Suole
a’ faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro et tempestoso
nembo assaliti et sospinti, né stella scorgono, né cosa alcuna
appar loro che regga la lor via, col segno della indiana pietra ritrovare la
tramontana, in guisa che, quale vento soffi et percuota conoscendo, non sia lor
tolto il potere et vela et governo là, dove essi di giugnere procacciano
o almeno dove più la loro salute veggono, dirizzare; et piace a quelli
che per contrada non usata caminano, qualhora essi, a parte venuti dove molte
vie faccian capo, in qual più tosto sia da mettersi non scorgendo,
stanno in sul piè dubitosi et sospesi, incontrare chi loro la diritta
insegni, sì che essi possano all’albergo senza errore, o forse prima che
la notte gli sopragiunga, pervenire. Per la qual cosa avisando io, da quello
che si vede avenire tutto dì, pochissimi essere quegli huomini, a’ quali
nel peregrinaggio di questa nostra vita mortale, hora dalla turba delle
passioni soffiato et hora dalle tante et così al vero somiglianti
apparenze d’openioni fatto incerto, quasi per lo continuo et di calamita et di
scorta non faccia mestiero, ho sempre giudicato gratioso ufficio per coloro adoperarsi,
i quali, delle cose o ad essi avenute o da altri apparate o per se medesimi
ritrovate trattando, a gli altri huomini dimostrano co me si possa in qualche
parte di questo periglioso corso et di questa strada, a smarrire così
agevole, non errare. Perciò che quale più gratiosa cosa
può essere che il giovare altrui? O pure che si può qua
giù fare, che ad huom più si convenga, che essere a molti huomini
di lor bene cagione? Et poi, se è lodevole per sé, che è
in ogni maniera lodevolissimo, un huom solo senza fallimento saper vivere non
inteso et non veduto da persona, quanto più è da credere che
lodar si debba un altro, il quale et sa esso la sua vita senza fallo scorgere
et oltre a cciò insegna et dona modo ad infiniti altri huomini, che ci
vivono, di non fallire? Ma perciò che tra le molte cagioni, le quali il
nostro tranquillo navicar ci turbano et
il sentiero del buon vivere ci rendono sospetto et dubbioso, suole con le primiere essere il non saper noi
le più volte quale amore buono sia et qual reo, il che non saputo fa che
noi, le cose che fuggire si devrebbono amando et quelle che sono da seguire non
amando, et tal volta o meno o più del convenevole hora schifandole et
hora cercandole travagliati et smarriti viviamo, ho voluto alcuni ragionamenti
raccogliere, che in una brigata di tre nostre valorose donne et in parte di
madonna la Reina di Cipri, pochi dì sono, tre nostri aveduti et
intendenti giovani fecero d’Amore, assai diversamente questionandone in tre
giornate, a ffine che il giovamento et pro che essi hanno a me renduto,
da·lloro che fatti gli hanno sentendogli, che nel vero non è stato poco,
possano etiandio rendere a qualunque altro, così hora da me raccolti,
piacesse di sentirgli. Alla qual cosa fare, come che in ciascuna età
stia bene l’udire et leggere le giovevoli cose et spetialmente questa,
perciò che non amare come che sia in niuna stagione non si può,
quando si vede che da natura insieme col vivere a tutti gli huomini è
dato che ciascuno alcuna cosa sempre ami, pure io, che giovane sono, i giovani
huomini et le giovani donne conforto et invito maggiormente. Perciò che
a molti et a molte di loro per aventura agevolmente averrà che, udito
quello che io mi profero di scriverne, essi prima d’Amore potranno far giudicio
che egli di loro s’habbia fatto pruova. Il che, quanto esser debba lor caro,
né io hora dirò, et essi meglio potranno ne gli altri loro
più maturi anni giudicare. Ma di vero, sì come nel più
delle cose l’uso è ottimo et certissimo maestro, così in alcune,
et in quelle massimamente che possono non meno di noia essere che di diletto
cagione, sì come mostra che questa sia, l’ascoltarle o leggerle in
altrui, prima che a pruova di loro si venga, senza fallo molte volte a molti
huomini di molto giovamento è stato. Per la qual cosa bellissimo
ritrovamento delle genti è da dir che sieno le lettere et la scrittura,
nella qual noi molte cose passate, che non potrebbono altramente essere alla
nostra notitia pervenute, tutte quasi in uno specchio riguardando et quello di
loro che faccia per noi raccogliendo, da gli altrui essempi ammaestrati ad
entrare nelli non prima o solcati pelaghi o caminati sentieri della vita, quasi
provati et nocchieri et viandanti, più sicuramente ci mettiamo. Senza
che infinito piacere ci porgono le diverse lettioni, delle quali gli animi
d’alquanti huomini, non altramente che faccia di cibo il corpo, si pascono
assai sovente et prendono insieme da esse dilettevolissimo nodrimento. Ma
lasciando questo da parte stare et alle ragionate cose d’Amore, che io dissi,
venendo, acciò che meglio Si possa ogni lor parte scorgere tale, quale
appunto ciascuna fu ragionata, stimo che
ben fatto sia che, prima che io passi di loro più avanti, come il
ragionare havesse luogo si faccia chiaro.
Asolo
adunque, vago et piacevole castello posto ne gli stremi gioghi delle nostre
alpi sopra il Trivigiano, è, sì come ogniuno dee sapere, di
madonna la Reina di Cipri, con la cui famiglia, la quale è detta
Cornelia, molto nella nostra città honorata et illustre, è la mia
non solamente d’amistà et di dimestichezza congiunta, ma anchora di
parentado. Dove essendo ella questo settembre passato a’ suoi diporti andata,
avenne che ella quivi maritò una delle sue damigielle, la quale,
perciò che bella et costumata et gentile era molto et perciò che
da bambina cresciuta se l’havea, assai teneramente era da·llei amata et havuta
cara. Per che vi fece l’apparecchio delle nozze ordinare bello et grande, et,
invitatovi delle vicine contrade qualunque più honorato huomo v’era con
le lor donne, et da Vinegia similmente, in suoni et canti et balli et
solennissimi conviti l’un giorno appresso all’altro ne menava festeggiando con
sommo piacer di ciascuno. Erano quivi tra gli altri, che invitati dalla Reina
vennero a quelle feste, tre gentili huomini della nostra città, giovani
et d’alto cuore, i quali, da’ loro primi anni ne gli studi delle lettere usati
et in essi tuttavia dimoranti per lo più tempo, oltre a·cciò il
pregio d’ogni bel costume haveano, che a nobili cavalieri s’appartenesse d’havere.
Costor per aventura, come che a tutte le donne che in que’ conviti si
trovarono, sì per la chiarezza del sangue loro et sì anchora
molto più per la viva fama de’ loro studi et del lor valore fosser cari,
essi nondimeno pure con tre di loro belle et vaghe giovani et di gentili
costumi ornate, [perciò che prossimani eran loro per sangue et lunga
dimestichezza con esse et co’ lor mariti haveano, i quali tutti e tre di que’
dì a Vinegia tornati erano per loro bisogne], più spesso et
più sicuramente si davano che con altre, volentieri sempre in
sollazzevoli ragionamenti dolci et honeste dimore trahendo. Quantunque
Perottino, che così nominare un di loro m’è piaciuto in questi
sermoni, poco et rado parlasse, né fosse chi riso in bocca gli havesse
solamente una volta in tutte quelle feste veduto. Il quale etiandio molto da
ogniuno spesse volte si furava, sì come colui che l’animo sempre havea
in tristo pensiero; né quivi venuto sarebbe, se da’ suoi compagni, che
questo studiosamente fecero, acciò che egli tra gli allegri dimorando si
rallegrasse, astretto et sospinto al venirvi non fosse stato. Né pure
solamente Perottino ho io con infinta voce in questa guisa nomato, ma le tre
donne et gli altri giovani anchora; non per altro rispetto, se non per tarre
alle vane menti de’ volgari occasione, i loro veri nomi non palesando, di pensar cosa in parte alcuna
meno che convenevole alla loro honestissima vita. Con ciò sia cosa che
questi parlari, d’uno in altro passando, a brieve andare possono in contezza de
gli huomini pervenire, de quali non pochi sogliono esser coloro che le cose
sane le più volte rimirano con occhio non sano.
Ma
alle nozze della Reina tornando, mentre che elle così andavano come io
dissi, un giorno tra gli altri nella fine del desinare, che sempre era
splendido et da diversi giuochi d’huomini che ci soglion far ridere et da suoni
di vari strumenti et da canti hora d’una maniera et quando d’altra rallegrato,
due vaghe fanciulle per mano tenendosi, con lieto sembiante al capo delle
tavole, là dove la Reina sedea, venute, riverentemente la salutarono; et
poi che l’hebbero salutata, amendue levatesi, la maggiore, un bellissimo liuto
che nell’una mano teneva al petto recandosi et assai maestrevolmente
toccandolo, dopo alquanto spatio col piacevole suono di quello la soave voce di
lei accordando et dolcissimamente cantando, così disse:
Io
vissi pargoletta in festa e ’n gioco,
De’ miei pensier, di mia sorte contenta:
Hor sì m’afflige Amor et mi tormenta,
C’homai da tormentar gli avanza poco.
Credetti,
lassa, haver gioiosa vita
Da prima entrando, Amor, a la tua corte;
Et già n’aspetto dolorosa morte:
O mia credenza, come m’hai fallita.
Mentre
ad Amor non si commise anchora,
Vide Colcho Medea lieta et secura;
Poi ch’arse per Iason, acerba et dura
Fu la sua vita infin a l’ultim’hora.
Detta
dalla giovane cantatrice questa canzone, la minore, dopo un brieve corso di
suono della sua compagna che nelle prime note già ritornava, al tenor di
quelle altresì come ella la lingua dolcemente isnodando, in questa guisa
le rispose:
Io
vissi pargoletta in doglia e ’n pianto,
De le mie scorte et di me stessa in ira:
Hor sì dolci pensieri Amor mi spira,
Ch’altro meco non è che riso et canto.
Harei
giurato, Amor, ch’a te gir dietro
Fosse proprio un andar con nave a scoglio;
Così là ’nd’io temea danno et
cordoglio,
Utile scampo a le mie pene impetro.
Infin
quel dì, che pria la punse Amore,
Andromeda hebbe sempre affanno et noia;
Poi ch’a Perseo si diè, diletto et
gioia
Seguilla viva, et morta eterno honore.
Poi
che le due fanciulle hebber fornite di cantare le lor canzoni, alle quali udire
ciascuno chetissimo et attentissimo era stato, volendo esse partire per dar
forse a gli altri sollazzi luogo, la Reina, fatta chiamare una sua damigiella,
la quale, bellissima sopra modo et per giudicio d’ogniun che la vide più
d’assai che altra che in quelle nozze v’havesse, sempre quando ella
separatamente mangiava di darle bere la serviva, le impose che alle canzoni
delle fanciulle alcuna n’aggiugnesse delle sue. Per che ella, presa una sua
vivola di maraviglioso suono, tuttavia non senza rossore veggendosi in
così palese luogo dover cantare, il che fare non era usata, questa
canzonetta cantò con tanta piacevolezza et con maniere così nuove
di melodia, che alla dolve fiamma, che le sue note ne’ cuori degli ascoltanti
lasciarono, quelle delle due fanciulle furono spenti et freddi carboni:
Amor,
la tua virtute
Non è dal mondo [et] da la gente
intesa,
Che, da viltate offesa,
Segue suo danno et fugge sua salute.
Ma se fosser tra noi ben conosciute
L’opre tue, come là dove risplende
Più [del tuo] raggio puro,
[Camin dritto] et securo
Prenderia nostra vita, che no ’l prende,
Et tornerian con la prima beltade
Gli anni de l’oro et la felice etade.
Ora
soleva la Reina per lo continuo, fornito che s’era di desinare et di vedere et
udire le piacevoli cose, con le sue damigielle ritrarsi nelle sue camere, et
quivi o dormire o, ciò che più le piacea di fare facendo, la
parte più calda del giorno separatamente passarsi, et così
concedere che ll’altre donne di sé facessero a·llor modo, infino
a·ttanto che venuto là dal vespro tempo fosse da festeggiare; nel qual
tempo tutte le donne et gentili huomini et suoi cortigiani si raunavano nelle
ampie sale del palagio, dove si danzava gaiamente et tutte quelle cose si
facevano che a festa di reina si conveniva di fare. Cantate adunque dalla
damigiella et dalle due fanciulle queste canzoni et a tutti gli altri sollazzi
di quella hora posto fine, levatasi dall’altre donne la Reina, come solea, et
nelle sue camere raccoltasi, et ciascuno similmente partendo, rimase per
aventura ultime, le tre donne, che io dissi, co’ loro giovani per le sale si
spatiavano ragionando, et quindi, da’ piedi et dalle parole portate, ad un
verone pervennero, il quale da una parte delle sale più rimota sopra ad
un bellissimo giardino del palagio riguardava. Dove come giunsero,
maravigliatesi della bellezza di questo giardino, poi che di mirare in esso
alquanto al primo disiderio sodisfatto hebbero, hora a questa parte hora a
quella gli occhi mandando dal disopra, Gismondo, che il più festevole
era de’ suoi compagni et volentieri sempre le donne in festa et honesto giuoco
teneva, a·lloro rivoltosi così disse:
—
Care giovani, il dormire dopo ’l cibo a questa hora del dì, quantunque
in niuna stagion dell’anno non sia buono, pure la state, perciò che
lunghissimi sono i giorni, come quello che cosa piacevole è, da gli
occhi nostri volentieri ricevuto, alquanto meno senza fallo ci nuoce. Ma questo
mese si incomincia egli a perder molto della sua dolcezza passata et a farsi di
dì in dì più dannoso et più grave. Per che, dove
voi questa volta il mio consiglio voleste pigliare, le quali stimo che per
dormire nelle vostre camere a quest’hora vi rinchiudiate, io direi che fosse
ben fatto, lasciando il sonno dietro le cortine de’ nostri letti giacere, che
noi passassimo nel giardino, et quivi al rezzo, nel fresco dell’herbe
ripost[i]ci, o novellando o di cose dilettevoli ragionando, ingannassimo questa
incresciosa parte del giorno, infin che l’hora del festeggiare venuta nelle
sale ci richiamasse con gli altri ad honorare la nostra novella sposa. —
Alle
donne, le quali molto più le ombre de gli alberi et gli accorti
ragionamenti de’ giovani che il sonno delle coltre regali et le favole
dell’altre donne dilettavano, piacque il consiglio di Gismondo. Per che, scese
le scale, tutte liete et festose insieme con lui et cogli altri due giovani n
andarono nel giardino.
Era
questo giardino vago molto et di maravigliosa bellezza; il quale, oltre ad un
bellissimo pergolato di viti, che largo et ombroso per lo mezzo in croce il
dipartiva, una medesima via dava a gl’intranti di qua et di là, et lungo
le latora di lui ne la distendeva; la quale, assai spatiosa et lunga et tutta di
viva selve soprastrata, si chiudeva dalla parte di verso il giardino, solo che
dove facea porta nel pergolato, da una siepe di spesissimi et verdissimi
ginevri, che al petto havrebbe potuto giugnere col suo sommo di chi vi si fosse
accostar voluto, ugualmente in ogni parte di sé la vista pascendo,
dilettevole a riguardare. Dall’altra honorati allori, lungo il muro vie
più nel cielo montando, della più alta parte di loro mezzo arco
sopra la via facevano, folti et in maniera gastigati, che niuna lor foglia fuori
del loro ordine parea che ardisse di si mostrare; né altro del muro, per
quanto essi capevano, vi si vedea, che dall’uno delle latora del giardino i
marmi bianchissimi di due finestre, che quasi ne gli stremi di loro erano,
larghe et aperte, et dalle quali, perciò che il muro v’era grossisimo,
in ciascun lato sedendo si potea mandar la vista sopra il piano a cui elle da
alto riguardano. Per questa dunque così bella via dall’una parte entrate
nel giardino le vaghe donne co’ loro giovani caminando tutte difese dal sole,
et questa cosa et quell’altra mirando et considerando et di molte ragionando,
pervennero in un pratello che ’l giardin terminava, di freschissima et
minutissima herba pieno et d’alquante maniere di vagh[i] fiori dipinto per
entro et segnato; nello stremo del quale facevano gli allori, senza legge et in
maggior quantità cresciuti, due selvette pari et nere per l’ombre et
piene d’una solitaria riverenza; et queste tra l’una el l’altra di loro
più a drento davan luogo ad una bellissima fonte, nel sasso vivo della
montagna, che da quella parte serrava il giardino, maestrevolmente cavata,
nella quale una vena non molto grande di chiara et fresca acqua, che del monte
usciva, cadendo et di lei, che guari alta non era dal terreno, in un canalin di
marmo, che ’l pratello divideva, scendendo, soavemente si facea sentire et, nel
canale ricevuta, quasi tutta coperta dall’herbe, mormorando s’affrettava di
correre nel giardino.
Piacque
maravigliosamente questo luogo alle belle donne, il quale poi che da ciascuna
di loro fu lodato, madonna Berenice, che per età alquanto maggiore era
dell’altre due et per questo da esse henorata quasi corne lor capo, verso
Gismondo riguardando disse:
—
Deh come mal facemmo, Gismondo, a non ci esser qui tutti questi dì
passati venute, ché meglio in questo giardino che nelle nostre camere
haremmo quel tempo, che senza la sposa et la Reina ci correz trapassato. Hora,
pol che noi qui per lo tuo avedimento più che per lo nostro ci siamo,
vedi dove a te piace che si segga, perciò che l’andare altre parti del
giardin riguardando il sole ci vieta, che invidiosamente, come tu vedi, se le
riguarda egli tuttavia. —
A
cui Gismondo rispose:
—
Madonna, dove a voi così piacesse, a me parrebbe che questa fonte non si
dovesse rifiutare, perciò che l’herba è più lieta qui che
altrove et più dipinta di fiori. Poi questi alberi ci terranno sì
il sole, che, per potere che egli habbia, hoggi non ci si accosterà egli
giamai.
—
Dunque — disse madonna Berenice — sediamvici, et dove a te piace, quivi si
stia; et acciò che di niente si manchi al tuo consiglio seguire, col
mormorio dell’acque che c’invitano a ragionare et con l’horrore di queste ombre
che ci ascoltano, disponti tu a dir di quello che a te più giova che si
ragioni, perciò che et noi volentieri sempre t’ascoltiamo et, poi che tu
ad essi così vago luogo hai dato, meritamente dee in te cadere
l’arbitrio de’ nostri sermoni. —
Dette
queste parole da madonna Berenice, et da ciascuna dell’altre due invitato
Gismondo al favellare, esso lietamente disse:
—
Poscia che voi questa maggioranza mi date, et io la mi prenderò. —
Et
poi che, fatta di loro corona, a sedere in grembo dell’herbetta posti si
furono, chi vicino la bella fonte et chi sotto gli ombrosi allori di qua et di
là del picciol rio, Gismondo, accortamente rassettatosi et pel viso
d’intorno piacevolmente le belle donne riguardate, in questa guisa
incominciò a dire:
—
Amabili donne, ciascuno di noi ha udite le due fanciulle et la vagha
damigiella, che dinanzi la Reina, prima che si levassero le tavole, due lodando
Amore et l’altra di lui dolendosi, assai vezzosamente cantarono le tre canzoni.
