamo la circostanza che nella Riformagione di Baldo i figli di Dante
non sono ancora nominati, e se certamente nel '15 avevano superato di gran lunga
i quattordici anni, quest'ultima età avevano anche quattro anni prima.
Siamo tuttavia nel
campo delle ipotesi, ma poiché Dante non è, il 7 marzo del 1313,
tra i fuorusciti fiorentini presenti al campo di Enrico VII, che da mesi
è fermo a San Casciano e poi nella cittadella di Poggibonsi, ogni
possibilità di dedurre che Dante era già lontano dalla Toscana
potrebbe risultare aperta alla discussione, non trascurando che, se i biografi
non sogliono farlo assistere, per antica tradizione, agli ultimi atti della
tragedia che si chiude a Buonconvento, il momento più propizio a che il
poeta, già in parte sconcertato dalla lunga fierissima resistenza dei
Fiorentini, cominciasse a provare il peso della disillusione e pensasse a
migrare altrove, è propriamente quello della partenza di Enrico verso
Roma, o, se si vuole, quando l'imperatore inferisce la seconda e più
grave delusione ai fuorusciti togliendo l'assedio (1° novembre).
A ciò che
siamo andati dicendo, ostano le parole del Boccaccio, il quale scrive che alla
morte di Enrico VII
generalmente
ciascuno che a lui attendea disperatosi e massimamente Dante, sanza andare di
suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne
andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue
fatiche doveva por fine, l'aspettava[90].
La notizia è
certamente erronea, poiché non è pensabile un precoce arrivo a
Ravenna, all'indomani del 24 agosto 1313, a meno che il Boccaccio non pensasse
ad altre soste in altre città della Romagna prima di far giungere il
poeta presso Guido Novello da Polenta; si potrà dire che all'errore del
Boccaccio intendeva ovviare Filippo Villani, affermando che il soggiorno
veronese ebbe a durare quattro anni, e con Filippo il Bruni, collocando la
dimora in Lombardia avanti a quella in Romagna.
Per tener fede al
racconto boccacciano il Cosmo[91] ha voluto
spostare l'arrivo a Verona tra il 1317 e il 1318, dopo un soggiorno, quindi, di
oltre quattro anni in Romagna, e per suffragare l'ipotesi s'è servito a
suo modo dell'epistola a Cangrande, quella cognita ovviamente: Epist.,
XIII. Non è pensabile che Dante, presente a Ravenna subito dopo la morte
di Lamberto (22 giugno 1316) come vedremo poi, ospite del nuovo podestà
e signore Guido Novello, lasciasse a un certo momento la corte ravennate,
s'allogasse presso Cangrande, per tornare dai Polentani qualche anno dopo.
Tutto congiura contro la tesi del Cosmo, a principiare proprio dalla lettera a
Cangrande, la datazione della quale è stata posta dal Mazzoni, con
felice ragionamento, al 1316 circa, e che presuppone in tutto il testo (devotissimus
suus Dantes... Veronam petii fidis oculis discursurus audita, ibique magnalia
vestra vidi... sed ex visu postmodum devotissimus et amicus...) un lungo
rapporto di sodalità e di fedeltà. Quand'anche in tema di
cronologia dei primi quattro paragrafi di Epist., XIII, s'accettasse
l'opinione del Nardi, una datazione al 1319, comunque antecedente la sconfitta
di Padova dell'agosto 1320, proverebbe che il testo venne scritto al termine
del soggiorno veronese, ma non mutuerebbe tesi del tipo di quella del Cosmo.
Sia che l'epistola, integralmente autentica, accompagnasse il solo primo canto
del Paradiso, con dedica di tutta la terza cantica al signore di Verona,
sia che i primi quattro paragrafi, i soli autentici per il Nardi, offrissero in
dono e dedicassero tutto il Paradiso, resta il fatto che l'intero
esordio tradisce un'esperienza personale intensamente provata e maturata: vidi
beneficia simul et tetigi, ossia amicitiam vestram... servare desidero.
Se, per concludere, nel '16 Dante poteva ciò dire di Cangrande, è
evidente ch'egli si trovava a Verona da qualche anno, né è
accettabile che in tutto questo periodo egli fosse rimasto o ritornato presso
Moroello Malaspina[92].
Anche il quadro
politico sospinge a ritenere eccellente l'ipotesi che colloca alla metà
del 1312 il ritorno del poeta a Verona, ove Cangrande ha assunto un ruolo
sempre più centrale nella politica ghibellina d'Italia: vicario
imperiale con Alboino dal marzo 1311, da solo col successivo novembre,
assoggetta Vicenza nell'aprile e punta con la guerra contro Padova al
predominio assoluto nella Marca Trevigiana, sino alla battaglia del 17
settembre 1314 nei pressi di Vicenza. Da un così rilevante osservatorio,
e lontano dalla Toscana, Dante assiste all'ultimo atto della tragedia di
Enrico: 7 maggio 1312 a Roma; 29 giugno, incoronazione in San Giovanni in
Laterano; settembre, assedio a Firenze; indi il ritiro, colmo di sfiducia, a
Pisa (10 marzo 1313) e la partenza, di nuovo, per Roma: 8 agosto; morte a
Buonconvento: 24 agosto; alterne fasi di effimeri successi e di gravi
sconfitte, sì che all'occhio esercitato di Dante appariva in tutta la
sua ampiezza, col rinvio sine die della presa di Firenze, la
vanità dell'impresa o almeno il suo pericoloso allargamento, iniziato pria
che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni (Par., XVII, 82), a uno
scacchiere troppo vasto: interdetto e guerra contro Roberto d'Angiò.
Nonostante ciò il consenso così pubblicamente manifestato nel
1311 sarà rimasto formale anche nell'ultimo anno di vita
dell'imperatore, come rimarrà nell'elogio postumo di Par., XXX,
136 sgg., sederà l'alma, che fia giù agosta, / de l'alto
Arrigo, ma non senza postillare il fallimento della spedizione: ch'a
drizzare Italia / verrà in prima ch'ella sia disposta, a ribadire
(diciamo nel 1320-21!) quel ch'aveva già detto in Purg., VII, 96,
sì che tardi per altri si ricrea, risanzionato al momento di
revisionare e pubblicare il Purgatorio.
Giungendo a Verona,
Dante recava con sé un messaggio ben più importante di ogni suo
atto politico ufficiale: il testo delle prime due cantiche. Gli anni durissimi
di alterni stati d'animo, tra speranze e sconforti, tra spostamenti improvvisi
e scomodi indugi di sede in sede variamente ospitali, non avevano menomamente
scalfito l'intenso travaglio compositivo del poema, che forse aveva avuto nel
periodo del Casentino il lasso di tempo più lungo per la redazione del Purgatorio,
sul quale tuttavia non erano mancati larghi squarci di applicazione anche nei
successivi spostamenti. Una cronologia particolareggiata sarà sempre
impossibile, ma individuare due grandi isole di lavoro, Lucca per l'Inferno,
Casentino per il Purgatorio, dovrà essere ritenuto con
sufficiente approssimazione un punto fermo nella genesi della Commedia.
Così vicino a Firenze, il tono “cortese” raffinatamente commosso del Purgatorio
reperisce momenti d'intensa animazione affettiva nel rimpianto per gli amici
della giovinezza, da Casella e Belacqua a Forese e a Nino Visconti, nel
prodigioso recupero e totale riscrittura di forme e immagini della giovanile
ispirazione stilnovistica, soprattutto nel ricordo dell'uno e dell'altro Guido,
delle sue conclamate passioni per la musica e per le arti figurative,
d'incantati paesaggi naturali, dal terribile teatro di battaglia di Campaldino
(per l'appunto a piè del Casentino) alle memorie di Lucca e della
Lunigiana: eccezionale summa di tutti gli anni toscani prima e dopo
l'esilio, risolta infine e sublimata col ritorno di Beatrice, non dieci come
nella finzione letteraria, ma vent'anni dopo la sua dipartita. Recuperare quel
mondo giovanile o risolvere quei drammi di “memorie lontane” o comprendere
ancora una volta quel mondo della vicina e pur lontana Firenze furono per Dante
asperrime e disagevoli operazioni di reinvenzione poetica, tutte svolgentisi
sopra un amplissimo territorio di reazioni umane, di affermazioni politiche, di
rancori e corrucci terreni, perciò riconducibili in qualche modo alle
linee più sicure e cognite dell'animo di Dante in quegli anni di
accadimenti drammatici dei quali la spedizione di Enrico VII è il
culmine.
Invece il ritorno di
Beatrice, la misura ascetica del Purgatorio dal rito liturgico del primo
canto alla mistica processione, ai misteri della Grazia che promanano dalla
comparsa di Matelda e dal ritorno della gentilissima, sono fatti che non
hanno più rapporto diretto col mondo del 1309, 1310, 1311, 1312,
coinvolgendo fenomeni unici e irripetibili di una profondissima esperienza
religiosa. Se è anzi consentito spingersi oltre e temerariamente nel
campo delle ipotesi, si dovrebbe inferire che la toscanità degli episodi
sino al XXIV canto del Purgatorio trova diretto riferimento con
l'ansioso impegno di Dante in finibus Tuscie, e che al contrario il
distacco dal mondo e l'assunzione di pure responsabilità spirituali
coincide col momento in cui il poeta vede l'imperatore prendere la strada di
Roma, allontanarsi da Firenze, obiettivo risolutore della spedizione per le
speranze di Dante, sì ch'egli si può sentire ormai svincolato
dalle contingenze ed entrare nella divina foresta, percorrere con lenti
passi la strada verso il fiume Lete, iniziare un viaggio ancor più
importante, rivivere e attualizzare la riapparizione di Beatrice con una forza
di suasoria morale ben più “contemporanea”
che non i fatti contingenti della politica, superati nettissimamente
dall'urgenza di celebrare in tutto e per tutto il proprio risorgimento
spirituale all'alba di quella teofania a lui solo concessa, insomma di aver fatta
parte per se stesso in una rivelazione che possiede pur carattere
carismatico e profetico e dunque trasferisce gl'interessi del poeta dal piano
ascetico-storico a quello della più alta mistica, vent'anni dopo la
promessa resa al termine della Vita Nuova, dieci anni dopo l'esilio.
XIV
L'IMMAGINE DEL “PURGATORIO”
Lo scrittore,
accingendosi a lavorare attorno al Purgatorio, ha da vari anni presente
il quadro linguistico in cui dovrà essere calata la triplice materia
della Commedia. Le idee espresse nel De vulgari eloquentia sono
da un pezzo superate, ché egli ha trovato uno stile unico che comprende
tutte e tre le possibilità enunciate nella trattatistica e insieme
congloba l'elevatezza dello stile tragico, la fluidità narrativa del
comico, l'asprezza realistica dell'elegiaco. Ma da cantica a cantica il timbro
espressivo deve cambiare, senza inutili stacchi, ma alla ricerca di una omogeneità
linguistica che caratterizzi, ora, il Purgatorio rispetto all'Inferno.
Non c'è bisogno di attingere a nuove risorse. Già la prima
cantica aveva espresso superbe prove d'un linguaggio più tenue,
raffinato, malinconico: quale si adatta ai contenuti ascetici e morali del secondo
regno dell'oltretomba cristiano, nella cui montagna l'umano spirito si
purga / e di salire al ciel diventa degno. E il tono è raggiunto
sùbito, appena conclusa la breve protasi, col sussidio d'una
caratterizzazione paesaggistica totalmente nuova, con una visione dell'umano a
cielo scoperto:
Dolce color
d'orïental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei
ricominciò diletto…
… Lo bel pianeto che d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente…
… Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle…
Nel contempo tutto
l'immenso patrimonio stilistico coniato per l'Inferno non dev'essere
perduto, ma ha da servire a momenti in cui la tonalità fondamentale del Purgatorio
cede il cammino a passaggi di forte valore d'apostrofe, a veementi reazioni
dinanzi alla situazione politica dell'Italia e alla generale decadenza dei
costumi nel mondo. E allora una poderosa inarcatura va dall'Inferno fin
nel mezzo del Purgatorio, e congiunge le invettive della prima cantica
con quelle della seconda, in una perfetta osmosi espressiva che salda
strettamente l'unità stilistica del poema, e che poi ritornando nel Paradiso
fa salva l'unicità del timbro del sacrato poema: un tutt'uno
inscindibile. I luoghi salienti sono ben noti: le rampogne contro la serva
Italia nel canto VI del Purgatorio, i polemici riferimenti agli
scandali che hanno degradato la città di Firenze nel canto XII, il
plastico ritratto di Provenzan Salvani, sino a terminare con la tribunizia
requisitoria di Beatrice. Anche sotto il profilo stilistico, oltre che per quel
che afferisce alla concezione politica, il canto di Marco Lombardo può
essere assunto a prova della unitarietà stilistica del poema: canto
centrale nella seconda cantica, e di conseguenza canto centrale, il
cinquantesimo dei cento della Commedia: un canto in cui ritorna
l'immagine del buio d'inferno e si anticipa, come in molti altri, il
tema della beatitudine celeste nella preghiera.
D'altronde tutta la
seconda cantica è una lunga preparazione al ritorno di Beatrice, ed
è naturale che riaffiorino alla memoria poetica di Dante quelle
tonalità formali che erano state al centro dell'esperienza verbale della
Vita Nuova. Attraverso strappi, diversioni verso il recupero realistico,
memorie della presente situazione d'Italia, incontri con amici e con poeti
(è il Purgatorio la cantica dove più fitto vive il motivo
del reincontro con gli amici della giovinezza e con i maestri del suo tirocinio
letterario), tutta la cantica tende verso il ritorno di Beatrice, e ciò
reca con sé echi delle occasioni poetiche più elevate della Vita
Nuova, reminiscenze di alcune ballate dalla ondosa musicalità, di
erranti fantasmi di sogni “cortesi” come nel sonetto Guido, i' vorrei,
momenti di abbandono. E per far ciò Dante poteva attingere di nuovo alla
propria memoria, senza il bisogno di consultare ad hoc canzonieri
provenzali o tosco-siculi: vi arrivava da solo, non aveva necessità per
porre in bocca ad Arnaldo Daniello versi in provenzale d'andarsi a studiare di
nuovo la lingua occitanica, o per far parlare Ugo Capeto quella d'oïl. Un
intellettuale che al massimo può esser costretto a risfogliare le Sacre
Scritture e l'Eneide per trovare una similitudine, un episodio, una
figura che gli servisse nella trama vastissima del poema, non aveva bisogno di
attingere ai libri della letteratura contemporanea o quasi contemporanea. E se
varranno consultazioni di Alberto Magno, di Tommaso, se si vuole di
Bonaventura, all'epoca del Paradiso (in quella prodigiosa memoria
potevano esserci indici parlanti per ogni argomento, non di necessità il
ricordo totale di tutto e per tutto dello scibile cognito in quel tempo di
tardo Medioevo, sui primi bagliori di un autunno che vede esplodere la
grandezza dell'Alighieri), qui troveremo una diminuita necessità di
consultare i classici pagani, di esercitare il mestiere di
“traduttore-rifacitore” degli auctores della classicità.
Alcuni incontri non
sono senza profonda motivazione: aprire con Casella e chiudere (prima del
ritorno di Beatrice) con Guido Guinizzelli, ciò ha un profondo
significato, il quale deve esser colto per sancire la ripresa del Dolce Stile
in termini assolutamente limitati e piuttosto l'invenzione di un terzo
“stilnuovo”, dopo il primo guinizzelliano-bolognese, un secondo
cavalcantiano-dantesco-fiorentino, con una assoluta renovatio di forme
basilari dei primi due momenti storici e la creazione di un terzo tempo di
Dolce Stile che avrà più conseguenze di quante non si vogliano
riconoscere sulla nascita del quarto “stilnovismo”, quello definitivo nella
storia della nostra letteratura, ad opera di Francesco Petrarca.
La scansione
narrativa della seconda cantica è basata su tre ritmi diversi,
coincidenti con le tre ripartizioni essenziali: l'un ritmo più ampio e
dilatato, rispondente ai primi otto canti e mezzo, e cioè a tutto
l'Antipurgatorio; un secondo, che occupa tutto il vero e proprio Purgatorio,
in cui la materia dei sette cerchi è ristretta all'interno di poco
più di diciassette canti (e quindi della metà circa della materia
della cantica), ed è ritmo più rapido, colmo, stretto di tempi e
d'accadimenti, e un terzo ritmo rispondente al lungo indugio nel Paradiso
terrestre. Quindi, a differenza dell'Inferno e del Paradiso, ove
la topografia morale vera e propria occupa tutto il paesaggio infernale
(superati il prologo e la protasi) e tutto quello celestiale, il Purgatorio
è un trittico narrativo attentamente studiato, come sempre, nei
particolari ma con andamenti diversi. La grande importanza concessa
all'Antipurgatorio, rispetto al breve spazio dell'Antinferno, risponde non
soltanto a ragioni narrative, ma ad un'esigenza dottrinaria dei desideri
spirituali e di ineliminabili residui di rapimento terrestre, sotto la forte
luce dell'attesa della purificazione, dopo la cerimonia liturgica del canto I,
che è nuovo battesimo d'un catecumeno che ha ancora bisogno di ulteriori
esperienze prima d'entrare nella porta del Purgatorio. Dante attende, e tutte
le anime attendono. Attendono i morti scomunicati, e con essi Manfredi, e
girano lentissimamente, con un passo che sembra a Dante più quiete che
moto. Attendono i neghittosi, e giacciono immobili, in una immobilità
non spezzata fisicamente ma sì frantumata letterariamente dalla presenza
di un bizzarro episodio qual è quello legato al personaggio di Belacqua.
Attendono i morti di morte violenta, e questi invece corrono verso Dante, come
schiera che corre sanza freno. Attendono nella valletta, sedendo e
cantando, i prìncipi. Ognuna delle quattro forme dell'attesa risponde ad
un diverso disegno teologico: attesa nel timore quella degli scomunicati, quel
timore di Dio che non ebbero in vita, sì da affrontare pervicaci la
condanna da parte della Chiesa di Cristo; attesa nella pazienza quella dei
pigri, con un interessante divario tra la pigrizia degli atti esterni e la
pazienza del loro interno sentire, aspettando una purificazione che non
può essere affrettata dalla volontà ma deve attendere il tempo
assegnato dalla Giustizia divina, senza in nulla venir meno del fervore
ascetico: un fervore paziente, se è lecito giuocare sulle parole; attesa
nella prudenza quella dei morti violentemente, i quali in vita ne furono privi
e agirono sconsideratamente (Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia
de' Tolomei); attesa nella misericordia quella dei prìncipi, i quali non
si trovano nella valletta soltanto perché tardi si pentirono,
circostanza comune a tutto l'Antipurgatorio, ma in quanto furono scarsamente
attivi quali reggitori di popoli, e, pusillanimi e negligenti, attendono la
purificazione cantando il Salve Regina, che è l'inno della
misericordia e della carità verso gli uomini: timor Domini,
pazienza, prudenza, misericordia, quattro virtù che andavano qui
illustrate, non potendo trovare spazio né nel Purgatorio e men che mai
nel terzo regno.
Nell'arco di presenze
letterarie più fitta è la partecipazione di personaggi nella
seconda metà del Purgatorio, quasi a creare prima ancora della
processione mistica in onore della ricomparente Beatrice una prima galleria di
spiriti che hanno illustrato il mondo delle lettere: anche l'incontro con
Forese, oltre che quello con Bonagiunta, ha questa funzione. Ma ancora una
volta è attraverso la presenza di Virgilio che sono realizzate le
motivazioni letterarie e le reminiscenze della cultura classica, di quel
Virgilio che è con Dante un diretto agens del viaggio
ultraterreno.
Dopo Virgilio, gli
esemplari più rilevanti sono quelli offerti da Catone e da Stazio,
collocati in una posizione antitetica e quasi antagonistica: il primo ha funzione
di guardiano dell'Antipurgatorio (prima che inizi il processo di salvazione
dello spirito di Dante), il secondo accompagna gli ultimi stadi del processo
ascetico, anche oltre la guida di Virgilio. E Stazio sana, almeno in parte,
quel tanto d'incerto (dal punto di vista dottrinario) che è nella figura
di Catone, vissuto in età precristiana, morto suicida, eppure austero
sacerdote della liturgica iniziazione di Dante al nuovo clima morale, ministro
del primo rito ascetico: un che di mezzo, di non perfettamente saldato tra
l'eroe repubblicano e il custode d'un regno cristiano, investito di compiti
appena d'un poco inferiori a quelli che saranno assunti, nel corso del vero e
proprio Purgatorio, dagli angeli: spia, dunque, prova di quel tentato e non completo
sincretismo tra mondo classico e Cristianesimo che fu dell'età di Dante,
e del nostro poeta in particolare; esemplare storico di altezza morale, di
spregio della vita, di fedeltà inconcussa alla libertà, ma con
significazioni spirituali che il personaggio reale, lo stoico, non può
tutti contenere o esprimere, e anche con aporie sul piano storico se il custode
dell'Antipurgatorio era stato l'avversario di Cesare, cioè di colui che
fu per Dante il fondatore dell'Impero, anzi il primo degli imperatori.
Si può dedurre
che la funzione di Catone si svolga tutta su di un piano morale, non
storico-politico, in quanto primo avvertitore dell'imminenza della Rivelazione:
per essersi rifiutato d'interrogare l'oracolo pagano, giacché l'unica
voce che va ascoltata è quella della coscienza morale, ove è
presente e opera il vero Dio. L'austerità della scelta di Catone lo pone
al di sopra d'ogni condanna, ma anche al di qua d'una vera e propria salvezza
(quale sarà quella di Stazio, di Traiano, di Rifeo): egli non può
varcare la soglia del Purgatorio, e anzi non può nemmeno muoversi dalle
propinquità della spiaggia della montagna: accoglie, non guida; inizia,
non reca a soluzione il processo catartico; simboleggia la magnanimità
dell'uomo libero, non l'opposizione al compito provvidenziale dell'Impero;
precede storicamente la costituzione dell'Impero, e quindi non può
essere considerato uno strumento che ne ritarda la nascita e gli effetti voluti
da Dio, e all'intelletto dell'esule e libero cittadino fiorentino Dante Alighieri
rappresenta il cittadino dell'antica Roma che resta fedele sino all'ultimo al
sentimento di patria e non agisce per la divisione degli animi, ma contro le
lotte fratricide della guerra civile. In analogia a quanto trova scritto nella Pharsalia
(“Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni”), Dante reinterpreta, reinventa
il personaggio storico in forza d'un altissimo principio morale, che lo pone,
nel dialogo con Virgilio (Purg., I, 40-108), in uno stato superiore
anche al grande poeta di Roma, il quale gli si rivolge con reverenza, con
ammirazione, persino con accattivante umiltà: segno che, nonostante la
funzione di Virgilio nel viaggio di Dante sia superiore a quella di Catone, la
collocazione di questi è superiore a quella d'un malinconico abitante del
Limbo, d'uno che è sospeso, mentre Catone guida i primi passi dell'anima
cristiana, è ministro d'un culto sacramentale. Tuttavia (e il dialogo
con Virgilio lo comprova) Catone vive in stato di perpetua solitudine:
ammonisce, rimbrotta anzi aspramente, inizia la liturgia, ma non gode dei doni
che pur elargisce con la sua parola eloquente, con i suoi atti sacerdotali.
Resta un magnanimo senza un futuro, almeno presumibile, il magnanimo, ha
scritto il Paratore, “fra tutti i magnanimi della Commedia in una rappresentazione
più nuda e più severa di ogni altra sua”, un ideale morale
assoluto per Dante, non condannato perché la sua altezza di concezioni
è tale che, se tutti i cittadini romani fossero stati come lui, l'umanità
avrebbe da sola conquistata quella pace, acquisito quel senso della giustizia,
mancando il quale si rese necessaria da parte di Dio l'istituzione della
potestà imperiale.
Assai diverso
è il caso di Stazio. Anzitutto va detto che Catone era un auctor
indiretto per Dante, mentre la Tebaide e l'Achilleide erano libri
sui quali s'era formata la cultura classica dell'Alighieri, come quella di
tutta la generazione medievale sua e precedente la sua; le citazioni, le
reminiscenze, persino le “traduzioni” dalla Tebaide s'inseriscono in
tutto il tessuto inventivo della Commedia. Per le valutazioni critiche
complessive che poteva avere un uomo dell'ultimo Medioevo, Stazio era da
considerare uno dei massimi poeti latini, forse, per Dante, secondo soltanto a
Virgilio, pari o quasi ad Ovidio, e mentre Ovidio poeta d'amore va ripudiato
per accettare il messaggio spirituale di Virgilio e dei tempi nuovi, Stazio
poteva rimanere nell'interezza dell'opera in quell'epoca conosciuta un auctor
completo. E ciò sollecita Dante a tracciare una biografia di lui, che (a
parte l'errore sul luogo di nascita, e la confusione col tolosano Lucio Stazio
Ursulo pretore del periodo di Nerone) costituisce nel complesso un fatto nuovo
nella Commedia, cui nulla toglie ovviamente il fatto che siano ignorate,
come lo furono nel Medioevo, le Silvae, e cui molto aggiunge (non
già sul piano erudito, ma per la cura con cui Dante intende costruire il
suo personaggio) ciò che viene inventato o canonizzato: la circostanza
che in vita sia stato preda dei peccati di accidia e di prodigalità, che
ha scontato per tutto questo periodo nel Purgatorio e di cui ora s'è
liberato, ora che il tuono proclama l'esaltazione della sua anima nel Paradiso,
s'aggiunge alla questione tanto discussa sulla presunta conversione di Stazio
alla religione cristiana, su suggerimento dell'annuncio dato da Virgilio nella
quarta egloga:
quando dicesti:
“Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende dal ciel
nova”
(Purg.,
XXII, 70-72)
Dov'è la fonte
di questa induzione dantesca? Anzitutto è da scorgere nell'analogia con
quanto aveva scritto Vincenzo di Beauvais (che Secundiano, Marcelliano e
Verriano s'erano convertiti alla religione cristiana sotto l'influsso della
quarta egloga), poi nelle numerose allegorie di cui è costellata la Tebaide,
nelle frequenti dichiarazioni ammirative per Virgilio, in alcune particolari
figure staziane il cui significato morale venne colto anche dai primi
commentatori della Commedia (di rilievo le parole con cui Guido da Pisa
interpreta quale figura Christi il personaggio mitologico di Teseo,
apportatore di pace), nella straordinaria fama che tutto il Medioevo
nutrì per Stazio.