Et perciò che io certo sono che chiunque di lui si duole et mala voce
gli dà, non ben conosce la natura delle cose et la qualità di lui
et di gran lunga va errando dal diritto camin del vero, se alcuna di voi
è, belle donne, o di noi, che so che ce ne sono, che creda insieme con
la fanciulla primiera che Amore cosa buona non sia, dica sopra ciò
quello che ne gli pare, che io gli risponderò, et dammi il cuore di
dimostrargli quanto egli con suo danno da così fatta openione ingannato
sia. La qual cosa se voi farete, et doverete voler fare, se volete che mio sia
quello che una volta donato m’havete, assai bello et spatioso campo haremo
hoggi da favellare. —
Et,
così detto, si tacque.
Stettero
alquanto sopra sé le honeste donne, intesa la proposta di Gismondo, et
già mezzo tra se stessa si pentiva madonna Berenice d’havergli data
troppa libertà nel favellare. Pure, riguardando che, quantunque egli
amoroso giovane et sollazzevole fosse, per tutto ciò sempre altro che
modestamente non parlava, si rassicurò et con le sue compagne
cominciò a sorridere di questo fatto; le quali insieme con lei
altresì dopo un brieve pentimento rassicurate, s’accorsero, raccogliendo
le parole di Gismondo, che egli la fiera tristitia di Perottino pugneva et lui
provocava nel parlare, perciò che sapevano che egli di cosa amorosa
altro che male non ragionava giamai. Ma per questo niente rispondendo Perottino
et ogniuno tacendosi, Gismondo in cotal guisa riparlò:
—
Non è maraviglia, dolcissime giovani, se voi tacete; le quali credo io
più tosto di lodare Amore che di biasimarlo v’ingegnereste, sì
come quelle cui egli in niuna cosa può haver diservite giamai, se
honesta vergogna et sempre in donna lodevole non vi ritenesse. Quantunque
d’Amore si possa per ciascun sempre honestissimamente parlare. Ma de’ miei
compagni sì mi maraviglio io forte, i quali doverebbono, se bene
altramente credessero che fosse il vero, scherzando almeno favoleggiar contra
lui, a·ffine che alcuna cosa di così bella materia si ragionasse hoggi
tra noi; non che dovessero essi ciò fare, essendovene uno per aventura
qui, che siede, il quale male d’Amor giudicando tiene che egli sia reo, et
sì si tace. —
Quivi
non potendosi più nascondere Perottino, alquanto turbato, sì come
nel volto dimostrava, ruppe il suo lungo silentio così dicendo:
—
Ben m’accorgo io, Gismondo, che tu in questo campo me chiami, ma io sono assai
debole barbero a cotal corso. Per che meglio farai se tu, in altro piano et le
donne et Lavinello et me, se ti pare, provocando, meno sassosi et
rincrescievoli aringhi ci concederai poter fare. —
Ora
quivi furono molte parole et da Gismondo et da Lavinello dette, che il terzo
compagno era, acciò che Perottino parlasse; ma egli, non si mutando di
proposito, ostinatamente il ricusava. La qual cosa madonna Berenice et le sue
compagne veggendo, lo ’ncominciaron tutte instantemente a pregare che egli et
per piacer di ciascuno et per amor di loro aleuna cosa dicesse, disiderose di
sentirlo parlare; et tanto intorno a·cciò con dolci parole hor una hor
altra il combatterono, che egli alla fine vinto rendendosi disse loro così:
— Et
il tacere et il parlare hoggimai ugualmente mi sono discari, perciò che
né quello debbo, né questo vorrei. Hora vinca la riverenza,
donne, che io a’ vostri eommandamenti sono di portar tenuto, non già a
quelli di Gismondo, il quale poteva con suo honore, miglior materia che questa
non è proponendoci, et voi et me et se stesso ad un tratto dilettare,
dove egli tutti insieme con sua vergogna ci attristerà. Perciò
che né voi udirete cose che piacevoli sieno ad udire, et io di noiose
ragionerò, et esso per aventura ciò che egli non cerca sì
si troverà; il quale, credendosi d’alcuna occasion dare a’ suoi
ragionamenti col mio, ogni materia si leva via di poter, non dico
acconciamente, ma pure in modo alcuno favellare. Perciò che ravedutosi,
per quello che a me converrà dire, in quanto errore non io, cui egli vi
crede essere, ma esso sia, che ciò crede, se egli non ha ogni vergogna
smarrita, esso si rimarrà di prender l’arme contra ’l vero; et quando
pure ardisse di prenderlesi, fare no ’l potrà, perciò che non gli
fia rimaso che pigliare.
— O
armato o disarmato — rispose Gismondo — in ogni modo ho io a farla teco questa
volta, Perottino. Ma troppo credi, se tu credi che a me non debba rimaner che
pigliare, il quale non posso gran fatto pigliar cosa che arma contra te non
sia. Ma tu nondimeno àrmati, ché a me non parrebbe vincere. se
bene armato non ti vincessi. —
Riser
le donne delle parole di due pronti cavalieri a battaglia. Ma Lisa, che l’una
dell’altre due così mi piacque di nominare, a cui parea che Lavinello
tacendosi occasione fugisse di parlare, a·llui sorridendo disse:
—
Lavinello, a te fie di vergogna, se tu, combattendo i tuoi compagni, con le
mani a cintola ti starai: egli conviene che entri in campo anchor tu. —
A
cui il giovane con lieta fronte rispose:
—
Anzi non posso io, Lisa, in cotesto campo più entrare, che egli di
vergogna non mi sia. Perciò che come tu vedi, poi che i miei compagni
già si sono ingaggiati della battaglia tra loro, honesta cosa non
è che io, con un di lor mettendomi, l’altro, a cui solo converria
rimanere, faccia con due guerrieri combattitore.
—
Non t’è buona scusa cotesta, Lavinello — risposero le donne quasi con un
dire tutt’e tre; et poi Lisa, raffermatesi l’altre due, che a·llei lasciavano
la risposta, seguitò:
— Et
non ti varrà, nello non volere pigliar l’arme, il difenderti per cotesta
via. Perciò che non sono questi combattimenti di maniera, che quello si
debba osservare che tu di’, che da due incontro ad uno non si vada. Egli non ne
muore niuno in così fatte battaglie: entravi pure et appigliati
comunquemente tu vuoi.
—
Lisa, Lisa, tu hai havuto un gran torto — rispose allhora Lavinello,
così con un dito per ischerzo minacciandola giochevolmente. Indi, all’al
tre due giratosi disse:
— Io
mi tenni testé, donne, tutto buono, estimando, per lo vedervi intente
alla zuffa di costor due, che a me non doveste volger l’animo, né dare
altro carico di trappormi a queste contese. Hora, poscia che a Lisa non
è piaciuto che io in pace mi stia, acciò che almeno doler di me
non si possano i miei compagni, lasciamgli far da·lloro a·llor modo; come essi
si rimarranno dalla mischia, non mancherà che, sì come i buoni
schermidori far sogliono, che a sé riservano il sezzaio assalto,
così io le lasciate arme ripigliando, non pruovi di sodisfare al vostro
disio. —
Così
detto et risposto et contentato, dopo un brieve silentio di ciascuno,
Perottino, quasi da profondo pensiero toltosi, verso le donne levando il viso,
disse:
—
Hora piglisi Gismondo ciò che egli si guadagnerà; et non si
penta, poscia che egli questo argine ha rotto, se per aventura et a·llui
maggiore acqua verrà addosso che bisogno non gli sarebbe d’avere, et di
voi altramente averrà che il suo aviso non sarà stato.
Ché, come che io non speri di potere in maniera alcuna, quanto in
così fatta materia si converrebbe, di questo universale danno de gli
huomini, di questa generalissima vergogna delle genti, Amore, o donne,
raccontarvi, perciò che non che io il possa, che uno et debole sono, ma
quanti ci vivono, pronti et accorti dicitori il più, non ne potrebbono
assai bastevolmente parlare; pure et quel poco che io ne dirò, da che io
alcuna cosa ne ho a dire, parrà forse troppo a Gismondo, il quale
altramente si fa a credere che sia il vero, che egli non è, et a voi
anchora potrà essere di molto risguardo, che giovani sete, ne gli anni
che sono a venire, il conoscere in alcuna parte la qualità di questa
malvagia fiera. —
Il
che poi che esso hebbe detto, fermatosi et più alquanto temperata la
voce, cotale diede a’ suoi ragionamenti principio:
—
Amore, valorose donne, non figliuolo di Venere, come si legge nelle favole de
gli scrittori, i quali tuttavia in questa stessa bugia tra se medesimi
discordando il fanno figliuolo di diverse Idie, come se alcuno diverse madri haver
potesse, né di Marte o di Mercurio o di Volcano medesimamente o d’altro
Idio, ma da soverchia lascivia et da pigro otio de gli huomini, oscurissimi et
vilissimi genitori, nelle nostre menti procreato, nasce da prima quasi parto di
malitia et di vitio; il quale esse menti raccolgono et, fasciandolo di
leggierissime speranze, poscia il nodriscono di vani et stolti pensieri, latte
che tanto più abonda, quanto più ne sugge l’ingordo et assetato
bambino. Per che egli crescie in brieve tempo et divien tale, che egli ne’ suoi
ravolgimenti non cape. Questi, come che, di poco nato, vago et vezzoso si
dimostri alle sue nutrici et maravigliosa festa dia loro della prima vista,
egli nondimeno alterando si va le più volte di giorno in giorno et
cangiando et tramutando, et prende in picciolo spatio nuove faccie et nuove
forme, di maniera che assai tosto non si pare più quello che egli,
quando e’ nacque, si parea. Ma tuttavia, quale che egli si sia nella fronte,
egli nulla altro ha in sé et nelle sue operationi che amaro, da questa
parola, sì come io mi credo, assai acconciamente così detto da
chiunque si fu colui il quale prima questo nome gli diè, forse a·ffine
che gli huomini lo schifassero, già nella prima faccia della sua voce
avedutisi ciò che egli era. Et nel vero chiunque il segue, niuno altro
guiderdone delle sue fatiche riceve che amaritudine, niuno altro prezzo merca,
niuno appagamento che dolore, perciò che egli di quella moneta paga i
suoi seguaci, che egli ha, et sì n’ha egli sempre grande et infinita
dovitia, et molti suoi thesorieri ne mena seco che la dispensano et
distribuiscono a larga et capevole misura, a quelli più donandone, che
di se stessi et della loro libertà hanno più donato al
lusinghevole signore. Per la qual cosa non si debbono ramaricar gli huomini se
essi amando tranghiottono, sì come sempre fanno, mille amari et sentono
tutto ’l giorno infiniti dolori, con ciò sia cosa che così
è di loro usanza, né può altramente essere; ma che essi
amino, di questo solo ben si debbono et possonsi sempre giustamente ramaricare.
Perciò che amare senza amaro non si può, né per altro
rispetto si sente giamai et si pate alcuno amaro che per amore. —
Havea
dette queste parole Perottino, quando madonna Berenice, che attentissimamente
le raccoglieva, così a·llui incominciò traponendosi:
—
Perottino, vedi bene già di quinci ciò che tu fai; perciò
che, oltra che a Gismondo dia l’animo di pienamente alle tue proposte
rispondere, sì come egli testé ci disse, per aventura il non
conciederti le sconcie cose etiandio a niuna di noi si disdice. Se pure non
c’è disdetto il trametterci nelle vostre dispute, nella qual cosa io per
me tuttavia errare non vorrei o esser da voi tenuta senza rispetto et
presontuosa.
—
Senza rispetto non potrete voi essere, Madonna, né presontuosa da noi
tenuta parlando et ragionando, — disse allhora Gismondo — et le vostre compagne
similmente, poi che noi tutti venuti qui siamo per questo fare. Per che
tramettetevi ciascuna, sì come più a voi piace, ché queste
non sono più nostre dispute che elle esser possano vostri ragionamenti.
—
Dunque — disse madonna Berenice — farò io sicuramente alle mie compagne
la via. — Et, così detto, a Perottino rivoltasi seguitò:
— Et
certo se tu havessi detto solamente, Perottino, che amare senza amaro non si
possa, i’ mi sarei taciuta, né ardirei dinanzi a Gismondo di parlare; ma
lo aggiugnervi che per altro rispetto amaro alcuno non si senta che per amore,
soverchio m’è paruto et sconvenevole. Perciò che così
potevi dire, che ogni dolore da altro che d’amore cagionato non sia; o io bene
le tue parole non appresi.
—
Anzi le havete voi apprese bene et dirittamente, — rispose Perottino — et
cotesto stesso dico io, Madonna, che voi dite: niuna qualità di dolore,
niun modo di ramarico essere nella vita de gli huomini, che per cagion d’amore
non sia, et da·llui, sì come fiume da suo fonte, non si dirivi. Il che
la natura medesima delle cose, se noi la consideriamo, assai ci può
prestamente far chiaro. Perciò che, sì come ciascun di noi dee
sapere, tutti i beni et tutti i mali, che possono a gli huomini come che sia o
diletto recare o dolore, sono di tre maniere et non più: dell’animo,
della fortuna et del corpo. Et perciò che dalle buone cose dolore alcuno
venir non può, delle tre maniere de’ mali, dalle quali esso ne viene,
ragioniamo. Gravose febbri, non usata povertà, sceleratezza et ignoranza
che sieno in noi, et tutti gli altri danni a questi somiglianti che infinita
fanno la loro schiera, ci apportano senza fallo dolore et più et men
grave secondo la loro et la nostra qualità; il che non haverrebbe se noi
non amassimo i loro contrari. Perciò che se il corpo si duole, d’alcuno
accidente tormentato, non è ciò se non perché egli
naturalmente ama la sua sanità; ché se egli non l’amasse da
natura, impossibile sarebbe il potersene alcun dolere, non altramente che se
egli di secco legno fosse o di soda pietra. Et se, d’alto stato in bassa
fortuna caduti, a noi stessi c’incresciamo, l’amore delle ricchezze il fa et de
gli honori et dell’altre somiglianti cose, che per lungo uso o per elettione
non sana si pon loro. Onde se alcuno è che non le ami, sì come si
legge di quel philosopho che nella presura della sua patria niente curò
di salvarsi, contento di quello che seco sempre portava, costui certamente de
gli amari giuochi della fortuna non sente dolore. Già la bella
virtù et il giovevole intendere, che albergano ne’ nostri animi, amati
sogliono da ciascuno essere per naturale instinto et disiderati; perché
ogniuno, da occulto pungimento stimolato, della sua malvagità et della
sua ignoranza ravedutosi, si ramarica come di cose dolorose. Et se pure si
concedesse alcuno potersi trovare, il quale, vitiosamente et senza lume
d’intelletto vivendo, non s’attristasse alle volte del suo mal vivere come che
sia, a costui senza dubbio, o per diffalta estrema di conoscimento o per
infinita ostinatione della perduta usanza, il virtuosamente vivere et lo essere
intendente in niun modo non sarebbe caro. Né pur questo solamente cade
ne gli huomini, ma egli è anchora manifestamente conosciuto nelle fiere;
le quali amano i loro figliuoli assai teneramente per lo generale ciascuna,
mentre essi novellamente partoriti in loro cura dimorano. Allhora, se alcun ne
muore o vien lor tolto come che sia, esse si dogliono quasi come se humano
conoscimento havessero. Quelle medesime, i loro figliuoli cresciuti et per se
stessi valevoli, se poi strozzare dinanzi a gli occhi loro si veggono et
sbranare, di niente s’attristano, perciò che esse non gli amano
più. Di che assai vi può esser chiaro che, sì come ogni
fiume nasce da qualche fonte, così ogni doglia procede da qualche amore
et, sì come fiume senza fonte non ha luogo, così conviene esser
vero quello che voi diceste, che ogni dolore altro che d’amore non sia. Et
perciò che non è altro l’amaro che io dissi, che il tormento et
dolor dell’animo che egli per alcuno accidente in sé pate, quel medesimo
conchiudendo, Madonna, vi raffermo, che voi ripigliaste: che per altra cagione
amaro alcuno non si sente da gli huomini, né si pate, che per amore. —
Taceva
da queste parole soprapresa madonna Berenice et sopra esse pensava, quando
Gismondo sogghignando così disse:
—
Senza fallo assai agevolmente haresti tu hoggi stemperata ogni dolcezza d’amore
con l’amaro d’un tuo solo argomento, Perottino, se egli ti fosse conceduto. Ma
perciò che a me altramente ne pare, quando più tempo mi fie dato
da risponderti, meglio si vedrà se cotesta tua cotanta amaritudine si
potrà raddolcire. Hora insegnaci quanto quell’altra proposta sia vera, dove
tu di’ che amare senza amaro non si puote.
—
Quivi ne veniva io testé — rispose Perottino — et di quello che io mi
credo che ciascun di noi tuttavia in se stesso pruovi, ragionando, potrei con
assai brievi parole, Gismondo, dimostrarloti. Ma poscia che tu pure a questi
ragionamenti mi trahesti, a me piace che più stesamente ne cerchiamo.
Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbationi
dell’animo niuna è così noievole, così grave, niuna
così forzevole et violenta, niuna che così ci commuova et giri,
come questa fa, che noi Amore chiamiamo; gli scrittori alcuna volta il chiaman
fuoco, perciò che, sì come il fuoco le cose nelle quali egli
entra egli le consuma, così noi consuma et distrugge Amore; alcuna volta
furore, volendo rassomigliar l’amante a quelli che stati sono dalle Furie
sollecitati, sì come d’Horeste et d’Aiace et d’alcuni altri si scrive.
Et perciò che per lunga sperienza si sono aveduti niuna essere
più certa infelicità et miseria che amare, di questi due
sopranomi, sì come di proprie possessioni, hanno la vita de gli amanti
privilegiata, per modo che in ogni libro, in ogni foglio misero amante,
infelice amante et si legge et si scrive. Senza fallo esso Amore niuno è
che piacevole il chiami, niun dolve, niuno humano il nomò giamai: di
crudele, d’acerbo, di fiero, tutte le carte son piene. Leggete d’Amore quanto
da mille se ne scrive: poco o niente altro in ciascun troverete che dolore.
Sospirano i versi in alcuno; piangono di molti i libri interi; le rime,
gl’inchiostri, le carte, i volumi stessi son fuoco. Sospitioni, ingiurie,
nimicitie, guerre già in ogni canzone si raccontano, nella quale d’amor
si ragioni; et sono questi in amore mediocri dolori. Disperationi, rubellioni,
vendette, catene, ferite, morti, chi può con l’animo non tristo o anchora
con gli occhi asciutti trappassare? Né pur di loro le lievi et divolgate
favole solamente de’ poeti, o anchora quelle che, per essempio della vita,
scritte da·lloro state sono più giovevolmente, ma etiandio le più
gravi historie et gli annali più riposti ne son macchiati. Che per
tacere de gl’infelici amori di Piramo et di Tisbe, delle sfrenate et illecite
fiamme di Mirra et di Bibli et del colpevole et lungo error di Medea et di
tutti i loro dolorosissimi fini, [i] quali, posto che non fosser veri,
sì furono essi almeno favoleggiati da gli antichi per insegnarci che
tali possono esser quelli de’ veri amori; già di Paolo et di Francesca
non si dubita che nel mezzo de’ loro disij d’una medesima morte et d’un solo
ferro amendue, sì come d’un solo amore traffitti, non cadessero.