Alla luce di questa
ammirazione dantesca, Stazio assume una funzione rilevante, di sostegno alla
missione di Virgilio, e di apertura verso quella di Beatrice; e l'assolve nella
lezione del canto XXV, in cui afferma la conciliabilità tra la ragione
umana e la scienza divina (la conciliazione tra Virgilio e Beatrice) discutendo
attorno al problema della generazione dell'uomo e alla continuità della
vita dell'anima dopo la morte del corpo, che non è definitivo separarsi
di anima e corpo, ma un momento della loro eterna simbiosi, in attesa che si
ricongiungano all'atto del Giudizio universale, allorché si
completerà il lungo periodo in cui l'anima razionale, creata da Dio in
quanto “sostanza”, attua di nuovo il contatto con le funzioni sensitive e
vegetative (non spente all'atto della morte, ma come sospese o attenuate
nell'attesa di riprendere la loro definitiva efficienza). Le fonti del lungo ragionamento
che Dante pone sulle labbra di Stazio, sono essenzialmente in Aristotele e in
san Tommaso, ma non mancano accenni nella stessa opera di Stazio, insufficienti
a spiegare il fenomeno, ma tali da suggerire a Dante l'impressione che il poeta
latino si sia posto il problema.
Stazio, inoltre,
è personaggio del Purgatorio anche sotto il riguardo della
rappresentazione narrativa: c'è in lui quella dolcezza, unita ad
affettuosità e a benevolenza, che caratterizza tutte le anime del
secondo regno, e che trova il suo punto saliente nel momento in cui, appreso da
Dante che l'altra ombra è quella di Virgilio, già s'inchinava
ad abbracciar li piedi / al mio dottor sospinto da un moto irrefrenabile di
filiale adorazione per il sommo poeta di Roma. E altri tratti, altre parole di
Stazio contribuiscono a creare intorno a lui un alone d'umana simpatia, che
è il modo con cui Dante si sdebita di quanto la lettura della Tebaide
gli sia stata salutare ed essenziale per la sua formazione letteraria, non
rinunciando a dipingere, dietro un altro dottore e un antico vate,
l'immagine vivida d'un uomo.
A differenza del
sistema di pena dell'Inferno quello in atto nel Purgatorio
è duplice (e se ne intende facilmente la ragione: le anime purganti non
debbono solo patire, ma deve esser loro fornito il mezzo per superare la fase
di sofferenza in preparazione del gaudio eterno): al patimento è unito
un esempio morale, di segno opposto a quello del peccato che le anime scontano
nel secondo regno e che è indispensabile affinché esse siano in
grado di esercitare, o, meglio, di prepararsi ad esercitare la virtù di
cui difettarono in vita, meditando sulla virtù e aspirando fortemente ad
essa. Gli esempi non sono astratti, ma, in forme diverse di rappresentazione
scenica o fonica, nascono dalla storia sacra e da quella profana antica, anche
da antichi prodotti del novellare caro al popolo devoto; e seguono un percorso
non fisso, tranne per il primo esempio che è sempre relativo alla vita
di Maria Vergine, in quanto assomma tutte le virtù in un supremo grado
di perfezione.
La varietà
dell'exemplum morale è eccezionale per originalità
d'invenzione, ed è sempre in ordine alla rappresentazione narrativa
specifica d'ogni girone. Nel primo i superbi debbono contemplare una serie di
altorilievi scolpiti sulla parte inferiore della parete della montagna, e sono
esempi di umiltà (l'Annunciazione; la danza di David, vestito
succintamente, davanti all'Arca Santa; l'incontro di Traiano con la vedovella).
Nella seconda cornice esempi di carità (che è virtù che
s'oppone all'invidia) sono gridati da voci misteriose alitanti per l'aria (le
parole di Maria a Gesù durante le nozze di Cana: “Vinum non habent”; il
generoso offrirsi di Oreste in difesa di Pilade; il precetto evangelico
“Diligite inimicos vestros”). Agli iracondi appaiono rapidissime visioni
mistiche di mansuetudine (le parole soavi della Madonna quando ritrova il
fanciullo Gesù nel Tempio; il perdono di Pisistrato al giovane che aveva
baciato in pubblico la figlia del tiranno ateniese; le parole di perdono di S.
Stefano durante il martirio). Nella quarta cornice, degli accidiosi, esempi di
sollecitudine sono gridati da due anime che camminano in testa alla numerosa
turba (la sollecitudine di Maria che s'affretta a render visita ad Elisabetta;
la velocità con cui Giulio Cesare soggioga la ribellione di Marsiglia e
procede oltre alla conquista della Spagna; altre parole di generica spinta ad
agire: Ratto, ratto che 'l tempo non si perda / per poco amor). Nel
girone degli avari e prodighi è lo stesso protagonista del canto, Ugo
Capeto, che pronuncia esempi di povertà e di generosità (anche in
ciò è il segno dell'instancabile variatio narrativa di
Dante; affidare ad una delle anime penitenti il compito di promuovere la
meditazione delle altre; gli esempi sono: la povertà di Maria che diede
alla luce il proprio figlio in una stalla; il dispregio delle ricchezze da
parte del console romano Caio Fabrizio; la liberalità di S. Nicola nel
dotare tre pulcelle). Una voce misteriosa, nella cornice dei golosi,
grida esempi di temperanza (la sobrietà di Maria che, ancora durante le
nozze di Cana, non pensa a sé, ma alle esigenze degli ospiti; la
temperanza delle antiche Romane che bevevano soltanto acqua; quella del profeta
Daniele; l'austerità di vita nella prima età del mondo; quella
del Battista che nel deserto si nutriva di locuste e di miele). I lussuriosi
alternano al canto esempi di castità (la verginità della Madonna,
la castità di Diana, che scaccia dalla propria schiera la ninfa Elice o
Calisto, ch'era stata sedotta da Giove; generici esempi di castità tra
coniugi), e, accanto ad esse — altra novità inventiva dell'exemplum,
cioè il sottolineare la gravità del peccato — casi di lussuria
(Sodoma e Gomorra, l'infamia di Pasifae).
Tra le varie risorse
di lettura e i più emblematici e caratterizzanti episodi del Purgatorio,
occorre isolare alcuni topoi caratteristici, e uno dei più
ritornanti è il lungo canto d'affetto per gli amici di giovinezza, con
gioia ritrovati durante il percorso purgatoriale perché ormai sicuri di
futura beatitudine. Il Grundthema dell'amicizia polarizza toni poetici
centrali della seconda cantica: il sentimento di cortesia cavalleresca, il
perdono ricevuto e dato (nell'ambito del grande perdono divino), il ricordo di
luoghi e occasioni carissime all'animo del giovane fiorentino non ancora
colpito dalla sventura, le amicizie strette anche con personaggi d'altri
ambienti politici[93], la
varietà narrativa con cui vengono risolti questi incontri e la medesima
varietà sociale dei personaggi, da un musico ad un liutaio, da un poeta
ad un politico di sangue aristocratico. E se dagli amici di gioventù
debbono essere esclusi di necessità quelli ancora in vita nel 1300, non
mancherà l'occasione di tessere le lodi d'alcuni: Giotto, Guido
Cavalcanti. Il reticolato non vorrà essere esaustivo, ma paradigmatico;
tale da donare al Purgatorio quella diffusa tonalità di
gentilezza, d'affettuosità, di soavità che è il segno
della poesia di questa cantica e anche d'un accurato mosaico rappresentante le
amicizie terrene a preparazione del gran finale dove è l'incontro massimo,
con l'amica del suo intelletto e della sua memoria giovanile: Beatrice, il
quadro principale d'una lunga galleria d'amicizie.
Tra le anime
traghettate dal celestial nocchiero, e stupite d'incontrare sulla
spiaggia della montagna un uomo vivo, si stacca, sospinto da un moto improvviso
d'affetto, il musico Casella. Egli, dopo il primo canto, quello austero e
liturgico di Catone, dà il la alla lunga sinfonia dell'amicizia
cortese; offre un inizio che ha risvolti narrativi (il triplice abbraccio di
virgiliana memoria), risoluzioni nuove di “parlato”, possibilità
d'informazioni dottrinarie sul perché della sosta delle anime alla foce
del Tevere prima che l'angelo le chiami per la trasmigrazione marina sino al Purgatorio,
e soprattutto l'agio di poter creare un incontro che desse realmente il senso
di quegli anni di gioventù: l'amoroso canto, il melodioso modo
d'intonare una canzone, quello (anche se non è espressamente detto)
d'accompagnare il canto col suono d'uno strumento musicale, e la perfezione
dell'incontro con la scelta d'una canzone dello stesso Dante, Amor che ne la
mente mi ragiona; se vogliamo, orgogliosa autocitazione, ma anche modo di
circondare l'episodio di un'aura più intima, più cara,
coinvolgente direttamente il clima d'amicizia spirituale e culturale che ha
unito in vita il giovane poeta col più anziano, ma non meno diletto
musico e cantore.
Ma Dante non
interviene sovente nel dialogo; lascia che gli stessi personaggi esplichino e
quindi rivelino le loro species figurali con le loro stesse parole: che
altro il poeta potrebbe dire a Pia de' Tolomei fuor di quel ch'essa riferisce
di sé? Vero è che il caso d'intervento diretto, immediato e
chiuso in se stesso, non unico ma raro nel poema (la didascalia seguitò
il terzo spirito al secondo trascorre insosservata, e comunque non
interrompe il timbro del “parlato”) è nel canto V replicato tre volte,
con effetti eccezionali di passaggi di voce “a quattro”, per il peso “tonale”
dei precedenti interventi di Dante, vv. 58 sgg. Perché ne' vostri
visi guati, vv. 91 sgg., Qual forza o qual ventura: passaggi
ampliati dai discorsi interni del singolo personaggio (il grido di rabbia del
diavolo che si vede sfuggire l'anima di Bonconte da Montefeltro: O tu del
ciel, perché mi privi?…, vv. 105 sgg.), realizzati su un'ampia
tastiera che va, per l'appunto, dalla voce del diavolo a quella “angelica” di
Pia, e le cui note centrali sono espresse da Bonconte, nella sua duplice
“uscita” stilistica: il racconto delle ultime ore di vita, dopo la ferita
mortale, e la disputa tra l'angelo e il diavolo per il possesso dell'anima del
figlio del conte Guido, ma anche nella sostanziale unità dell'episodio,
dalla cortese fiduciosa invocazione iniziale (Deh, se quel disio / si compia
che ti tragge a l'alto monte) al tempestoso scenario della battaglia di
Campaldino, il cui paesaggio è descritto con cura persin troppo
minuziosa, come di chi, personaggio egli stesso di quel tragico evento dell'11
giugno 1289, ha voluto lasciare precisa testimonianza della topografia
insanguinata da Fiorentini e Aretini: squarcio pittorico luttuoso e tenebroso,
tra i più alti paesaggi della Commedia, solcato da luci livide,
ma illuminato anche dal fervore del pentimento che conferisce religiosa
solennità agli ultimi istanti del capo-ghibellino.
L'invenzione dantesca
avviene sempre per processi d'analogia o di opposizione. Nell'Inferno
era stata narrata un'altra disputa per il possesso d'un'anima: quella del padre
di Bonconte, Guido. Nella bolgia infernale il contrasto è dominato dalla
beffarda sottigliezza “loica” del diavolo, e san Francesco appare quasi in un
angolo, muto e impotente dinanzi all'irrevocabilità del peccato mortale;
anche l'angelo che s'impadronisce dell'anima di Bonconte è silenzioso,
ma sovrasta la scena davanti alle vane querimonie del diavolo, inutilmente
devastatore di quel corpo senza anima. Nell'entroterra letteraria delle
dispute, collegate dal rapporto di stretta parentela delle due anime, giuocano
echi virgiliani, soprattutto dell'episodio di Palinuro, o reminiscenze dei
leggendari medievali, dove i combattimenti per l'anima tra Cristo e Satana, tra
un angelo e un demonio, tra un santo e uno spirito maligno, sono diffusissimi,
e trapassano nei laudari, giungeranno sino a Jacopone da Todi. L'elemento
diverbiale però ha in sé una differente finalità
letteraria, in quanto polo opposto rispetto al clima di pace e di ripudio degli
odî terreni che, come ha ben
visto il Bosco, sovrasta le cupe note della guerra e della bufera scatenata
dalle potestà infernali.
Nel disegno del Purgatorio
prevale, o meglio s'accentua quell'interesse per le arti figurative, che era
già emerso in similitudini dell'Inferno. Il canto dei pittori e
dei miniatori (il canto XI) è fermamente incentrato nelle latitudini
morali del peccato, ma si connota l'acuta sensibilità dell'intellettuale
che constata con amarezza il rapido dileguarsi degli ideali e della fortuna
della propria generazione, che è la stessa di Franco Bolognese, maestro
questi nel “pennelleggiare” e nel far “ridere” le carte in un giuoco di
luci e di colori che il poeta della seconda e della terza cantica doveva amare
assai più della vivida ma pur sempre tradizionale tecnica
bizantineggiante dell'onor d'Agobbio, eppur supera questa amarezza nella
solida convinzione di “storicizzare” il valore assoluto d'ogni scuola e d'ogni
generazione artistiche. Alla severità del disegno teologico del sacrato
poema non poteva sfuggire il mondo terreno dei poeti (da Guinizzelli al
Cavalcanti) e degli artisti (da Cimabue a Giotto) pur vagheggiato dal giovane
Dante della Firenze aristocratica e stilnovistica, ma la serietà di
giudizio non aveva risparmiato alcuna categoria d'intellettuali e non poteva
esimersi dall'inventare il rapporto arte-superbia alla vigilia della condanna
d'un altro rapporto: poesia-lussuria. L'itinerario “figurativo” di Dante
è completo, dal possente strutturismo realistico dell'Inferno
alle vere e proprie esecuzioni scultoree del canto X del Purgatorio, per
giungere all'arte “astratta” della terza cantica, al luminismo incorporeo,
immateriato, d'un variegato cromatismo che farà prevalere, per
l'appunto, nel Paradiso la poesia “dell'occhio” e dei “suoni” fomentata
dalla lunga ricerca della luce etterna, presagita dai colori dei rubini,
degli smeraldi, degli zaffiri, in un'incessante creatività di simboli
pittorici intuibili e godibili, così come i suoni del verso, l'armonia
della parola, il ritmo della rima e degli accenti interni dell'endecasillabo,
quasi esclusivamente attraverso le sovrapposizioni e i movimenti armonici della
parola e delle luci in una miriade di giuochi semantici e coloristici ricchi di
un'incomparabile suggestione fonica e ottica. Pictura ut poesis. Così veramente in un unicum che
coinvolge anche la musica (parola, immagine, suono) si costruisce la dirompente
novità della creazione di Dante, affidata a tutti i possibili effetti di
letteratura e di cultura, a tutte le risorse possibili (nessuna esclusa) del
poetare, dalle reminiscenze del trobar clus alla linearità
“modernissima” di tanti passaggi narrativi, di tante battute di dialogo, di
figure scolpite con l'onnivora capacità di sfruttare ogni segreto che si
cela dietro la lingua della poesia. C'è bisogno di dire che nei nuovi
volgari nessuno prima di Dante era giunto a tanto?
Fissiamo un modulo di
scrittura che sia legato all'exemplum: esso potrebb'essere costituito
dal personaggio di Manfredi: figura descritta con procedimento insolito: biondo
era e bello e di gentile aspetto (in Purg., III,107) in un'opera in
cui, con recisa decisione, anche per i personaggi femminili (e faccia eccezione
qualche tratto di Beatrice) è espunta qualsivoglia stasi fisiognomica, e
non per altro motivo che per far emergere ancora di più nel panorama dei
personaggi un uomo cui era andata l'esecrazione del casato degli Alighieri e
della propria parte politica (di quel guelfismo oltranzista cui Dante aveva
aderito oltre dieci anni prima), e che ora sente caduta nell'errore d'aver
combattuto proprio coloro, Manfredi o Corradino (combattuto o consentito che
gli alleati del momento li combattessero: gli Angioini), i quali avrebbero
potuto precedere d'un cinquantennio l'arrivo del Veltro, se la bassezza degli
uomini, il loro gusto dello scontro e dell'assoluto diniego non avessero
infranto i più che sacrosanti sogni di redenzione dell'umanità
dei giovani prìncipi.
Troppo lontano nel
tempo Federico II, e poi non promovibile per la fama (non discussa da Dante) di
eresia, e disceso troppo tardi Enrico VII, Manfredi resta l'esempio per
eccellenza del principe giusto e pio, capace di redimersi dai propri peccati e
di divenire un redentore (ma ora Dante è persuaso della
orribilità di quei peccati, secondo le accuse più volte promosse
dai Guelfi), nobilmente distaccato da interessi particolaristici,
religiosamente disposto ad accogliere il suo destino di morte, discreto persino
nel presentarsi ad un uomo d'una generazione più giovane e non di pari
sangue (anzi un avversario di parte), e nel descrivere con parola casta la sua
miserevole fine. La gentilezza del personaggio impegna Dante ad espressioni d'alto
sentire epico: è il nuovo Roland d'una moderna Chanson, è
il malinconico eroe di un ideale altissimo per il quale è perito con le
armi in pugno, senza recriminazioni per il vincitore, mondo dinanzi a Dio
d'ogni vanità terrena e dell'astio del vinto. Ancora una volta Dante si
immedesima nella figura che ha creato, l'avverte come un modello per sé
(la filigrana autobiografica che scorre in tutto il poema si rivela anche qui,
come nel fato di Nino Visconti, più tardi nella mite immagine di Carlo
Martello): è morto l'uomo politico Dante, caduto sotto i colpi di forze
temporali troppo più grandi della sua tenacia di cavaliere dell'ideale,
una grave mora ha sepolto tutte le ambizioni terrene, disperse come le
ossa di Manfredi; resta però, anzi risorge dalle ceneri della
irrevocabile sconfitta il poeta Dante, testimone, missus quasi
celestiale, profeta di una futura vittoria contro il male; e proprio lui, erede
dei nemici dell'Impero, consacra qui la nobilità dell'estremo tentativo
di casa Sveva per ripristinare la pace tra le contrade d'Italia.
Nel quadro della
simbologia purgatoriale si possono individuare alcuni nuclei centrali: il primo
e più rapido è nella valletta dei prìncipi, il più
ampio, vario e composito si sviluppa nel Paradiso terrestre, e ha il suo
esemplare maggiore nelle due apparizioni, di Matelda e di Beatrice, il suo
momento politico nella profezia del Cinquecento diece e cinque. La scena
dell'arrivo del serpe nella valletta non è stata centralizzata a
sufficienza nell'allegoria generale del Purgatorio, se non per quel che
attiene nell'aspetto più comprensibile della mala striscia, il
serpente che ha tentato Eva e che ora viene discacciato dagli angeli,
cioè dalla Grazia divina. La funzione tentatoria del serpe è
stata estesa a tutto il processo di purgazione delle anime: nel qual processo
il momento della tentazione (sulla quale tanto si erano trattenuti gli
scrittori sacri del Medioevo) è indispensabile per la conoscenza del
vizio e il raggiungimento della virtù, “momento effettivo dell'espiazione
cristiana, che implica, nella contritio cordis, la meditazione del
peccato e della virtù opposta ad esso, coll'odio del primo e l'amore
della seconda, i quali comprovano insieme la metanoia del cristiano”[94].
La scena non è rappresentata davanti a tutte le anime del Purgatorio e
nemmeno dell'Antipurgatorio, ma soltanto dinanzi ai prìncipi negligenti,
e dunque simboleggia i conflitti e le lacerazioni ai quali sono sottoposte le terre
d'Italia per l'infingardaggine dei regnanti e per l'indifferenza o la
lontananza dell'imperatore: dunque la “sacra” rappresentazione della battaglia
del serpente e degli angeli ha un significato tanto religioso quanto politico.
Nel corso della processione
mistica Beatrice (Purg., XXXIII, 37-45) profetizza a Dante che l'aguglia
che lasciò le penne al carro non resterà per sempre sanza
reda, senza un effettivo titolare, poiché verrà un
cinquecento diece e cinque, Messo di Dio, che ucciderà la
meretrice (la sede pontificale) e il gigante (il re di Francia). Dante, scriba
Dei, auto-proclamatosi profeta dei tempi nuovi, avrebbe in questo
misterioso personaggio, il cui numero, DXV, letto in ordine diverso, darebbe
DVX, “dux”, una seconda figurazione del Veltro, ma con una diversa precisazione
di particolari, incentrati nella missione imperiale di questo Messo di Dio,
chiamato a uccidere, per rinnovarla, la Chiesa, e ad esercitare la
potestà di pace e di giustizia in terra. Il momento di redazione di
questi ultimi canti, verso il 1312, e quello di revisione, il 1315, possono
consentire un'identificazione del Dux tanto in Enrico VII, quanto in
Cangrande della Scala, o, meglio ancora, in una misteriosa potestà della
quale Dante non sa né può dir di più, se non che verrà,
perché il mondo non può restare troppo a lungo in questo stato di
prostrazione e di degenerazione, il messaggio di Cristo deve compiersi,
l'umanità tutta dovrà volgersi ai voleri di Dio, i quali sono
stati fermissimi tanto nell'istituire la sua Chiesa, quanto nel proclamare la
necessaria continuità dell'Impero romano.
La presentazione
emblematica, allusiva ma in un cerchio affatto indeterminabile, vaghissimo, di
Matelda ha indotto gli studiosi a sforzare il testo alla ricerca
dell'identificazione storica, anziché sconsigliare o relegare in un
angolo non importante la necessità dell'investigazione. Se Dante ha
voluto esprimersi per enigmi, il volerli risolvere ad ogni costo è
andare contro le intenzioni dello scrittore, soprattutto quando non esista una
prova, interna o esterna, concretissima della persona storica: la contessa
Matilde di Canossa (cui credevano il Lana e anche Pietro di Dante), santa
Matilde regina, santa Matilde di Hackenborn, Matilde di Magdeburgo: e
s'è giunti persino a formulare ipotesi fuori della denominazione
Matelda-Matilde cioè Maria Maddalena o altri personaggi delle Sacre
Scritture e della vita religiosa medievale. Se dobbiamo respingere seduzioni di
“realtà” storica, ciò non significa che dietro il simbolo di
Matelda venga fatto divieto di scorgere il riflesso d'un'esperienza giovanile
del poeta che trovi il grande corrispettivo e risolvente nel personaggio di
Beatrice, cui Matelda è strettamente connessa anche nella fabula
simbolico-narrativa del Paradiso terrestre, in un parallelismo Lia-Rachele da
un lato, Matelda-Beatrice dall'altro, che consente di risolvere altre cruces
della processione mistica. In tal senso sono stimolanti le pagine del Contini,
là dove sottolinea una “solidarietà onomastica nella prima quanto
nella seconda coppia”, in modo da poter sostenere “l'opinione di chi tende a
ravvisare in Matelda una delle amate subalterne di Dante, verisimilmente una di
quelle della Vita Nuova”, in netta opposizione al diniego del Barbi che
in Matelda s'identificasse una delle “fiorentinelle” amate dal poeta in
gioventù.
Il rapporto tra il
protagonista e la bella donna, provenga esso da un remoto ricordo, o sia
effetto d'una costruzione simbolica che tragga nascita addirittura dal
decennale della morte di Beatrice (cioè significhi per il personaggio
una mera presenza ideale che completi quella di Beatrice), spiega le ragioni
dell'apparizione di un'“altra” donna prima e accanto alla gentilissima,
il perché del salmo Delectasti cantato dalla donna soletta,
che solo più tardi s'inserisce, guidando Dante, vicino alle quattro
belle, le ancelle di Beatrice (Purg., XXIX, 103-104), fa bere a
Dante le acque del Letè e dell'Eunoè. Matelda è, dunque,
una “guida”, una ripetizione del simbolo di Lia, figura della vita attiva, e una
ministra liturgica (simbolo della Chiesa cui è stato affidato da Cristo
il compito di amministrare i sacramenti da Lui istituiti). Si può
privilegiare uno dei tre compiti di Matelda, sottolineando in modo particolare
l'accostamento a Lia e quindi parlando di una vita attiva “perfetta”, ovvero
ponendo in maggiore risalto la funzione culturale: immersione nell'acqua (nuovo
battesimo) e dissetamento dell'anima con l'acqua, un rito non consueto, non
legato alla pratica sacramentale dei fedeli che vivono nella Chiesa, ma
inventato e orchestrato appositamente per un pellegrino d'eccezione qual
è il poeta.