Né di Tarquinio altresì fingono gli scrittori, al quale fu
l’amore, che di Lucretia il prese, et della privation del regno et
dell’essiglio insieme et della sua morte cagione. Né è chi per
vero non tenga che le faville d’un Troiano et d’una Greca tutta l’Asia et tutta
l’Europa raccendessero. Taccio mille altri essempi somiglianti, che ciascuna di
voi può et nelle nuove et nelle vecchie scritture haver letti molte
fiate. Per la qual cosa manifestamente si vede Amore essere non solamente di sospiri
et di lagrime, né pur di morti particolari, ma etiandio di ruine
d’antichi seggi et di potentissime città et delle provintie istesse
cagione. Cotali sono le costui operationi, o donne, cotali memorie egli di
sé ha lasciato, a·ffine che ne ragioni chiunque ne scrive. Vedi tu
dunque, Gismondo, se vorrai dimostrarci che Amore sia buono, che non ti sia di
mestiero mille antichi et moderni scrittori, che di lui come di cosa rea
parlano, ripigliare. —
Detto
fin qui da Perottino, Lisa in seder levatasi, che con la mano alla gota et col
braccio sopra l’orlo della fonte tutta in sul lato sinistro ascoltandolo si
riposava, così ne ’l dimandò et disse: — Perottino, quello che a
Gismondo faccia mestiero di ripigliare egli il si veda, che t’ha a rispondere,
quando ad esso piacerà o sarà tempo. A me hora rispondi tu. Se
è cagione Amore di tanti mali quanti tu di’ che i vostri scrittori gli
appongono, perché il fanno eglino Idio? Perciò che, sì
come io ho letto alcuna fiata, essi il fanno adorar da gli huomini et consacrangli
altari et porgongli voti et dannogli l’ali da volare in cielo. Chiunque male
fa, egli certamente non è Idio, et chiunque Idio è, egli senza
dubbio non può far male. Dunque, se ti piace, dimmi come questo fatto si
stia. Et per aventura che tu in ciò a madonna Berenice et a Sabinetta
non meno che a me piacerai, le quali possono altresì come io altra volta
sopra questo dubbio haver pensato, né mai perciò non m’avenne di
poterne dimandare così bene o pure così a tempo, come fa hora. —
Alle
cui parole continuando le due donne et mostrando che ciò sarebbe loro
parimente caro a dover da Perottino udire, esso, alquanto prima taciutosi,
così rispose:
— I
poeti, Lisa, che furono primi maestri della vita, ne’ tempi che gli huomini
rozzi et salvatichi non bene insieme anchora si raunavano, insegnati dalla
natura, che havea dato loro la voce et lo ’ngegno acconcio a cciò fare,
i versi trovarono, co’ quali cantando amollivano la durezza di que’ popoli che,
usciti de gli alberi et delle spelunche, senza più oltre sapere che cosa
si fossero, a caso errando ne menavan la loro vita sì come fiere.
Né guari cantarono que’ primi maestri le lor canzoni, che essi seco ne
trahevano quegli huomini selvaggi, invaghiti delle lor voci, dove essi
n’andavano cantando. Né altro fu la dilettante cethara d’Orpheo, che le
vaghe fiere da’ lor boschi et gli alti alberi dalle lor selve et da’ lor monti
le sode pietre et i precipitanti fiumi da’ lor corsi ritoglieva, che la voce
d’un di que’ primi cantori, dietro alla quale ne venivano quegli huomini che
con le fiere tra gli alberi nelle selve et ne’ monti et nelle rive de’ fiumi
dimoravano. Ma altre a cciò, perciò che, raunata quella sciocca
gente, bisognava insegnar loro il vivere et mostrar loro la qualità
delle cose, acciò che seguendo le buone dalle ree si ritrahessero,
né capeva in quegli animi ristretti la grandezza della natura et nelle
loro sonnocchiose menti non poteva ragione entrare, che lor si dicesse,
trovarono le favole altresì, sotto il velame delle quali la
verità, sì come sotto vetro traparente, ricoprivano. A questa
guisa del continuo dilettandogli con la novità delle bugie, et alcuna
volta tra esse scoprendo loro il vero, hora con una favola et quando con altra
gl’insegnarono a poco a poco la vita migliore. In quel tempo adunque che il
giovane mondo i suoi popoli poco ammaestrati havea, fu Amore insieme con molti
altri fatto Idio, sì come tu di’, Lisa, non per altro rispetto, se non
per dimostrare a quelle grosse genti con questo nome d’Idio quanto nelle humane
menti questa passione poteva. Et veramente se noi vogliamo considerando
trapassar nel potere, che Amore sopra di noi ha et sopra la nostra vita, egli
si vedrà chiaramente infiniti essere i suoi miracoli a nostro gravissimo
danno et veramente maravigliosi, cagione giusta della deità dalle genti
datagli, sì come io dico. Perciò che quale vive nel fuoco come
salamandra, quale ogni caldo vital perdutone si raffredda come ghiaccio, quale
come neve a sole si distrugge, quale a guisa di pietra, senza polso, senza
spirito, mutolo et immobile et insensibile si rimane. Altri fia che senza cuore
si viverà, a donna che mille stratij ad ogni hora ne fa havendol dato;
altri hora in fonte si trasmuta, hora in albero, hora in fiera; et chi, portato
da forzevoli venti, ne va sopra le nuvole, stando per cadere tuttavia, et chi
nel centro della terra et ne gli abissi più profondi si dimora. Et se
voi hora mi dimandaste come io queste così nuove cose sappia, senza che
elle si leggono, vi dico che io tutte le so per pruova et, come per isperienza
dotto, così ne favello. Oltra che maravigliosa cosa è il pensare
chenti et quali sieno le disagguaglianze, le discordanze, gli errori, che Amore
nelle menti de’ servi amanti traboccando accozza con gravosa disparità.
Perciò che chi non dirà che essi sieno sopra ogni altra miseria
infelici, quando et allegrissimi sono et dolorosissimi una stessa hora et da
gli occhi loro cadono amare lagrime con dolce riso mescolate, il che bene
spesso suole avenire; o quando ardiscono et temono in uno medesimo instante,
onde essi, per molto disiderio pieni di caldo et di focoso ardire,
impallidiscono et triemano dalla gelata paura; o quando da diversissime
angoscie ingombrati et orgoglio et humiltà et improntitudine et
tiepidezza et guerra et pace parimente gli assalgono et combattono ad un tempo;
o quando, con la lingua tacendo et col volto, parlano et gridano ad alta voce
col cuore? et sperano et disperano et la lor vita cercano et abbracciano la lor
morte insiememente? et per lo continuo dando luogo in sé a due lontanissimi
affetti, il che non suole potere essere nelle altre cose, et da essi
stratiatamente qua et là in uno stesso punto essendo portati, tra queste
et somiglianti distemperatezze il senso si dilegua loro et il cuore? Et fannoci
a credere che vero sia quello che alcun philosopho già disse, che gli
huomini hanno due anime ciascuno, con l’una delle quali essi all’un modo
vogliono et con l’altra vogliono all’altro; perciò che egli non pare
possibile che con una sola anima si debba poter volere due contrari.
Le
quali maniere di maraviglie, come che tutte s’usino nell’hoste che Amor
conduce, pure l’ultima, che io dissi, v’è più sovente che altra
et, tra molta dissonantia d’infiniti dolori, ella quasi giusta corda più
spesso al suono della verità risponde, sì come quella che
è la più propria di ciascuno amante et in sé la più
vera, ciò è che essi la lor vita cercano et abbracciano la lor
morte tuttavia. Con ciò sia cosa che mentre essi vanno cercando i
diletti loro et quelli si credono seguitare, dietro alle lor noie inviati et
d’esse invaghiti sì come di ben loro, tra mille guise di tormenti
disconvenevoli et nuovi alla fin fine si procacciano di perire, chi in un modo
et chi in altro, miseramente et stoltamente ciascuno. Et chi negherà che
stoltamente et miseramente non perisca chiunque, da semplice follia d’amore
avallato, trabocca alla sua morte così leggiero? Certo niuno, se non
quei che ’l fanno; a’ quali spesse volte tra per sover chio di dolore et per
manchamento di consiglio è così grave il vivere, che pure non che
la schifino, anzi essi le si fanno incontro volentieri: chi perché ad
esso pare così più speditamente che in altra maniera poter finire
i suoi dolori, et chi per far venire almeno una volta pietà di sé
ne gli occhi della sua donna, contento di trarne solamente due lagrime per
guiderdone di tutte le sue pene. Non pare a voi nuova pazzia, o donne, che gli
amanti per così lievi et istrane cagioni cerchino di fuggire la lor
propria vita? Certo sì dee parere; ma egli è pure così. Et
non che io in me una volta provato l’habbia, ma egli è buon tempo che,
se mi fosse stato conceduto il morire, a me sarebbe egli carissimo stato et
sarebbe hora più che mai. A questo modo, o donne, s’ingegnano gli amanti
contro al corso della natura trovar via; la quale, havendo parimente ingenerato
in tutti gli huomini natio amore di loro stessi et della lor vita et continua
cura di conservarlasi, essi odiandola et di se stessi nimici divenuti amano
altrui, et non solamente di conservarla non curano, ma spesso anchora, contro a
se medesimi incrudeliti, volontariamente la rifiutano dispregiando. Ma potrebbe
forse dire alcuno: "Perottino, coteste son favole a quistione d’innamorato
più convenevoli, sì come le tue sono, che a vero argomentare di
ragionevole huomo. Perciò che se a te fosse stato così caro il
morire, come tu di’, chi te n’haverebbe ritener potuto, essendo così in
mano d’ogni huomo vivo il morire, come non è più il vivere in
poter di quelli che son già passati? Queste parole più follemente
si dicono che i fatti non si fanno di leggiere". Maravigliosa cosa
è, o donne, ad udir quello che io hora dirò; il che, se da me non
fosse stato provato, appena che io ardissi d’imaginarlomi, non che di
raccontarlo. Non è, sì come in tutte l’altre qualità
d’huomini, ultima doglia il morire ne gli amanti; anzi loro molte volte in modo
è la morte dinegata, che già dire si può che in somma et
strema miseria felicissimo sia colui che può morire. Perciò che
aviene bene spesso, il che forse non udiste voi, donne, giamai, né
credevate che potesse essere, che, mentre essi dal molto et lungo doIor vinti
sono alla morte vicini et sentono già in sé a poco a poco partire
dal penoso cuore la lor vita, tanto d’allegrezza et di gioia sentono i miseri
del morire, che questo piacere, confortando la sconsolata anima tanto
più, quanto essi meno sogliono haver cosa che loro piaccia, ritorna
vigore ne gl’indeboliti spiriti, i quali a forza partivano, et dona
sostentamento alla vita che manchava. La qual cosa, quantunque paia nuova,
quanto sia possibile ad essere in huomo innamorato, io ve ne potrei
testimonianza donare, che l’ho provata, et recarvi in fede di ciò versi,
già da me per lo adietro fatti, che lo discrivono, se a me non fosse
dicevole vie più il piagnere che il cantare. —
Quivi,
come da cosa molto disiata sopragiunta et tutta in se stessa subitamente
recatasi, madonna Berenice:
—
Deh — disse — se questo Idio ti conceda, Perottino, il vivere lietamente tutti
gli anni tuoi, prima che tu più oltre vada ragionando, dicci questi tuoi
versi. Perciò che buona pezza è che io son vaga sommissimamente
d’udire alcuna delle tue canzoni, et certa sono che tu, le ne dicendo,
diletterai insiememente queste altre due che t’ascoltano, né meno di me
son vaghe d’udirti; perciò che ben sappiamo quanto tra gl’intendenti
giovani sieno le tue rime lodate. —
A
cui Perottino, un profondissimo sospiro con le parole mandando fuora, in questa
guisa rispose:
—
Madonna, questo Idio, male per me troppo bene conosciuto, i miei anni lieti non
può egli più fare né farà giamai, quando anchora
esso far lieti quegli di tutti gli altri huomini potesse, sì come non
puote. Perciò che la mia ingannevole fortuna di quel bene m’ha spogliato,
dopo il qua le niuna cosa mi può essere, né sarà mai,
né lieta né cara, se non quella una che è di tutte le cose
ultimo fine; la quale io ben chiamo assai spes so, ma ella sorda, con la mia
fortuna accordatasi, non m’ascolta, forse perché io, soverchio vivendo,
rimanga per essempio de’ miseri bene lun gamente infelice. Hora poscia che io
ho già preso ad ubidirvi et ho a voi fatto palese quello che nascondere
harei potuto, et sarebbe il meglio stato, ché men male suole essere il
morirsi huom tacendo che lamentandosi, quantunque le mie rime da esser dette a
donne liete et festeggianti non siano, io le pure dirò. —
Mossono
a pietà i pieghevoli cuori delle donne queste ultime parole di
Perottino; quando egli, che con fatica grandissima le lagrime a gli occhi
ritenne, alquanto rihavutosi, così incominciò a dire:
Quand’io
penso al martire,
Amor, che tu mi dai, gravoso et forte,
Corro per gir a morte,
Così sperando i miei danni finire.
Ma
poi ch’i’ giungo al passo,
Ch’è porto in questo mar d’ogni
tormento,
Tanto piacer ne sento,
Che l’alma si rinforza, ond’io no ’l passo.
Così
’l viver m’ancide,
Così la morte mi ritorna in vita:
O miseria infinita,
Che l’uno apporta et l’altra non recide.
Lodavano
le donne et gli altri giovani la canzone da Perottino recitata, et esso
interrompendogli, soverchio delle sue lode schifevole, volea seguitando alle
prime proposte ritornare, se non che madonna Berenice, ripigliando il parlare:
—
Almeno — disse — sij di tanto contento, Perottino, poi che l’essere lodato
contra l’uso di tutti gli altri huomini tu pure a noia ti rechi, che, dove
acconciamente ti venga così ragionando alcun de’ tuoi versi ricordato,
non ti sia grave lo sporloci; perciò che et noi tutte e tre, che del tuo
honore vaghissime siamo, et i tuoi compagni medesimamente, i quali son certa
che come fratello t’amino, quantunque essi altre volte possano le tue rime
havere udite, sollazzerai con tua pochissima fatica grandemente. —
A
queste parole rispostole Perottino che come potesse il farebbe, così
rientrò nel suo parlare:
— Et
che si potrà dir qui, se non che per certo tanto stremamente è
misera la sorte de gli amanti, che essi, vivendo, perciò che vivono, non
possono vivere et, morendo, perciò che muoiono, non possono morire? Io
certamente non so che altro succhio mi sprema di così nuovo assenzo d’amore
se non quest’uno, il quale quanto sia amaro siate contente, giovani donne, il
cui bene sempre mi fie caro, di conoscere più tosto senten done
raglonare che gustandolo. Ma, o potenza di questo Idio, non so qual più
noievole o maravigliosa, non si contenta di questa loda né per somma la
vuole de’ suoi miracoli Amore; il quale, perciò che si può
argomentare che, sì come la morte può ne gli amanti cagionar la
noia del vivere, così può bastare a cagionarvi la vita la gioia
che essi sentono del morire, vuole tal volta in alcuno non solamente che esso
non possa morire senza cagione havere alcuna di vita, ma fa in modo che egli di
due manifestissime morti, da esse fierissimamente assalito, sì come di
due vite si vive. A me medesimo tuttavia, donne, pare oltre ogni maniera nuovo
questo stesso che io dico; et pure è vero: certo così non fosse
egli stato, che io sarei hora fuori d’infinite altre pene, dove io dentro vi
sono. Perciò che havendo già per li tempi adietro Amore il mio misero
et tormentato cuore in cocentissimo fuoco posto, nel quale stando egli
conveniva che io mi morissi, con ciò sia cosa che non havrebbe la mia
virtù potuto a cotanto incendio resistere, operò la
crudeltà di quella donna, per lo cui amore io ardeva, che io caddi in
uno abondevolissimo pianto, del quale l’ardente cuore bagnandosi opportuna
medicina prendeva alle sue fiamme. Et questo pianto haverebbe per sé
solo in maniera isnervati et infieboliti i legamenti della mia vita et
così vi sarebbe il cuore allagato dentro, che io mi sarei morto, se
stato non fosse che, rassodandosi per la cocitura del fuoco tutto quello che il
pianto stemperava, cagione fu che io non mancai. In questa guisa l’uno et
l’altro de’ miei mali pro facendomi, et da due mortalissimi accidenti per la
loro contraoperatione vita venendomene, si rimase il cuore in istato, ma quale
stato voi vedete, con ciò sia cosa che io non so quale più misera
vita debba potere essere, che quella di colui è, il quale da due morti
è vivo tenuto et, perciò che egli doppiamente muore, egli si
vive. —
Così
havendo detto Perottino, fermatosi et poi a dire altro passar volendo, Gismondo
con la mano in ver di lui aperta sostandolo, a madonna Berenice così
disse: — Egli non v’attien, Madonna, quello che egli v’ha testé promesso
di sporvi delle sue rime, potendol fare. Perciò che egli una canzone fe’
già che di questo miracolo medesimo racconta, vaga et gentile, et non la
vi dice. Fate che egli la vi dica, che ella vi piacerà. —
Il
che udito, la donna subitamente disse:
—
Dunque ci manchi tu, Perottino, della tua promessa così tosto? O noi ti
credavamo huom di fede. —
Et
con tai parole et con altre scongiurandol tutte, non solamente a dir loro
quella canzone della quale Gismondo ragionava, ma anchor del l’altre, se ad huopo
venissero di quello che egli dir volea, il constrinsero, et fattolsi
ripromettere più d’una volta, egli alla canzone venendo con voce
compassionevole così disse:
Voi
mi poneste in foco,
Per farmi anzi ’l mio dì, Donna,
perire;
Et perché questo mal vi parea poco,
Col pianto raddoppiaste il mio languire.
Hor io vi vo’ ben dire:
"Levate l’un martire,
Ché di due morti i’ non posso morire.
Però
che da l’ardore
L’humor che ven de gli occhi mi difende,
Et che ’l gran pianto non dstempre il core
Face la fiamma che l’asciuga e ’ncende.
Così quanto si prende
L’un mal, l’altro mi rende,
Et giova quello stesso che m’offende.
Che
se tanto a voi piace
Veder in polve questa carne ardita,
Che vostro et mio mal grado è sì
vivace,
Perché darle giamai quel che l’aita?
Vostra voglia infinita
Sana la sua ferita,
Ond’io rimango in dolorosa vita.
Et
di voi non mi doglio,
Quanto d’Amor che questo vi comporte;
Anzi di me, ch’anchor non mi discioglio’’.
Ma che poss’io? con leggi inique et torte
Amor regge sua corte.
Chi vide mai tal sorte:
Tenersi in vita un huom con doppia morte?