Quale ministro
rituale e simbolo dell'azione carismatica, Matelda è una ravvivatrice
della virtù, facendo riemergere la coscienza morale dell'uomo ad un
livello di auto-conoscenza e costringendo (con l'immersione, con la potazione)
a purificare la coscienza ora tutta cognita, tutta impegnata nello sforzo di
mortificazione ascetica e di purezza spirituale. All'interno di questa esegesi
del simbolo, e non come sostituzione d'una figura ad altra, possono ancora
trovare spazio altre ipotesi: Matelda come la Sapienza personificata, ovvero
come la Filosofia (in un rapporto, quindi, non acclarabile rispetto ai simboli
della Donna Gentile e di Virgilio), o la felicità temporale, o infine
l'innocenza originaria che godé l'uomo nel Paradiso terrestre prima del
peccato originale, ovvero (qui entra il modo di leggere Dante tipico di
Giovanni Pascoli) l'Arte nel senso propugnato da san Tommaso. Tutti questi
complessi interrogativi, ognuno dei quali non è del tutto privo di
qualche favilla d'ammissibilità, non debbono peraltro vietarci di godere
la figura poetica del personaggio, in quell'incantato paesaggio pittorico e
musicale della divina foresta e di tutto il panorama figurativo del
Paradiso terrestre, realizzato, come ebbe a scrivere il Croce, “in una nuova
forma di squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della
bellezza, dell'amore e del riso si esalta in ogni immagine”[95].
Nel racconto del
viaggio nel Paradiso terrestre Matelda ha inoltre un'altra funzione, la quale
per sé sola non sarebbe sufficiente a spiegare il simbolo che la bella
donna esprime, anche nel caso in cui si volesse far coincidere in Matelda
tanto il valore della vita attiva quanto quello della vita contemplativa (Lia
che va intorno tessendosi una ghirlanda di fiori, e la sorella Rachele che non
si disgiunge mai dal suo specchio). È la funzione dell'attesa di
Beatrice, il rito preparatorio del ritorno del poeta alla sua stessa origine
emotiva e concettuale, la “messa dei catecumeni” celebrata da una donna bella e
prototipica sì, ma che è destinata a dileguarsi, sebbene lentamente,
da un territorio dottrinario che d'ora in poi dovrà essere occupato
soltanto da Beatrice. Tutti i primi sessantatré canti della Commedia
(sessanta multiplo di sei e di tre, e tre numero perfetto) altro non sono che
una faticosa preparazione al ritorno di Beatrice, ma dalle fiamme dei
lussuriosi all'apparizione di Matelda il ritmo che precede il ritorno della gentilissima
si fa più incalzante. Scoprire i tempi di questo ritmo nella complicata
simbologia della processione mistica, è anzitutto affidare un reale
valore poetico ad uno scenario così sovraccarico di figure e riferimenti
allegorici, diviso nei due atti della processione mistica, al cui centro vibra
la requisitoria della riapparsa Beatrice contro il traviamento del poeta.
Gli elementi che
compongono eventi e personificazioni del rito, non offrono insormontabili
difficoltà all'esegesi; lo sciogliersi del velame allegorico è
piuttosto nel rapporto che lega tra di loro gli elementi stessi, dai sette
candelabri d'oro, accesi alla sommità, con cui inizia la processione, e
che rappresentano i sette doni dello Spirito Santo, ai susseguenti ventiquattro
seniori biancovestiti, procedenti a due a due, con in capo corone di gigli, ed
esaltanti la bellezza di una donna, eccelsa tra tutte le figlie di Adamo: sono
i libri dell'Antico Testamento. Sùbito dopo vengono quattro animali,
ciascuno dei quali è fornito di sei ali e ha una corona di fronde verdi:
sono i quattro Evangeli, le cui corone sono il segno del trionfo della parola
di Cristo, e le sei ali simboleggiano la vastità della potenza
speculativa. I quattro animali stanno ai lati d'un carro che è trainato
da un grifone, un mostro col corpo di leone, la testa e le ali d'un'aquila,
protese in alto. Il triunfal veiculo è la Chiesa trionfante e
militante; il carro ha due ruote, che possono essere intese come i due
Testamenti (ma essi erano già stati rappresentati), o come la vita
attiva e la vita contemplativa; il grifone è Cristo, la cui parte
leonina simboleggia la potenza, e quella aquilina la sapienza (Cristo nella sua
duplice natura: divina e umana). Le tre donne alla ruota destra sono la Fede
(quella vestita di bianco), la Speranza (verde), la Carità (rossa), le
tre virtù teologali, mentre alla ruota sinistra procedono quattro donne,
le virtù cardinali, Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza: tutte
quattro in porpora vestite perché mosse prevalentemente dallo
spirito della Carità. Appresso tutto il pertrattato nodo seguono
due vecchi con abiti disuguali e in portamento austero e dignitoso; l'uno pare
un medico (è san Luca, veramente già rappresentato in uno dei
quattro Evangelisti, ma qui rivisto nella funzione, a lui affidata nel
Medioevo, di autore degli Atti degli Apostoli), l'altro ha una spada
affilata in mano: è san Paolo, che prima della conversione era soldato
nell'esercito romano, e come Apostolo si distinse per la combattività
della propria oratoria, la forza dell'insegnamento profuso nelle Lettere.
Altri quattro uomini che seguono nella processione in umile paruta, in
quanto portatori di messaggi di minore importanza, sono i rappresentanti delle
altre Epistole: di san Giacomo, di san Pietro, di san Giovanni e di san
Giuda; e di retro da tutti un vecchio solo / venir, dormendo, con la faccia
arguta: è la figura dell'Apocalisse, opera di sogno profetico
vissuta da un veggente che sa penetrare, “arguto”, nel mistero. Questi ultimi
sette personaggi sono vestiti di bianco come i seniori, ma recano corone di
rose e di altri fiori rossi, anziché di gigli; infatti sono bianchi gli
scrittori del Vecchio Testamento, la cui essenziale virtù fu la fede nel
Cristo venturo, e rossi gli scrittori del Nuovo Testamento, che per l'appunto
testimoniano la passione di Gesù, e quindi la parola di Cristo venuto.
Giunto il carro dinanzi al poeta, si ode un tuono e la processione subitamente
s'arresta, in attesa di un evento eccezionale che richiede una sosta, una
meditazione su tutto ciò che è stato prima e su quel che ora
accadrà.
Il secondo tempo
della mistica processione avviene dopo l'apparizione di Beatrice (di cui vedremo
tra breve), la scomparsa di Virgilio, i rimproveri aspri della donna, la
contrizione di Dante, la magia del paesaggio silvestre che si fonde
armoniosamente con i profondi significati del simbolo religioso (paesaggio
visto e accarezzato con l'occhio del pittore, e interiore paesaggio di un'anima
assetata della conquista di se stesso), il pianto di Dante che consacra il
sublime istante in cui l'uomo ha preso coscienza della Grazia divina che
è scesa in lui e lo ha redento da tutte le passioni e i desideri
terreni, e infine lo svenimento, l'immersione nelle acque del Letè per
le cure di Matelda. Le quattro virtù cardinali accompagnano il poeta,
pentito e redento dal suo pianto, dinanzi a Beatrice e lo invitano ad ammirare
la bellezza di lei, nei cui occhi Dante vede riflesso, come il sole in uno
specchio, il grifone, che gli appare ora nella sua sembianza leonina, ora in
quella d'aquila. Dopo il lungo mirare la bellezza di Beatrice da parte del
poeta, la processione riprende il suo incedere, attuando una totale conversione
dalla parte destra. Beatrice scende dal carro (e ciò simboleggia il suo
approssimarsi a Dante, nella funzione di guida nel Paradiso), e tutti
pronunciano il nome di Adamo, a significare il ritorno all'origine, attraverso
il ripercorrere le varie fasi della storia umana così com'essa è
stata predisposta dalla volontà di Dio; e quindi circondano una pianta
completamente spoglia di foglie e di ogni altra fronda. Un nuovo complesso
simbolo è affidato a questa rappresentazione della pianta dispogliata:
forse l'Umanità in tutta la sua storia, o anche l'ubbidienza ai voleri
divini, o la Chiesa, o anche il diritto naturale, più probabilmente
l'albero della scienza del bene e del male, la Sapienza che è necessaria
perché l'uomo possa completare il proprio ciclo ascetico, ma non
esaustiva del processo di redenzione che ha bisogno della salvaguardia e della
protezione della Chiesa. Il grifone lega il carro ai piedi dell'albero con un
ramo che è tratto dall'albero stesso, e la pianta sùbito si
rifà nuova: Cristo, sia quale Figlio di Dio che Figlio dell'Uomo,
afferma il suo rispetto per i voleri di Dio, infranti da Adamo e da Eva, ma con
l'Incarnazione rigenera di nuova linfa la pianta, cioè l'umanità,
ch'è redenta dalla Passione, dal sacrificio di Gesù che è
qui rappresentato dai fiori che spuntano sul ramo, men che di rose e
più che di vïole (il
rosso del sangue di Cristo e il violaceo dei paramenti sacri durante la
Settimana santa?).
Il poeta è di
nuovo oggetto d'un profondo sonno, al cui termine scorge Beatrice che è
seduta al piè dell'albero in compagnia delle virtù cardinali e
teologali. Sarà compito di Matelda illuminare il poeta delle ragioni per
le quali il resto della processione ha seguito il grifone nel suo ritorno al
cielo, poiché tutta la liturgia che sino ad ora si è svolta
dinanzi agli occhi di Dante, vuole rappresentare la nascita e la costituzione
della Chiesa, che ora trionfa con Cristo nell'alto cielo. Ma l'apprendimento
rituale non è ancora terminato.
Il ritorno di
Beatrice è il centro e il fine del poema, la soluzione di tutti gli
enigmi, il perfezionamento di ogni stimolo intellettuale, l'occasione che ha
dato vita al realizzarsi letterario e filosofico-teologico della Commedia
dal tempo della mirabile visione; la meta suprema dell'intellettuale
fiorentino Dante Alighieri, che ha vissuto in Toscana tutte le sue amare
esperienze politiche, s'allontana da una terra insanguinata dalle risse
cittadine, e a Verona (non già nell'amata-odiata Firenze) ritrova,
durante la scrittura dei canti XXVIII-XXXIII del Purgatorio, la donna
della giovinezza: figuralmente a dieci anni dalla morte (1290-1300), realmente
a vent'anni dalla Vita Nuova (1292-1312 circa), a dieci anni dalla
sentenza di morte (1302-1312), in una rispondenza numerologica che non appaga
soltanto il letterato medievale, ma l'uomo di fede che àncora al
ritornare nel tempo, secondo i numeri perfetti, i sogni e le speranze d'un
passato che, non senza grande sofferenza, riesce a tradurre in presente, e a
trasmettere, in quanto il sacrato poema è profezia dei tempi che
verranno, nel futuro. Occorre riguardare con attenzione le date di cui sopra:
il vero ritorno di Beatrice, quello poetico e interiore, attua il pieno
riscatto del poeta, ma ciò avviene non in conseguenza (come la fabula
della Commedia vorrebbe far supporre) in modo da “disbramare” la
decenne sete, ma come effetto d'un lunghissimo processo catartico (un
ventennio!) che si avvarrà sia delle remote esperienze del periodo
fiorentino, sia e ancor di più di tutte le ricerche filosofiche, delle
ansie politiche, delle conquiste retorico-stilistiche, d'una completa
acquisizione della teologia non quale semplice tessuto della Commedia,
ma come onnipresenza concettuale. Ancora una volta si realizza nel poema
(notevolissima prospettiva dalla quale non dobbiamo mai distaccarci se vogliamo
dare un senso concreto alle affermazioni e ai fantasmi della Commedia)
una duplicazione tra il viaggio di Dante nell'oltretomba quale fictio
poetica e gli stati d'animo di lui nel momento in cui genera il singolo
episodio, quel canto, quella parte della cantica. Il personaggio ricerca e
ritrova l'altro personaggio, Beatrice, mentre il poeta realizza in quella
riapparizione una parte essenziale del suo messaggio di maestro e profeta di
una nuova età; il personaggio trasmette all'episodio la sua somma
d'incertezze, di dubbi, di tormenti, indispensabili per una rigenerazione
interiore: è un uomo ancora stretto dalle colpe, con una percezione in
qualche modo confusa dei modi della propria salvezza, con la coscienza che
soltanto un processo implacabile quale può nascere dalla requisitoria di
Beatrice varrà a cancellare le responsabilità del passato. Il
poeta è al di là del muro di fuoco, al di là d'una
drammatica stretta d'affanni morali quali la visita delle cornici del
Purgatorio può accrescere e poi trasfigurare in rito purificatorio (il
quale è sempre più severo, al contrario del cammino del viator
che è sempre più spedito) e “finge” di creare una situazione
scenica (il processo al peccatore Dante, la faticata assoluzione dal proprio
traviamento), immagina un'attualizzazione che nella realtà degli anni
veronesi non esiste più.
Dobbiamo, peraltro,
osservare più il prodotto letterario che le intenzioni o i modi del
vivere morale nel momento in cui Dante crea. Il clima della riapparizione della
donna amata è perfettamente risolto in forme, è rappresentato con
la massima esattezza nei termini di un reincontro umano; Beatrice, sempre
presente ma non ancora in grado di investire con la sua persona simbolica tutto
il mondo morale del personaggio della Commedia, riemerge da un remoto
passato e si fa attuale, parla con una voce che fu la sua voce, ricorda
all'amante smarrito circostanze e propositi che erano di lui o di lei,
“ripassa” tutta la vita giovanile, la “vita nuova” di Dante senza obliare alcun
evento di fondo, e puntando con aspro risentito affetto al cuore di
quell'inobliabile pagina di vita.
Perché questo
ritorno di Beatrice possa incidere profondamente nella suggestione d'un lettore
medievale, non era sufficiente una semplice riapparizione: discreta e
proveniente quasi dall'ombra, come le comparse di Virgilio o di san Bernardo,
rapidi ritratti figurativi qual è quello di Matelda. Il lettore non
s'acquietava d'un ingresso che non fosse un vero e proprio trionfo liturgico,
un grande “spettacolo”, per il mezzo di ingredienti scenici, nei limiti
impliciti allo stesso processo d'idealizzazione che è in atto in ogni
disegno medievale della donna amata, purtuttavia non esenti da precise
reminiscenze di particolari che non erano ovviamente incancellabili soltanto
dalla memoria di Dante, ma che facevano parte d'un patrimonio di letture ben
noto all'immediato destinatario del Purgatorio: il passaggio mnemonico
dal drappo sanguigno della Vita Nuova al color di fiamma viva
di Purg., XXX, 33, dal bianco velo del ritratto giovanile
all'attuale candido vel, dalla nebula alla nuvola di fiori,
dal mirabile tremore al rinnovato trepidante smarrimento che desta la
riapparizione, al ricordo delle belle membra, alla potenza del suo
sguardo, al sorriso, il primo di tanti sorrisi di Beatrice. Non nasce in questo
momento, ma si rinnova, si attua in più perfezionate forme e fantasie
quella ricchezza di atteggiamenti e di espressioni di Beatrice cui poi ci abituerà
la lettura del Paradiso. Si potrà affermare, per ora, che le
proprietà figurative di Beatrice di cui poi nel Paradiso,
appaiono durante la processione mistica fortemente concentrate, sì da
rendere ancora indefinito il simbolo, il quale dovrà disvelarsi lentamente
e attraverso una serie notevole di dibattiti e di precisazioni dottrinarie,
nella terza cantica, atti ad esprimere altre interiori significazioni
spirituali, il messaggio mistico, il magistero teologico, il vero valore,
insomma, della guida di Beatrice, ancora in fase proemiale negli ultimi canti
del Purgatorio e in piena continua funzione in tutto il Paradiso,
per lo più direttamente (con le parole “esplicite” di Beatrice), ma
anche in forme indirette, con gli occhi, col sorriso, talvolta attraverso le
espressioni di altri personaggi.
XV
LA CONCEZIONE POLITICA
DAL “PURGATORIO” ALLA “MONARCHIA”
Col passare degli
anni, lontani ormai i tempi del priorato e dell'ambasceria romana, non
placatosi l'animo ma ben diverso da quello del giovane “consigliere” pronto a
sfidare le ire di papa Bonifacio VIII pur di rimaner coerente con le proprie
idee di strenuo difensore delle libertà popolari in Firenze, Dante va
evolvendo la sua concezione politica. Troviamo qualche divergenza tra quanto
espresso nel canto di Marco Lombardo e quanto tratteggiato e accuratamente
discusso nella Monarchia, ma siffatte divergenze sono all'interno dello
stesso sistema politico, decisamente filo-imperiale e in stretta aderenza agli
assunti e ai proclami della pubblicistica ghibellina. Che cosa è rimasto
dell'oltranzismo del guelfo bianco di “estrema sinistra” degli anni che corrono
dai Temperamenti alla calata di Carlo di Valois? Sembra poco o nulla, se non lo
stesso oltranzismo ma piegato a ragioni non bisogna dire opposte, ma
profondamente diverse.
Dapprima la Chiesa
era concepita come un'istituzione divina ma che abusava del proprio potere
impadronendosi delle norme della politica terrena, propria della libertà
del Comune, della autonoma volontà popolare, della gelosa difesa della
indipendenza dello Stato fiorentino (di conseguenza di tutti gli stati terreni)
dal potere di Roma. Ora il temporalismo, anzi la “simonia” e il “nepotismo” dei
papi è attaccato dalla parte opposta, da quella dei diritti dell'Impero,
di cui il Dante giovane non teneva alcun conto, e anzi ignorava tutt'affatto,
preso dall'esclusivo amore per la libertà del reggimento popolare, per
la difesa della democrazia fiorentina. Oggi tutti questi regimi locali non
debbono essere altro che vassalli dell'Impero, concordemente uniti a lui nella
protezione della pace e della giustizia terrena, che solo il Monarca può
assicurare. Si può trovare diversità più profonda tra il
Dante a cavallo dei due secoli e il Dante del canto XVI del Purgatorio?
È chiaro che
il nostro animo di lettore moderno è tutto per il Dante giovane, ma
senza comprendere l'evoluzione della sua concezione politica si rischia di non
afferrare il senso fondamentale del messaggio palingenetico e visionario della
“divina” Commedia, così come lentamente si dipana dai versi dell'Inferno
dedicati piuttosto alla parte dextruens della lotta alla Chiesa, mentre
l'apparato construens è devoluto alla seconda cantica: la
degenerazione dei tempi, l'infingardaggine dei regnanti, la mala disposizione
della Chiesa, l'assenteismo da troppo tempo prolungato dell'imperatore, le
nostalgiche accoratezze per personaggi politici di un'altra e ben più
degna età.
Su tutto questo
vibrante registro è tenuto il grido di Dante a commento del fraterno
abbraccio di Sordello a Virgilio: lungo, appassionato, intensissimo grido[96],
che condensa disperazioni, disillusioni, invettive, amarezze d'un esule da
sette-otto anni lontano da Fiorenza mia, testimone sgomento delle guerre
fratricide, delle tirannie di cui son piene le città d'Italia.
E a questi versi, che ebbero la ventura di costituire un punto di riferimento
morale per le generazioni del nostro Risorgimento, e son pagine di storia
italiana, altri se ne aggiungono, di minore altezza poetica, ma non meno
sofferti, non meno emblematici: la condanna dell'operato politico di Filippo il
Bello e di Corso Donati, il mascheramento delle malefatte di Bonifacio VIII e
di Clemente V (o di tutti e due assieme) dietro l'allegoria della puttana
sciolta, della fuia, l'elenco delle negligenze e degli errori dei
principi nella valletta fiorita[97], i ritratti
negativi ma non polemici di ecclesiastici, da papa Adriano V all'Abate di San
Zeno.
Vengono ad avvivare
ancor di più l'autobiografia politico-religiosa del Purgatorio
altri e non meno famosi episodi, legati all'offesa recata alla somma
dignità del vicario di Cristo con lo schiaffo d'Anagni, o a uomini
politici apprezzati per le loro gentili doti (da Nino Visconti a Corrado
Malaspina) o il loro coraggio (Bonconte da Montefeltro), o ad un eccezionale
personaggio storico, di cui il nipote di Bellincione Alighieri avrà
sentito da fanciullo nomare le gesta con timore misto a venerazione, ma ora
l'esule che s'è avvicinato agli ambienti ghibellini e che nutre in
sé ammirazione e speranza per la restaurazione dell'Impero, riguarda
come ad un meraviglioso simbolo dell'età passata: Manfredi. La dipintura
raffinatissima della fisionomia, il supremo tono di gentilezza che spira
dall'episodio e che s'esprime nel sorriso di Manfredi, nella discreta
autopresentazione (nepote di Costanza imperadrice), nel racconto
emozionato delle ultime sue ore, nel profondo senso di religiosità dello
scomunicato contrito, la preghiera umile rivolta a Dante, questi elementi e
altri ancora contribuiscono ad effigiare il ritratto politico più
convinto, più partecipe dell'intera Commedia.
Nel canto XVI del Purgatorio
un personaggio che Dante incontra tra gli iracondi, Marco Lombardo[98],
risponde a Dante, che lo interroga sulle cause della degenerazione del tempo
presente, esser colpa dell'umano libero arbitrio se la situazione morale
s'è così corrotta, giacché Iddio aveva invece disposto che
due potestà provvedessero a guidare gli uomini sulla retta via:
Soleva Roma,
che 'l buon mondo feo,
due soli aver, che l'una e l'altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha
spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l'un con l'altro inseme
per viva forza mal convien che vada...
Questa perentoria
affermazione, collocata alla metà del Purgatorio, e quindi alla
metà giusta dell'intera Commedia, esprime in sintesi il concetto
che è alla base della autobiografia politico-religiosa di Dante,
superato il primo periodo di sbandamento ideologico susseguente all'esilio: non
elaborato ma già esplicito nel Convivio, centrale nel poema,
oggetto di lungo dibattito nella Monarchia, causa di alcune Epistole
politiche, e soprattutto ragione dell'intero comportamento pubblico di Dante
almeno dall'annunzio della spedizione italiana di Enrico VII, non oppugnato
nemmeno negli ultimi anni di vita, quando il suo animo è tutto preso dal
grande sogno di farsi banditore e profeta della nuova età, d'esser lui
Dante il Veltro e il Cinquecento diece e cinque, il portatore della
buona novella agli uomini di buona volontà.
A cagione del peccato
d'Adamo l'umanità s'è allontanata dalla via tracciata da Dio al
momento della Creazione del primo uomo, ed è iniziata la degenerazione
della natura umana. Per riportare l'umanità sulla retta strada Iddio ha
voluto che il suo Figliuolo s'incarnasse e patisse il supplizio, di modo che
l'Agnello di Dio ha potuto liberare il genere umano dal peccato originale:
Volendo
la 'nmensurabile bontà divina l'umana creatura a sé riconformare,
che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e
disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo consistorio de la
Trinidade, che 'l Figliuol di Dio in terra discendesse a fare questa concordia[99].
La liberazione dal
peccato originale non ha tuttavia consentito che il genere umano fosse immune
dal cadere in colpa, poiché una certa infirmitas lo espone al
continuo rischio di peccare; la tentazione di Eva s'è trasmessa a tutti
i figli della carne. Ma la clemenza del Signore ha voluto fornire agli uomini,
nessuno escluso purché sappia esserne degno, i mezzi per sfuggire alla
tentazione, evitare il peccato, praticare la virtù, aspirare al gaudio
eterno. Gli strumenti creati da Dio furono due autorità, l'Impero e la
Chiesa: rimedi contro l'infermità derivata dal peccato.
Dante lumeggia il
dato di fatto secondo cui l'uomo tende a raggiungere la felicità nella
vita terrena, per poter aspirare a raggiungere, dopo la morte, la letizia
celeste: “Due fini, dunque, l'inesprimibile Provvidenza pose innanzi all'uomo,
acciocché li perseguisse: la felicità in questa vita e l'eterna
beatitudine”. Per il raggiungimento della letizia terrestre è necessaria
la pace, che ovunque si realizzi, impedisce il dilaniarsi delle fazioni
politiche, le asperrime guerre tra città e città, regni e regni,
reggitori e reggitori: “la pace universale è la migliore tra le cose che
contribuiscono alla nostra beatitudine”. Una potestà è stata
voluta da Dio perché la pace sia universale, l'Impero. Ma esso non
è immune da pericoli stante la circostanza che è continuamente
insidiato dalla malvagità e dai rancori del genere umano:
...con
ciò sia cosa che l'animo umano in terminata possessione di terra non si
queti, ma sempre desideri gloria d'acquistare, sì come per esperienza
vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono
tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le
vicinanze de le case, e per le case de l'uomo; e così s'impedisce la
felicitade[100].
La potestà
divina che è dell'Impero, deve innanzi tutto combattere la
malvagità degli uomini, soprattutto la cupidigia, distruggendo la quale
(il Veltro che scaccerà la lupa, simbolo dell'avarizia) la
felicità è assicurata a tutti. Tutto ciò può essere
compiuto soltanto dall'imperatore,
lo
quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna
contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la
quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s'amino, in questo
amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l'uomo viva
felicemente[101].