Et
così detto seguitò:
—
Parti, Lisa, che a questi miracoli s’acconvenga che il loro facitore sia Idio
chiamato? Parti che non sanza cagione que’ primi huomini gli habbiano imposto cotal
nome? Perciò che tutte le cose che fuori dell’uso naturale avengono, le
quali per questo si chiamano miracoli, che maraviglia a gli huomini recano o
intese o vedute, non posson procedere da cosa che sopranaturale non sia, et
tale sopra tutte l’altre è Dio. Questo nome adunque diedero ad Amore,
sì come a colui la cui potenza sopra quella della natura ad essi parea
che si distendesse. Ma io a dimostrarloti, più vago de’ miei mali che de
gli altrui, non ho quasi adoperato altro, sì come tu hai veduto, che la
memoria d’una menomissima parte de’ miei infiniti et dolorosi martiri; e quali
però insieme a tutti, avenga che essi di soverchia miseria fare essempio
mi potessero a tutto il mondo in fede della potenza di questo Idio, se bene in
maggior numero non si stendessero che questi sono, de’ quali tu hai udito,
pure, a comperatione di quelli di tutti gli altri huomini, per nulla senza
fallo riputar si possono o per poco. Che se io t’havessi voluto dipignere
ragionando le historie di centomila amanti che si leggono, sì come nelle
chiese si suole fare, nelle quali dinanzi ad uno Idio non la fede d’un huom
solo, ma d’infiniti, si vede in mille tavolette dipinta et raccontata, certo
non altramente maravigliata te ne saresti che sogliano i pastori, quando essi
primieramente nella città d’alcuna bisogna portati, a una hora mille
cose veggono che son loro d’infinita maraviglia cagione. Né
perché io mi creda che le mie miserie sien gravi, come senza fallo sono,
è egli perciò da dire che lievi sieno l’altrui, o che Amore ne’
cuori di mille huomini per aventura non s’aventi con tanto impeto, con quanto
egli ha fatto nel mio, et che egli cotante et così strane maraviglie non
ne generi, quante et quali sono quelle che egli nel mio ha generate. Anzi io mi
credo per certo d’havere di molti compagni a questa pruova per gratia del mio
signore, quantunque essi non così tutti vedere si possano da ciascuno et
conoscere, come io me stesso conosco. Ma è appresso le altre questa, una
delle sciocchezze de gli amanti, che ciascuno si crede essere il più
misero et di ciò s’invaghisce, come se di questa vittoria ne gli venisse
corona, né vuole per niente che alcuno altro viva, il quale amando possa
tanto al sommo d’ogni male pervenire, quanto egli è pervenuto. Amava
Argia sanza fallo oltre modo, se alle cose molto antiche si può dar
fede, la quale chi havesse udita, quando ella sopra le ferite del suo morto
marito gittatasi piagneva, sì come si dee pensare che ella facesse,
haverebbe inteso che ella il suo dolore sopra quello d’ogni altra dolente
riponeva. Et pure leggiamo d’Evadna, la quale in quella medesima sorte di
miseria et in un tempo con lei pervenuta, sdegnando alteramente la propria
vita, il suo morto marito non pianse solamente, ma anchora seguìo. Fece
il somigliante Laodomia nella morte del suo, fece la bella asiana Panthea, fece
in quella del suo amante la infelice giovane di Sesto questa medesima pruova,
fecero altresì di molt’altre. Per che comprender si può ogni
stato d’infelicità potersi in ogni tempo con molti altri rassomigliare;
ma non di leggier Si veggono, perciò che la miseria ama sovente di star
nascosa. Tu dunque, Lisa, dando alle mie angoscie quella compagnia che ti
parrà poter dare, senza che io vada tutte le historie ravolgendo, potrai
agevolmente argomentare la potenza del tuo Idio tante volte più
distendersi di quello che io t ho co’ miei essempi dimostrato, quanti possono
esser quelli che amino come fo io, i quali possono senza fallo essere infiniti.
Perciò che ad Amore è per niente, che può essere, solo che
esso voglia, ad un tempo parimente in ogni luogo, di cotali prodezze, a rischio
della vita de gli amanti, in mille di loro insieme insieme far pruova. Egli
così giuoca et quello che a noi è d’infinite lagrime et
d’infiniti tormenti cagione, suoi scherzi sono et suoi risi non altramente che
nostri dolori. Et già in modo ha sé avezzo nel nostro sangue et
delle nostre ferite invaghito il crudele, che di tutti i suoi miracoli quello
è il più maraviglioso, quando egli alcuno ne fa amare, il qual
senta poco dolore. Et perciò pochissimi sono quegli amanti, se pure
alcuno ve n’è, che io no ’l so, che possano nelle lor fiamme servar
modo; dove in contrario si vede tutto ’l giorno, lasciamo stare che di
riposati, di riguardosi, di studiosi, di philosophanti, molte volte rischievoli
andatori di notte, portatori d’arme, salitori di mura, feritori d huomini
diveniamo, ma tutto dì veggiamo mille huomini, et quelli per aventura
che per più costanti sono et per più saggi riputati, quando ad
amar si conducono, palesemente impazzare.
Ma
perciò che, fatto Idio da gli uomini Amore per queste cagioni che tu
vedi, Lisa, parve ad essi convenevole dovergli alcuna forma dare, acciò
che esso più interamente conosciuto fosse, ignudo il dipinsero, per
dimostrarci in quel modo non solamente che gli amanti niente hanno di suo, con
ciò sia cosa che essi stessi sieno d’altrui, ma questo anchora, che essi
d’ogni loro arbitrio si spogliano, d’ogni ragione rimangono ignudi; fanciullo,
non perché egli si sia garzone, che nacque insieme co’ primi huomini, ma
perciò che garzoni fa divenire di conoscimento quei che ’l seguono et,
quasi una nuova Medea, con istrani veneni alcuna volta gli attempati et canuti
ribambire; alato, non per altro rispetto se non perciò che gli amanti,
dalle penne de’ loro stolti disideri sostentati, volan per l’aere della loro
speranza, sì come essi si fanno a credere, leggiermente infino al cielo.
Oltre a cciò una face gli posero in mano accesa, perciò che,
sì come del fuoco piace lo splendore ma l’ardore è dolorosissimo,
così la prima apparenza d’Amore, in quanto sembra cosa pia cevole, ci
diletta, di cui poscia l’uso et la sperienza ci tormentano fuor di misura. Il
che se da noi conosciuto fosse prima che vi si ardesse, o quanto meno ampia
sarebbe hoggi la signoria di questo tiranno et il numero de gli amanti minore
che essi non sono. Ma noi stessi, del nostro mal vaghi, sì come farfalle
ad essa n’andiam per diletto; anzi pure noi medesimi spesse volte ce
l’accendiamo, onde poi, quasi Perilli nel proprio toro, così noi nel
nostro incendio ci veggiamo manifestamente peri re. Ma per dar fine alla
imagine di questo Idio, male per gli huomini di sì diversi colori della
loro miseria pennellata, a tutte queste cose, Lisa, che io t’ho dette, l’arco
v’aggiunsero et gli strali, per darci ad intendere che tali sono le ferite che
Amore ci dà, quali potrebbono essere quelle d’un buono arciere che ci
saettasse; le quali però in tanto sono più mortali, che egli
tutte le dà nel cuore, et questo anchora più avanti hanno di
male, che egli mai non si stanca od a pietà si muove, perché ci
vegga venir meno, anzi egli tanto più s’affretta nel ferirci, quanto ci
sente più deboli et più mancare. Ora io mi credo assai
apertamente haverti, Lisa, dimostrato quali fossero le cagioni che mosser gli
huomini a chiamare Idio costui, che noi Amore chiamiamo, et perché essi
così il dipinsero, come tu hai veduto; il quale, se con diritto occhio
si mira, non che egli nel vero non sia Idio, il che essere sarebbe sceleratezza
pure a pensare non che mancamento a crederlo, anzi egli non è altro se
non quello che noi medesimi vogliamo. Perciò che conviene di
necessità che Amore nasca nel campo de’ nostri voleri, senza il quale,
sì come pianta senza terreno, egli haver luogo non può giamai. E
il vero che, comunque noi, ricevendolo, nell’animo gli lasciamo haver
piè et nella nostra volontà far radici, egli tanto prende di
vigore da se stesso, che poi nostro mal grado le più volte vi rimane,
con tante et così pungenti spine il cuore affligendoci et così
nuove maraviglie generandone, come ben chiaro conosce chi lo pruova.
Ma
perciò che io buona via mi sono teco venuto ragionando, tempo è
da ritornare a Gismondo, il quale io lasciai, dalla tua voce richiamato,
già su ne’ primi passi del mio camino, havendom’egli dimandato come
ciò vero fosse, che io dissi, che amare senza amaro non si puote. Il che
quantunque possa senza dubbio assai esser chiaro conosciuto per le precedenti
ragioni da chi per aventura non volesse a suo danno farsi sophistico contra ’l
vero, pure sì perché a voi, donne, maggiore utilità ne
segua, le quali, perciò che femine siete et per questo meno nel vivere
dalla fortuna essercitate che noi non siamo, più di consiglio havete
mestiero, et sì perché a me già nel dolermi aviato giova
il favellare bene in lungo de’ miei mali, sì come a’ miseri suole
avenire, più oltre anchora ne parlerò; et così forse ad
una hora a voi m’ubrigherò ragionando et disubrigherò
consigliando et per le cose, che possono a chi non l’entendesse di molta
infelicità esser cagione, discorrendo et avisando. —
Havea
dette queste parole Perottino et tacevasi, apparecchiandosi di riparlare,
quando Gismondo, riguardate l’ombre del sole che alquanto erano divenute
maggiori, alle donne rivoltosi, così disse:
—
Care donne, io ho sempre udito dire che il vincere più gagliardo
guerri[e]re fa la vittoria maggiore. Per che di quanto più rinforza
Perottino argomentando le sue ragioni et più lungamente nella iniqua sua
causa s’affatica, aguzzando la punta del suo ingegno, di parlare, di tanto egli
alle mie tempie va tessendo più lodevole et più gratiosa corona.
Ma io temo, se io gli harò a rispondere, che non mi manchi il tempo, se
noi vorremo, sì come usati siamo, all’hora del festeggiare insieme con
gli altri nel palagio ritrovarci. Perciò che il sole già verso il
vespro s’inchina et a noi forse non fie guari più d’altrettanto spatio
di qui dimorarci conceduto, di quello che c’è passato poi che noi ci
siamo; et l’hora è sì fuggevole et così ci pigliano
l’animo le vezzose parole di Perottino, che a me pare d’esserci apen’apena
venuto. —
A
cui Sabinetta, che la più giovane era delle tre donne, et nel principio
di questi ragionamenti postasi a sedere nell’herbetta sotto gli allori, quasi
fuori de gli altri stando et ascoltando, poi che Perottino a favellare
incominciò, niente anchora havea parlato, anzi acerbetta che no, disse:
—
Ingiuria si farebbe a Perottino se tu, Gismondo, per cotesto dir volessi che
egli a ristrignere dovesse havere i suoi sermoni. Parlisi a suo bell’agio egli
hoggi quanto ad esso piace: tu gli potrai rispondere poscia domani, con
ciò sia cosa che et a noi fie più dilettevole il pigliarci questo
solazzo et diporto medesimamente dell’altre volte, che qui habbiamo più
dì a starci, et a te potrà essere più agevole il
rispondere, che haverai havuto questo mezzo tempo da pensarvi. —
Piacque
a ciascuno l’aviso di Sabinetta, et così conchiuso che si facesse, in
quello medesimo luogo il seguente giorno ritornando, poi che ogniun si tacque,
Perottino incominciò:
—
Sì come delle vaghe et travagliate navi sono i porti riposo et delle
cacciate fiere le selve loro, così de’ quistionevoli ragionamenti sono
le vere conclusioni; né giova, dove queste manchino, molte voci rotonde
et segnate raunando et componendo, le quali per aventura più da coloro
sono con istudio cercate, che più da sé la verità lontana
sentono, occupar gli animi de gli ascoltanti, se essi non solamente la fronte
et il volto delle parole, ma il petto anchora et il cuor di loro con maestro occhio
rimirano. Il che temo io forte, o donne, non domani avenga a Gismondo, il quale
più del suo ingegno confidandosi che havendo risguardo a quello di
ciascuna di voi o pure alla debolezza della sua causa rispetto et pensiero
alcuno, spera di questa giostra corona. Nella quale sua speranza assai gli
sarebbe la fortuna favorevole stata, più lungo spatio da prepararsi alla
risposta concedendogli che a me di venire alla proposta non diede, se egli alla
verità non fosse nimico. Et perché egli in me non ritorni quello
che io hora appongo a·llui, alla sua richiesta venendo, dico che quantunque
volte adiviene che l’huom non possegga quello che egli disidera, tante volte
egli dà luogo in sé alle passioni; le quali, ogni pace
turbandogli, sì come città da’ suoi nimici combattuta, in
continuo tormento il tengono più et men grave, secondo che più o
men possenti i suoi disideri sono. Et possedere qui chiamo non quello che suole
essere ne’ cavalli o nelle veste o nelle case, delle quali il signore è
semplicemente possessor chiamato, quantunque non egli solo le usi o non sempre
o non a suo modo, ma possedere dico il fruire compiutamente ciò che
altri ama, in quella guisa che ad esso è più a grado. La qual
cosa perciò che è per se stessa manifestissima, che io altramente
ne quistioni non fa mestiero. Hora vorre’ io saper da te, Gismondo, se tu
giudichi che l’huomo amante altrui possa quello che egli ama fruire
compiutamente giamai. Se tu di’ che sì, tu ti poni in manifesto errore,
perciò che non può l’huom fruir compiutamente cosa che non sia
tutta in lui; con ciò sia cosa che le strane sempre sotto l’arbitrio
della fortuna stiano et sotto il caso et non sotto noi, et altri, quanto sia
cosa istrana, dalla sua voce medesima si fa chiaro. Se tu di’ che no,
confessare adunque ti bisognerà, né ti potranno gli amanti
difendere, o Gismondo, che chiunque ama, senta et sostenga passione a ciascun
tempo. Et perciò che non è altro l’amaro dell’animo che il fele
delle passioni che l’avelenano, di necessità si conchiude che amare
senza amaro non è più fattibile che sia che l’acque asciughino o
il fuoco bagni o le nevi ardano o il sole non dia luce. Vedi tu hora, Gismondo,
in quanto semplici et brievi parole la pura verità si rinchiude? Ma che
vo io argomentando di cosa che si tocca con mano? che dico io con mano? anzi
pur col cuore. Né cosa è che più a drento si faccia
sentire o più nel mezzo d’ogni nostra midolla penetrando traff[ig]ga
l’anima di quello che Amore fa, il quale, sì come potentissimo veneno,
al cuore ne manda la sua virtù et quasi ammaestrato rubator di strada,
nella vita de gli huomini cerca incontanente di por mano.
Lasciando
adunque da parte con Gismondo i silogismi, o donne, al quale più essi
hanno rispetto, sì come a llor guerriere, che a voi che ascoltatrici
siete delle nostre quistioni, con voi me ne verrò più apertamente
ragionando quest’altra via. Et perciò che, per le passioni dell’animo
discorrendo, meglio ci verrà la costui amarezza conosciuta, sì
come quella che egli si trahe dall’aloe loro, poi che in esse col ragionare
alquanto già intrati siamo et a voi piace che il favellare hoggi sia
mio, il quale poco innanzi a Gismondo donato havevate, seguitando di loro Vi
parlerò, più lunga tela tessendovi de’ lor fili. Sono adunque, o
donne, le passioni dell’animo queste generali et non più, dalle quali
tutte le altre dirivando in loro ritornano: soverchio disiderare, soverchio
rallegrarsi, soverchia tema delle future miserie et nelle presenti dolore. Le
quali passioni, perciò che sì come venti contrari turbano la
tranquillità dell’animo et ogni quiete della nostra vita, sono per
più segnato vocabolo perturbationi chiamate da gli scrittori. Di queste
perturbationi, quantunque propria d’Amore sia la primiera, sì come di
quello che altro che disiderio non è, pure egli, non contento de’ suoi
confini, passa nelle altrui possessioni, soffiando in modo nella sua fiaccola,
che miseramente tutte le mette a fuoco; il quale fuoco, gli animi nostri
consumando et distruggendo, trahe spesse volte a·ffine la nostra vita o, se
questo non ne viene, a vita peggior che morte senza fallo ci conduce. Ora per
incominciar da esso disiderio, dico questo essere di tutte le altre passioni
origine et capo et da questo ogni nostro male procedere, non altramente che
faccia ogni albero da sue radici. Perciò che comunque egli d’alcuna cosa
s’accende in noi, incontanente ci sospigne a seguirla et a cercarla, et
così seguendola et cercandola a trabocchevoli et disordinati pericoli et
a mille miserie ci conduce. Questo sospigne il fratello a cercare dalla male
amata sorella gli abominevoli abbracciamenti, la matrigna dal figliastro et
alcuna volta, il che pure a dirlo m’è grave, il padre medesimo dalla
verginetta figliuola: cose più tosto mostruose che fiere. Le quali,
perciò che vie più bello è il tacersi che il favellarne,
lasciando nella loro non dicevole sconvenevolezza stare et di noi favellando,
così vi dico, che questo disio i nostri pensieri, i nostri passi, le nostre
giornate dispone et scorge et trahe a dolorosi et non pensati fini. Né
giova spesse volte che altri gli si opponga con la ragione, perciò che
quantunque d’andare al nostro male ci accorgiamo, non pertanto ce ne sappiam
ritenere o, se pure alcuna volta ce ne riteniamo, da capo, come quelli che il
male habbiam dentro, al vomito con maggior violenza di stomacho ritorniamo. Et
aviene poi che, sì come quel sole, nel qual noi gli occhi tenevamo
stamane quando e’ surgea, hora dilungatosi fra ’l giorno abbaglia chi lo
rimira, così bene scorgiamo noi da prima il nostro male alle volte,
quando e’ nasce, il quale medesimo, fatto grande, accieca ogni nostra ragione
et consiglio.
Ma
non si contenta di tenerci Amore d’una sola voglia, quasi d’una verga
sollecitati, anzi sì come dal disiderar delle cose tutte le altre
passioni nascono, così dal primo disiderio che sorge in noi, come da
largo fiume, mille altri ne dirivano, et questi sono ne gli amanti non men
diversi che infiniti. Perciò che quantunque il più delle volte
tutti tendano ad un fine, pure, perché diversi sono gli obbietti et
diverse le fortune de gli amanti, da ciascuno senza fallo diversamente si
disia. Sono alcuni che, per giugnere quando che sia la lor preda, pongono tutte
le forze loro in un corso, nel quale o quante gravi et dure cose s’incontrano,
o quante volte si cade, o quanti seguaci pruni ci sottomordono i miseri piedi!
et spesse fiate aviene che prima si perde la lena che la caccia si tenga.