La distruzione della
cupidigia sradica il male principale che affligge l'umanità, e
l'imperatore è perciò da ritenere come l'unico che possa
assolvere ad una così essenziale necessità per il genere umano;
così ha voluto Iddio nei suoi provvidenziali disegni a favore delle
proprie creature, e in modo analogo, sia pure per fini ancor più alti,
ha voluto che Cristo fondasse la Chiesa, strumento perché l'uomo possa
essere guidato in terra alla conquista della propria salvezza e sia disposto a
godere la felicità in cielo.
La disposizione
divina dei due soli è stata però elusa dall'imperversare
della cupidigia in terra. L'avarizia dei pontefici ha fatto sì ch'essi
trascurino la loro missione spirituale e attendano esclusivamente al potere
temporale, non voluto da Dio; la Chiesa di Cristo è vacante; sul suo
soglio siede un usurpatore. E Dante mette in bocca proprio a san Pietro, il
primo vicario di Cristo, l'invettiva contro la vacanza della sede:
Quelli
ch'usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio[102].
La cupidigia dei
pontefici è giunta ad impadronirsi dei beni dell'impero, ad arrogarsi
diritti spettanti all'imperatore, distruggendo la pace, scatenando il male,
privando l'uomo d'ogni aiuto per poter raggiungere la beatitudine celeste.
Anche l'Impero è vacante; per troppo tempo non è stato dato un
successore ai Re dei Romani, poiché Alberto I d'Austria, imperatore dal
1298 al 1308, s'è occupato soltanto delle cose della Germania e ha
trascurato il giardin de lo 'mperio, l'Italia (né Rodolfo I,
né Alberto I, pur avendo il titolo, vennero in Italia per farsi incoronare
a Roma, nella sede degli Apostoli); donde l'accorata apostrofe di Purg.,
VI, 97-102:
O Alberto
tedesco, ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio
da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Sono amarissime
parole, scritte certamente dopo la morte del primogenito di Alberto, Rodolfo,
re di Boemia (1307), e nell'imminenza della discesa di Enrico VII, o dopo il
fallimento della sua spedizione[103], ma
indubbiamente proclamanti la gravità della situazione non soltanto in
Italia, bensì nel mondo intero, dove la Monarchia universale ha cessato
di affermarsi e di dominare. V'è qualche rimedio ad una così
drammatica assenza dei due soli? Nella concezione politica dantesca
s'inserisce qui un elemento di grande messianica speranza: che il mondo
tornerà rigenerato: dal Veltro, prima; ora dal Cinquecento diece e
cinque; infine da una parola ancor più perenne: quella dello stesso
poeta proclamatosi profeta della nuova età attraverso il messaggio
lanciato dal poema sacro. Per il momento occorrerà sostenersi su
altre due forze, la filosofia e la Rivelazione (Virgilio e Beatrice): a queste
due felicità, terrena e ultraterrena, bisogna arrivare con mezzi
diversi, così come si giunge a conclusioni differenti. Alla prima
possiamo giungere per mezzo della filosofia, quando la seguiamo operando
secondo le virtù morali ed intellettuali; alla seconda per mezzo di
verità che trascendono la ragione umana, quando la seguiamo operando
secondo le virtù teologali: la fede, cioè, la speranza e la
carità. Verrà poi l'ora del trionfo dello Spirito Santo, secondo
le profezie di Gioacchino da Fiore, dell'arrivo del distruggitore
dell'Anticristo, e allora l'Impero e la Chiesa torneranno ad assolvere le loro
rispettive funzioni. Il monarca universale ucciderà allora la cupidigia,
costringerà la Chiesa a restringersi nell'ufficio che Iddio le ha
affidato, restituirà la pace alle terre insanguinate d'Italia; egli
sarà executor iustitie, e se commetterà errori
nell'esercizio del potere temporale, il papa lo consiglierà a tornare
nel retto governo dei popoli così come l'imperatore guiderà il
papa se questi avesse a fallire nelle cose spirituali. Un perfetto equilibrio
si ristabilirà nel mondo; la pace sarà eterna, come sarà
eterno il gaudio in cielo.
L'autobiografia
ecclesiale dantesca, già compiutamente espressa nel canto di Marco
Lombardo e nella trattazione della Monarchia, si consolida di ulteriori
convinzioni, nel corso del Paradiso, relativamente alla necessità
d'una totale rigenerazione del genere umano e al compito, che in tal senso
è affidato alla parola stessa del poeta, di preannunciare i tempi e i
modi d'una nuovissima età cristiana. La cronologia che oggi P. G. Ricci
ha confermato sulla genesi del trattato politico e il protrarsi del dibattito
circa la giurisdizione dell'Impero oltre il momento dell'elezione del nuovo
papa Giovanni XXII (7 agosto 1316), investono direttamente la composizione del Paradiso,
e in qualche misura trovano spazio nella scrittura dell'Epistola XIII,
là dove Dante, sollecitato dalla lunga vacanza della sede papale a
compiangere le sorti d'una Curia individuata in Roma, sede del Vicario di
Cristo ma vedova e derelitta, in una veemente pagina che trova qui, forse, il
vertice dell'energia letteraria dantesca per quel che concerne la prosa in
latino, si rivolge ai cardinali italiani affinché concordino tra di loro
l'elezione d'un pontefice che riporti la sede della Chiesa a Roma. Questo
complesso d'emozioni vibra (ben oltre la data della convocazione del conclave)
in tutto il tessuto politico del Paradiso, sia pur fittiziamente
riportato alla data del viaggio dantesco nell'oltretomba, nel corso del quale
il viator riprende più volte questo concetto ed esplode
altrettante volte nell'amarezza di constatare la degradazione della Chiesa di
Cristo, sino a raggiungere il proprio climax nei canti finali del Paradiso,
ad esempio nel rimpianto di san Pietro in presenza di Cristo, non degli uomini:
rimpianto che reca con sé l'amarezza che sia venuta a mancare,
nonostante la buona volontà di pochi e in conseguenza della
perversità di molti, la possibilità di risolvere col tramite
d'una potestà ciò che né la Chiesa, né l'Impero
erano riusciti a compiere, per la vita dell'anima e per la giustizia in terra.
Eppure, nonostante i sarcasmi, i rimproveri, le invettive, poste sulle labbra
non soltanto di Beatrice, ma anche del Principe degli Apostoli, la speranza non
è sopita nel profondo del cuore del poeta: speranza che siano (non ora,
ma più tardi, e proprio in virtù del messaggio carismatico
affidato al poema sacro) rimarginate le sanguinanti ferite inferte al
corpo della Chiesa dai suoi indegni pastori, sanza legge e che hanno
negletto la cura della Sposa di Cristo, sono divenuti “folli”, si sono lasciati
attrarre dalla cupidigia della ricchezza (schiavi della lupa) e hanno
perciò stesso deviato il corso della volontà divina.
Il vocabolo impero,
nell'accezione più diffusa e che concerne il concetto e le forme
istituzionali della Monarchia universale, la dottrina dell'Impero, le speranze
e le disillusioni connesse con le immense possibilità con l'istituzione
e col fallimento d'esse, le figure di imperatori romani e moderni (sino allo
scranno vuoto che attende lo spirito di Enrico VII), costellano tutto il
tessuto morale della terza cantica, animano alcuni dei suoi momenti di
più alta tensione emotiva. Anche sotto il profilo strettamente
concettuale la lettura della terza cantica offre elementi di ulteriore
conferma, se non proprio d'originale sviluppo. Il centro dell'attenzione
dantesca riposa nel canto di Giustiniano, sul piano storico, nella lunga
descrizione del volo dell'aquila romana, da Cesare a Carlo Magno, e sul piano
teoretico, nell'affermazione (Par., VI, 82-93) che la pienezza della
giurisdizione romana su tutto il mondo aveva potuto consentire a Dio che con la
passione e morte del Figlio, eseguite con l'assenso di Roma (per il tramite
della licenza data da Ponzio Pilato ai Giudei di farsi promotori della
crocefissione), Egli potesse punire il peccato antico, la colpa di
Adamo. Infatti Cristo, incarnandosi e soffrendo la passione durante
l'età imperiale, ha inteso rispettare la legge di Roma, riconoscendone
quindi la legittimità e l'universalità[104].
La vendetta di Dio si è estesa poi al popolo ebreo, crocefissore
di Cristo, allorché il Signore ha concesso che un imperatore romano,
Tito, punisse gli Ebrei distruggendo Gerusalemme.
Altrove[105]
il testo del Paradiso offre un ulteriore sostegno alla concezione dei
due distinti ruoli che Iddio ha affidato alla Chiesa e all'Impero con l'amara
constatazione che la prima (la gente ch'al mondo più traligna) ha
travalicato i propri compiti invadendo prerogative spettanti al Monarca
universale; e quindi divenendo ostile matrigna, noverca, dell'Impero, e
facendo sì che la sede di Cristo resti vacante perché i papi
usurpano il potere temporale e trascurano i loro doveri di capi spirituali.
Rivelatrice, inoltre, del pensiero politico dantesco è l'affermazione
della continuità etico-giuridica della potestà di Roma nel Sacro
Romano Impero (translatio a Graecis in Germanos), il cui atto di nascita
è l'incoronazione di Carlo Magno nella basilica vaticana, sulla tomba
del primo vicario di Cristo.
XVI
DA VERONA A RAVENNA.
LE “EPISTOLE”, LE “EGLOGHE”, LA “QUESTIO”
Anche per l'ultimo
quindicennio della vita, le scarne notizie che noi possiamo dedurre dalle
testimonianze esterne e interne appaiono soverchiate dalla storia complessiva
della Commedia, poiché tutti avvertiamo che il vero “fatto” di
quella vita è esplicitato nel poema, è il poema stesso nelle
alterne vicende di quell'intelletto; ciò vale sia per il sessennio
veronese, dal 1312 al 1318, sia per il triennio o poco più ravennate:
dal 1318 al 1321, ove si potrà inferire al massimo qualche sporadica
uscita dalle città per incombenze di carattere politico, assai raramente
per altri motivi, anche se culturali. A Verona è chiuso in se stesso,
non ha bisogno di comunicare personalmente coi dotti del tempo, non gli
necessita d'entrare in contatto con gli ambienti delle Università. Si
potrà vedere tra breve che esisterà un piccolo cenacolo dantesco
a Ravenna; non credo che invece ne fosse esistito un altro nella corte
scaligera. Tutto l'impegno è concentrato nel lavoro di revisione dell'Inferno
e del Purgatorio e nella iniziativa di pubblicare le due cantiche.
Entra in scena il
cosiddetto argomento barberiniano. In una chiosa alla carta 63 dell'autografo
dei Documenti d'Amore[106], Francesco
da Barberino parla di Mantova e di Virgilio, e a questo proposito soggiunge:
Hunc
[Virgilium] Dante Arigherij in quodam suo opere quod dicitur Comedia et de
infernalibus inter cetera multa tractat, commendat protinus ut magistrum; et
certe, si quis opus illud bene conspiciat, videre poterit ipsum Dantem super
ipsum Virgilium vel longo tempore studuisse, vel in parvo tempore plurimum
profecisse.
Si tratta della prima
attestazione dell'esistenza o della conoscenza che il mondo letterario ha del
poema dantesco, e quindi ci si è molto adoperati per datare quella
chiosa del Barberino, al fine di accertare la data di conclusione e di
divulgazione almeno della prima cantica, ovvero sia dell'Inferno che del
Purgatorio. È arbitrario pensare che la chiosa venisse scritta a
Mantova nel principio dell'estate del 1313, mentre è più
opportuno spostarla oltre il 1314-1315. Non è in ogni caso provato, come
affermò il Nardi, che l'Inferno girasse già nel 1313 per
il mondo. Insomma ritengo che l'Inferno sia stato pubblicato nella
seconda metà del 1314, e il Purgatorio nell'autunno del 1315.
L'anno successivo Dante è già alacremente al lavoro attorno al Paradiso,
e ciò è confermato da recenti studi che collocano l'epistola a
Cangrande tra il 1315 e il dicembre del 1317. Il tempo del sessennale soggiorno
di Dante a Verona corrisponde a circa la metà del lavoro
difficoltosissimo, ed io ritengo che la chiave per conoscere la data
d'allontanamento da Verona è proprio il canto XVII, terzo di
Cacciaguida, con quell'accorato riassunto poetico di tutte le vicende
dell'esilio e l'esaltazione di Cangrande, nel momento del congedo dal generoso
signore, da parte d'un uomo meno adusato agli encomi all'atto di usufruire
dell'ospitalità che non a ricordare i benefici quando essi appartengono
al passato, e il ringraziamento non appaia attesa di altri favori. L'elogio di
Cangrande, venuto a cadere proprio a metà del lavoro, risolve infatti
una parte così notevole della vita del poeta quale la fatica del Paradiso,
consegna al ricordo i meriti di Cangrande altrettanto come l'epistola a lui
diretta documenta non una reminiscenza di cose passate, ma l'esigenza di
chiarire le ragioni d'un lavoro in atto.
Sull'epoca e sulle
ragioni della partenza da Verona molto s'è scritto, eppur in modo da
lasciare aperte ipotesi diverse quando non contrastanti. Tra di esse mi sento
di optare per l'anno 1318, quale quello dell'arrivo a Ravenna. È parso
al Ricci[107]
che l'epidemia di peste, imperversante “in Provincia Romandiolae” dal 1318 al
1319, debba aver impedito, o almeno sconsigliato l'accesso alla città di
Ravenna in data posteriore ai primi del 1318. L'argomento del Ricci non
è perentorio, anzitutto perché la notizia fornita dall'anonimo
degli Annales Caesenates non deve di necessità estendersi a
Ravenna, i cui cronisti non registrano l'avvenimento così come altri di
altre città romagnole, ma anche perché la circostanza è
tutt'altro che sicura pur per Cesena, e non notiamo alcuna pausa
nell'attività politica di Ravenna, così come osserviamo che il
Concilio Provinciale di Bologna tiene regolarmente, a fine ottobre 1317, le sue
sedute senza essere rinviato. Elemento certo è che sul finire del 1319[108]
Dante è stabilmente “Eridani mediamne”, tanto stabilmente che la dimora
ravennate appare al Del Virgilio già in parte consumata dall'attesa
della promessa visita e dell'invio d'uno scritto amichevole, e comunque
impegnata nella conclusione d'un'opera da cui Giovanni (mai richiesta fu tanto
inopportuna) vorrebbe che l'animo di Dante si distogliesse per darsi all'epica
latina. Si vedrà poi della sentenza di condanna di Pietro Alighieri, del
4 gennaio 1321, ma è urgente premettere che l'episodio presuppone un
periodo di soggiorno della famiglia di Dante già abbastanza prolungato
nel tempo. Ed è altresì da scartare l'opinione che Dante si
trattenesse a Verona sino al momento di leggere nella chiesa di Sant'Elena il
testo della Questio, la domenica del 20 gennaio 1320; la fortunata
lezione avvenne in occasione d'un passaggio di Dante a Verona proveniente da Mantova
(existente me Mantue) e diretto a Ravenna, trovando la città dei
Della Scala la sede più adatta per ribadire e perfezionare opinioni
espresse nell'ultimo canto dell'Inferno, proprio nella città che
aveva visto poco più di cinque anni prima l'ultimo ritocco letterario e
la divulgazione di quella cantica, così che il “theologus nullius
dogmatis expers” poteva pubblicamente dimostrare che il suo impegno di
scienziato era sempre più teso alla ricerca della verità, ora che
da lui s'attendeva la conclusione dell'opera così legata alla
città di Cangrande.
Quali i motivi della
partenza da Verona? Per il Torre[109]
Dante si sarebbe mosso da Verona per espresso incarico di Cangrande,
interessato al sale di Cervia e desideroso d'indurre Guido Novello da Polenta a
resistere ai Veneziani. Giunto come ambasciatore a Ravenna, vi sarebbe rimasto
come ospite stabile? Affermare ciò sembra almeno cosa superficiale, e
induce a spostare la partenza da Verona almeno al 1320, con problematica
identificazione di siffatto incarico con l'ambasceria a Venezia di cui poi si
dirà. Le cause della partenza sono da cercare a Verona, non a Ravenna:
disagio cresciuto col tempo d'una imposta sodalitas con cortigiani che
non stimava e forse ne osteggiavano il temperamento[110];
il tipo di politica “locale” intrapresa ad un certo momento da Cangrande,
lontano dalle grandi prospettive “italiane” cui Dante lo sentiva destinato e
nelle quali s'ostinava ancora a credere[111].
Se una causa “ravennate” ci fu, non fu forse politica, ma culturale: le
attrattive di spendere gli ultimi anni in un ambiente di letterati e di dotti
quali erano attorno a Guido Novello, poeta anch'egli (e già con qualche
successo prima ancora che Dante pensasse di trasferirsi nella sua sede).
A gloria degli anni
veronesi non sarà da attribuire soltanto una vicenda lunga e centrale
relativa alla Commedia, ma la stesura d'altri scritti: la Monarchia
e le ultime tre Epistole. Il problema della composizione del trattato
politico è complesso oltre ogni grado: si oscilla tra il 1308 circa,
secondo il Nardi, e il 1317 “o di poco posteriore”, secondo il Ricci, il quale
fa leva sull'autocitazione sicut in Paradiso Comedie iam dixi (I, xii, 6), giustamente riabilitata come
autentica, e sull'infittirsi delle diatribe della pubblicistica contemporanea
sulla giurisdizione imperiale all'indomani dell'elezione di Giovanni XXII (7
agosto 1316). L'autocitazione, che riguarda Par., V, 19-22, Lo
maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate /
più conformato, e quel ch'e' più apprezza, / fu de la
volontà la libertate, potrà essere però tanto del '17
o successivi quanto dello stesso 1316, autunno; in ogni caso è fatta
salva la nascita veronese del trattato. In altro momento c'era parso più
congruo accostare Commedia e Monarchia nella loro genesi,
piuttosto facendo conto delle approssimazioni di pensiero e persino di
linguaggio politico tra il trattato e il canto di Marco Lombardo, ma oggi
è prevalente l'ipotesi d'una data intorno al 1318.
Dunque la Monarchia
segue, e non precede, com'è nella cronologia tradizionale, le tre Epistole,
le quali si staccano l'una l'altra d'un anno: 1314 Epist. XI, 1315, Epist.
XII, 1316 Epist. XIII.
Alla morte di Clemente V, 20 aprile 1314, Dante aveva ripreso in forma pubblica
il suo costante interesse diretto alle vicende d'Italia, sopita come forse
s'era all'annuncio della fine di Enrico VII la sua volontà d'intervenire
di persona, e cioè fuori dei proclami espressi dalle terzine della Commedia.
Costretto a piangere Romam… viduam et disertam, si rivolge ai cardinali
italiani affinché venga eletto un papa che riporti la sede a Roma, pro
sede Sponse que Roma est (Epist. XI: forse il vertice della prosa
latina di Dante per veemente concitazione di ritmo e selezione di termini e
costrutti biblicizzanti; certo il momento in cui il latino dantesco si
approssima più al linguaggio delle grandi invettive del Purgatorio
e prepara le corrispondenti apostrofi del Paradiso). Se, come par certo,
la missiva cade nel breve periodo intercorrente tra la convocazione del
conclave (maggio, a Carpentras) e l'estromissione dei cardinali italiani (14
luglio), questa fu tra le speranze nutrite dal poeta quella più
rapidamente tramontata, sì da accrescere nel lungo periodo di sede
vacante (Giovanni XXII venne eletto a Lione due anni dopo) l'amarezza del poeta
per il luogo…che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio, in Par.,
XXVII, 23-24, il rimpianto per la mancata possibilità di risolvere col
tramite d'una potestà ciò che l'altro sole non era riuscito a
realizzare. Dalla missiva, a dire il vero, non traspare altra illusione che
quella di veder rimarginate le ferite inferte al corpo della Chiesa dal pastor
sanza legge macchiatosi di più laida opra (in Inf.,
XIX, 82-83), e quindi si può evincere una serie di proposte che nascono
dall'empito profetico-visionario dell'invettiva e riguardano esclusivamente il
campo ecclesiale, dacché il corso della Chiesa s'è fatto “folle”
per la negligenza di coloro che hanno mal diretto cursum Sponse,
allontanandola dalla strada segnata dal Crocifisso, ma non si può del
tutto evitare l'ipotesi che da un papa italiano o di stanza italiana Dante
sperasse che poteva nascere un nuovo corso politico, il quale riaprisse il
problema dello status guelfo di Firenze, dunque della condizione stessa
degli esuli.
Non è che,
com'è stato detto dal Sestan[112],
dopo la scomparsa di Enrico difetti “un interesse di Dante per le vicende
fiorentine” (ma il Sestan prosegue: “benché sia difficile escluderlo in
assoluto”); s'è già visto infatti il rilievo che il poeta intese
dare all'episodio di Montecatini, e si deve premettere l'attenzione, diretta o
indiretta che sia, legata alle imprese toscane di Uguccione della Faggiuola, la
cui alleanza con Cangrande dopo il fallimento della conquista di Pistoia (10
dicembre 1314) può essere passata per le mani di Dante o comunque
sancita dal suo consenso e accompagnata dal consueto bagaglio di speranze.
Nell'anno 1315, poi, i fatti occorsi in Firenze investono frontalmente il
poeta, e per di più in connessione con le campagne vittoriose di
Uguccione, il quale nel maggio stringe d'assedio San Miniato. Sotto l'urgenza
della minaccia militare i governanti di Firenze accettano le proposte del vicario
Ranieri di Zaccaria di concedere una larga amnistia a tutti gli esuli, nessuno
escluso, previi il pagamento d'una parte soltanto (dodici denari per ogni lira)
della multa dovuta allo Stato sino ad un massimo di cinquanta lire, e la
rituale offerta nel giorno di san Giovanni. I Consigli approvano il 19 maggio,
e di certo qualche settimana dopo Dante veniva a conoscenza delle
possibilità che gli si aprivano dinanzi, per tramite di insistenti
inviti d'un nipote e di vari amici. Ad uno d'essi, non chiaramente identificabile,
Dante risponde immediatamente: giugno-luglio[113].
La missiva del poeta, cioè Epist. XII, avrebbe prodotto senza
dubbio grande eco in città, e quindi scrivendo ad uno solo Dante sa di
rispondere alle lettere aliorum quamplurium amicorum. Non è
pensabile ch'egli possa accettare l'infamia della multa e il marchio
dell'offerta, notam oblationis. Il rifiuto è nettissimo: Non
est haec via redeundi ad patriam, pater mi, ma ancora concede una
possibilità ai governanti: sed si alia per vos ante aut deinde per
alios invenitur quae famae Dantisque honori non deroget, illam non lentis
passibus acceptabo. Il poeta spera davvero in una concreta
possibilità che gli venga dai Consigli cittadini, o si tratta d'una mera
formula di cortesia per mitigare, alle orecchie degli amici “intrinseci”, la
durezza della risposta irremovibile, o forse prende tempo, in attesa che le
armi di Uguccione risolvano la questione in ben altro modo?
La battaglia di
Montecatini non è però seguita da un deciso sfruttamento
ghibellino del vantaggio. Uguccione non stringe d'assedio Firenze, impresa che
forse gli appare inutile o impossibile. I priori e il gonfaloniere di giustizia
ricevono i pieni poteri per far fronte con alacrità ai rischi immani
della situazione, e inoltre per prendere provvedimenti nei riguardi dei
numerosi esuli che non si sono presentati alle porte della città.
Dante è tra
costoro, e con lui, lontano da Firenze, restano i suoi figli. E tutti gli
Alighieri il 15 ottobre vengono condannati a morte e alla confisca e
distruzione dei loro beni. Sarebbe stato possibile il perdono se i “rei” si
fossero presentati “hodie et cras per totam diem”[114],
ma a parte che non ne avevano l'intenzione, gli Alighieri non ne avrebbero
avuto nemmeno il tempo.
Il 6 novembre il
vicario Ranieri di Zaccaria bolla al bando e all'esecuzione capitale Dante e i
figli, i quali avevano spregiato bandi e ordini del governo. Ma cadrà
per questo la speranza del poeta di rientrare in patria? Certamente no, se anni
dopo nell'attacco celeberrimo del canto XXV del Paradiso risuoneranno
ancora parole di speranza: Se mai continga che 'l poema sacro…
Per troppi anni Dante
spererà nelle armi dei nemici di Firenze, in una violenta caduta del
regime nero e in un tripudiante ritorno dei Ghibellini e degli esuli bianchi.
In forza di tale speranza recide ogni rapporto tra sé e gli “scelleratissimi
fiorentini di dentro”. Nei versi del Paradiso vibrerà sempre la
nostalgia della patria lontana, e non vorrà insistere sulle
vicissitudini dello Stato fiorentino in quegli anni, quasi a non accrescere il
solco delle diversità politiche tra di lui e i Fiorentini. Saranno
dunque senza eco nella Commedia la guerra di Castruccio Castracani
contro i Fiorentini nel 1320, l'alleanza tra costoro e Spinetta Malaspina nella
primavera del '21, la creazione d'un nuovo ufficio in Firenze (giugno del '21),
quello dei dodici Buonomini, la ripresa della guerra contro Castruccio
nell'agosto del '21: notizie troppo tardive tra l'altro, troppo remote e
modeste perché potessero entrare nella superiore sfera spirituale del viator
giunto ad effigiare i misteri dell'Empireo, così come erano state
estranee alla materia delle Egloghe e all'elaborata concezione
dell'epistola a Cangrande.
Di questa s'è
già detto quanto a congetture di cronologia (1316), e quanto
all'autenticità integrale del testo. Si deve sottolineare l'evidente
proposito del poeta di non andar oltre generiche formule dedicatorie ed
encomiastiche, il cui superamento lo costringerebbe a dir qualcosa di
sé, ove si eccettui la ripetizione florentini natione, non moribus,
di suoi vincoli e debiti culturali con l'ambiente veronese, di sue aspettative
personali, idee concrete nell'esecuzione evocativa, memoriale, storico-politica
del Paradiso, convinzioni in materia di fede, soluzioni concrete della visio
mistica. Poiché l'indagine del soggetto e della forma del poema
è limitata alla determinazione del carattere di “comedìa”
impresso al titolo e alla natura dell'opera, e infine al valore proemiale e
definitorio della trattazione nei riguardi della terza cantica, la lettura
dell'epistola rivela i problemi d'uno scrittore ancora agli inizi
dell'impostazione dottrinaria e della fabula del Paradiso: il che
favorisce, ancora dall'interno del testo, la proposta d'una datazione
così “antica”, 1316, e potrebbe risolvere alcuni, almeno, tra i dubbi
avanzati dai sostenitori dell'apocrifia (B. Nardi in primis). Come nella
Monarchia l'aggancio indubbio con la pubblicistica ghibellina del tempo
non annulla la posizione di solitudine di Dante, solo con se stesso, a misurare
il terreno della propria teoresi politica col metro di ambizioni storicamente
impossibili, in un'età che va sempre più mutando prospettive ed
esigenze, così nell'epistola a Cangrande s'avverte l'uomo di cultura che
svolge un discorso meditato, senza precisi destinatari e fruitori nella cultura
dell'epoca, e insomma senza i numerosi interlocutori che invece ha il Paradiso:
i teologi di scuola. L'epistola a Cangrande non ha un “pubblico” nella
generazione di Dante; potrà averlo più tardi. La Monarchia,
che non può avere effetto concreto nelle vicende del tempo, è un
elemento, uno tra i tanti, della grande disputa tra i sostenitori del diritto
imperiale e i fautori del diritto pontificio, e anche nei riguardi di coloro
che tentarono una soluzione intermedia tra le due dottrine, ha una storia a
sé, e la conoscenza degli scritti pubblicati all'epoca della
controversia tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello e dei trattati redatti
nell'ambiente curialesco e anticurialesco francese è fondamentale per
situare Dante tra i teologi dell'imperialismo ghibellino, dove non è
né un caposcuola, né un epigono, né un politico puro,
né un rigoroso filosofo della politica[115].
La difesa dei diritti
dell'Impero, per quanto non sia remota da interpretazioni largamente discusse,
quali quelle di Giovanni da Parigi e di Giacomo da Viterbo, non dipende da
un'unica fonte dottrinaria, ma è conseguenza d'un modo d'impostare il problema
del tutto tipico dell'intelletto di Dante, specialmente nella equilibrata
difesa (scevra di polemiche) delle tesi ierocratiche.
Abbiamo già
avuto modo d'intrattenerci sul rapporto tra Purgatorio e Monarchia,
e anzi abbiamo visto nella Monarchia quasi un momento di parentesi e di
sosta del lavoro della Commedia. Infatti la Monarchia deve essere
messa in rapporto col Paradiso, al fine di stabilire la
continuità delle idee dantesche sulla funzione della Chiesa e
dell'Impero, pur marcando un certo stacco che esiste tra il trattato e la
materia ormai così ardentemente visionaria e profetica del Paradiso,
in una possente tensione religiosa che i capitoli della Monarchia
certamente non potevano esprimere. Lo stesso Nardi ha ben posto in rilievo che
le premesse averroistiche le quali secondo la sua tesi sono al fondamento del Convivio,
e dal Convivio sono travasate nella Monarchia, non possono
più rintracciarsi nel tessuto teologico del Paradiso: appunto
poiché più teologica che filosofica, la materia della terza
cantica segna anzi il ripudio d'ogni volontà di portare avanti un
discorso filosofico per instradarsi soltanto sul cammino della teologia mistica
e della teologia dogmatica. Lo stacco è notevole, molto maggiore di quel
che invece poteva esistere tra gli ultimi canti del Purgatorio e i primi
del Paradiso, ove invece c'è una continuità di ricerche
teologali, di visioni mistiche, di riflessioni dottrinarie. La lettura della
processione mistica, il nitore del paesaggio allegorico (e anche del paesaggio
naturale) del Paradiso terrestre, la centralità della figura di Beatrice
e del suo simbolo di Verità rivelata, accostano le due cantiche in un
aggancio che ha dell'eccezionale, e che consente di coprire ogni spazio,
giacché non vi fu certamente nemmeno alcuno iato temporale. La revisione
del Purgatorio s'effettua in un momento in cui tutta la materia del Paradiso
è già dentro la mente di Dante. Occasioni di metafore e di altri
traslati, immagini di luce e di suoni non ancora utilizzabili ovvero non
transitabili nella materia dell'ultima parte del Purgatorio, sono
già assicurate saldamente al fondale della memoria poetica dello scrittore.
L'attacco sarà al tutto naturale: La gloria di colui che tutto move…
Non è
continuata sino ai nostri giorni la querelle sull'andata a Ravenna per
svolgere l'ufficio di lettore di retorica volgare, ché infatti non si
suol più dar fede alle parole di Ubaldo di Bastiano da Gubbio e del
Boccaccio, ritenute al massimo una vanteria del primo e una personale ipotesi
del secondo, cui era utile stabilire un raffronto con l'incarico lusinghiero
ch'egli aveva ricevuto dai Ravennati: così da un lato leggiamo “fece
più scolari in poesia e massimamente nella volgare”, d'altro canto
“quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la quale
maravigliosamente esaltò”. Nel fervido cenacolo della città e
della corte di Guido Novello da Polenta, più d'un coetaneo e più
d'un giovane letterato o retore o giurista si strinse accanto al celebrato
autore della Commedia, accogliendo con entusiasmo l'arrivo d'un sommo
uomo di pensiero e di scienza, il quale era ben in grado nella sua
conversazione dalla impareggiabile altezza d'impartire preziose nozioni di
stile e di retorica; ma da questo a ritenere che Dante esercitasse l'ufficio di
maestro la differenza è notevolissima: egli era stato a Verona e tale
rimase a Ravenna “dolce maestro”, “pedagogo e maestro mio” nel senso in cui
così lo celebrarono Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini.
Se si vuol poi
valutare la qualità della sua collaborazione politica con Guido Novello,
si può dedurre che il signore di Ravenna volle impegnarlo, e forse
più volte, in ambascerie e relazioni cancelleresche, mai in un servizio
continuo e ufficiale di segretario che avrebbe distolto Dante dal compito di
continuare e porre fine al Paradiso: incombenza che il Polentano volle
rispettare in massima misura, fornendogli un tranquillo rifugio dopo i trambusti
e le difficoltà della eterogenea corte di Verona verso cui
l'atteggiamento del poeta fu sempre di rispetto e di collaborazione e tale
restò anche dopo la partenza, in riconoscenza, tra l'altro, dei vincoli
che Verona aveva contratto coi figli Pietro e Jacopo, ai quali Cangrande aveva
fornito i mezzi per studiare (che tali vincoli siano rimasti e resteranno
sempre molto stretti, è provato dalla circostanza che Pietro vi
tornerà a vivere, e Jacopo godrà d'un canonicato e di vari
benefici anche nel periodo successivo in cui si stabilirà a Firenze).
La presenza di Dante
determina un effetto nella tradizione letteraria di Ravenna così ampio e
profondo che uno simile non s'avrà, vivente lui o nel decennio
successivo al 1321, né a Verona, né a Firenze, né in altro
ambiente culturale italiano; si va dall'imitazione più fedele ma anche
più consapevole del Mezzani alla giovanile epigonia scolastica del
Perini, fiorentino anch'egli, dalla sodalitas certo culturale ma
prevalentemente personale del Giardini all'esperienza scientifica e filosofica
del Milotti e di Guido Vacchetta.
Nel cenacolo hanno
posto anche Pietro e Jacopo, sia pur in posizione secondaria per la loro
età giovanile alla quale le cariche di Pietro poco aggiungevano, sebbene
il soggiorno a poco a poco offra uno spazio proprio anche ai figli del poeta.
Lo si vede dalla sentenza del 4 gennaio 1321 con cui il concilio del clero
ravennate condannava tra gli altri Pietro a pagare le procurazioni dovute al
cardinal Bertrando del Poggetto, e che si pone al termine di precedenti
richieste e citazioni[116].
Eppure pensiamo ai
figli, naturalmente anche ad Antonia, monaca forse col nome di suor Beatrice
nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi, non già per ingrossare le
file del cenacolo dantesco, ma per un motivo in più perché
l'autore della Commedia si trovasse in agio nella città dei
Polenta per concludere il poema sacro. Gemma fu con loro? In genere si tende ad
escluderne la possibilità, soprattutto in forza della suggestione delle
parole del Boccaccio “né mai dove ella fosse volle venir, né
sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai”; chi scrive,
è ben lungi dall'escludere la circostanza: Ravenna offriva molto di
più di quanto aveva dato e dava Verona (altrimenti il trasferimento non
avrebbe avuto ragione), ed era più vicina a Firenze, almeno della
metà. Se Antonia è a Ravenna ed entra nella vita religiosa,
più probabilmente vivente il padre anziché dopo la sua morte, la
presenza della madre è più che possibile[117].
Gli altri elementi
richiamati al fine di stabilire la data dell'arrivo a Ravenna pesano assai
poco. La discussa lettera a Guido da Polenta, pubblicata dal Doni nel 1547
nelle Prose antiche, non può essere assunta a prova, nemmeno a
vaghissimo orientamento sopra una circostanza di fatto. Non ha parimenti alcuna
possibilità di costituire sufficiente elemento di rilievo biografico la
disputa sulla nobiltà che Dante avrebbe avuto con Cecco d'Ascoli al
momento di tornare a Ravenna.
Appartengono agli
anni di Ravenna le due Egloghe. Quanto alla Questio de aqua et terra,
a stare alle premesse la disputa accademica apparirebbe allestita di ritorno da
Mantova, durante un'occasionale sosta alla corte di Cangrande, e la lettura
d'essa il giorno di domenica 20 gennaio 1320, nel sacello di Sant'Elena,
farebbe presupporre un primo periodo di predisposizione dei materiali a Mantova
stessa, una stesura della lectio nei giorni precedenti il 20 gennaio, e
forse (ipotesi dopo altre ipotesi!) la consegna del testo a Cangrande.
Possibile è, però, che la disputazione sia un lavoro al tutto
occasionale e imprevisto?, ovvero Dante serbò in sé per vario
tempo l'intenzione di ratificare le proprie cognizioni e supposizioni
cosmogoniche, a chiarimento e superamento di quanto aveva affermato nel canto
XXXIV dell'Inferno, e provocasse in qualche modo la lezione veronese
dopo una qualche precedente discussione a Mantova stessa? In tal caso anche la Questio
potrebb'essere lavoro ravennate, nell'inoltrato 1319, tenuto da parte per una
cerimonia ufficiale a Verona non predisposta all'ultimo momento, con un
occasionale passaggio al castello di Cangrande, ma da tempo offerta a questi
quale omaggio dell'antico ospite[118].
Nulla sappiamo sulla
disputa mantovana, ma è da ritenere che essa avesse per oggetto solo e
soltanto l'argomento trattato da Dante, e che gli altri contendenti
sostenessero opinioni del tutto aberranti all'idea che se n'era fatta il poeta
scrivendo l'Inferno. Egli raccoglie quindi una provocazione che era
nell'aria circa la posizione del globo terracqueo al centro dell'universo e la
collocazione del centro della sfera terrestre in esatta coincidenza col centro
dell'universo, e porta avanti un discorso tutto suo sul reciproco rapporto tra
l'acqua e la terra, sulla “gibbosità” della sfera dell'acqua rispetto
alla sfera della terra in rapporto ad una concezione, da molti condivisa, sulla
eccentricità del comportamento dell'acqua in rapporto alla forza
d'attrazione dei corpi celesti, in particolare della luna. Dante afferma con
sicuro orgoglio di scienziato che in nessun punto l'acqua è più
alta della terra emersa ed è impossibile l'esistenza di
“gibbosità” della sfera equorea, e che le due sfere sono concentriche, e
infine che l'emersione della terra dall'acqua abbia nell'emisfero boreale una gobba
simile a quella d'un semilunio. Dice bene il Mazzoni:
Per
capacità di sintesi e rigore dialettico, per il suo vigoroso, ben
condotto e strutturato argomentare, la Questio è insomma, nel
genere suo, un pezzo di bravura […] Avvince e convince il moderno lettore il
piglio disinvolto e sicuro (e talora il franco cipiglio) con cui Dante affronta
l'argomento, e il livello — la soglia — con cui è portata la
discussione, sorretta da una ben articolata e sapiente struttura magisteriale,
da ordinata chiarezza di pensiero, da estrema precisione tecnica di linguaggio[119].
Nella cronologia
della corrispondenza poetica con Giovanni del Virgilio, dagli inizi del 1319
prolungabile sino alla fine del 1320, i due componimenti bucolici di Dante
possono essere stati redatti con un intervallo di circa un anno: per motivi che
emergono da riferimenti storici interni al testo del Del Virgilio, e anche
dalla testimonianza esterna del Boccaccio, il quale riferisce che Dante
tardò un anno a rispondere, così che il testo della seconda
egloga dantesca sarebbe pervenuto al destinatario dopo la morte del poeta.
Tutto ciò non contrasta con le idee che ci siamo fatte circa le date di
composizione del Paradiso. Soltanto a Paradiso concluso e sul
tavolo della definitiva revisione l'animo del poeta si poteva volgere ad una
iniziativa letteraria indubbiamente per lui collaterale, qual era quella d'una
seconda missiva in veste bucolica, anche se è caratteristico del poeta
(così come era avvenuto in giovinezza) riuscire a tener
contemporaneamente sul telaio opere di stampo diversissimo, e così si
possono conciliare il lavoro sul Paradiso con l'arida prosa della Questio
e coi raffinati esametri delle Egloghe.
Il primo elemento di
assoluta originalità nella cultura medievale è rappresentato
dalla iniziativa di ridar vita al genere bucolico, ancora una volta
rivaleggiando con Virgilio, e al tempo stesso nel nome di Virgilio offrire un
nuovo modo di poetare, questa volta in latino, in un confronto diretto con le Bucoliche.
Giovanni del Virgilio gli aveva indirizzato un'epistola, Pyeridum vox alma.
Dante avrebbe potuto rispondere nella stessa forma, ma inaspettatamente,
sorprendendo il corrispondente, ribaltando a proprio vantaggio la tenzone
poetica, reinventa i modi e i contenuti dell'egloga. È una riscoperta
tutt'altro che secondaria, e con essa egli pone un'ulteriore pietra miliare
nella sua collocazione tra Medioevo e Umanesimo; con Vidimus in nigris
intende staccarsi da un'antica tradizione epistolografica, aprire su un
paesaggio letterario estremamente nuovo, puntare su un diverso modo di
verseggiare in latino che instauri una nuova tradizione letteraria, così
come in effetti avverrà nei riguardi non solo della sua generazione (che
è tenuta a seguirlo, come farà Giovanni del Virgilio con l'egloga
responsiva Forte sub inriguos), ma della successiva: e lo seguiranno,
non c'è dubbio, Petrarca e Boccaccio. Questa diversa ars poetandi
non pretende d'essere nuova in sé, ma per le nuove radici che colloca
nella cultura del tempo: esametri narrativamente molto mossi, attingenti alle
sorgenti più pure del genere bucolico, ma di tratto inconfondibilmente
moderno, quasi che l'Alighieri non dettasse direttamente in latino, ma
traducesse alcune sue caratteristiche movenze volgari, soprattutto nel fitto
dialogato del canto amebeo, dialogato che presuppone l'esperienza del “parlato”
nella Commedia, agile, ricco di incontri e scontri verbali. Infatti nel
passaggio da Vidimus in nigris all'altra egloga, Velleribus Colchis,
il sottofondo “volgare”, osiamo dire “comico”, del latino dantesco si rileva
ancor di più, ad esempio nella festosa ed elegante descrizione dei
vecchi pastori che ridono all'arrivo di Melibeo (figura di Dino Perini), e alla
recitazione della bucolica di Giovanni tacciono, compresi dell'evento, o anche
nelle splendenti aperture paesaggistiche: fraxineam silvam tiliis
platanisque frequentem, infine nella consapevolezza della sua stessa
bravura tecnica, nella ricchezza dei personaggi, da Titiro (lo stesso Dante) a
Mopso (figura di Giovanni del Virgilio), ad Alfesibeo (Fiducio de' Milotti), al
misterioso Polifemo (forse un bolognese avverso a Dante: Romeo de' Pepoli?, un
discendente di Venedico Caccianemico?, o, più probabilmente, Fulcieri
de' Calboli?). L'intrico dei riferimenti ha impegnato molto la dantologia nel
discoprire uomini e fatti dietro il velo dell'allegoria pastorale; non possiamo
attardarci su tante vexatae quaestiones; sia sufficiente sottolineare
che anche in queste prove d'un Dante “minore” c'è la sete di raggiungere
pari vette del poetare, c'è l'ardimento lessicale e prosodico d'un
grande poeta latino che solo parzialmente s'è espresso, ma tanto quanto
basta per lasciare un segno indelebile nella storia della poesia umanistica.
Il lavoro sulle prime
cantiche poteva pur svolgersi in mezzo alle mille occasioni d'un turbinoso
pellegrinaggio d'esule, di regione in regione, di corte in corte, mentre per il
Paradiso era necessaria una sosta più tranquilla, pacata,
inducente alle solitarie meditazioni. Anche con quel poco che siamo venuti
dicendo circa i tempi dell'Inferno e del Purgatorio, anche con la
nostra intenzione di studiare Dante dall'interno di Dante e di inseguire le
varie fasi della sua vita con la prospettiva d'individuare le linee correnti
dell'autobiografismo, non ci sentiremmo mai di appoggiare una cantica “diversa”
come l'Inferno a momenti più travagliosi, e la terza cantica a
esperienze relativamente più tranquille. A ciò contrasta la
stessa poesia dell'Inferno nel momento in cui si piega a pacatezze
dolcissime, a malinconiche riflessioni sulla condizione spirituale. E vi
contrasta, vedremo tra breve, la poesia del Paradiso dove vengono
ripresi e riespressi con pari vigoria polemica gli argomenti del risentimento
dantesco verso il mondo, e la simbologia della gradualità della
esperienza mistica lascia larghi valichi all'irrompere dell'animo tempestoso
del poeta, alle sue irrequietudini che hanno bisogno di alte grida di rimbrotto
verso il mondo (non importa se sono Beatrice o san Pietro a pronunciarle, o
altri spiriti del cielo), come pure di tristi ripiegamenti verso speranze mai
dissolte e sempre ritornanti: se mai continga… vinca la crudeltà che
fuor mi serra… ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo
prenderò 'l cappello[120].
Anche a Ravenna,
anche in un cenacolo di spiriti intellettuali che lo rispettano, anzi
l'ammirano, anche in un milieu più culturale, non c'è
posto per una zona di pace. Il poeta deve vivere sino in fondo, anche se
misticamente sulla grande scalea eretta verso il cielo, la sua vita travagliosa
e asperrima. E chissà se i canti più “astratti”, più “mistici”
del Paradiso non corrispondano proprio ai momenti di maggiore agitazione
umana del vecchio poeta.
XVII
LA POESIA DEL “PARADISO”
Tutta la Commedia
ha la struttura, la veste allegorica, la linea narrativa di una visio
mystica e di un messaggio profetico lanciato alle nuove generazioni
affinché ritrovino la strada della giustizia e si emendino dai loro
peccati. Tuttavia questa carica visionaria e profetica è particolarmente
forte, insistente, e soprattutto esplicita nel Paradiso, dove l'elemento
del raptus è più evidente, giacché al viaggio pur
sempre “terreno” nella cavità della terra e nel monte del Purgatorio
si sostituisce un rapimento del corpo e dell'anima in cielo, una ripetizione
della esperienza di san Paolo, e intenzionalmente (non realmente) più di
san Paolo ricolma di segnali e di insegnamenti per l'umanità traviata: e
questi non sono soltanto d'ordine ascetico-mistico, e perciò
strettamente religioso, ma anche etico-politico, con una ripetizione ancor
più battente del carattere del poema sacro anche quale breviario
politico lanciato agli uomini di buona volontà.
Nella epistola a
Cangrande Dante ha avvertito e chiosato questo carattere di rivelazione
mistica, là dove scrive che finis totius et partis est removere
viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis, Epist.
XIII, 39, attraverso la conoscenza delle terribili conseguenze della
ostinazione dell'uomo a vivere nel peccato (nell'Inferno), i modi e le
forme in cui l'uomo che s'è pentito può prepararsi alla
beatitudine celeste (nel Purgatorio), i vari gradi di detta beatitudine
e la sublime fruizione della vista del Creatore (nel Paradiso).
I primi commentatori
della Commedia, sia che conoscessero l'epistola a Cangrande, sia no (e
certamente la conobbero i due figli del poeta, Pietro e Jacopo), si resero ben
conto del valore del poema come nuova “Sacra Scrittura”, nuovo “vangelo” di
rivelazione, opera di un sommo teologo ma anche di un uomo che aveva
direttamente attinto alla propria esperienza personale per dettare parole di
guida, stimolo, rimprovero, viatico per l'umanità tutta. Del resto i
lettori della Commedia furono in numero sempre più grande via via
che passano i decenni del Trecento; e lo vediamo dalla copia crescente di
manoscritti che ci sono rimasti: forse la Commedia fu un libro per pochi
soltanto durante la vita del poeta e nei primi anni successivi alla morte, ma
ben presto diventa per eccellenza il “libro” del secolo. Questi lettori erano
indotti dalla conoscenza degli scritti dei mistici dei secoli precedenti a
ritenere valida qualsiasi opera letteraria o di pensiero basata su una
rivelazione mistica, e a credere come effettivamente avvenuto il “sogno” di
Dante, cioè che il poeta fosse stato, proprio lui, investito dal carisma
della profezia e della visione dell'aldilà. Noi oggi, di certo, non
possiamo giungere a tanto, ma è assai agevole ritenere (è la ben
nota tesi del Nardi) che Dante fosse persuaso d'avere questo dono della
profezia, ha creduto insomma a tutta questa vicenda di inferi e di cieli.
Certo tutto quello
che siamo andati dicendo attorno alla Commedia, è esplicabile
anche col ricorso all'esame delle varie situazioni culturali che Dante ha
attraversato nella sua sufficientemente lunga esperienza d'intellettuale,
all'esame delle istituzioni in cui si è ritrovato e in parte confrontato
(il Comune di Firenze, le corti centro-settentrionali, gli Ordini Mendicanti,
la civiltà laica della aristocrazia ghibellina, l'empito sanguigno della
civiltà popolare), ma sarebbe vano ritenere che tutti questi “vettori”
possano da soli o tutti assieme metterci in condizione di capire tutto di Dante
prescindendo dalla complessità della struttura umana di questo poeta
eccezionale dalla vita eccezionale, dalle passioni e dalle macerazioni
dottrinarie eccezionali. Se pervicacemente ci intestardissimo a perseguire i
singoli percorsi vettoriali e fenomenici, perderemmo di vista l'oggetto
fondamentale, e per abbracciare tutto questo immenso agglomerato di contenuti
rischieremmo di ricuperare soltanto qualche favilla.
Coloro che sono
riusciti a comprendere in un sol corpus critico-letterario l'integro
mistero del sacrato poema (avanziamo soltanto i nomi di Foscolo e di De
Sanctis, per attenerci ai massimi lettori del secolo scorso), continuano ad
insegnarci che alla fin fine Dante va letto e spiegato con Dante, e i suoi
innumerevoli personaggi, le tante posizioni di cultura, gl'infiniti risvolti
del suo intelletto, possono essere intesi soltanto tenendo il volto di Dante a
distanza ravvicinata dai nostri occhi della mente, e lasciando che le altre
cose sfumino nella distanza, attenuino le loro luci dinanzi al bagliore d'una
voce poetica assoluta in se stessa e che conosce solo in sé le ragioni
di tanta eminenza, il perché della nascita improvvisa, lacerante e
grandiosa di una summa poetica che dev'essere sempre ricondotta a Dante,
alla sua vertiginosa statura d'uomo, alle peculiarità d'un intelletto
grandissimo: insomma, s'abbia pure il coraggio di dirlo, all'uomo Dante e al
genio Dante[121].
La topografia morale
del Paradiso commisura gradi di beatitudine in rapporto ad un maggiore o
minore sentimento con cui i beati avvertono la carità per il Creatore
sotto l'impulso dello Spirito Santo. Pur tutti in stabile sede nell'Empireo di
lì si muovono appositamente per incontrarsi con Dante in uno dei nove
cieli che precedono l'Empireo, onde consentire al poeta di conoscere le varie
intensità di beatitudine in connessione col vario influsso che gli astri
hanno determinato sulla vita spirituale degli uomini e che le gerarchie
celesti, gli angeli, mediano. In tal modo è fatto salvo il principio
narrativo della varia esperienza che Dante deve compiere per poter egli stesso,
vivente, raggiungere l'Empireo e godere indi della triplice visione della
Divinità. Ogni stella ha una propria virtù, ovvero una
particolare prevalenza d'una virtù fondamentale su quelle affini.