Alcuni altri, possessori della cosa amata divenuti, niente altro disiderano se
non di mantenersi in quello medesimo stato, et quivi fisso tenendo ogni loro
pensiero et in questo solo ogni opera, ogni tempo loro consumando, nella
felicità son miseri et nelle ricchezze mendici et nelle loro venture
sciagurati. Altri, di possessione uscito de’ suoi beni, cerca di rientrarvi, et
con mille dure conditioni, con mille patti iniqui, in prieghi, in lagrime, in
strida consumandosi, mentre del perduto contende, pone in quistion pazzamente
la sua vita. Ma non si veggono queste fatiche, questi guai, questi tormenti ne’
primi disii. Perciò che sì come nell’entrar d’alcun bosco ci pare
d’havere assai spedito sentiero, ma quanto più in esso penetriamo
caminando, tanto il calle più angusto diviene, così noi primieramente
ad alcuno obbietto dall’appetito invitati, mentre a quello ci pare di dover
potere assai agevolmente pervenire, ad esso più oltre andando di passo
in passo troviamo più ristretto et più malagevole il camino. Il
che a noi è delle nostre tribolationi fondamento, perciò che, per
vi pure poter pervenire, ogni impedimento cerchiamo di rimuovere che il ci
vieti, et quello che per diritto non si può, conviene che per oblico si
fornisca. Quinci le ire nascono, le quistioni, le offese, et troppo più
avanti ne segue di male, che nel cominciamento non pare altrui esser possibile
ad avenire. Et a·ffine che io ogni cosa minuta raccontando non vada, quante
volte sono da alcuno state per questa cagione le morti d’infiniti huomini
disiderate? et per aventura alcuna volta de’ suoi più cari? Quante donne
già dall’appetito trasportate hanno la morte de’ loro mariti
procacciata? Veramente, o donne, se a me paresse poter dire maggior cosa che
questa non è, io più oltre ne parlerei. Ma che si può dir
più? il letto santissimo della moglie et del marito, testimonio della
più secreta parte della lor vita, consapevole de’ loro dolcissimi
abbracciamenti, per nuovo disio d’amore essere del sangue innocente dell’uno,
col ferro dell’altro, tinto et bagnato.
Hora
facendo vela da questi duri et importuni scogli del disio, il mare
dell’allegrezza fallace et torbido solchiamo. Manifesta cosa vi dee adunque
essere, o donne, che tanto a noi ogni allegrezza si fa maggiore, quanto
maggiore ne gli animi nostri è stato di quello il disio che a noi
è della nostra gioia cagione; et tanto più oltre modo nel
conseguire delle cercate cose ci rallegriamo, quanto più elle da noi
prima sono state cerche oltra misura. Et perciò che niuno appetito ha in
noi tanto di forza, né con sì possente impeto all’obbietto
propostogli ci trasporta, quanto quello fa che è dalli sproni et dalla
sferza d’Amore punto et sollecitato, aviene che niuna allegrezza di tanto passa
ogni giusto segno, di quanto quella de gli amanti passar si vede, quando essi
d’alcuno loro disiderio vengono a riva. Et veramente chi si rallegrerebbe
cotanto d’un picciolo sguardo, o chi in luogo di somma felicità porrebbe
due tronche parolette o un brieve toccar di mano o un’altra favola cotale, se
non l’amante, il quale è di queste stesse novelluzze vago et disievole
fuor di ragione? certo, che io creda, niuno. Né perciò è
da dire che in questo a miglior conditione, che tutti gli altri huomini, siano
gli amanti, quando manifestamente si vede che ciascuna delle loro allegrezze le
più volte, o, per dir meglio, sempre, accompagnano infiniti dolori, il
che ne gli altri non suole avenire, in modo che quello che una volta sopravanza
nel sollazzo è loro mille fiate renduto nella pena. Senza che niuna
allegrezza, quando ella trapassa i termini del convenevole, è sana, et
più tosto credenza fallace et stolta che vera allegrezza si può
chiamare. La quale è anchora per questo dannosa ne gli amanti, che ella
in modo gli lascia ebbri del suo veleno che, come se essi in Lethe havessero la
memoria tuffata, d’ogni altra cosa fatti dimentichi salvo che del lor male,
ogni honesto ufficio, ogni studio lodevole, ogni honorata impresa, ogni lor
debito lasciato a dietro, in questa sola vituperevolmente pongono tutti i loro
pensieri; di che non solamente vergogna et danno ne segue loro, ma oltre a cciò,
quasi di se stessi nimici divenuti, essi medesimi volontariamente si fanno
servi di mille dolori. Quante notti miseramente passa vegghiando, quanti giorni
sollecitamente perde in un solo pensiero, quanti passi misura in vano, quante
carte vergando non meno le bagna di lagrime che d’inchiostro l’infelice amante
alcuna volta, prima che egli una hora piacevole si guadagni? la qual per
aventura senza noia non gli viene, sì come di lamentevoli parole spesse
volte et di focosi sospiri et di vero pianto mescolata, o forse non senza
pericolo stando della propria persona o, se alcuna di queste cose no ’l tocca,
certo con doloroso pungimento di cuore che ella sì tosto fuggendo se ne
porti i suoi diletti, i quali egli ha così lungamente penato per acquistare.
Chi non sa quanti pentimenti, quanti scorni, quante mutationi, quanti
ramarichij, quanti pensieri di vendetta, quante fiamme di sdegno il cuocono et
ricuocono mille volte, prima che egli un piacere consegua? Chi non sa con
quante gelosie, con quante invidie, con quanti sospetti, con quante emulationi
et in fine con quanti assenzi ciascuna sua brevissima dolcezza sia comperata?
Certo non hanno tante conche i nostri liti né tante foglie muove il
vento in questo giardino, qualhora egli più verde si vede et più
vestito, quanti possono in ogni sollazzo amoroso esser dolori. Et questi
medesimi sollazzi, se aviene alcuna fiata che sieno da ogni loro parte di duolo
et di maninconia voti, il che non può essere, ma posto che sì,
allhora per aventura ci sono eglino più dannosi et più gravi.
Perciò che le fortune amorose non sempre durano in uno medesimo stato,
anzi elle più sovente si mutano che alcuna altra delle mondane,
sì come quelle che sottoposte sono al governo di più lieve signore
che tutte le altre non sono. Il che quando aviene, tanto ci appare la miseria
più grave, quanto la felicità ci è paruta maggiore.
Allhora ci lamentiamo noi d’Amore, allhora ci ramarichiamo di noi stessi,
allhora c’incresce il vivere, sì come io vi posso col mio misero
essempio in queste rime far vedere. Le quali se per aventura più lunghe
vi parranno dell’usato, fie per questo, che hanno havuto rispetto alla gravezza
de’ miei mali, la quale in pochi versi non parve loro che potesse capere.
I
più soavi et riposati giorni
Non hebbe huom mai né le più
chiare notti,
Di quel c’hebb’io, né ’l più
felice stato,
Alhor ch’io incominciai l’amato stile
Ordir con altro pur che doglia et pianto,
Da prima entrando a l’amorosa vita.
Hor
è mutato il corso a la mia vita
Et volto il gaio tempo, e i lieti giorni,
Che non sapean che cosa fosse un pianto,
In gravi, travagliate et fosche notti,
Col bel suggetto suo cangiar lo stile
Et con le mie venture ogni mio stato.
Lasso,
non mi credea di sì alto stato
Giamai cader in così bassa vita
Né di sì piano in così
duro stile.
Ma ’l sol non mena mai sì puri giorni,
Che non sian dietro poi tante atre notti:
Così vicino al riso è sempre il
pianto.
Ben
hebbi al riso mio vicino il pianto
Et io non me ’l sapea, che ’n quello stato
Così cantando e ’n quelle dolci notti
Forse havrei posto fine a la mia vita,
Per non tardar al fel di questi giorni,
Che m’ha sì inacerbito et petto et
stile.
Amor,
tu che porgei dianzi a lo stile
Lieto argomento, hor gl’insegni ira et pianto,
A che son giunti i miei graditi giorni?
Qual vento nel fiorir svelse ’l mio stato
Et fe’ fortuna a la tranquilla vita
Entro li scogli a le più lunghe notti?
U’son
le prime mie vegghiate notti
Sì dolcemente? u’ ’l mio ridente stile
Che potea rallegrar ben mesta vita?
Et chi sì tosto l’ha converso in
pianto?
C’hor foss’io morto alhor, quando ’l mio stato
Tinse in oscuro i suoi candidi giorni.
Sparito
è ’l sol de’ miei sereni giorni
Et raddoppiata l’ombra a le mie notti,
Che lucean più che i dì d’ogni
altro stato.
Cantai un tempo e ’n vago et lieto stile
Spiegai mie rime, et hor le spiego in pianto,
C’ha fatto amara di sì dolce vita.
Così
sapesse ogniun qual è mia vita
Da indi in qua, ch’e miei festosi giorni,
Chi sola il potea far, rivolse in pianto;
Che pago mi terrei di queste notti,
Senza colmar de’ miei danni lo stile;
Ma non ho tanto bene in questo stato.
Ché
quella fera, ch’al mio verde stato
Diede di morso et quasi a la mia vita,
Hor fugge al suon del mi’ angoscioso stile
Né mai, per rimembrarle i primi giorni
O raccontar de le presenti notti,
Volse a pietà del mio sì largo
pianto.
Echo
sola m’ascolta, et col mio pianto
Agguagliando ’l suo duro antico stato,
Meco si duol di sì penose notti;
Et se ’l fin si prevede da la vita,
Ad una meta van questi et quei giorni,
Et la mia nuda voce fia ’l mio stile.
Amanti,
i’ hebbi già tra voi lo stile
Sì vago, ch’acquetava ogni altrui
pianto:
Hor me non queta un sol di questi giorni.
Così va chi ’n suo molto allegro stato
Non crede mai provar noiosa vita
Né pensa ’l dì de le future
notti.
Ma
chi vol si rallegri a le mie notti,
Com’ancho quella, che mi fa lo stile
Tornar a vile e ’n odio esser la vita,
Ch’io non spero giamai d’uscir di pianto.
Ella se ’l sa, che di sì lieto stato
Tosto mi pose in così tristi giorni.
Ite,
giorni gioiosi et care notti,
Che ’l bel mio stato ha preso un altro stile,
Per pascer sol di pianto la mia vita.
Voi
vedete, o donne, a che porto la seconda fortuna ci conduce. Ma io, quantunque
la morte mi fosse più cara, pure vivo, chente che la mia vita si sia.
Molti sono stati, che non sono potuti vivere: così viene a gli huomini
grave dopo la molta allegrezza il dolore. Ruppe ad Artemisia la fortuna con la
morte del marito la felicità de’ suoi amori, per la qual cosa ella visse
in pianto tutto il rimanente della sua vita, et alla fine piangendo si
morì: il che avenuto non le sarebbe, se ella si fosse mezzanamente ne’
suoi piaceri rallegrata. Abandonata dal vago Enea la dolorosa Elisa se medesima
miseramente abandonò uccidendosi, alla qual morte non traboccava, se
ella meno seconda fortuna havuta havesse ne’ suoi amorosi disii. Né
parve alla misera Niobe per altro sì grave l’orbezza de’ suoi figliuoli,
se non perciò che ella a somma felicità l’havergli s’havea recato.
Così aviene che, se le misere allegrezze de gli amanti sono di se sole
ben piene, o a morti acerbissime gli conducono o d’eterno dolore gli fanno
heredi; se sono di molta noia fregiate, elle senza dubbio alcuno et, mentre
durano, gli tormentano et, partendo, niente altro lasciano loro in mano che il
pentimento; perciò che di tutte quelle cose che a far prendiamo, quando
ci vanno con nostro danno fallite, la penitenza è fine. O amara
dolcezza, o venenata medicina de gli amanti non sani, o allegrezza dolorosa, la
qual di te nessun più dolve frutto lasci a’ tuoi possessori che il
pentirsi; o vaghezza che, come fumo lieve, non prima sei veduta che sparisci,
né altro di te rimane ne gli occhi nostri che il piagnere; o ali che
bene in alto ci levate perché, strutta dal sole la vostra cera, noi con
gli homeri nudi rimanendo, quasi novelli Icari, cadiamo nel mare. Cotali sono i
piaceri, donne, i quali amando si sentono. Veggiamo hora quali sono le paure.
Fingono
i poeti, i quali sogliono alcuna volta favoleggiando dir del vero, che ne gli
oscuri abissi tra le schiere sconsolate de’ dannati è uno fra gli altri,
cui pende sopra ’l capo un sasso grossissimo, ritenuto da sottilissimo filo.
Questi, al sasso risguardando et della caduta sgomentandosi, sta continuamente
in questa pena. Tale de gl’infelici amanti è lo stato, i quali sempre
de’ loro possibili danni stando in pensiero, quasi con la grave ruina delle
loro sciagure sopra ’l capo, i miseri vivono in eterna paura, et non so che per
lo continuo il tristo cuore dicendo loro, tacitamente gli sollecita et
tormenta, seco stesso ad ogni hora qualche male indovinando. Perciò che
quale è quello amante che de gli sdegni della sua donna in ogni tempo
non tema? o che ella forse ad alcuno altro il suo amore non doni? o che per
alcun mondo, che mille sempre ne sono, non gli sia tolta a’ suoi amorosi
piaceri la via? Egli certamente non mi si lascia credere che huomo alcuno viva,
il quale amando, comunque il suo stato si stia, mille volte il giorno non sia
sollecito, mille volte non senta paura. Et che poi, di queste sollecitudini,
hassene egli altro danno che il temere? Certo sì, et non uno, ma
infiniti, ché questa stessa tema et pavento sono di molti altri mali
seme et radice. Perciò che per riparare alle ruine che, lasciate in
pendente, crediamo che possano cadendo stritolare la nostra felicità,
molti torti pontelli con gli altrui danni o forse con le altrui morti cerchiamo
di sottoporre a’ lor casi. Uccise il suo fratel cugino, che dalla lunga guerra
si ritornava, il fiero Egisto, temendo non per la sua venuta rovinassero i suoi
piaceri. Uccise simigliantemente l’im pazzato Oreste il suo, et dinanzi a gli
altari de gli idij, nel mezzo de’ sacrificanti sacerdoti il fe’ cadere,
perché in piè rimanesse l’amore che egli alla sorella portava. A
me medesimo incresce, o donne, l’andarmi cotanto tra tante miserie ravolgendo.
Pure se io v’ho a dimostrare quale sia questo Amore, che è da Gismondo
lodato come buono, è huopo che io con la tela delle sue opere il vi dimostri;
delle quali per aventura tante ne lascio adietro ragionando, quante lascia da
poppa alcuna nave gocciole d’acqua marina, quando più ella da buon vento
sospinta corre a tutte vele il suo camino.
Ma
passiamo nel dolore, acciò che più tOSIo si venga a fine di
questi mali. Il qual dolore, quantunque habbia le sue radici nel disiderio,
sì come hanno le altre due passioni altresì, pure tanto egli
più et men crescie, quanto prima i rivi dell’allegrezza l’hanno potuto
più o me E no largamente inaffiare. Assai sono adunque di quegli amanti
i quali, E da una torta guatatura delle lor donne o da tre parole proverbiose
quasi da tre ferite traffitti, non pensando più oltre quanto elle spesse
volte il soglian fare senza sapere il perché, vaghe d’alcuno tormentuzzo
de’ loro amanti, si dogliono, si ramaricano, si tormentano senza consolatione
alcuna. Altri, perché a pro non può venire de’ suoi disii, pensa
di più non vivere. Altri, perché venutovi compiutamente non gode,
a questo apparente male v’aggiugne il continuo rancore et fallo veramente
esistente et grave. Et molti, per morte delle lor donne a capo delle feste loro
pervenuti, s’attristano senza fine, et altro già che quelle fredde et
pallide imagini, dovunque essi gli occhi et il pensier volgono, non viene loro
innanzi. A’ quali tutti il tempo, sì come né ancho il verno le
foglie a tutti gli alberi, la doglia non ne leva, anzi, sì come ad
alquante piante sopra le vecchie frondi ne crescono ogni primavera di nuove,
così ad alquanti di questi amanti duolo sopra duolo s’aumenta et,
più che essi dopo le loro amate donne vivono, più vivono
tormentati et miseramente di giorno in giorno fanno le loro piaghe più
profonde, pure in sul ferro aggra vandosi che gl’impiaga. Né
mancherà poi chi, per crudeltà della sua donna dalla cima della
sua felicità quasi nel profondo d’ogni miseria caduto, a doversi
dilungare nel mondo per farla ben lieta si dispone. Et questi nel suo essiglio
di niuna altra cosa è vago se non di piagnere, niente altro disidera che
bene stremamente essere infelice. Questo vuole, di que sto si pasce, in questo
si consola, a questo esso stesso s’invia. Né sole, né stella,
né cielo vede mai che gli sia chiaro. Non herbe, non fonti, non fiori,
non corso di mormoranti rivi, non vista di verdeggiante bosco, non aura, non
fresco, non ombra veruna gli è soave. Ma solo, chiuso sempre ne’ suoi
pensieri, con gli occhi pregni di lagrime, le meno segnate valli o le
più- riposte selve ricercando, s’ingegna di far brieve la sua vita,
talhora in qualche trista rima spignendo fuori alcun de’ suoi rinchiusi dolori,
con qualche tronco secco d’albero o con alcuna soletaria fiera, come se esse lo
’ntendessero, parlando et agguagliando il suo stato. Ora daratti il cuore,
Gismondo, di dimostrarci che cosa buona Amor sia? Che Amore sia buono,
Gismondo, daratti l’animo di cci dimostrare?