Così nel cielo della Luna i beati che mancarono in terra ai voti; in
quello di Mercurio gli spiriti attivi che conseguirono in terra onore e fama;
nel cielo di Venere, il terzo, coloro che risentirono nella loro vita terrena
in modo particolare gli impulsi dei sensi; nel cielo del Sole gli spiriti
dotati di sapienza; nel quinto cielo, di Marte, coloro che combatterono per la
fede e la verità della Rivelazione; nel cielo di Giove gli spiriti
giusti; nel cielo di Saturno gli spiriti contemplativi; nell'ottavo cielo, delle
Stelle fisse, non vi sono anime dotate d'una particolare virtù, ma
appare a Dante il trionfo di Cristo, della Madonna e di tutti i beati; nel nono
cielo, detto Primo Mobile, Dante ha la vista dei nove cori angelici ruotanti
attorno ad un punto di particolarissima lucentezza, che è Iddio; nel
decimo cielo, finalmente, e cioè nell'Empireo, tutti i beati e gli
angeli appaiono a Dante, il quale gode finalmente della visione divina:
dapprima la vista della presenza del cosmo in Dio, poi la cognizione del
mistero della Trinità: tre cerchi concentrici, in forma di tre cerchi
luminosi di pari diametro; infine una rapida apparizione d'un volto umano offre
al poeta la percezione del mistero della Incarnazione.
Il dibattito intorno
alla struttura della Commedia come vera visio in somniis ovvero
quale fictio poetica appare centrale nella comprensione dell'essenza del
Paradiso. Va distinta nettamente la circostanza della consapevolezza di
Dante ad erigersi a reale profeta “rivelatore” dei modi in cui potrà
riscattarsi la novella età, da altro fatto: e cioè che Dante
intenda d'essere stato soggetto di una vera e propria estasi mistica, sia pure in
somniis, nel corso della quale egli abbia potuto conoscere l'oltretomba e
giungere a vedere il mistero di Dio. In effetti Dante non è che
raramente in quella particolare condizione dello spirito che si designa come apatia,
egli non è passivo oggetto dell'azione totale e libera di Dio che nella
visione dell'Empireo, anche narrativamente concepita come una visione
dall'alto. Ed è vero che il mistico non può riferire o non vuole
che alcuni elementi del raptus e che circonda la narrazione d'un vago
alone d'arcano enigma, comprensibile a pochi o addirittura indecifrabile, ma
occorre anche sottolineare che le visioni del Creatore presente nel cosmo, del
mistero della Trinità e di quello della Incarnazione come si presentano
a Dante nell'ultimo canto del Paradiso, non comportano alcuna forma di unio
mistica, ma sono appena il bagliore, intuito, dell'ultimo stadio del raptus.
Per questa rappresentazione della visio, tuttavia, Dante ha utilizzato i
più grandi testi della mistica medievale, soprattutto san Bonaventura,
richiamandosi a quanto questi aveva scritto a proposito del “gusto” dell'anima
di conquistare la suprema pace in attesa di ricongiungersi col Creatore. Aveva
detto il santo di Bagnoregio: “Chiunque vuol ascendere a Dio, è
necessario che ascenda al di sopra di se stesso, attraverso l'universo che
è scala a Dio, per una ascesi dell'anima, esercitando le naturali potenze,
senso, immaginazione, ragione, intelletto, apice della mente”. E dunque
l'autore del sacrato poema, il letterato intriso di cognizioni
filosofiche e teologiche, ha posto in movimento tutte le proprie qualità
intellettive e ragionative, non limitandosi a registrare (come se fosse in trance)
i guizzi dell'estasi ricevuta, i lacerti che la memoria gli ha serbato; ha
inteso compiere una vasta opera di ricognizioni di tutto l'universo del
pensiero, e produrre un proprio contributo personale alla delucidazione di
importanti questioni sia della scienza divina, sia della scienza umana.
Per tal motivo nel Paradiso
i prodotti dell'intelletto si equilibrano con quelli dell'interiore carica
emozionale o con quelli della mera immaginazione letteraria. Tutto ciò
avviene da un lato col costante sentimento dell'uomo che partecipa alle
sventure umane (così nell'incontro con Piccarda Donati) o alle proprie
(nella rivelazione che dell'esilio gli fa il trisavolo Cacciaguida), dall'altro
canto con la volontà di costruire un vasto scenario paradisiaco, dipinto
su fondali di colore, mosso da musiche sublimi, animato da movimenti di danza,
costruito su sontuose forme scenografiche (la fiumana), i segni dell'Aquila e
della Croce, l'anfiteatro, ecc.: il tutto mirabilmente effigiato nei particolari,
in cui la fortissima percentuale d'originalità creativa è
arricchita con l'invenzione del lago luminoso, dal circuito più ampio
della circonferenza del sole, con le righe fiorite dei beati biancovestiti, ma
non rive pianeggianti, invece subito digradanti verso l'alto in più di
mille gradini, creando in tal modo l'immagine della grandiosa candida rosa.
Dante ha accettato il topos della scalinata, trasformandolo tuttavia in
una costruzione scenografica assai più complessa e mossa. E dunque anche
in ciò si può constatare come Dante accolga motivi peculiari
della letteratura mistica, li trasformi in creazione poetica, ma si impegni
soprattutto a seguire le necessità logiche e gnoseologiche dello schema
fondamentale della conoscenza di se stesso attraverso la rivelazione della fruitio
divini aspectus, che non si limita a far “vedere” il processo unitivo con
Dio, ma offre le basi sostanziali per l'approfondimento delle condizioni morali
della propria conoscenza. Si sale, dunque, per meglio conoscersi interiormente,
e siffatta gradualità mistica fa progredire contestualmente nella
fruizione di Dio e nella conoscenza del proprio essere morale coloro i quali
“ascensionibus in corde suo dispositi”, dice san Bernardo nel De gradibus
(I, 2), “de virtute in virtutem, id est de gradu in gradum proficiunt, donec ad
culmen humilitatis perveniant, in quo velut in Sion, id est in speculatione,
positi, veritatem prospiciant”.
Lo schema
ascetico-mistico è regolato sulla nozione di eccellenza e primato della
carità, in quanto forma di tutte le altre virtù e modo efficiente
della ricerca di Dio. Ma, ci chiediamo, è vero che nella
contiguità delle immagini poetiche dedicate alla rappresentazione di Dio
vige un sentimento troppo astratto, poco ardente d'Esso? Ciò non sembra
sostenibile in virtù d'un continuo richiamo che il Paradiso
presenta e proclama di passioni umane sempre correlate al differente fervore
affettivo in rapporto alla maggiore o minore intensità della visione di
Dio che è nei personaggi, a partire da Piccarda per concludersi con san
Bernardo, anzi con lo stesso Dante redento dalla triplice vista dei misteri
divini. Questo concetto della divinità è espresso in termini di
assoluto rigore dottrinario, senza nulla di sfingeo e di disumano, senza alcuna
accezione che possa aver senso relativamente a Dio-mistero che non sia anche
Dio-chiarezza. Il viaggio di Dante è continuamente richiamabile sia alla
ricerca della “luce” che a quella del “mistero”; il secondo è illuminato
dalla prima, e questa non è mai tanto assoluta che non riveli in qualche
modo la presenza di stimoli terreni, avvertibili (anche questo va detto) non in
connessione alla prima parte del Paradiso, e poi annullati dalla
accresciuta fruizione divina, ma sempre presenti, sin nelle amare apostrofi di
san Pietro e di Beatrice. Del resto la collocazione, al centro della cantica,
dei canti più “autobiografici”, quindi più facilmente riducibili
a dimensione umana, quelli di Cacciaguida, è indicativa della
volontà ferrea del poeta di non lasciar mai sopire la memoria via via
che l'intelletto possiede gradi maggiori di conoscenza, e ciò accade
anche per la ricchezza, questa sì crescente, delle immagini fulgenti col
procedere del viaggio nei cieli, donde la piena consapevolezza
dell'imperscrutabile mistero della essenza della Divinità giunge come
ineffabile e arcana, ma al termine di concrete esperienze compiute, dall'ampia
confessione del canto XIX sino al congedo del XXXIII.
Non distingueremo
pertanto un Dio giovanneo da un Dio paolino, nella Commedia,
poiché la charitas e lo sforzo razionale (o comunque di
razionalizzare la scienza divina) operano congiuntamente non a partire dalla Commedia,
ma sin dal momento del Convivio, quando Dante già “traduceva” san
Paolo e già presentiva lo scenario allegorico dell'Apocalisse,
cioè compieva un'operazione al tempo medesimo sensitiva e
intellettualistica, èmpito del cuore mai addormentato e slancio della
mente sempre alla ricerca di nuovi traguardi da raggiungere, pur nei
presupposti della limitatezza e dei sensi e della ragione dinanzi a quella che
per l'appunto nel Conv., IV, xxi,
6 chiamava la “altezza de le divizie de la sapienza di Dio”, e che nel Paradiso
riprende con tutti gl'indugi sul tema della Prima bonitas.
Iddio, il Primo
Amore, in sua etternità di tempo fore, e attraverso un atto
esplicito di volontà, come i piacque, si schiuse, sbocciò,
s'aperse in nuovi amor, in una plenitudine di entità amanti, gli
angeli, e operò in tal modo non per aumentare la sua stessa
qualità di Sommo Bene (il che sarebbe impossibile, poiché il suo
bene non è accrescibile essendo già supremo), ma affinché
lo splendore diffuso della sua essenza acquistasse piena consapevolezza del
proprio essere. Conchiuso il preambolo, Beatrice presenta e risolve la prima
proposizione, elaborata lungo l'arco di dieci terzine:
Né prima
quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest'acque.
Forma e
materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d'arco tricordo tre saette.
E come in
vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l'esser tutto non è intervallo,
così 'l
triforme effetto del suo sire
ne l'esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.
Concreato fu
ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto;
pura potenza
tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima…[122]
Queste prime sei
delle dieci terzine vengono a costituire il nerbo della proposizione; le tre
successive (Jeronimo vi scrisse lungo tratto ecc.) una specie di
corollario polemico-bibliografico, insomma la storia della critica sullo
specifico quesito dottrinario; l'ultima terzina (Or sai tu dove e quando
questi amori ecc.) piuttosto il riepilogo della questione, determinato
più dal proposito di spianare la strada al successivo argomento che di
ribadire il concetto del resto già chiaramente dedotto ed espresso. Or
dunque: alla base della quaestio che s'agita nella mente di Dante,
è il concetto del tutto fondamentale che non vi sono antefatti e
addizioni all'atto creativo del Padre, il quale prima della creazione non
giaceva inoperoso, quasi addormentato, torpente, e la creazione si
rivolge proprio da principio, nello stesso momento e immediatamente (ché
sono respinte le teorie dei neoplatonici secondo cui la materia fisica non
venne prodotta da Dio ma dal cielo lunare a noi più contiguo), in tre
direzioni od oggetti: i puri spiriti, forme allo stato puro e perciò
privi di materia; la pura materia, priva di forma e ingenerata, incorruttibile,
cioè potenza, collocata nella parte più bassa del mondo
sensibile; e infine, posto nel mezzo tra forma e materia, il composto dell'una
e dell'altra, indissolubilmente stretto da tal vime, che già mai non
si divima.
Per assegnare a Dio
la diretta creazione della materia senza forma, Dante ha compiuto una notevole
intrapresa d'ordine filosofico, allontanandosi e dall'aristotelismo
averroistico e dal tomismo ed elaborando una sua propria concezione. Per meglio
significare la simultaneità e immediatezza dell'atto creativo crea due
fra le più suggestive sue comparazioni: l'immagine di tre saette
scagliate contemporaneamente da un ipotetico arco dotato di tre corde[123]
e l'immagine, poeticamente più felice, d'un raggio luminoso che batte e
traversa nello stesso istante tutta la superficie d'un corpo trasparente: in
vetro, in ambra o in cristallo. Anche queste figure, e in specie la
seconda, realizzano l'esigenza non tanto retorico-stilistica ma squisitamente
spirituale ed ascetica di non chiudere in astratta solitudine l'itinerarium
ad Deum, anzi d'applicarsi alle immagini comparative per rendere più
piena la consapevolezza d'un determinato stato della coscienza verso i dati —
che potrebbero apparire astratti e persin esterni — dell'esperienza teologale o
scientifica. La semplice glossa d'un concetto o d'una sensazione è
elevata al rango di intervento patibile della coscienza, pur senza perdere il
dono prezioso di rafforzativo della delibazione lirica, emarginando
dall'interno le singole componenti naturali o artificiali della similitudine,
quasi che esse fossero già contenute nell'arcana visione che al poeta
è stata concessa dalla Grazia divina. Eppure, al tempo medesimo, le
figure appaiono prescelte e ordinate sul fondamento di una esemplificazione d'origine
sia scolastica (dello scolasticismo aristotelico) che letteraria.
Non è
possibile scindere i vari momenti dell'attività mentale di Dante, tanto
essi appaiono fusi in un unico organismo intellettuale. I poeti provenzali che
trattano d'amore, e san Tommaso che discetta sull'Amore divino, ispirano
contestualmente. Certamente le varie componenti giuocano in modo diverso, in un
iter che va dai fitti provenzalismi della giovinezza alla scolastica
senile, ma come è un tutt'uno l'opera, così è tentativo da
rifiutare quello di dividere nettamente le due zone d'ispirazione filosofica,
poiché esse raggiungono il loro unicum in quello che è il
pensiero indipendente, libero, autonomo di Dante. Lo si vede nella produzione
di immagini, similitudini, nel modo di citare, in quello di assimilare, nella
capacità di fondere filosofia umana e scienza divina, ragionamenti
cortesi e alte disputazioni, ragionamento e sensazioni, raziocinio e
immaginazione. Par quasi che l'immensa memoria di Dante abbia assimilato il
tutto, e lo offra in dono alla poesia, ne fa e dà una versione poetica
in piena coerenza di ideali e di argomentazioni. Altrettanto (ed è
questa una forma di lettura da privilegiare nel Paradiso) si fondono
teologia mistica e teologia dogmatica, anche se le esperienze mistiche si
staccano più nettamente dal dettato poetico e fomentano l'immaginazione
letteraria, la alimentano nelle varie vicissitudini del racconto poetico.
In tale duplice
ordine d'esperienza interiore, sofferta sempre e in sommo grado, e d'intervento
intellettivo le figure comparative, le immagini spirituali, le didascalie, i
“parlati”, le straordinarie similitudini del Paradiso tratte
dall'osservazione naturale o da reminiscenze culte, ricevono maggior alimento e
più ricco gusto sensibile, in quanto che proprio esse riescono ad
amalgamare in un unicum poetico che possiede il dono del medesimo status
compositivo, l'esempio tratto dal filosofo di scuola o dall'uomo di scienza e
quell'ardita immaginativa che Dante aveva letto e ammirato nei mistici
medievali, serbando la ferma concretezza dei primi col fervoroso fantasticare
d'un Bonaventura, per esempio, ovvero di quella perfetta unità di
pensiero e di estasi che egli trovava in san Bernardo.
Per poter mettere
assieme tutta questa varia congerie di nozioni e di intuizioni, Dante, come al
solito, non costruisce un'astratta cattedrale di dottrina, ma mette in azione
personaggi celestiali con un habitus mentale umano, aperto alla
comprensione delle difficoltà e delle carenze che l'autore proclama
appartenergli. Continua la necessità d'una guida. Il viaggio
escatologico non è mai compiuto da solo, e tra la lunga guida d'un
personaggio storico-culturale, Virgilio, e quella breve d'un personaggio
altrettanto assunto dalla storia e dalla cultura, san Bernardo, riprende posto
la guida intellettuale d'un personaggio di “fantasia”: Beatrice, ma di una
“fantasia” che ha radici nella realtà e trae nutrimento dalla sua
complessa species simbolica, continuazione qual è, e sublimazione
d'un lungo processo etico-religioso del simbolo, dalla gentilissima della Vita
Nuova in poi, in un quasi ininterrotto trentennio di esperienze compiute
nel nome della loda di Beatrice e della esaltazione della Donna Gentile,
dalla caldezza emotiva dell'apparizione della pietosa nella Vita
Nuova alla sapiente rappresentazione dottrinaria della Filosofia nel Convivio.
Per contro la loda di Beatrice assume sempre di più, di momento
in momento dell'opera dantesca, la sua funzione di simbolo teologico, ma qui,
nel Paradiso con una funzione accresciuta: non di semplice “oggetto”
d'amore, non di pura simbologia della scienza divina, ma di interprete e
testimone della volontà del poeta tesa ad attribuirsi la funzione di
giudice e di guida della umanità futura sulla strada della redenzione
dallo stato presente di corruttela morale. Accanto a questa funzione di
testimone Beatrice assume anche le vesti del supremo doctor; è un
vero e proprio immaginario Dottore della Chiesa, doctor di dogmatica e
di morale, di scienza e di mistica, un doctor affettuosamente
riconducibile sempre alla figura di donna amata in gioventù, pianta per
tutta la vita. E dunque anche domina et magistra, inserita in un magico
giuoco di luci, di sorrisi, di sguardi, di fulgori sprigionanti dagli occhi, di
sapienza espressa dalla sua voce ricca di spirituale sororitas; certo sancta
Beatrix, ma anche soror Beatrix, ammirevole per tempismo, per rapida
intuizione delle difficoltà e delle esigenze del frater alumnus,
per concretezza di lettura attraverso Iddio delle domande che angosciano lo
scolaro. In ciò sta tutta la celestialità della figura di
Beatrice, ma anche nel Paradiso, si vorrebbe dire soprattutto nel Paradiso,
la sua essenza di donna “reale”, di soggetto portante dei sogni del suo poeta.
Procedendo lungo la
redazione della terza cantica Dante si dovette ricordare di quanto Bernardo
aveva detto nel De Consideratione a proposito delle gerarchie angeliche
e degli attributi di Dio. Ma le poche righe dedicate nel cap. IV del libro
quinto alle “lucidas mansiones” del Paradiso ove si possono contemplare
le “viscera misericordiae” e le “divitiae salutis”, e ragionare delle doti che
gli Angeli hanno ricevuto da Dio, certo determinarono in Dante la
necessità di conoscere meglio gli scritti mistici di Bernardo, di
approfondire soprattutto la sua dottrina mariana, nascendo così l'idea
di assegnare all'abate di Clairvaux un compito altissimo, quello di sostituire
Beatrice nel momento terminale del processo conoscitivo e unitivo, alle soglie
della visione della Divinità. Commentando il canto XXXI del Paradiso
m'è occorso d'avanzare riferimento, spero persuasivo, all'influsso che
il De diligendo Deo ha esercitato su Dante nella rappresentazione della
candida rosa, in particolare nell'immagine dei beati come fiori e degli
angeli come faville, luogo ricorrente un po' in tutti i mistici
medievali ma in specie bernardiano:
et
quomodo solis luce perfusus aer in eamdem trasformatur luminis claritatem, adeo
ut non tam illuminatus quam ipsum lumen esse videatur, sic omnem tunc in
sanctis humanam affectionem quodam ineffabili modo necesse erit a semetipsa
liquescere, atque in Dei penitus transfundi voluntatem (X, 28).
La
preliminarità delle immagini di luce non relega in posizione subordinata
il motivo dei fiori, simbolicamente inteso come segno dell'anima risorta a
nuova vita e rinnovata dall'Amore divino; motivo diffuso nei mistici medievali
sulla scorta di reminiscenze scritturali, in specie del Cantico: “Ecco,
tu sei bello, amato mio, e leggiadro: il nostro letto è coperto di
fiori” (I, 16), e, tra i mistici, in particolar modo dal Dottore Mellifluo,
che, per l'appunto nel De diligendo Deo aveva scritto:
Monimenta
siquidem Passionis, fructus agnosce anni quasi praeteriti, omnium utique retro
temporum sub peccati mortisque inperio decursorum, tandem in plenitudine
temporis apparentes. Porro autem Resurrectionis insignia, novos adverte flores
sequentis temporis, in novam sub gratia revirescentis aestatem, quorum fructum
generalis futura resurrectio in fine parturiet sine fine mansurum (III, 8),
precisando ulteriormente: “Haec mala, hi flores, quibus
sponsa se interim stipari postulat et fulciri” (De diligendo Deo, III,
10). Ma a questo punto occorre muovere una osservazione che potrebbe rimanere
centrale, si spera, nell'interpretare la visione dantesca dell'Empireo: che,
cioè, pur servendosi in abbondanza di concetti e immagini della mistica
benedettina e francescana (soprattutto nella linea, ch'è continua, da
san Bernardo a san Bonaventura, e anche per il tramite di Gioacchino da Fiore,
che nel Liber Concordiae novi et veteris testamenti, IV, 38, vede in
Bernardo il grande personaggio dell'età dello Spirito), il richiamo
della scolastica d'area tomistica è così forte da suggerire a
Dante una serie di considerazioni di tipo razionalistico che non hanno
più rapporto col mondo dell'esperienza mistica. Perché il Dante
del Paradiso, in specie nella finale rappresentazione della unio
con Dio, non è un mistico stricto sensu piuttosto un
poeta-filosofo che utilizza gli elementi della letteratura mistica per narrare
un caso di visio in somniis a lui occorso o di cui finge l'accadimento,
in ogni modo nella doverosa necessità di documentarsi altrove, dal De
gradibus humilitatis all'Itinerarium mentis ad Deum, sui modi e
tempi e oggetti della fruizione estatica a vantaggio d'una esauriente
costruzione letteraria, compiuta da uno “fluctuante inter caelum et terram” (De
gradibus, X, 34), che è “suspensus in aere” e vede “descendentes et
ascendentes angelos” (ivi, X, 35), che si confronta, come già Bernardo,
con la visione di Paolo, “me qui procul dubio minor sum Paulo” (VIII, 22), Io
non Enëa, io non Paulo sono
(Inf., II, 32).
La folla di
personaggi che Dante ha incontrato nell'Inferno e nel Purgatorio
decresce nella terza cantica; prevalgono immagini legate a concetti,
riflessioni dottrinarie, disquisizioni teologiche; ma resta pur sempre una
larga partecipazione di figure umane, le quali possono dividersi in creature
del mondo contemporaneo “salvate” dal poeta: così Piccarda Donati o
Cunizza, così il trisavolo Cacciaguida; e personaggi del mondo biblico,
classico e patristico, di quello del mondo spirituale duecentesco. Il
comportamento del viator Dante Alighieri è solo apparentemente
analogo; in realtà esiste una forte carica emozionale per il primo caso:
i personaggi risvegliano il suo mai obliato impegno di politico, e Cunizza
consente di riesaminare il cruento campo di battaglia di opposte fazioni
politiche e familiari nella Marca Trevisana; la soave figura di Piccarda (e di
conseguenza l'evocazione di Costanza d'Altavilla) s'estolle purissima sopra le
sanguinose sopraffazioni della consorteria dei Neri, e dà
possibilità al poeta di riprendere un suo del resto mai pretermesso
discorso polemico sulla situazione di Firenze nell'ultimo scorcio del sec.
XIII: figura tanto soave, e così figura tanto amata quella di Forese nel
Purgatorio quanto è sempre viva e acre l'abominazione per il
fratello Corso e per i perversi suoi compagni di guerra contro la pace di
Firenze, la concordia degli antichi cittadini evocata con così larghe
parole d'affetto e di rimpianto da Cacciaguida, il quale presta se stesso a
Dante per un amplissimo panorama sulla Firenze del buon tempo antico e sui
durissimi anni d'esilio del discendente, e attua la reale rappresentazione
figurale del probo cittadino, difensore dell'onestà di vita della patria
e difensore della fede di Cristo.
Di altra natura
è l'atteggiamento del poeta dinanzi ai santi antichi e moderni:
ammirazione, rispetto, filiale devozione, attenta auscultazione, dei loro
moniti e insegnamenti, amoroso ritratto della loro vita: dagli apostoli Pietro,
Giacomo e Giovanni, remoti emotivamente ma maestri severi della sapienza
divina, ai più vicini e sentiti e amati Francesco e Domenico, Tommaso e
Bonaventura: avvertiti in un certo qual modo quali santi della sua epoca,
d'altronde erano del secolo in cui Dante è nato: pochi decenni li
separano dagli anni della puerizia del poeta, trascorsa in religiosa educazione
e nel culto d'essi, soprattutto di Francesco d'Assisi, il santo della sua
giovinezza in Santa Croce, il santo della sua vicinanza agli Spirituali, il
santo di quei concetti di carità e di povertà che la vita
dell'esule era tenuta, era impegnata a rispettare per sé e per gli
altri: lo sposo di Domina Paupertas, l'assertore inflessibile e austero
della povertà individuale e di quella conventuale, l'ispiratore
indiretto ma non esplicito di tutte le accorate proteste dantesche contro
l'avarizia e dei rimpianti per la purezza e sobrietà degli antichi
fiorentini, del ripudio dei beni terreni e dello sdegno per la cupidigia
dilagante nel proprio tempo. In una posizione intermedia, né antico
né contemporaneo e attuale è san Bernardo, ma per quanto a lui
sia dedicato tanto spazio e venga chiaramente espressa la filialità
mariana, il centro spirituale del Paradiso è proprio nell'elogio
di san Francesco tessuto da san Tommaso d'Aquino, è il momento in cui
Dante commisura, condensa, esprime, sublima tutta la sua religiosità.
La primaria
impressione che desta, sotto il profilo linguistico, la lettura del Paradiso
è dovuta alla notevolissima presenza di latinismi, derivati tanto dal
linguaggio filosofico-teologico quanto da quello scientifico, e accresciuti da
una particolare predilezione del poeta a coniare nuovi sostantivi e verbi in
analogia o in stretta dipendenza dalla lingua latina.
Il Baldelli[124]
ha portato avanti il discorso sulla presenza dei latinismi ribadendo che essi
pongono in luce la preminenza di valori di “evocazione reale e culturale sui
rapporti fonosimbolici”; e prosegue:
La
sostanza latina della parola appare cioè più importante del suo
essere costituita, ad esempio, di doppia liquida, di muta più liquida e
così via. Dante infatti largamente ricorre ai latinismi più
insoliti, specialmente in rima difficile, pur se si presentano “aspri”, anche
nelle parti di più rarefatta poesia del Paradiso.
Il plurilinguismo
della Commedia apre, anche nel Paradiso, larghi varchi a
sperimenti lessicali e sintattici in direzione non coincidente, non si
dirà opposta, a quella dei latinismi: è stata notata la presenza
di crudi realismi (cloaca, puzza); si possono aggiungere cotenne
ovvero opere sozze o bozze; notevole è la crescita dei
gallicismi, i quali, d'estrazione dotta, contribuiscono a sollevare il tono del
discorso poetico nel momento in cui diminuiscono i dialettalismi fiorentini e
in genere toscani, di timbro più demotico e d'uso più realistico.
La distribuzione dei vari modi plurilinguistici è sempre funzionale al
contenuto; così, ad esempio, le grandi apostrofi politiche o messianiche
si colorano di calchi scritturali, le lezioni teologiche, invece, sono
intessute di linguaggio patristico e scolastico, le descrizioni storiche
riprendono l'uso di reminiscenze di eredità classico-pagana, con
allusioni mitologiche che potrebbero sorprendere il lettore moderno, ma
risultano perfettamente consonanti al momento poetico ad un lettore medievale.
Anche nella sintassi s'avvertono novità di costruzione; così
nella rima, negli usi dei traslati, nella morfologia. L'ampiezza di costruzione
linguistica del Paradiso raggiunge un vertice d'altezza e d'eccezionale
novità anche rispetto alle prime due cantiche; lo spessore linguistico
è maggiore. L'endecasillabo e la terzina si svolgono all'interno d'una
straordinaria concatenazione logica, sì che non si possa mai dire se
è il linguaggio che stimola la serie sterminata delle similitudini, o
queste guidino quello verso una soluzione stilisticamente perfetta anche sotto
il risguardo culturale. La mimesi della forma risulta sempre collegata alla
varietà dei discorsi dottrinari. Cultura teologica, riprese di discorso
filosofico, agganci con la realtà politica circostante si uniscono in un
agglomerato espressivo di inimitabile perfezione: “inimitabile” proprio
perché da tanta materia dell'Inferno e anche del Purgatorio
potranno nascere epigonie letterarie, si potranno sviluppare discendenze di
forma e di moduli d'argomentare e di descrivere, nel corso dei secoli, mentre
il Paradiso resta una grandissima pagina subito aperta e poi subito
chiusa sulla scena della poesia d'ogni paese. Dante ha imitatori; il Paradiso
no. E se non vi sono continuatori possibili del Paradiso, è pur
vero che nemmeno Dante, se fosse vissuto ancora, sarebbe potuto andare oltre?
C'è infatti un oltre al Paradiso?, esiste una possibilità
di portare più avanti l'esperienza così altamente raggiunta nel
canto centesimo della “divina” Commedia? Ipotesi oziose se ne possono
fare: qualche altra prolusione scientifica, qualche altro aggiustamento di
propri concetti in epistole e magari in trattati. Ma non si vede come sarebbe
potuta continuare la “poesia” di Dante, il quale, per nostra grande fortuna, ha
concluso sino all'ultima limatura possibile il suo gigantesco sforzo creativo,
non ha lasciato nulla di indefinito e di “non finito”. Nella veste
stilistico-linguistica, nella struttura di pensiero, nel procedere del
racconto, il Paradiso appare un'opera conclusa in tutti i minimi
particolari.
In tal modo, anche se
non ha avuto il tempo di pubblicare il Paradiso, la terza cantica era
pronta per il mondo. Non restava altro che congedarsi dalla vita. E verrebbe
quasi da pensare che l'ambasceria fatale a Venezia sia accaduta, o che il poeta
si sia dichiarato pronto a compierla, soltanto dopo che gli ultimi
endecasillabi erano pronti per la “divulgazione”, ne varietur.
XVIII
COMMIATO DEL POETA
Gli anni dedicati
all'immenso lavoro erano stati tanti, sfibranti, senza un attimo di sosta. La
famiglia era raccolta a Ravenna. C'è sempre, vivo, pungente, il
desiderio di ritornare in Firenze. Forse la divulgazione del Paradiso
convincerà gli “scelleratissimi fiorentini di dentro” che è
urgente la revoca della condanna, e che un così grande uomo deve tornare
con tutti gli onori a Firenze? Proprio in tale prospettiva, mai abbandonata ma
ora vieppiù sognata, sta il consenso che Dante dà a Guido Novello
di recarsi con l'ambasceria ravennate a Venezia, nel 1321, per scongiurare i
propositi di guerra della Repubblica di San Marco, sdegnata per i continui
attacchi delle navi di Ravenna. Se Dante risolverà la controversia,
apparirà agli occhi di tutti gl'Italiani, agli occhi (il che a lui preme
in maggior grado) dei Fiorentini, come un “uomo di pace”, come altra persona
ormai dall'aggressivo e implacabile partitante bianco degli anni 1300-1301,
lontanissimi.
L'ambasceria è
sicura; ce lo dice una fonte controllatissima e degna di tutta fede, il
Villani: “essendo tornato d'ambasceria da Vinegia in servigio de' signori da
Polenta”. Ormai è da scartare la leggenda del nipote del Villani,
Filippo, secondo cui i Veneziani avrebbero impedito a Dante di pronunziare la
propria allocuzione nel timore che ne restassero persuasi, e poi avrebbero
negato a Dante il permesso di ritornare per via di mare (via tanto più
salubre), nel timore questa volta che Dante portasse dalla propria parte
l'ammiraglio della flotta. La leggenda, da espungere, può al massimo
essere assunta a riprova delle capacità di mediazione e di persuasione
del vecchio glorioso ambasciatore, e fors'anche per consentire al “nero”
Villani di scaricare su altri la colpa della malattia e della morte del grande
concittadino, tale anche se esule.
Si possono fare
ipotesi sulla data dell'ambasceria, oscillando tra la fine di luglio e i primi
di agosto. Tuttavia, poiché un documento del 20 ottobre, in epoca dunque
assai più tarda, assicura la presenza a Venezia di ambasciatori ravennati
(fu al momento in cui Ravenna riuscì a comporre la vertenza), sono nati
ulteriori interrogativi: una seconda ambasceria?, ovvero la stessa, dalla quale
però s'era staccato proprio Dante, ammalatosi a Venezia o durante il
viaggio d'andata attraversando le paludi di Comacchio, e tornato indietro in
così gravi condizioni da perire qualche settimana dopo? Propenderei per
questa seconda ipotesi, ma anche la prima non è da scartare: la prima
ambasceria essere stata a carattere esplorativo, la seconda per concludere e
stringere i patti.
Aveva Dante un
compito preciso in questa ambasceria, indubbiamente composta da varie persone?
Anche questa è una domanda senza risposta. Forse Guido Novello invia
Dante per dare maggior credito all'importante missione diplomatica: un segno di
garanzia per l'onestà e la lealtà delle proposte inviate ai
signori di Venezia: insomma una partecipazione meramente rappresentativa che il
poeta non aveva modo di rifiutare al suo ospite, e che poteva tornare utile al
sogno di cui s'è detto: tornare in Firenze.
Anche la data della
morte è sicura. Vero è che per Dante non c'è data
possibile che non sia destinata, o meglio non lo sia stata in passato, ad
essere messa in discussione. Non ci fermeremo in questo dibattito (chi ne vuol
sapere qualcosa consulti il Ricci, L'ultimo rifugio cit.). Il mese della
morte è erratamente riferito dal Villani: “Nel detto anno 1321, del mese
di luglio, morì Dante Alighieri…”. Ma il racconto del Boccaccio è
troppo preciso al riguardo per poter rimettere in discussione il problema: il
mese è settembre. Ma quale giorno? Il Boccaccio e i codici del
cosiddetto “gruppo del Cento” non esitano al riguardo: il 14 settembre: “nel
dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa”, dice
il Boccaccio. Invece gli epitafi di Giovanni del Virgilio (Theologus Dantes)
e di Menghino Mezzani (Inclita fama) danno la data del 13 settembre.
Se una scelta
s'impone, essa deve andare agli autori degli epitafi. Essi abbisognavano per il
loro ambìto compito della data esattissima; il Boccaccio poteva averne
meno bisogno. Ma non è da escludere un'ipotesi intermedia[125]:
cioè che il poeta sia venuto a morte dopo il vespro, nella notte tra il
13 e il 14, e che valesse la data del giorno dopo, quando Guido Novello e gli
amici di Dante ne ebbero contezza dai figli e i familiari del poeta, usciti di
buon'ora dalla casa, la quale forse era di rimpetto al convento francescano.
Si può
ritenere valido, pur entro certi limiti, il racconto del Boccaccio sulla gara
dei poeti di Romagna per aver l'incarico di scrivere l'epitafio, e sulle
solenni esequie volute da Guido da Polenta.
La salma fu tumulata
presso la chiesa di San Pier Maggiore, poi chiamata San Francesco. Guido
Novello aveva intenzione di costruire una solenne tomba, ma gli accadimenti
politici, conclusisi col suo esilio, non gli consentirono di tributare questo
ultimo onore al grande amico. Il sacello sarà riattato più tardi
ad opera del pretore Bernardo Bembo, il padre dello scrittore, durante la
dominazione veneziana (1483), poi risistemato nel 1692 dal legato card. Corsi,
infine (1780) ricostruito in forme neoclassiche dal Morigia, su iniziativa del
cardinal legato Valenti Gonzaga. Le continue richieste delle ossa da parte dei
Fiorentini (una petizione solenne dell'Accademia Medicea, firmata anche da
Michelangelo, fu avanzata nel 1519 a papa Leone X) persuasero i frati
francescani ad occultare le ossa in un muro tra il fianco della chiesa e il
muraglione di cinta. Non se ne seppe più nulla, fino a che, del tutto
casualmente, durante lavori di riassetto proprio nel 1865, l'anno del
centenario, furono ritrovate, e solennemente translate nel tempietto
settecentesco: quello che ora si presenta al concorso dei visitatori, ma con
ulteriori “abbellimenti”, se così si può dire, eseguiti nel
successivo centenario del 1921. Ma torniamo a quegli ultimi giorni di
metà settembre e ai mesi immediatamente successivi. Ne abbiamo
pochissime notizie, delle tante che desidereremmo, ma tali da consentire di
illustrare quel milieu culturale che già ebbe ad affascinare
Carducci, rievocatore dell'ultimo periodo della vita di Dante, e ad interessare
gli studiosi contemporanei, impegnati a rappresentare il quadro culturale della
civiltà umanistica tra il “vecchio” Dante e il “giovane” Petrarca, per
ripetere il titolo d'un bel saggio del Billanovich. Era una cultura tutta
deputata a ritrovare le origini della propria cultura classica, ma tutt'altro
che insensibile alla voce della poesia: Cino da Pistoia non era ancora morto,
l'unico dei poeti della giovinezza dell'Alighieri ancora in vita. E di certo
molto interessano le proposizioni culturali d'un Lovato de' Lovati, che
“sarebbe potuto essere padre di Dante”, o i rapporti con Dante del veneziano
Giovanni Quirini, gli sforzi di quella piccola accademia di dotti senza della
quale poco si comprende il sorgere della cultura petrarchesca, ma che
altrettanto poco serve a capire la nascita della poesia di Francesco: i notai
Dino Perini, Pietro Giardini, Menghino Mezzani, i medici Fiducio de' Milotti e
Guido Vacchetta, il maestro bolognese Giovanni del Virgilio (bolognese ma di
famiglia padovana, quasi a consentire, fuori della realtà, un incontro
culturale tra Dante e Albertino Mussato).
Purtroppo la perdita
dell'autografo della Commedia e d'ogni autografo dantesco è
accresciuta dalla dispersione di tutte le copie del poema nel primo decennio
successivo alla morte: il primo esemplare, e nemmeno cognito se non
indirettamente, è una copia scritta tra l'ottobre del 1330 e il gennaio
del 1331 da un pievano Forese Donati di Santo Stefano in Botena. Indubbiamente
subito dopo la morte del poeta (vera o no la leggenda boccacciana del
ritrovamento degli ultimi canti per un fortunoso sogno d'uno dei figli del
poeta) il Paradiso era stato reso pubblico, ed era andato a congiungersi
nella tradizione manoscritta alle prime due cantiche. Vero è che il
primo commento, per l'appunto del figlio Jacopo, è relativo al solo Inferno,
e siamo al 1322 circa; ma a breve distanza il poema era tramandato compatto, e
il theologus Dantes, il philosophiae verus alumnus, l'omnium
rerum divinarum humanarumque doctissimus, per voler adoperare gli epiteti
di Giovanni del Virgilio, di Graziolo o del Salutati, aveva iniziato il suo
secolare itinere culturale e si preparava a tornare, nelle vesti del suo
massimo liber, in Firenze.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE*
1. Repertori
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pp. 1-93; B. Maier, Breve storia della critica dantesca, in app. a U.
Cosmo, Guida cit., pp. 199-238; D. nel mondo, a cura di V. Branca
e E. Caccia, Firenze 1965; L. Martinelli, D., Palermo 1966; A. Vallone, Storia
della critica dantesca dal XIV al XX secolo, 2 voll., Milano 1981.
5. Testi
Edizioni complessive: Le opere di Dante, testo critico della
Società Dantesca Italiana, a c. di M. Barbi, E.G. Parodi, F.
Pellegrini, E. Pistelli, P. Rajna, E. Rostagno, G. Vandelli, Firenze 1921,
rist. Firenze 1960. In un volumetto d'appendice Il Fiore e il Detto d'Amore,
a c. di E.G. Parodi, Firenze 1922; si veda anche Opere minori, t. II, a
c. di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F.
Mazzoni, Milano-Napoli 1979, e t. I. parte I, a c. di D. De Robertis e G.
Contini, ivi 1984. Una bibliografia delle ediz. delle opere di Dante a c. di E.
Ragni nel cit. vol. VI della Enciclopedia Dantesca.
Opere singole: La Vita Nuova, ed. crit. a c. di M. Barbi, Firenze 19322,
nella Edizione Nazionale della Società Dantesca Italiana.
Le Rime,
a c. di G. Contini, Torino 1939, 19653, Rime della Vita Nuova e
della giovinezza, a c. di M. Barbi - F. Maggini, Firenze 1956, Rime
della maturità e dell'esilio, a c. di M. Barbi - V. Pernicone,
Firenze 1969; D.'s Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford
1967.
De
Vulgari eloquentia, a c.
di P. Rajna, Firenze 1896; a c. di A. Marigo, Firenze 1938, 19573; a
c. di P.V. Mengaldo, vol. I, introduzione e testo, Padova 1968.
Il Convivio,
a c. di G. Busnelli e G. Vandelli, con introd. di M. Barbi, Firenze 1934-1937;
a c. di M. Simonelli, Bologna 1966.
La Monarchia,
a c. di P.G. Ricci, in Edizione Nazionale, Firenze 1965.
La Commedia,
secondo l'antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, in Edizione Nazionale, voll.
1-4, Milano 1966-67.
Il Fiore
e il Detto d'Amore, a c. di G. Contini, in Edizione Nazionale, Milano
1984.
6. Biografie
Per
tutti i documenti concernenti gli Alighieri v. R. Piattoli, Codice
diplomatico Dantesco, Firenze 1950, 2a ed. (appendici in “Studi danteschi”, XXX, 1951, pp. 203-206;
XLII, 1965, pp. 393-417; XLIV, 1967, pp. 223-68), e in “Archiv. storic. ital.”, CXXVII, 1969, pp. 3-108. Le biografie
antiche possono essere consultate in A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca
e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, Milano 1904. Si vedano inoltre: I.
Del Lungo, Dante nei tempi di Dante, Bologna 1888; V. Imbriani, Studi
danteschi, Firenze 1891; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D. A., Milano
1891, ora con aggiornamento di E. Chiarini, Ravenna 1965; M. Scherillo, L'anno
della nascita di Dante, Milano 1895; Id., Alcuni capitoli della biografa
di Dante, Torino 1896; I. Del Lungo, Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII.
Pagine di Storia fiorentina per la vita di Dante, Milano 1899; G.
Salvemini, Magnati e popolani in Firenze, Firenze 1899; O. Zenatti, Dante
e Firenze, Firenze 1903; G. Salvadori, Sulla vita giovanile di D.,
Roma 1906; G. Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna,
Bologna 1921; G. Biscaro, D. a Ravenna, Roma 1921; F. Torraca, Nuovi
studi danteschi, Napoli 1921; F. Filippini, Dante scolaro e maestro,
Ginevra 1929; M. Barbi, Problemi di critica dantesca, voll. I-II, Firenze
1934-41; A. Torre, L'ambasceria di D. a Venezia, in Almanacco
ravennate, Ravenna 1959; Id., D. e Ravenna, Ravenna 1971; A.
Scolari, Verona e gli scaligeri nella vita di Dante, Verona 1965; G.
Petrocchi, Biografia. Attività politica e letteraria, in Enciclopedia
Dantesca, vol. VI, Roma 1978, pp. 1-53.
7. Studi
complessivi sulle singole opere
La “Commedia”: sul poema e su Dante, F. De
Sanctis, Lezioni e saggi su D., a c. di S. Romagnoli, Torino 1955; G.
Pascoli, Scritti danteschi, a c. di A. Vicinelli, in Prose, vol.
II, Milano 1952; L. Pietrobono, Il poema sacro, Bologna 1915; F.
Flamini, Il significato e il fine della D. C., Livorno 1916; B. Croce, La
poesia di D., Bari 1921; E.G. Parodi, Poesia e storia nella D. C.,
Napoli 1921 (Venezia 19652); Id., Lingua e Letteratura, 2
voll., Venezia 1957; K. Vossler, La D. C. studiata nella sua genesi e
interpretata, Bari 19272, 19833; L. Russo, Problemi
di metodo critico, Bari 1929; M. Barbi, Con D. e coi suoi interpreti,
Firenze 1941; Id., Problemi fondamentali per un nuovo commento della D. C.,
Firenze 1956; M. Rossi, Gusto filologico e gusto poetico, Bari 1942; E.
Curtius, Europaïsche
Literatur und Lateinisches Mittelalter, Berna 19542; B. Nardi, Dante
e la cultura medioevale, Bari 1942, nuova ed. ivi 1983; Id., Saggi di
filosofia dantesca, Milano 1930; Id., Nel mondo di Dante, Roma 1944;
Id., Dal “Convivio” alla “Commedia”, Roma 1960; E. Auerbach, Mimesis,
Torino 1956; Id., Lingua letteraria e pubblico, Milano 1960; Id., Studi
su D., Milano 1963; Ch. S. Singleton, Studi su D. I, Introduzione alla
D. C., Napoli 1961; M. Marti, Realismo dantesco e altri studi,
Milano-Napoli 1961; Id., Viaggio a Beatrice, Bologna 1968; U. Bosco, D.
vicino, Caltanissetta-Roma 1966; A. Chiari, Nove canti danteschi,
Varese 1966; G. Getto, Aspetti della poesia di D., Firenze 19662;
B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966; A.
Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla D. C., Messina-Firenze 1966;
F. Mazzoni, Contributi di filologia dantesca, Prima serie, Firenze 1966;
Id., Saggio di un nuovo commento alla D. C., Firenze 1967; S. Pasquazi, All'eterno
dal tempo, Firenze 1966; A. Vallone, Ricerche dantesche, Lecce 1967;
S. Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di D., Napoli
1967-74; G. Paparelli, Questioni dantesche, Napoli 1967; A. Jacomuzzi, L'imago
al cerchio, Milano 1968; N. Mineo, Profetismo e apocalittica in D.,
Catania 1968; P. Giannantonio, D. e l'allegorismo, Firenze 1969; E.
Paratore, Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968; L. Blasucci, Studi
su D. e Ariosto, Milano-Napoli 1969; I.N. Goleniščev-Katuzov, Tvorčestvo
Dante e i mirovaja Kul'tura, Mosca 1970; G. Petrocchi, Itinerari
danteschi, Bari 1969; E. Raimondi, Metafora e storia, Torino 1970;
B. Porcelli, Studi sulla D. C., Bologna 1970; G.R. Sarolli, Prolegomena
alla D. C., Firenze 1971; V. Russo, Esperienze e/di letture dantesche,
Napoli 1971; M. Marti, Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971; C.
Grayson, Cinque saggi su D., Bologna 1972; D'A.S. Avalle, Modelli
semiologici nella C. di D., Milano 1975; H. Rheinfelder, D. Studien,
Köln-Wien 1975; M. Sansone, Lettere
e studi danteschi, Bari 1975; L. Spitzer, Studi italiani, a c. di C.
Scarpati, Milano 1976; G. Contini, Un'idea di Dante, Torino 1976; G.
Fallani, L'esperienza teologica di D., Lecce 1976; H. Urs Von Balthasar,
Gloria…, III, Stili Laicali, Milano 1976; G. Padoan, Il pio
Enea, l'empio Ulisse, Ravenna 1977; F. Forti, Magnanimitade. Studi su un
tema dantesco, Bologna 1977; D. Commentaries, a c. di N. Nolan,
Dublin-Totowa N. J. 1977; G. Petrocchi, L'ultima dea, Roma 1977; J.A.
Scott, D. magnanimo, Firenze 1977; A. Chiari, Ancora con D.,
Napoli 1977; Ch. S. Singleton, La poesia della D. C., Bologna 1978; I.
Baldelli, Lingua e stile delle opere in volgare di Dante, in Enciclopedia
Dantesca, vol. VI, Roma 1978, pp. 55-112; D. Della Terza, Forma e
memoria. Saggi e ricerche sulla tradizione letteraria italiana da Dante a Vico,
Roma 1979; A.M. Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietate. Saggio per una
interpretazione dell'Inferno di D., Napoli 1979; M. Marti, Nuovi
contributi dal certo al vero, Ravenna 1980; A. Tartaro, Letture
dantesche, Roma 1980; E.N. Girardi, Studi su Dante, Brescia 1980; G.
Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d'amore. Studi su Dante e altri
duecentisti, Firenze 1981; E. Bigi, Forme e significati nella D. C.,
Bologna 1981; M. Corti, Dante ad un nuovo crocevia, Firenze 1981; E.
Pasquini-A. Quaglio, Profilo storico-critico, premesso a L'Inferno,
Milano 1982; P. Priest, Dante 's Incarnation of the Trinity, Ravenna
1982; J. Risset, Dante écrivain ou l'intelletto d'amore, Paris
1982; S. Abbadessi, Trame e ragioni dantesche, Bologna 1982; P.
Giannantonio, Endiadi. Dottrina e poesia nella Divina Commedia, Firenze
1983; P. Armour, The door of Purgatory. A study of multiple symbolism in
Dante's Purgatorio, Oxford 1983; W. Binni, Incontri con D., Ravenna
1983; P. Brezzi, Letture dantesche di argomento storico-politico, Napoli
1983; F. Figurelli, Studi danteschi, ivi 1983; G. Varanini, L'acceso
strale. Saggi e ricerche sulla Commedia, ivi 1984; J. Dauphiné, Le
cosmos de Dante, Paris 1984; J.M. Ferrante, The Political Vision of the
“Divine Comedy”, Princeton 1984; T. Barolini, Dante 's Poems. Textuality
and Truth in the “Comedy”, ivi 1984; V. Russo, Il romanzo teologico.
Sondaggi sulla “Commedia” di D., Napoli 1984; P. Boyde, L'uomo nel
cosmo. Filosofia della natura e poesia in D., Bologna 1984; R. Mercuri, Semantica
di Gerione, Roma 1984; M. Marti, Studi su D., Galatina 1984; U.
Bosco, Altre pagine dantesche, Caltanissetta-Roma 1987; G. Petrocchi, La
selva del protonotario. Nuovi studi danteschi, Napoli 1988.
Le “Rime”: M. Barbi, Studi sul canzoniere di
Dante, Firenze 1915; E. G. Parodi, Le Rime di Dante, in Dante: la
vita, le opere, le grandi città dantesche, Milano 1921; D. De
Robertis, Tradizione veneta e tradizione estravagante delle rime della “Vita
Nuova”, in Dante e la cultura veneta, Firenze 1966; P. Boyde, Retorica
e stile nella lirica di D., Napoli 1976.
La “Vita Nuova”: M. Casella, Introd., in
Le opere di Dante. Testo critico della Società Dantesca Italiana,
Firenze 1921; Ch.S. Singleton, An Essay on the “Vita Nuova”, Cambridge
(Mass.) 1949; V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica
nella Vita Nuova, in Studi in onore di I. Siciliano, vol. I, Firenze
1966; D. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, Firenze 1961; F.
Mazzoni, Nota introduttiva in Dante Alighieri, Vita Nuova,
Alpignano 1965; C. Grayson, Cinque saggi danteschi, Bologna 1972; G.