Conosciuti
adunque separatamente questi mali, o donne, del disiderio, dell’allegrezza,
della sollecitudine et del dolore, a me piace che noi mescolatamente et senza
legge alquanto vaghiamo per loro. Et prima che io più ad un luogo che ad
un altro m’invij, mi si para davanti la novità de’ principij che questo
malvagio lusinghiero dà loro ne gli animi nostri, quasi se di sollazzo
et giuoco, non di doglia et di lagrime et di manifesto pericolo della nostra
vita fossero nascimento. Perciò che mille fiate adiviene che una
paroletta, un sorriso, un muover d’occhio con maravigliosa forza ci prendono
gli animi, et sono cagione che noi ogni nostro bene, ogni honore, ogni
libertà tutta nelle mani d’una donna riponiamo, et più avanti non
vediamo di lei. Et tutto ’l giorno si vede che un portamento, un andare, un
sedere sono l’esca di grandissimi et inestinguibili fuochi. Et oltre
a·cciò quante volte avenne, lasciamo stare le parti belle del corpo,
delle quali spesse fiate la più debole per aventura stranamente ci
muove, ma quante volte avenne che d’un pianto ci siamo invaghiti? et di quelle,
il cui riso non ci ha potuti crollare di stato, una lagrimetta ci ha fatti
correre con frezzolosi passi al nostro male? A quanti la pallidezza d’una
inferma è stata di piggior pallidezza principio? et loro, che gli occhi
vaghi et ardenti non presero ne’ dilettevoli giardini, i mesti et caduti nel
mezzo delle gravose febbri legarono, et furono ad essi di più perigliosa
febbre cagione? Quanti già finsero d’esser presi et, nel laccio per
giuoco entrati, poi vi rimasero mal loro grado con fermissimo et strettissimo
nodo miserabilmente ritenuti? Quanti volendo spegnere l’altrui fuoco, a se
medesimi l’accesero et hebbero d’aiuto mestiero? Quanti sentendo altrui
ragionar d’una donna lontana, essi stessi s’avicinarono mille martiri? Ahi
lasso me, questo solo vorre’ io haver taciuto. —
Appena
hebbe così detto Perottino, che de gli occhi gli caddero alquante subite
lagrime et la presta parola gli morì in bocca. Ma poi che, tacendosi
ogniuno, vinti dalla pietà di quella vista, esso si rihebbe, così
con voce rotta et spessa seguitando riprese a dire:
— Di
cotai faville, o donne, poi che vede gli animi nostri raccesi questo vezzoso fanciullo
et fiero, aggiugne nutrimento al suo fuoco, di speranza et di disiderio
pascendolo, de’ quali quantunque alcuna volta manchi la prima in noi, sì
come quella che da istrani accidenti si crea, non perciò menoma il
disiderio né cade sempre con lei. Perciò che, oltra che noi, dura
gente mortale, da natura tanto più d’alcuna cosa c’invogliamo, quanto
ella c’è più negata, ha questo Amore assai sovente in sé
che, quanto sente più in noi la speranza venir meno, tanto più
con disiderij soffiando nelle sue fiamme le fa maggiori; le quali come
crescono, così s’aumentano le nostre doglie, et queste poi et in sospiri
et in lagrime et in strida miseramente del petto si spargon fuori, et le
più delle volte in vano: di che noi stessi ravedutici tanto sentiamo
maggior dolore, quanto più a’ venti ne vanno le nostre voci. Così
aviene che, delle nostre lagrime spargendolo, diviene maravigliosamente il
nostro fuoco più grave. Allhora, vicini ad ucciderci, morte per estremo
soccorso chiamiamo. Ma pure con tutto ciò, quantunque il dolerci in
questa maniera ci aceresca dolore et misera cosa sia l’andarsi così
lamentando senza fallo alcuno, è tuttavia ne’ grandi dolori alcuna cosa
il potersi dolere. Ma più misera et di più guai piena è in
ogni modo il non poter noi nelle nostre doglie spandere alcuna voce o dire la
nociva cagione, qualhora più disideriamo et habbiam di dirla mestiero.
Malvagissima et dolorosissima poi fuor di misura il convenirci la doglia
nascondere sotto lieto viso solo nel cuore, né poter dare uscita pure per
gli occhi a gli amorosi pensieri, i quali rinchiusi non solamente materia
sostentante le fiamme sono, ma aumentante, perciò che quanto più
si strigne il fuoco, tanto egli con più forza cuoce. Et questi tutti
vengono accidenti non meno domestici de gli amanti che sien dell’aere i venti
et le pioggie famigliari. Ma che dico io questi? essi pure sono infiniti et
ciascuno è per sé doloroso et grave.
Questi
segue una donna crudele, il quale pregando, amando, lagrimando, dolente a
morte, tra mille angosciosi pensieri durissima fa la sua vita, sempre
più nel disio raccendendosi. A colui, servente d’una pietosa divenuto,
la fortuna niega il potere nelle sue biade por mano, onde egli tanto più
si snerva et si spolpa, quanto più vicina si vede la E disiderata cosa
et più vietata, et sentesi sciaguratamente, quasi un nuovo Tantalo, nel
mezzo delle sue molte voglie consumare. Quell’altro, di donna mutabile fatto
mancipio, hoggi si vede contento, domani si chiama infelice et, quali le
schiume marine dal vento et dall’onde sospinte hora innanzi vengono et quando
adietro ritornano, così egli, hor alto hor basso, hor caldo hor freddo,
temendo, sperando, niuna stabilità non havendo nel suo stato, sente et
pate ogni sorte di pena. Alcun altro, solo di poca et debole et colpata
speranza pascendosi, sostenta miseramente a più lungo tormento gli anni
suoi. Et fie chi, mentre ogni altra cosa prima che la sua promessa fede o il
suo lieto stato crede dovere poter manchare et rompersi, s’avede quanto sono di
vetro tutte le credenze amorose et, nel secco rimanendo de’ suoi pensieri, sta
come se il mondo venuto gli fosse meno sotto a’ piedi. Surgono oltre a queste
repentinamente mille altre guise di nuove et fiere cose, involatrici d’ogni
nostra quiete et donatrici d’infinite sollecitudini et di diversi tormenti
apportatrici. Perciò che alcuno piagne la sùbita infermità
della sua donna, la quale nel corpo di lei l’anima sua miseramente tormenta et
consuma. Alcuno, d’un nuovo rivale avedutosi, entra in subita gelosia et dentro
tutto ardendo vi si distrugge, con agro et nimichevole animo hora il suo
aversario accusando et hora la sua donna non iscusando, né sente pace se
non tanto, quanto egli solo la si vede. Alcuno, dalle nuove nozze della sua
turbato, non con altro cuore gli apparecchi et le feste che vi si fanno riceve,
né con più lieto occhio le mira, che se elle gli arnesi fossero
et la pompa della sua sepoltura. Altri piangono in molte altre maniere tutto
dì, da subita occasion di pianto sventuratamente soprapresi, delle quali
se forse il caso o la virtù alcuna ne toglie via, in luogo di quella
molte altre ne rinascono più acerbe spesse volte et più gravi;
onde vie men dura conditione havrebbe chi con la fiera Hidra d’Hercole havesse
la sua battaglia a dover fare, che quegli non ha, a cui conviene delle sue
forze con la ferezza d’Amore far pruova. Et quello che io dico de gli uomini,
suole medesimamente di voi, donne, avenire, et forse, ma non l’habbiate voi,
giovani, a male, delle quali io non ragiono, come che io mi parli con voi,
forse, dico, molto più. Perciò che da natura più
inchinevoli solete essere et più arrendevoli a gli assalti d’Amore che
noi non siamo, et voi le vostre fiamme più chiaramente ardono che noi le
nostre non soglion fare; quantunque poi molti particolari accidenti, che a
ciascuna soprastanno, vie più, che noi non siamo, sopravedute vi
facciano et riguardose.
Oltre
a·cciò sono i primi ardori, se ne gli animi fanciulli s’apprendono,
sì come il caldo alle tenere frondi, così essi loro più
dannosi; se nell’età matura si fanno sentire, più impetuosi senza
fallo et più fieri, non altramente che il cielo soglia fare, il quale
tanto più sconciamente si turba, quanto più lungamente chiaro et
sereno è stato. A questo modo o giovani o attempati che noi di questo
male infermiamo, a strano passo, a dura conditione, a molto fiero partito sta
isposta la nostra vita. Ma tutti gli amorosi morbi, quanto più
invecchiano, sì come quelli del corpo, tanto meno sono risanabili et
meno alcuna medicina lor giova. Perciò che in amore pessima cosa
è la lusinghevole usanza, nella quale di giorno in giorno senza
consideratione più entrati, quasi nel labirintho trascorsi senza
gomitolo, poi, quando ce ne piglia disio, tornare a dietro le più volte
non possiamo. Et aviene alcuna fiata che in maniera ci naturiamo nel nostro
male, che uscir di lui, etiandio potendo, non vogliamo. Sono poi, oltre a tutto
questo, le lunghe discordie crudeli; sono le brievi angosciose; sono le
riconciliagioni non sicure; sono le rinovagioni de gli amori passati perigliose
et gravi, in quanto più le seconde febbri sogliono sopravenendo
offendere i ricaduti infermi che le primiere; sono le rimembranze de’ dolci
tempi perduti acerbissime, et di somma infelicità è maniera
l’essere stato felice. Durissime sono le dipartenze, et quelle massimamente che
con alcuna disiata notte et lamentata et con abbracciamento lungo et sospiroso
et lagrimevole si chiudono, nelle quali e’ pare che i cuori de gli amanti si
divellano dalle lor fibre o schiantinsi per lo mezzo in due parti.
Ohimè, quanto amare sono le lontananze, nelle quali niun riso si vede
mai nell’amante, niuna festa il tocca, niun giuoco; ma fisso alla sua donna
stando ad ogni hora col pensiero, quasi con gli Occhl alla tramontana, passa
quella fortuna della sua vita in dubbio del suo stato, et con un fiume sempre
d’amarissime lagrime intorno al tristo euore et con la bocca piena di dolenti
sospiri, dove col corpo esser non può, con l’animo vi sta in quella
vece, né cosa vede, come che poche ne miri, che non gli sia materia di
largo pianto. Sì come hora col mio misero essempio vi potete, donne, far
chiare, di cui tale è la vita, chente suonano le canzoni, et vie anchora
piggiore; delle quali per aventura quest altre due, appresso le ramemorate, poi
che tanto oltre sono passato, non mi penterò di ricordarmi.
Poscia
che ’l mio destin fallace et empio
Ne i dolei lumi de l’altrui pietade
Le mie speranze aeerbamente ha spento,
Di pena in pena et d’uno in altro scempio
Menando i giorni, et per aspre eontrade
Morte chiamando a passo infermo et lento,
Nebbia et polvere al vento
Son fatto et sotto ’l sol falda di neve;
Ch’un volto segue l’alma, ov’ella il fugge,
Et un penser la strugge
Cocente sì, ch’ogni altro danno
è leve,
Et gli occhi, che già fur di mirar vaghi,
Piangono et questo sol par che gli appaghi.
Hor
che mia stella più non m’assecura,
Scorgo le membra via di passo in passo
Per camin duro e ’n penser tristo et rio;
Ch’io dico pien d’error et di paura:
"Ove ne vo, dolente? et che pur lasso?
Chi mi t’invidia, o mio sommo desio?’’.
Così dicendo, un rio
Verso dal cor di dolorosa pioggia,
Che può far lacrimar le petre stesse;
Et perché sian più spesse
L’angoscie mie, con disusata foggia,
U’che ’l piè movo, u’ che la vista
giro,
Altro che la mia donna unqua non miro.
Col
piè pur meco et col cor con altrui
Vo caminando et de l’interna riva
Bagnando for per gli occhi ogni sentero,
Alhor ch’io penso: "Ohimè, che
son, che fui?
Del mio caro thesoro hor chi mi priva,
Et scorge in parte, onde tornar non spero?
Deh perché qui non pero,
Prima ch’io ne divenga più mendico?
Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,
Per vestirmi di doglia
Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico
Destin, a che mi trahi, perché non sia
Vita dura mortal, quanto la mia!".
Ove
men’porta il calle o ’l piede errante,
Cerco sbramar piangendo, anzi ch’io moia,
Le luci, che desio d’altro non hanno;
Et grido: "O disaventuroso amante,
Hor se’ tu al fin della tua breve gioia
Et nel principio del tuo lungo affanno’’.
Et gli occhi, che mi stanno
Come due stelle fissi in mezzo a l’alma,
E ’l viso, che pur dianzi era ’l mio sole,
Et gli atti et le parole,
Che mi sgombrar del petto ogni altra salma,
Fan di pensieri al cor sì dura schiera,
Che meraviglia è ben com’io non pera.
Non
pero già, ma non rimango vivo;
Anzi pur vivo al danno, a la speranza
Via più che morto d’ogni mia mercede:
Morto al diletto, a le mie pene vivo;
Et, mancando al gioir, nel duol s’avanza
Lo cor, ch’ognihor più largo a pianger
riede
Et pensa et ode et vede
Pur lei, che l’arse già sì
dolvemente
Et hor in tanto amaro lo distilla,
Né sol d’una favilla
Scema ’l gran foco de l’accesa mente,
Et me fa gir gridando: "O destin forte,
Come m’hai tu ben posto in dura sorte’’.
Canzon,
homai lo tronco ne ven meno,
Ma non la doglia che mi strugge et sforza;
Ond’io ne vergherò quest’altra scorza.
Tacquesi,
finiti quei versi, Perottino et, poco taciutosi, appresso alcun doloroso
sospiro, che parea che di mezzo il cuore gli uscisse, verissimo dimostratore
delle sue interne pene, a questi altri passando seguitò e disse:
Lasso
ch’i’ fuggo et per fuggir non scampo
Né ’n parte levo la mia stanca vita
Del giogo, che la preme ovunque i’ vada.
Et la memoria, di ch’io tutto avampo,
A raddoppiar i miei dolor m’invita
Et testimon lassarne ogni contrada.
Amor, se ciò t’aggrada,
Almen fa con Madonna ch’ella il senta,
Et là ne porta queste voci estreme,
Dove l’alta mia speme
Fu viva un tempo et hor caduta et spenta
Tanto fa questo exilio acerbo et grave,
Quanto lo stato fu dolce et soave.
Se
in alpe odo passar l’aura fra ’l verde,
Sospiro et piango et per pietà le
cheggio
Che faccia fede al ciel del mio dolore;
Se fonte in valle o rio per camin verde
Sento cader, con gli occhi miei patteggio
A farne un del mio pianto via maggiore;
S’io miro in fronda o ’n fiore,
Veggio un che dice: "O tristo pellegrino,
Lo tuo viver fiorito è secco et
morto’’.
Et pur nel penser porto
Lei, che mi diè lo mio acerbo destino;
Ma quanto più pensando io ne vo seco,
Tanto più tormentando Amor ven meco.
Ove
raggio di sol l’herba non tocchi,
Spesso m’assido, et più mi sono amici
D’ombrosa selva i più riposti horrori;
Ch’io fermo ’l penser vago in que’ begli
occhi,
Ch’i miei dì solean far lieti et
felici,
Hor gli empion di miserie et di dolori.
Et perché più m’accori
L’ingordo error, a dir de’ miei martiri
Vengo lor, com’io gli ho di giorno in giorno.
Poi, quando a me ritorno,
Trovomi sì lontan da’ miei desiri,
Ch’io resto, ahi lasso, quasi ombra
sott’ombra;
Di sì vera pietate Amor m’ingombra.
Qualhor
due fiere in solitaria piaggia
Girsen pascendo simplicette et snelle
Per l’herba verde scorgo di lontano,
Piangendo a lor comincio: "O lieta et
saggia
Vita d’amanti, a voi nemiche stelle
Non fan vostro sperar fallace et vano:
Un bosco, un monte, un piano,
Un piacer, un desio sempre vi tene;
Io da la donna mia quanto son lunge?
Deh, se pietà vi punge,
Date udientia inseme a le
mie pene’’.
E ’n tanto mi riscuoto et veggio expresso
Che per cercar altrui perdo me stesso.
D’erma
rivera i più deserti lidi
M’insegna Amor, lo mio aversario antico,
Che più s’allegra, dov’io più mi
doglio.
Ivi ’l cor pregno in dolorosi stridi
Sfogo con l’onde, et hor d’un ombilico
Et de l’arena li fo penna et foglio;
Indi per più cordoglio
Torno al bel viso, come pesce ad esca,
Et con la mente in esso rimirando,
Temendo et desiando,
Prego sovente che di me gl’incresca;
Poi mi risento et dico: "O penser casso,
Dov’è Madonna?’’, e ’n questa piango et
passo
Canzon,
tu viverai con questo faggio
Appresso a l’altra, et rimarrai con lei;
Et meco ne verranno i dolor miei.
In
questa guisa, o donne, Amore da ogni lato ci afflige; così da ogni
parte, in ogni stato, fiamme, sospiri, lagrime, angoscie, tormenti, dolori sono
de gl’infelici amanti seguaci; i quali, acciò che in loro compiutamente
ogni colmo di miseria si ritruovi, non fanno pace giamai né pure triegua
con queste lor pene, fuori di tutte l’altre qualità di viventi posti
dalla lor fiera et ostinata ventura. Perciò che sogliono tutti gli
animali, i quali, creati dalla natura, procacciano in alcun modo di mantener la
lor vita, riposarsi dopo le fatiche et con la quiete ricoverar le forze, che
sentono esser loro ne gli esercitij logore et indebolite. La notte i gai
uccelli ne’ lor nidi et tra le frondi soavi de gli alberi ristorano i loro
diurni et spatiosi giri; per le selve giacciono l’errabonde fiere; gli herbosi
fondi de’ fiumi et le lievi alghe marine, per alcun spatio i molli pesci
sostenendo, poi gli ritornano alle loro ruote più vaghi; et gli altri
huomini medesimi, diversamente tutto ’l giorno nelle loro bisogne travagliati,
la sera almeno, agiate le membra ove che sia et il vegnente sonno ricevuto,
prendono sicuramente alcun dolce delle loro fatiche ristoro. Ma gli amanti
miseri, da febbre continua sollecitati, né riposo, né
intramissione, né alleggiamento hanno alcuno de’ lor mali: ad ogni hora
si doglio no, in ogni tempo sono dalle discordanti lor cure, quasi Metij da’
cavalli distrahenti, lacerati. Il dì hanno tristo et a noi è loro
il sole, sì come quello che cosa allegra par loro che sia, contraria
alla qualità del loro stato; ma la notte assai piggiore, in quanto le
tenebre più gl’invitano al pianto che la luce, come quelle che alla
miseria sono più conformi; nelle quali le vigilie sono lunghe et
bagnate, il sonno brieve et penoso et paventevole et spesse fiate non meno
delle vigilie dal pianto medesimo bagnato. Che comunque s’adormenta il corpo,
corre l’animo et rientra subitamente ne’ suoi dolori, et con imaginationi
paurose et con più nuove guise d’angustia tiene i sentimenti sgomentati
insidiosamente et tribolati, onde o si turba il sonno et rompesi appena
incominciato o, se pure il corpo fiacco et fievole, sì come di quello
bisognoso, il si ritiene, sospira il vago cuore sognando, triemano gli spiriti
solleciti, duolsi l’anima maninconosa, piangono gli occhi cattivi, avezzi a non
men dormendo che vegghiando la imagination fiera et trista seguire. Così
a gli amanti, quanto sono i lor giorni più amari, tanto le notti vengono
più dogliose, et in esse per aventura tante lagrime versano, quanti
hanno il giorno risparmiati sospiri. Né mancha humore alle lagrime, per
lo bene haver fatto lagrimando de gli occhi due fontane; né
s’interchiude a mezzo sospiro la via, o men rotti et con minor impeto escono
gli hodierni del cuore, perché de gli esterni tutto l’aere ne sia pieno.
Né per doglie il duolo, né per lamenti il lamento, né per
angoscie l’angoscia si fa minore; anzi ogni giorno arroge al danno et esso
d’hora in hora divien più grave. Cresce l’amante nelle sue miserie,
fecondo di se stesso a’ suoi dolori. Questi è quel Titio che pasce del
suo fegato l’avoltoio, anzi che il suo cuore a mille morsi di non sopportevoli
affanni sempre rinuova. Questi è quello Isione che, nelle ruota delle
sue molte angoscie girando, hora nella cima hora nel fondo portato, pure dal
tormento non si scioglie giamai, anzi tanto più forte ad ogni hora vi si
lega et inchiodavisi, quanto più legato vi sta et più girato. Non
posso, o donne, aguagliar con parole le pene, con le quali questo crudel
maestro ci afflige, se io, nello stremo fondo de gl’inferni penetrando, gli
essempi delle ultime miserie de’ dannati dinanzi a gli occhi non vi paro: et
queste medesime sono, come voi vedete, per aventura men gravi. Ma è da porre
hoggimai a questi ragionamenti modo et da non voler più oltra di quella
materia favellare, della quale quanto più si parla, tanto più, a
chi ben la considera, ne resta a poter dire.
Assai
havete potuto adunque comprender, o donne, per quello che udito havete, che
cosa Amore si sia et quanto dannosa et grave; il quale, incontro la
maestà della natura scelerato divenuto, noi huomini cotanto a·llei cari
et da essa dell’intelletto, che divina parte è, per ispetiale gratia
donati, acciò che così, più pura menando la nostra vita,
al cielo con esso s’avacciassimo di salire, di lui per aventura miseramente
spogliandoci, ci tiene col piè attuffati nelle brutture terrene in
maniera, che spesse volte disaventurosamente v’affoghiamo. Né solamente
ne’ men chiari o meno pregiati così fa, come voi udite, anzi egli pur
coloro che sono a più alta fortuna saliti, né a dorati seggi
né a corone gemmate risguardando, con meno riverenza et più
sconciamente sozzandogli, sovrasta miseramente et sopragrava. Per che, se la
nostra fanciulla di lui si duole accusandolo, dee ringratiarnela Gismondo; se
non in quanto ella contro così colpevole et manifesto micidiale de gli
huomini porge poco lamentevole et troppo brieve querela. Ma io, o Amore, a te
mi rivolgo, dovunque tu hora per quest’aria forse a’ nostri danni ti voli, se
con più lungo ramarico t’accuso che ella non fece, non se ne dee alcun
maravigliare, se non come io di tanto mi sia dalla grave pressura de’ tuoi
piedi col collo riscosso, che io fuori ne possa mandar queste voci; le quali
tuttavia, sì come di stanco et fievole prigioniere, a quello che alle
tue molte colpe, a’ tuoi infiniti micidi si converrebbe, sono certissimamente
et roche et poche. Tu d’amaritudine ci pasci; tu di dolor ci guiderdoni; tu de
gli huomini mortalissimo idio in danno sempre della nostra vita ci mostri della
tua deità fierissime et acerbissime pruove; tu de’ nostri mali
c’indisii; tu di cosa trista ci rallegri; tu ogni hora ci spaventi con mille
nuove et disusate forme di paura; tu in angosciosa vita ci fai vivere et a
crudelissime et dolorosissime morti c’insegni la via. Et hora ecco di me, o
Amore, che giuochi ti fai? il quale, libero venuto nel mondo et da·llui assai
benignamente ricevuto, nel seno de’ miei dolcissimi genitori sicura et
tranquilla vita vivendo, senza sospiri et senza lagrime i miei giovani anni ne
menava felice, et pur troppo felice, se io te solo non havessi giamai
conosciuto. Tu mi donasti a colei, la quale io con molta fede servendo sopra la
mia vita hebbi cara, et in quella servitù, mentre a·llei piacque et di
me la calse, vissi buon tempo, vie più che in qualunque signoria non si
vive, fortunato. Hora che sono io? et quale è hora la mia vita, o Amore?
Della mia cara donna spogliato, dal conspetto de’ miei vecchi et sconsolati genitori
diviso, che assai lieta potevano terminar la lor vita se me non havesser
generato, d’ogni conforto ignudo, a me medesimo noioso et grave, in trastullo
della fortuna lungo tempo di miseria in miseria portato, allo stremo quasi
favola del popolo divenuto, meco le mie gravi catene trahendo dietro, assai
debole et vinto fuggo dalle genti, cer cando dove io queste tormentate membra
abandoni ciascun die, le quali, più durevoli di quello che io vorrei,
anchora tenendomi in vita, vogliono che io pianga bene infinitamente le mie
sciagure. Ohimè, che doverebbono più tosto, almeno per
pietà de’ miei mali, dissolvendosi pascere hoggimai della mia morte quel
duro cuore, che vuole che io di così penosa vita pasca il mio. Ma io non
guari il pascerò. —
Quinci
Perottino, postasi la mano in seno, fuori ne trasse un picciol drappo, col
quale egli, sì come un’altra volta fatto havea poi che egli a ragionare
incominciò, gli occhi che forte piangevano rasciugandosi et esso, che
molle già era divenuto delle sue lagrime, per aventura fiso mirando, in
più dirotto pianto si mise, queste altre poche parole nel mezzo del
piagnere alle già dette aggiugnendo:
—
Ahi infelice dono della mia donna crudele, misero drappo et di misero ufficio
istrumento, assai chiaro mi dimostrò ella donandomiti quale dovea essere
il mio stato. Tu solo m’avanzi per guiderdone dell’infinite mie pene. Non
t’incresca, poi che se’ mio, che io, quanto harò a vivere, che
sarà poco, con le mie lagrime ti lavi. —
Così
dicendo, con amendue le mani a gli occhi il si pose, da’ quali già
cadevano in tanta abondanza le lagrime, che niun fu o delle donne o de’ giovani
che ritener le sue potesse. Il quale, poi che in quella guisa per buona pezza
chino stando non si movea, da’ suoi compagni et dalle donne, che già
s’erano da seder levate, fu molte volte richiamato, et alla fine, perciò
che hora parea loro di quindi partirsi, sollevato et dolcemente racconfortato.
A cui le donne, acciò che egli da quel pensiero si rihavesse, il drappo
addimandarono, vaghe mostrandosi di vederlo, et quello havuto, et d’una in
altra mano recato, verso la porta del giardin caminando, tutte più volte
il mirarono volentieri. Perciò che egli era di sottilissimi fili tessuto
et d’ogn’intorno d’oro et di seta fregiato, et per drento alcuno animaluzzo,
secondo il costume greco, vagamente dipinto v’havea, et molto studio in
sé di maestra mano et d’occhio discernevole dimostrava. Indi usciti del
bel giardino i giovani et nel palagio le donne accompagnate, essi,
perciò che Perottino non volle quel dì nelle feste rimanere, del
castello scesero et, d’uno ragionamento in altro passando, acciò che
egli le sue pungenti cure dimenticasse, quasi tutto il rimanente di quel giorno
per ombre et per rive et per piagge dilettevoli s’andarono diportando.
A me
pare, quando io vi penso, nuovo, onde ciò sia che, havendo la natura noi
huomini di spirito et di membra formati, queste mortali et deboli, quello
durevole et sempiterno, di piacere al corpo ci fatichiamo quanto per noi si
può generalmente ciascuno, all’animo non così molti risguardano
et, per dir meglio, pochissimi hanno cura o pensiero. Perciò che niuno
è così vile, che la sua persona d’alcun vestimento non ricuopra,
et molti sono coloro che, nelle lucide porpore et nelle dilicate sete et nell’oro
stesso cotanto pregiato fasciandola et delle più rare gemme
illustrandola, così la portano, per più di gratia et più
d’ornamento le dare; dove si veggono senza fine tutto il giorno di quegli
huomini, i quali la lor mente non solo delle vere et sode virtù non
hanno vestita, ma pure d’alcun velo o filo di buon costume ricoperta né
adombrata si tengono. Oltre a·cciò sì aviene egli anchora che,
per vaghezza di questo peso et fascio terreno, il quale pochi anni disciogliono
et fanno in polve tornare, dove a sostenimento di lui le cose agevoli et in
ogni luogo proposteci dalla natura ci bastavano, noi pure i campi, le selve, i
fiumi, il mare medesimo sollecitando, con molto studio i cibi più
pretiosi cerchiamo, et per acconcio et agio di lui, potendo ad esso una
capannuccia dalle nevi et dal sole difendendolo sodisfare, i più lontani
marmi da diverse parti del mondo raunando, in più contrade palagi
ampissimi gli fondiamo; et la celeste parte di noi molte volte, di che ella si
pasca o dove habiti non curiamo, ponendole pure innanzi più tosto le
foglie amare del vitio che i frutti dolcissimi della virtù, nello oscuro
et basso uso di quello più spesso rinchiusa tenendola, che nelle chiare
et alte operationi di questa invitandola a soggiornare. Senza che, qualhora
aviene che noi alcuna parte del corpo indebolita et inferma sentiamo, con mille
argomenti la smarrita sanità in lui procuriamo di rivocare; a gli animi
nostri non sani poco curiamo di dare ricovero et medicina alcuna. Sarebbe egli
ciò forse per questo che, perciò che il corpo più appare
che l’animo non fa, più altresì crediamo che egli habbia di
questi provedimenti mestiero? Il che tuttavia è poco sanamente
considerato. Perciò che non che il corpo nel vero più che l’animo
de gli huomini non appaia, ma egli è di gran lunga in questo da llui
evidentemente superato. Con ciò sia cosa che l’animo tante faccie ha,
quante le sue operationi sono, dove del corpo altro che una forma non si mostra
giamai. Et questa in molti anni molti huomini appena non vedono, dove quelle
possono in brieve tempo essere da tutto ’l mondo conosciute. Et questo stesso
corpo altro che pochi giorni non dura, là dove l’animo sempiterno
sempiternamente rimane, et può seco lunghi secoli ritener quello di che
noi, mentre egli nel corpo dimora, l’avezziamo. Alle quali cose et ad infinite
altre, che a queste aggiugner si potrebbono, se gli huomini havessero quella
consideratione che loro s’apparterrebbe d’havere, vie più bello sarebbe
hoggi il viver nel mondo et più dolve che egli non è, et noi, con
bastevole cura del corpo havere, molto più l’animo et le menti nostre
ornando et meglio pascendole et più honorata dimora dando loro, saremmo
di loro più degni che noi non siamo, et molta cura porremmo nel
conservarle sane et, se pure alcuna volta infermassero, con maggiore studio ci
faticheremmo di riparare a’ lor morbi che noi non facciamo. Tra’ quali quanto
sembri grave quello che Amore addosso ci reca, assai si può dalle parole
di Perottino nel precedente libro haver conosciuto. Quantunque Gismondo, forte
da·llui discordando, molto da questa openione lontano sia. Perciò che
venute il dì seguente le belle donne, sì come ordinato haveano,
appresso ’l mangiare co’ loro giovani nel giardino, et nel vago praticello
accoste la chiara fonte et sotto gli ombrosi allori sedut[e]si, dopo alquanti
festevoli motti sopra i sermoni di Perottino da’ due compagni et dalle donne
sollazzevolmente gittati, aspettando già ciascuno che Gismondo parlasse,
egli così incominciò a dire:
—
Assai vezzosamente fece hieri, sagge et belle donne, Perottino; il quale nella
fine della sua lunga querimonia ci lasciò piangendo, acciò che
quello, che haver non gli parea con le parole potuto guadagnare, le lagrime gli
acquistassero, ciò è la vostra fede alle cose che egli intendea
di mostrarvi. Le quai lagrime tuttavia, quello che in voi operassero, io non
cerco: me veramente mossero elle a tanta pietà de’ suoi mali, che io,
come poteste vedere, non ritenni le mie. Et questa pietà in me non pure
hieri solamente hebbe luogo; anzi ogni volta che io alle sue molte sciagure
considero, duolmente più che mezzanamente, et sonomi sempre gravi le sue
fatiche, sì come di carissimo amico che egli m’è, forse non guari
meno che elle si sieno a·llui. Ma queste medesime lagrime, che in me esser possono
meritevolmente lodate, come quelle che vengono da tenero et fratellevole animo,
veda bene Perottino che in lui non sieno per aventura vergognose. Perciò
che ad huomo nelle lettere infin da fanciullo assai profittevolmente
essercitato, sì come egli è, più si conviene calpestando
valorosamente la nimica fortuna ridersi et beffarsi de’ suoi giuochi, che,
lasciandosi sottoporre a llei, per viltà piagnere et ramaricarsi a guisa
di fanciullo ben battuto. Et se pure egli anchora non ha da gli antichi maestri
tanto di sano avedimento appreso, o seco d’animo dalle culle recato, che egli
incontro a’ colpi d’una femina si possa o si sappia schermire, ché
femina pare che sia la fortuna se noi alla sua voce medesima crediamo, assai
havrebbe fatto men male et cosa ad huom libero più convenevole
Perottino, se, confessando la sua debolezza, egli di se stesso doluto si fosse,
che non è stato, dolendosi d’uno strano, havere in altrui la propria
colpa recata. Ma che? Egli pure così ha voluto et, per meglio colorire
la sua menzogna et il suo difetto, lamentandosi d’Amore, accusandolo,
dannandolo, rimproverandolo, ogni fallo, ogni colpa volgendo in lui, s’è
sforzato di farlovi in poco d’hora di liberalissimo donatore di riposo, di
dolcissimo apportator di gioia, di santissimo conservatore delle genti, che
egli sempre è stato, rapacissimo rubator di quiete, acerbissimo recator
d’affanno, sceleratissimo micidiale de gli huomini divenire; et come se egli la
sentina del mondo fosse, in lui ha ogni bruttura della nostra vita versata, con
sì alte voci et così diverse sgridandolo, che a me giova di
credere hoggimai che egli, più aveduto di quello che noi stimiamo, non
tanto per nasconderci le sue colpe, quanto per dimostrarci la sua eloquenza,
habbia tra noi di questa materia in così fatta E guisa parlato.
Perciò che dura cosa pare a me che sia il pensare che egli ad alcun di
noi, che pure il pesco dalla mela conosciamo, habbia voluto fare a credere che
Amore, senza il quale niun bene può ne gli huomini haver luogo, sia a
noi d’ogni nostro male cagione. Et certamente, riguardevoli donne, egli ha in
uno canale derivate cotante bugie, et quelle così bene col corso
d’apparente verità inviate dove gli bisognava, che senza dubbio assai
acqua m’harebbe egli addosso fatta venire, sì come le sue prime minaccie
sonarono, se io hora dinanzi a così intendenti ascoltatrici non
parlassi, come voi sete, le quali ad ogni raviluppatissima quistio i ne
sciogliere, non che alle sciolte giudicare, come questa di qui a poco
sarà, sete bastanti. La qual cosa, acciò che senza più
oltra tenervi incominci ad haver luogo, io a gli effetti me ne verrò,
solo che voi alcuna attention mi prestiate. Né vi sia grave, o donne, il
prestarlami, ché più a me si conviene ella hoggi che a Perottino
hieri non fece. Perciò che oltre che lo snodare gli altrui groppi
più malagevole cosa è che l’annodargli non è stato, io, la
verità dinanzi a gli occhi ponendovi, conoscere vi farò quello
che è sommamente dicevole alla vostra giovane etade et senza il che
tutto il nostro vivere morte più tosto chiamar si può che vita;
dove egli, la menzogna in bocca recando, vi dimostrò cosa, la quale
posto che fosse vera, non che a gli anni vostri non convenevole, ma ella
sarebbe vie più a’ morti che ad alcuna qualità di vivi conforme.
—
Havea
così detto Gismondo et tacevasi, quando Lisa verso madonna Berenice
baldanzosamente riguardando:
—
Madonna, — disse — egli si vuole che noi Gismondo attentamente ascoltiamo,
poscia che di tanto giovamento ci hanno a dovere essere i suoi sermoni; la qual
cosa se egli così pienamente ci atterrà, come pare che
animosamente ci prometta, certa sono che Perottino habbia hoggi non men fiero
difenditore ad havere, che egli hieri gagliardo assalitore si fosse. —
Rispose
madonna Berenice a queste parole di Lisa non so che, et rispostole, tutta lieta
et aspettante d’udire si taceva; là onde Gismondo così prese a
dire:
—
Una cosa sola, leggiadre donne, et molto semplice hoggi ho io a dimostrarvi, et
non solamente da me et dalla maggior parte delle nostre fanciulle, che a questi
ragionamenti argomento hanno dato, ma da quanti ci vivono, che io mi creda,
almeno in qualche parte, solo che da Perottino, conosciuta, se egli pure
così conosce come ci ragiona; et questa è la bontà
d’Amore, nella quale tanto di rio pose hieri Perottino, quanto allhora voi
vedeste et, sì come hora vederete, a gran torto. Ma perciò che a
me conviene, per la folta selva delle sue menzogne passando, all’aperto campo
delle mie verità far via, prima che ad altra parte io venga, a’ suoi
ragionamenti rispondendo, in essi porrem mano. Et lasciando da parte stare il
nascimento che egli ad Amore diè, di cui io ragionar non intendo, questi
due fondamenti gittò hieri Perottino nel principio delle sue molte voci
et, sopra essi edificando le sue ragioni, tutta la sua querela assai
acconciamente compose: ciò sono che amare senza amaro non si possa, et
che da altro non venga niuno amaro et non proceda che da solo Amore. Et
perciò che egli di questo secondo primieramente argomentò, a voi,
madonna Berenice, ravolgendosi, la quale assai tosto v’accorgeste quanto egli,
già nell’entrar de’ suoi ragionamenti andava tentone, sì come
quegli che nel buio era, di quinci a me piace d’incominciare, con poche parole
rispondendogli, perciò che di molte a così scoperta menzogna non
fa mestiero. Dico adunque così, che folle cosa è a dire che ogni
amaro da altro non proceda che d’Amore. Perciò che se questo vero fosse,
per certo ogni dolcezza da altro che da odio non verrebbe et non procederebbe
giamai, con ciò sia cosa che tanto contrario è l’odio all’amore,
quanto è dall’amaro la dolcezza lontana. Ma perciò che da odio
dolcezza niuna procedere non può, ché ogni odio, in quanto
è odio, attrista sempre ogni cuore et addolora, pare altresì che
di necessità si conchiuda che da amore amaro alcuno procedere non possa
in niun modo giamai. Vedi tu, Perottino, sì come io già truovo
armi con le quali ti vinco? Ma vadasi più avanti, et a più
strette lotte con le tue ragioni passiamo. Perciò che dove tu, alle tre
maniere de’ mali appigliandoti, argomenti che ogni doglia da qualche amore,
sì come ogni fiume da qualche fonte, si diriva, vanamente argomentando,
ad assai fievole et falsa parte t’appigli con fievoli et false ragioni
sostentata. Perciò che se vuoi dire che, se noi prima non amassimo
alcuna cosa, niun dolore ci toccherebbe giamai, è adunque amore d’ogni
nostra doglia fonte et fondamento, et che per ciò ne segua che ogni
dolore altro che d’amore non sia; deh perché non ci di’ tu anchora
così, che, se gli huomini non nascessero, essi non morrebbono giamai,
è adunque il nascere d’ogni nostra morte fondamento, et perciò si
possa dire che la cagion della morte di Cesare o di Nerone altro che il loro
nascimento stata non sia? Quasi che le navi che affondano nel mare, de’ venti
che loro dal porto aspirarono secondi et favorevoli, non di quelli che l’hanno
vinte nimici et contrari, si debbano con le balene ramaricare, perciò
che, se del porto non uscivano, elle dal mare non sarebbono state ingozzate. Et
posto che il cadere in basso stato a coloro solamente sia noioso i quali
dell’alto son vaghi, non perciò l’amore che alle ricchezze o a gli
honori portiamo, sì come tu dicesti, ma la fortuna, che di loro ci
spoglia, ci fa dolere. Perciò che se l’amarle parte alcuna di doglia ci
recasse nell’animo, con l’amor di loro, possedendole noi o non possedendole,
verrebbe il dolore in noi. Ma non si vede che noi ci dogliamo, se non
perdendole; anzi manifesta cosa è egli assai ehe in noi nulla altro il
loro amore adopera, se non che quelle cose, ehe la fortuna ei dà, esso
dolei et soavi ce le fa essere: il che se non fosse, il perderle, che se ne
facesse, et il mancar di loro, non ci potrebbe dolere. Se adunque nell’amar
questi beni di fortuna doglia alcuna non si sente, se non in quanto essa fortuna,
nel cui governo sono, gli permuta, con ciò sia cosa che Amore più
a grado solamente ce gli faccia essere, et la fortuna, come ad essa piace, et
ce gli rubi et ce gli dia, perché giova egli a te di dire che del
dolore, il quale le loro mutationi recano a gli huomini, Amore ne sia
più tosto che la fortuna cagione? Certo se mangiando tu a queste nozze,
sì come tutti facciamo, il tuo servente contro tua voglia ti levasse
dinanzi il tuo piatello pieno di buone et di soavi cose, il quale egli medesimo
t’havesse recato, et tu del cuoco ti ramaricassi, et dicessi che egli ne fosse
stato cagione, che il condimento dilicato sopra quella cotal vivanda fece, per
che ella ti fu recata et tu a mangiarne ti mettesti, pazzo senza fallo saresti
tenuto da ciascuno. Hora se la fortuna nostro mal grado si ritoglie que’ beni
che ella prima ci ha donati, de’ quali ella è sola recatrice et
rapitrice, tu Amore n’encolperai, che il conditor di loro è, et non ti
parrà d’impazzare? Certo non vorrei dir così, ma io pure dubito,
Perottino, che hoggimai non t’habbiano in cotali giudicij gran parte del debito
conoscimento tolto le ingorde maninconie. Questo medesimamente, senza che io mi
distenda nel parlare, delle ricchezze dell’animo et di quelle del corpo ti si
può rispondere, quali unque sieno di loro i ministratori. Et se le tue
fiere alcun de’ loro poppanti figliuoli perdendo si dogliono, il caso tristo
che le punge, non l’amore che la natura insegna loro, le fa dolere. D’intorno
alle quali tutte cose, hoggimai che ne posso io altro dire, che di soverchio
non sia, se non che mentre tu con queste nuvole ti vai ombreggiando la tua
bugia, niuna soda forma ci hai ritratta del vero? Se per aventura più
forte argomento non volessimo già dire che fosse dell’amaritudine
d’Amore quello dove tu di’ che Amore da questa voce Amaro assai acconciamente
fu così da prima detto, a·ffine che egli bene nella sua medesima fronte
dimostrasse ciò che egli era. Il che io già non sapea, et credea
che non le somiglianze de sermoni, ma le sustanze delle operagioni fossero da
dovere essere ponderate et riguardate. Che se pure le somiglianze sono delle
sustanze argomento, di voi, donne, sicuramente m’incresce, le quali non dubito
che Perottino non dica che di danno siate alla vita de gli huomini, con
ciò sia cosa che così sono inverso di sé queste due voci,
Donne et Danno, conformi, come sono quest’altre due, Amore et Amaro,
somiglianti. —
Haveano
a piacevole sorriso mosse le ascoltanti donne queste ultime parole di Gismondo,
et madonna Berenice tuttavia sorridendo, all’altre due rivoltasi così
disse:
—
Male habbiam procacciato, compagne mie care, poi che sopra di noi cadono le
costoro quistioni. —
A
cui Sabinetta, della quale la giovanetta età et la vaga bellezza
facevano le parole più saporose et più care, tutta lieta et
piacevole rispose:
—
Madonna, non vi date noia di ciò: elle non ci toccano pure.