Barberi Squarotti, L'artificio dell'eternità, Verona 1972; M.
Guglielminetti, Memoria e scrittura, Torino 1977; R. Hollander, Studies
in Dante, Ravenna 1980; P. Rigo, La discesa agli Inferi nella “Vita
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Il “De vulgari eloquentia”: A. Marigo, Introd.
al De Vulgari Eloquentia, a c. di A. Marigo, Firenze 1938; B. Terracini,
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1948; A. Schiaffini, Lettura del “De Vulgari Eloquentia” di Dante, Roma
1959; M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della canzone nel “De Vulgari
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Il “Convivio”: E. Moore, Studies in Dante,
Oxford 1896-1917; P. Toynbee, Dante. Studies and Researches, Londra 1902
(trad. it.: Ricerche e note dantesche, Bologna 1899 e 1904); G. Gentile,
Studi su Dante, Firenze 1965; C. Vasoli, Filosofia e Teologia in
Dante, in Dante nella critica d'oggi, a c. di U. Bosco, Firenze 1965
(estratto da “Cultura e scuola”, IV, 1965, fasc. 13-14), pp. 47-71; A. Vallone,
La prosa del Convivio, Firenze 1967; M. Simonelli, Materiali per
un'edizione critica del Convivio di D., Roma 1972; M. Corti, La
felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino
1983; oltre ai citt. studi del Nardi.
La “Monarchia”: G. Vinay, introd. all'ediz.
della Monarchia, Firenze 1950; O. Capitani, Monarchia. Il pensiero
politico, in Dante nella critica d'oggi cit., pp. 722-38; P.G.
Ricci, Monarchia, in Enciclopedia Dantesca, Roma 1970-78, vol.
VI, pp. 993-1004; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930; E.
Gilson, Dante et la philosophie, Parigi 1939; A. Passerin
d'Entrèves, Dante politico e altri saggi, Torino 1955; G. Vinay, Interpretazione
della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962; J. Goudet, Dante et la
politique, Parigi 1969; N. Maccarrone, Papato e Impero nella Monarchia,
in Nuove Letture Dantesche, Firenze, VIII (1976), pp. 259-332; G.
Muresu, Dante politico, Individuo e istituzioni nell'autunno del medioevo,
Torino 1979; K. Comoth, Pax universalis. Philosophie und Politik in Dantes
Monarchia, in Miscellanea medioevalia, Berlin-New York 1980, oltre
agli altri citt. voll. di B. Nardi.
Le “Egloghe”: A. Rossi, D. nella prospettiva
del Boccaccio, in “Studi danteschi”, XXXVII (1960), pp. 63-139; Id., Dante,
Boccaccio e la laurea poetica, in “Paragone”, N. S. 150 (1962), pp. 3-41; Boccaccio
autore della corrispondenza D. - Giovanni del Virgilio, in “Miscell. stor.
della Valdelsa”, LXIX (1963), pp. 130-72; G. Billanovich, Giovanni del
Virgilio, Pietro da Miglio, Francesco da Fiano, in “Italia medioevale e
umanistica”, VI (1963), pp. 203-34, e ivi, VII (1964), pp. 279-324; G.
Martellotti, Dalla tenzone al carme bucolico, ivi, VII (1964), pp.
325-56, ora in Dante e Boccaccio e altri scrittori dall'Umanesimo al
Romanticismo, Firenze 1983; E. Cecchini, Giovanni del Virgilio, D.,
Boccaccio, ivi, XIV (1971), pp. 25-56; G. Padoan, ne Il pio Enea,
l'empio Ulisse cit.; G. Billanovich, Il vecchio Dante e il giovane
Petrarca, in “Letture Classensi”, 11, Ravenna 1982, pp. 99-118.
“Epistole” e “Questio”: Vedi soprattutto i citt. studi di F. Mazzoni e di G.
Padoan, e l'ed. delle Opere minori, cit., Milano-Napoli 1979.
[1] Sono sensazioni e impulsi visti sempre con l'occhio dell'adulto, se si vuole del padre, ingordo di perscrutare le mosse, le parole dei bambini, il loro linguaggio, così come è avido d'ogni esperienza e non può rifiutarsi d'osservare quella che viene dal fanciullo. Vedi G. Petrocchi, Dante, in Enciclopedia della Pedagogia, vol. I, Brescia 1983, ad l.; Id., Biografia di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. VI, Roma 1978, pp. 1-53.
[2] Soprattutto i racconti dell'avo Bellincione, il quale, come vedremo tra breve, era stato un personaggio se non maggiore, certo non trascurabile della storia fiorentina di metà Duecento.
[3] Si va dal massimo fulgore del ritorno di Manfredi a Palermo e dell'incoronazione, 11 agosto 1258, alla morte eroica in co del ponte.
[4] Ludovico il Bavaro non è ricordato direttamente; si vuole ch'egli possa essere identificato col Cinquecento diece e cinque.
[5] Così per il secolo precedente la crociata di Corrado III in cui muore il trisavolo Cacciaguida, poco avanti il settembre del 1148 o l'apparizione dell'abate di san Zeno, governante in Verona sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, intravisto questi di scorcio, tuttavia quale restauratore della giustizia e della pace in terra.
[6] Vedi Conv., IV, iii, 6.
[7] Vedi Inf., XIII, 75.
[8] Vedremo tra breve l'ipotesi della “cavallata”, ma per l'intanto si rifletta almeno sul ricordo dei pellegrini che vanno verso Roma, la presenza costante di quell'istituto fondamentale che per Dante è la città di Firenze, le sue consuetudini di vita.
[9] Par., III, 119.
[10] Così, è lecito supporre, i giudizi sui protagonisti della storia avversa, da Federico II a Manfredi, da Farinata a Corradino, e su quelli d'una storia originariamente non dipintagli negativamente ma la quale, scavando nel tempo, egli sentiva come suscettibile di profonde revisioni: tutta la zona dunque degli alleati della Taglia guelfa toscana, tutta la politica dei papi a vantaggio del partito guelfo.
[11] Di cui non sappiamo quasi nulla; forse soltanto che è quell'antico cittadino di Firenze la cui discendenza, filii et nepotes Morunci de Arcu, è ricordata nelle carte della Badia.
[12] Forse della famiglia degli Abati, e con altrettanta probabilità la figlia di Durante degli Abati, con evidente effetto sul nome del primogenito.
[13] Par., XXII, 112-117. Per una più attenta analisi della datazione di nascita vedi G. Petrocchi, Biografia di Dante cit. Vedi inoltre M. Scherillo, L'anno della nascita di Dante, Milano 1895; L. Azzolina, L'anno della nascita di Dante Alighieri, Palermo 1901.
[14] Come dall'episodio di Inf., XIX 16-21.
[15] In primis Farinata degli Uberti, e poi Tegghiaio Aldobrandi, Guido Guerra Guidi, ecc.
[16] Vedi M. Barbi, Un altro figlio di Dante?, in “Studi danteschi”, V (1922), pp. 15-16, poi in Problemi di critica dantesca, serie II, Firenze 1934-41, vol. II, pp. 353-354.
[17] Vedi Vita Nuova, IX, I; e potrebb'essere valida l'ipotesi, che poi si discuterà, che trattasi di un accadimento pubblico, non privato, e cioè la cavallata per l'impresa militare di Poggio Santa Cecilia, il 12 novembre del 1285.
[18] Sul problema vedi M. Barbi, Problemi cit., vol. II, p. 351; e si veda anche quel che molto più analiticamente è detto nella mia Biografia di Dante cit.
[19] Vedi F. Torraca, in “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, XIX (1912), p. 192, ove la data del matrimonio è spostata “sei o sette anni prima di andare in esilio”, quindi nel 1294 o nel 1295, certamente troppo tardi ove si consideri la necessità di porre molto prima la nascita di almeno due figli, Pietro e Jacopo.
[20] Vedi D. De Robertis, Il libro della “Vita Nuova”, Firenze 1961, p. 59.
[21] Si veda poi per l'ipotesi d'un insegnamento a Bologna tra il 1308 e il 1309.
[22] Vedi G. Petrocchi, Biografia di Dante cit.
[23] Inf., XXII 4-5.
[24] Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, a c. di A. Solerti, Milano 1904, p. 100.
[25] Vite, cit., p. 99.
[26] G. Villani. Cron., VII, 137.
[27] Vedi I. Del Lungo, Beatrice, Milano 1891.
[28] Ciò sostenne il Buti difeso appassionatamente dal Salvadori il quale reputava sicura l'appartenenza di Dante ai Fratelli della Penitenza (cfr. Sulla vita giovanile, pp. 268-269).
[29] Il 1294 sembra oggi, dal Cosmo al De Robertis, la data più probabile di redazione del libello, dinanzi al '92-'93 di Zingarelli, Barbi ecc.
[30] Vedi D. De Robertis, Il libro della “Vita Nuova” cit., p. 18.
[31] Vedi Ph. Sollers, Sur le matérialisme, Parigi 1973 (trad. it. Milano '73).
[32] Vedi G. Benelli, La nouvelle critique. Il dibattito critico in Francia dal 1980 ad oggi, Bologna 1981, p. 195.
[33] Sollers, op. cit., pp. 7, 59.
[34] Vedi D. De Robertis, op. cit.
[35] La gran parte d'essi sono dedotti dalla acutissima analisi condotta da I. Baldelli, Lingua e stile delle opere in volgare di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. VI, Appendice, Roma 1978, pp. 57-112.
[36] Vedi ivi, p. 82.
[37] Purg., XXX, 124-126.
[38] Vedi M. Barbi, Problemi cit., vol. I, p. 40; vol. II, pp. 1 sgg.
[39] Vedi M. Marti, Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli 1961, p. 31.
[40] Vedi G. Villani, Cron., VII, 140.
[41] Ivi, 148.
[42] Vedi G. Salvemini, Magnati e popolari in Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, pp. 132-133.
[43] M. Barbi, Problemi di critica dantesca cit., vol. II, pp. 381-82.
[44] Vedi M. Barbi, Problemi cit., vol. I, p. 153.
[45] Purg., XII, 104-105.
[46] Vedi Dante Alighieri, Rime, a c. di G. Contini, Torino 1946, pp. 91-92.
[47] Inf., XVIII, 28-33.
[48] Vedi D. Compagni, Cron., II, 11.
[49] Vedi Dante Alighieri, Le Opere. Testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze I9602, p. 412.
[50] Vedi R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco, Firenze 1950, p. 75.
[51] Vedi L. Fassò, Vita di Dante, Firenze 19552, p. 34.
[52] Vedi le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio cit., p. 102.
[53] Per una loro più minuziosa conoscenza e valutazione rimando alla mia cit. Biografia di Dante.
[54] Vedi R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it. Firenze 1956, vol. III, p. 198.
[55] “Secondo i suoi avversari anche in quella elezione dei priori sarebbero stati corrotti elettori con denaro o con promesse di crediti, registrate nei libri di commercio”, ivi, p. 199.
[56] Inf., XXIV, 142-144.
[57] Vedi B. Barbadoro, La condanna di Dante e le fazioni politiche del suo tempo, in “Studi danteschi”, II (1920), pp. 35 sgg.
[58] Ivi, pp. 42-44.
[59] Il Barbadoro ha acutamente sostenuto l'importanza della testimonianza del postillatore, pur nella svista tra una provvisione e l'altra; e dunque anche per le forme del comportamento pubblico di Dante nel 1301, avanti l'ambasceria, la procedura che portò alla condanna fu legalmente perfetta, anche se è evidente la malafede degli accusatori sulla specifica imputazione di baratteria, non suffragata da prove testimoniali o da altra documentazione che per ipotesi s'evincesse dai verbali dei Consigli dalla primavera all'autunno del 1301 (cfr. ivi, p. 31).
[60] È noto il ricordo abbastanza diretto del monte Cacume, se così va letto in Purg., IV, 26, montasi su in Bismantova e 'n Cacume, anziché montasi su in Bismantova in cacume.
[61] Vedi nelle citt. Vite, ediz. Solerti.
[62] Vedi G. Pampaloni, I primi anni dell'esilio di Dante, in Conferenze aretine, Arezzo 1966, pp. 133-145.
[63] Vedi R. Piattoli, Codice cit., p. 92; la data dell'8 giugno non è sicuramente leggibile nel documento, ma la lettura pur incerta corrisponde abbastanza alla cronologia dei fatti bellici, avanti lo scontro di Monte Accianico, nell'agosto, e la resa del castello pistoiese di Serravalle, il 12 di settembre.
[64] Sulla certezza del soggiorno di Dante alla corte dell'Ordelaffi vedi la mia cit. Biografia di Dante. La sicurezza ci viene da una testimonianza di Biondo Flavio, che l'aveva appresa da alcuni scritti (probabilmente una cronaca) di Pellegrino Calvi, cancelliere del signore di Forlì. Non sembra invece da porre nell'ordine delle probabilità che in quel periodo Dante fosse ad Arezzo, dove, come vedremo, si recherà più tardi.
[65] Purg., XIV, 58-64.
[66] Vedi G. Petrocchi, Itinerari danteschi, Bari 1969.
[67] Vedi Dante Alighieri, Epistole I-V, saggio di ediz. crit. a c. di F. Mazzoni, Milano 1967, p. 7.
[68] Si legge infatti nell'ultima redazione del commento dall'Ottimo, contenuta nel Barberiniano latino 4103: “et qui tocca come li Bianchi ebboro a sospetto Dante per uno consiglio ch'egli rendee, che l'aiutorio delli amici s'indugiasse di prenderlo nel tempo di verno, alla seguente istate più utile tempo a guerregiare; il quale consiglio seguitato da' Bianchi non ebbe l'effetto che l'autore credette, però che l'amico poi richesto non prestoe l'aiutorio, onde i Bianchi stimarono che Dante corrotto da' Fiorentini avesse renduto malvagio consiglio”, non si può congetturare sul nome dell'“amico” il cui intervento sarebbe stato fondamentale per Dante.
[69] Sull'ipotesi della presenza di Giotto ad Assisi nel 1309 v. tuttavia la nostra Biografia di Dante cit.
[70] V'è un altro elemento ad entrare nel discorso luneense di Dante: è la cosiddetta epistola del monaco Ilaro ad Uguccione della Faggiuola (su cui vedi Enciclopedia Dantesca, alla voce Ilaro); ma nell'uno o nell'altro giudizio che si può dare del testo esso comprova esternamente il folto indice di frequenza dei rapporti tra Dante e la terra di Luni, per i quali occorrerebbe prospettare un secondo passaggio del poeta almeno un cinque-sei anni dopo, se non all'epoca della primavera del '12, dopo la sosta a Pisa.
[71] Vero è che non è mancato chi, ad es. il Torraca, crede che la Curia sia qui quella di Enrico VII e sposta epistola e canzona al 1311; ma credo proprio a torto e ora la dimostrazione di F. Mazzoni, Epistole cit., pp. 69 sgg., riconduce l'episodio al 1307 e al Casentino.
[72] Vedi M. Barbi, Problemi cit., vol. II, p. 358.
[73] Resta nel campo delle pure ipotesi che durante il soggiorno parigino Dante possa aver conseguito la “licentia docendi in artibus”.
[74] Nella mia cit. Biografia di Dante ho valutato, attentamente come ho potuto, le parole del Boccaccio, chiaramente suggestionate dal tono apologetico del Trattatello e dalle suggestioni che su di lui esercitarono le letture delle biografie di Virgilio. Mi sono anche soffermato a valutare le tre volte in cui Benvenuto da Imola accenna al viaggio a Parigi. Infine ho discusso le varie ipotesi che sono state avanzate intorno alla data di questo viaggio, per avvicinarmi alla tesi sostenuta da Pio Rajna, in Per la questione dell'andata di Dante a Parigi, in “Studi danteschi”, II (1920), soprattutto p. 85, là dove il Rajna si sofferma sull'importanza che hanno i particolari che Dante riferisce sui procedimenti e le peculiarità della Scuola parigina, accanto ad altre citazioni di luoghi francesi. Insomma io opterei per una data tra il 1309 e il 1310.
[75] Anche su questi punti rimando alla mia Biografia di Dante, avvertendo che qui ho discusso le ipotesi con un minimo, proprio un minimo, di ragionevolezza, non volendomi intrattenere sulle tante bizzarrie avanzate nell'Ottocento e nei primi del Novecento. Ci vorrebbe un repertorio per contenerle tutte. Unica eccezione dovrà essere costituita dalla Toscana, poiché è indubitabile che il poeta conobbe, in uno o in altro momento, tutte le più importanti città della sua regione, e anche i borghi della sua terra fiorentina. Dunque, quando l'ipotesi riguarda la Toscana, non c'è più bizzarria: tutto è possibile, se non proprio tutto non è sicuro. Ad esempio cita la Maremma, ma è necessario congetturare che si sia proprio recato tra Cecina e Corneto? E questo valga solo come esempio.
[76] Rime, CIV, 73-76.
[77] Vedi M. Pazzaglia, in Enc. Dant., ad. v.
[78] Vedi L. Bruni, Vita di Dante, nella ed. Solerti, p. 103.
[79] Non soltanto per il fatto formale che Rodolfo, Adolfo e Alberto non giunsero ad essere incoronati, ma per sostanziale pochezza del loro operato e per disinteresse ai problemi dell'Italia.
[80] Vedi R. Antonelli, L 'Ordine domenicano e la letteratura nell'Italia pretridentina, e C. Bologna, L'Ordine francescano e la letteratura nell'Italia pretridentina (in AA.VV., Letteratura italiana, vol. I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982).
[81] Vedi R. Antonelli, ibid.
[82] Ibid.
[83] Vedi B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, pp. 176 sgg., anche pp. 120, 136-138, 144-146.
[84] Vedi E. R. Curtius, La littérature et le moyen âge latin, trad. francese riveduta e corretta dall'originale tedesco di J. Brejoux, Parigi 1956, p. 442.
[85] Inf., XV, 70-78.
[86] Epist., Vll, 9.
[87] Vedi G. Boccaccio, Opere, a cura di P. G. Ricci, Milano-Napoli 1955, p. 592.
[88] R. Davidsohn, op. cit., vol. III, p. 593.
[89] Ivi, p. 637.
[90] Nel Trattatello cit., p. 594.
[91] Vedi U. Cosmo, Guida a Dante, Bari 1930, nuova ed. Firenze 1962, pp. 122 sgg.
[92] Resta ancora il caso della cosiddetta epistola di frate Ilaro, della quale s'è già discorso, se si vorrà dar fede al generoso sforzo del Padoan a favore dell'autenticità della lettera dello Zibaldone Laurenziano, la nostra ricostruzione non ne è scossa, giacché il fantasioso incontro del monaco col viandante “ad partes ultramontanas” avrebbe potuto avvenire anche nel 1312, a Inferno e Purgatorio ultimati e a Paradiso concepito, mentre l'insolito forestiero delle terre dei Pisani camminava per la diocesi di Luni per varcare l'Appennino verso la lontana città di Verona: non arriveremo certo a supporre, per amor di tesi, che in effetti ci fu trasmissione dell'Inferno al dedicatario (!) Uguccione, poiché l'Inferno restò ancora per due anni aperto a ulteriori revisioni.
[93] La gentilezza che ammanta il reincontro con Nino Visconti e con Corrado Malaspina: un motivo che si ritroverà poi nel Paradiso nell'incontro con un personaggio del massimo rango, Carlo Martello.
[94] Vedi F. Forti, Magnanimitade, Studi su un tema dantesco, Bologna 1977, p. 89.
[95] Vedi B. Croce, La poesia di Dante, Bari 19486, p. 121.
[96] Il grido, colmo d'ardente amarezza, occupa ben oltre venticinque terzine del canto VI del Purgatorio, dal v. 76 alla chiusa del canto.
[97] Dall'imperatore Rodolfo d'Asburgo al re boemo Ottocaro, da Filippo III di Francia ad Enrico di Navarra, via via sino a Guglielmo VII di Monferrato.
[98] Il personaggio non è di facile identificazione storica: certamente un uomo di notevole levatura intellettuale, adusato alle dotte disquisizioni in uso nelle corti dell'Italia settentrionale; o lombardo di nascita, ovvero uno del casato Lombardi di Venezia.
[99] Vedi Conv., IV, v, 3.
[100] Conv., IV, iv, 3.
[101] Conv., IV, iv, 4.
[102] Par., XXVII, 22-24.
[103] Sul problema, ancora aperto, vedi G. Petrocchi, Itinerari danteschi cit., pp.105-108.
[104] Mon., II, ii, 1-5.
[105] Par., XVI, 58-59.
[106] Vedi i particolari di questa vicenda nei miei Itinerari danteschi cit.
[107] C. Ricci, L'ultimo rifugio di D. A., Milano 1891, ora con agg. di E. Chiarini, Ravenna 1965.
[108] Epoca generalmente accolta per la datazione del carme di Giovanni del Virgilio.
[109] Vedi A. Torre, L'ambasceria di Dante a Venezia, in Almanacco ravennate, Ravenna 1959, pp. 385-400.
[110] N'è rimasta traccia nei Rerum memorandarum libri del Petrarca, nel capitolo De mordacibus locis, II, 83, testimonianza “verace” anche a detta del Billanovich, e che s'inserisce in un'aneddotica letteraria e popolare sul carattere superbo e aspro del divino poeta.
[111] La guerra contro Padova non poteva avere alcun interesse per Dante, lontano ormai da Verona al tempo della catastrofe militare del Bassanello, il 26 agosto 1320, ma di cui probabilmente aveva previsto l'inevitabilità se quelli erano le mire e gli sforzi di Cangrande.
[112] Vedi E. Sestan, nella Enciclopedia Dantesca, sub v. firenze, Storia.
[113] Giustamente N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano 19312, p. 658, esclude che l'occasione dell'epistola dantesca possa riferirsi ad altre provvisioni assolutorie, del 1316.
[114] Una minuziosa analisi si troverà nella mia cit. Biografia di Dante, anche per quel che riguarda i vari documenti di condanna; si vedano anche M. Barbi, Problemi cit., vol. I, pp. 48-53, e R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco cit., pp. 114 e 183.
[115] Rispetto alla Commedia la Monarchia rivela, come acutamente ha scritto il Vinay, “una espressione parziale di contro ad una totale” della complessa personalità dantesca.
[116] Vedi G. Biscaro, Dante a Ravenna, Roma 1921. Il Biscaro, in nome della sua tesi dell'arrivo di Dante a Ravenna tra la fine del 1319 e il maggio-giugno 1320, ha confutato con argomenti giuridici il ragionamento del Ricci sul valore da dare all'ingiunzione a Pietro, ma resta indubitabile che, se gli veniva rivolta quell'estrema richiesta, Pietro godeva dei benefici delle due chiese già da alcun tempo, e inoltre a partire da una data sufficientemente successiva all'arrivo degli Alighieri, tale da consentire di meritarsi, a titolo proprio o del padre, il dono dei benefici.
[117] Se non si vorrà congetturare che vari anni dopo Antonia s'allontanasse da Firenze per Ravenna per prendere il velo, o già suora ottenesse di lasciare un monastero fiorentino per vivere accanto alla tomba del padre: fantasticherie certo, aggravate dalla circostanza che in tal caso una vocazione troppo tardiva — Antonia doveva avere ventidue-ventitré anni alla morte di Dante —l'avrebbe chiamata al chiostro a distanza di tempo dal 1321.
[118] Vedi la mia cit. Biografia di Dante.
[119] Vedi F. Mazzoni, introduz. alla Questio, in Dante Alighieri, Opere minori, t. II, Milano-Napoli 1979, p. 711.
[120] Par., XXV, 1-9.
[121] S'è preferita la strada della sua vita (non dirò, meccanicamente, della “biografia”) per avvicinarlo; l'abbiamo inseguito di momento in momento, di città in città, per trovare a noi stessi, trovare e provare, la ragione di quell'eccellenza. Altri giudicherà se il nostro tentativo sia fallito; ma continuiamo a ritenere che questo era, ed è nell'anno di grazia 1983, l'unico strumento di conoscenza possibile d'uno scrittore.
[122] Par., XXIX, 19-36.
[123] Sviluppo d'una precedente figura dell'arco, nel canto I del Paradiso:
né pur le creature che son
fore
d'intelligenza quest'arco saetta,
ma quelle c'hanno intelletto e amore.
[124] Vedi la sua amplissima e acuta analisi in Enciclopedia Dantesca cit., vol. VI, n. 57.
[125] Vedi la mia cit. Biografia di Dante.
* La presente nota bibliografica non pretende in alcun modo di voler essere una ricca e men che mai esaustiva bibliografia delle edizioni dantesche e degli studi su Dante, ma rappresenta soltanto l'elencazione di quei lemmi il cui studio ha inciso di più nella stesura di questo libro. Per una bibliografia più ampia si rinvia al cit. volume di A. Vallone, Storia della critica dantesca e alle note bibliografiche delle singole voci della Enciclopedia Dantesca, soprattutto del VI volume (Appendice). Si consultino inoltre i fascicoli 1-14 del Repertorio bibliografico dantesco nella rivista “L'Alighieri”, Roma, Casa di Dante, 1960-83; la Bibliografia dantesca ragionata pubblicata nella rivista “Studi danteschi” editi sotto gli auspici della Società Dantesca Italiana, Firenze 1920-81, voll. I-LIII. Per l'ultimo trentennio si vedano particolarmente, infine, le ottime bibliografie ragionate di E. Esposito, citt. in questa stessa Bibliografia (Repertori).