Perciò che dimmi tu, Gismondo, qua’ donne volete voi che sien di danno
alla vostra vita: le giovani o le vecchie? Certo delle giovani secondo il tuo
argomentare non potrai dire, se non che elle vi giovino; con ciò sia
cosa che Giovani et Giovano quella medesima somiglianza hanno in verso di sé
che tu delle Donne et del Danno dicesti. Il che se tu mi doni, a noi basta egli
cotesto assai: le vecchie poi sien tue.
—
Sieno pure di Perottino, — rispose tutto ridente Gismondo — la cui tiepidezza
et le piagnevoli querele, poi che le somiglianze hanno a valere, assai sono
alla fredda et ramarichevole vecchiezza conformi. A me rimangano le giovani,
co’ cuori delle quali, lieti et festevoli et di calde speranze pieni, s’avenne
sempre il mio, et hora s’aviene più che giamai, et certo sono che elle
mi giovino, sì come tu di’. —
A
queste così fatte parole molte altre dalle donne et da’ giovani dette ne
furono, l’uno all’altro scherzevolmente ritornando le vaghe rimesse de’ vezzosi
parlari. Et di giuoco in giuoco per aventura garreggiando più oltre
andata sarebbe la vaga compagnia, nella quale solo Perottino si tacea, se non
che Gismondo in questa maniera parlando alla loro piacevolezza pose modo:
—
Assai ci hanno, mottegiose giovani, dal diritto camino de’ nostri ragionamenti
traviati le somiglianze di Perottino, le quali, perciò che a noi di
più giovamento non sono che elle state sieno utili a·llui, hoggimai a
dietro lasciando, più avanti anchora de’ suoi ramarichi passi[a]mo. Et
perché havete assai chiaro veduto quanto falsa l’una delle sue proposte
sia, dove egli dice che ogni amaro altro che d’Amore non viene, veggasi hora
quanto quell’altra sia vera, dove egli afferma che amare senza amaro non si
puote. Nella quale una egli ha cotante guise d’amari portate et raunate, che
assai utile lavorator di campi egli per certo sarebbe, se così bene il
loglio, la felce, i vepri, le lappole, la carda, i pruneggiuoli et le altre
herbe inutili et nocive della sua possessione sciegliesse et in un luogo
gittasse, come egli ha i sospiri, le lagrime, i tormenti, le angoscie, le pene,
i dolor tutti et tutti i mali della nostra vita sciegliendo, quegli solamente
sopra le spalle de gl’innocenti amanti gittati et ammassati.
Alla
qual cosa fare, acciò che egli d’alcuno apparente principio
incominciasse, egli prese argomento da gli scrittori, et disse che quanti
d’Amor parlano, quello hora fuoco et hora furor nominando et gli amanti sempre
miseri et sempre infelici chiamando, in ogni lor libro, in ogni lor foglio si
dolgono, si lamentano di lui, né pure di sospiri o di lagrime, ma di
ferite et di morti de gli amanti tutti i loro volumi son macchiati. Il che
è da llui con assai più sonanti parole detto che con alcuna
ragionevole pruova confermato, sì come quello che non sente del vero.
Perciò che chi non legge medesimamente in ogni scrittura gli amorosi
piaceri? Chi non truova in ogni libro alcuno amante che, non dico le sue
venture, ma pure le sue beatitudini non racconti? Delle quali se io vi volessi
hora recitare quanto potrei senza molto studio ramentarmi, certo pure in questa
parte sola tutto questo giorno logor[e]rei, et temerei che prima la voce che la
materia mi venisse mancata. Ma perciò che egli con le sue canzoni i
gravi ramarichi de gli amanti et la ferezza d’Amore vi volle dimostrare, et
fece bene, perciò che egli non harebbe di leggiero potuto altrove
così nuovi argomenti ritrovare, come che a’ proprij testimoni non si
creda, pure, se a voi, donne, non ispiacerà, io altresì con
alcuna delle mie quanto d’Amore si lodino gli huomini et quanto habbiano da
lodarsi di lui non mi ritrarrò di farvi chiaro. —
Volea
a Gismondo ciascuna delle donne rispondere el dire che egli dicesse, ma Lisa,
che più vicina gli era, con più tostana risposta fece l’altre
tacere così dicendo:
—
Deh sì, Gismondo, per Dio; et non che egli ci piaccia, ma noi te ne
preghiamo: anzi havea io per me già pensato di sollecitartene, se tu non
ti proferevi.
— Me
non bisogna egli che voi preghiate o sollecitiate, — rispose incontanente
Gismondo — perciò che delle mie rime, quali che elle si sieno, solo che
a voi giovi d’ascoltarle, a me di sporlevi egli sommamente gioverà. Et
oltre a cciò, se voi vi degnaste per aventura di lodarlemi, dove a
Perottino parve che fosse grave, io a molta gloria mi recherei et rimarre’vene
sopra il pregio ubrigato.
— Cotesto
farem noi volentieri, — rispose madonna Berenice — sì veramente che
farai anchora tu che noi così te possiamo lodare come potevam lui.
—
Dura conditione m’havete imposta, Madonna, — disse alhora Gismondo — et io
senza conditione vi parlava, troppo più vagho richieditore delle vostre
lode che buono stimatore delle mie forze divenuto. Ma certo, avengane che
può, io ne pure farò pruova.—
Et
questo detto, piacevolmente incominciò:
Né
le dolci aure estive,
Né ’l vago mormorar d’onda marina,
Né tra fiorite rive
Donna passar leggiadra et pellegrina,
F-r giamai medicina,
Che sanasse pensero infermo et grave,
Ch’io non gli haggia per nulla
Di quel piacer, che dentro mi trastulla
L’anima, di cui tene Amor la chiave:
Sì è dolce et soave.
Pendeano
dalla bocca di Gismondo le ascoltanti donne, credendo che più oltre
havesse ad andare la sua canzona, et egli tacendosi diede lor segno d’haverla
fornita. Là onde in questa maniera madonna Berenice a·llui
rincominciò:
—
Lieta et vaghetta canzona dicesti, Gismondo, senza fallo alcuno; ma vuoi tu
essere per così poca cosa lodato?.
Madonna mia, no — rispose egli. — Ben vorrei che mi
dicesse Perottino dove sono in questa quelli suoi cotanti dolori, che egli
disse che in ogni canzone si leggeano. Ma prima che egli mi risponda, oda
quest’altra anchora:
Non
si vedrà giamai stanca né satia
Questa mia penna, Amore,
Di renderti, signore,
Del tuo cotanto honore alcuna gratia.
A cui pensando, volentier si spatia
Per la memoria il core,
Et vede ’l tuo valore,
Ond’ei prende vigore et te ringratia.
Amor,
da te conosco quel ch’io sono:
Tu primo mi levasti
Da terra e ’n cielo alzasti,
Et al mio dir donasti un dolce suono;
Et tu colei, di ch’io sempre ragiono,
A gli occhi miei mostrasti,
Et dentro al cor mandasti
Pensier leggiadri et casti, altero dono.
Tu
sei, la tua mercé, cagion ch’io viva
In dolce foco ardendo,
Dal qual ogni ben prendo,
Di speme il cor pascendo honesta et viva;
Et se giamai verrà ch’i’ giunga a riva,
Là ’ve ’l mio volo stendo,
Quanto piacer n’attendo,
Più tosto no ’l comprendo, ch’io lo
scriva.
Vita
gioiosa et cara
Chi da te non l’impara, Amor, non have.
Assai
era alle intendenti donne piaciuta questa canzone et sopra essa, lodandola,
diverse cose parlavano. Ma Gismondo, a cui parea che l’hora fuggisse, sì
come quegli che havea assai lungamente a parlare, interrompendole, in questa
maniera i suoi ragionamenti riprese:
—
Amorose giovani, che le mie rime vi piacciano, se così è come voi
dite, a me piace egli sopra modo. Ma voi allhora le vostre lode mi darete,
quando io ad Amore harò date le sue. Perciò che honesta cosa non
è che voi prima me di così bella merce paghiate, che io il mio
sì poco lavorio vi fornisca. Hora venendo a Perottino, quanto egli
falsamente argomenti, che ne’ versi che d’Amor parlano niente altro si legga
che dolore, voi vedete. Né pure queste tra le mie rime, che uno sono tra
gli amanti, solamente si leggono lodanti et ringratianti il loro signore, ma
molte altre anchora, delle quali io, perciò che ad altre parti ho a
venire, né bisogna che lungo tempo in questa sola mi dimori ragionando,
secondo che elle mi verranno in bocca, alcuna ne racconterò, per le
quali voi meglio il folle errore di Perottino comprenderete. Et certo se egli
havesse detto che più sono stati di quegli amanti che d’Amor si sono ne’
loro scritti doluti, che quelli non sono stati che lodati di lui si sono, et
più ragionevole sarebbe stato il suo parlare, et io per poco gliele
harei conceduto; né perciò sarebbe questo buono argomento stato a
farci credere che amare senza amaro non si possa, perché non così
molti d’Amor si lodassero, quanti veggiamo che si lamentano di lui.
Perciò che, lasciamo stare che da natura più labili siamo
ciascuno a ramaricarci delle sciagure che a lodarci delle venture, ma diciamo
così, che quelli che felicemente amano, tanta dolvezza sentono de’ loro
amori, che di quella sola l’animo loro et ogni lor senso compiutamente pascendo
et di ciò interissima sodisfattione prendendo, non hanno di prosa,
né di verso, né di carte vane et sciocche mestiero. Ma
gl’infelici amanti, perciò che non hanno altro cibo di che si pascere
né altra via da sfogar le loro fiamme, corrono a gl’inchiostri et quivi
fanno quelli cotanti romori che si leggono, simili a questi di Perottino, che
egli così caldamente ci ha raccontati. Onde non altramente aviene nella
vita de gli amanti che si vegga nel corso de’ fiumi adivenire, i quali dove
sono più impediti et da più folta siepe o da sassi maggiori
attraversati, più altresì rompendo et più sonanti scendono
et più schiumosi; dove non hanno che gl’incontri et da niuna parte il
loro camino a sé vietato sentono, riposatamente le loro humide bellezze
menando seco, pura et cheta se ne vanno la lor via. Così gli amanti,
quanto più nel corso de’ loro disij hanno gl’intoppi et gl’impedimenti
maggiori, tanto più in essi rotando col pensiero et lunga schiuma de’
loro sdegni trahendo dietro, fanno altresì il suono de’ lor lamenti
maggiore; felici et fortunati et in ogni lato godenti de’ loro amori, né
da alcuna opposta difficultà nell’andare ad essi ritenuti, spatiosa et
tranquilla vita correndo, non usano di farsi sentire. La qual cosa se
così è, che è per certo, né potrà fare in
maniera Perottino del vero co’ suoi nequitosi argomenti che egli pure vero non
sia, potrassi dire che le molte ramaricationi degli amanti infelici sien quelle
che facciano che esser non ne possano anchora de’ felici? Et chi dubita che
egli non si possa? Che perché in alcuno famoso tempio dipinte si veggano
molte navi, quale con l’albero fiacco et rotto et con le vele raviluppate,
quale tra molti scogli sospinta o già sopravinta dall’onde arare per
perduta, et quale in alcuna piaggia sdruscita, testimonianza donar ciascuna de’
loro tristi et fortunosi casi, non si può per questo dire che altrettante
state non sien quelle che possono lieto et felice viaggio havere havuto,
quantunque elle, sì come di ciò non bisognevoli, alcuna memoria
delle loro prospere et seconde navigationi lasciata non habbiano.
Hora
si può accorgere Perottino come, senza volere io ripigliare alcuno
antico o moderno scrittore, i suoi frigoli argomenti ripigliati et rifiutati
per se stessi rimangono. Ma per non tenervi io in essi più lungamente
che huopo ci sia, hoggimai ne gli amorosi miracoli et nelle loro discordanze
passiamo, dove son quelli che vivono nel fuoco come salamandre, et quegli altri
che ritornano in vita morendo et muoiono similmente della lor vita. Alle quali
maraviglie sallo Idio che io non so che mi rispondere, che io di Perottino non
mi maravigli, il quale, o folle credenza di farloci a credere che lo
rassicurasse, o sfrenato disio di ramaricarsi che lo trasportasse, non
solamente non s’è ritenuto di così vane favole raccontarci per
vere, ma egli anchora con le sue canzoni medesime, quasi come se elle fossero
le foglie della Sibilla Cumea o le voci delle indovinatrici cortine di Phebo,
ce l’ha volute racconf[e]rmare. La qual cosa tuttavia questo hebbe di bene in
sé, che a noi le sue canzoni, per quello che io di voi m’accorsi et in
me conosco, non poco di piacere et di diletto porsero, ramorbidando
gl’inacerbiti nostri spiriti dall’asprezza de’ suoi ruvidi et fieri sermoni. Le
quali se tanto di verità havessero in sé considerandole, quanto
udendole esse hanno havuto di novità et di vaghezza, io incontro di
Perottino non parlerei. Hora che vi debbo io dire? Non sa egli per se stesso
ciascun di noi, senza che io parli, che queste sono spetialissime licenze, non
meno de gli amanti che de’ poeti, fingere le cose molte volte troppo da ogni
forma di verità lontane? dare occasioni alla lingua o pure alla penna
ben nuove, bene per adietro da niuno intese, bene tra se stesse discordanti et
alla natura medesima importabili ad essere sofferute giamai? Deh, Perottino,
Perottino, come se’ tu folle, se tu credi che noi ti crediamo che a gli amanti
sia conceduto il poter quello che la natura non può, quasi come se essi
non fossero nati huomini, come gli altri soggiacenti alle sue leggi. Dico
adunque che i tuoi miracoli altro già che menzogne non sono.
Perciò che niente hanno essi più di vero in sé, di quello
che de’ seminati denti dall’errante Cadmo o delle feraci formiche del vecchio
Eaco o dell’animoso arringo di Phetonte si ragioni o di mille altre favole
anchora di queste più nuove. Né pure incominci tu questa usanza
hora, ma tutti gli amanti, che hanno scritto o scrivono, così fecero et
fanno ciascuno, o lieti o infortunati che essi stati sieno o essere si truovino
de’ loro amori; se pure i lieti a scrivere delle loro gioie o pure a parlarne
si dispongono giamai, il che suole alcuna volta di quelli avenire, che tra gli
otij soavi delle Muse cresciuti, poi nelle dolci palestre di Venere
essercitandosi, non possono sovente non ricordarsi delle loro donne primiere. I
quali le più volte di quelli medesimi affetti favoleggiano che fanno i
dolorosi, non perciò che essi alcuno di que’ miracoli pruovino in
sé che i miseri et tristi dicono sovente di provare, ma fannolo per
porgere diversi suggetti a gl’inchiostri, acciò che con questi colori i
loro fingimenti variando, l’amorosa pintura riesca a gli occhi de’ riguardanti
più vaga. Perciò che del fuoco, col quale si fatica Perottino di
rinforzare la maraviglia de gli amorosi avenimenti, quali carte di qualunque
lieto amante che scriva non sono piene? né pur di fuoco solamente, ma di
ghiaccio insieme et di quelle cotante disagguaglianze, le quali più di
leggiero nelle carte s’accozzano che nel cuo re? Chi non sa dire che le sue
lagrime sono pioggia, et venti i suoi sospiri, et mille cotai scherzi et
giuochi d’amante non men festoso che doglioso? chi non sa fare incontanente
quella che egli ama saettatrice, fingendo che gli occhi suoi feriscano di
pungentissime saette? La qual cosa per aventura più acconciamente
finsero gli antichi huomini, che delle cacciatrici Nimphe favoleggiarono assai
spesso et delle loro boscareccie prede, pigliando per le vaghe Nimphe le vaghe
donne che con le punte de’ loro penetrevoli sguardi prendono gli animi di
qualunque huomo più fiero. Chi non suole hora sé hora la sua
donna a mille altre più nuove sembianze anchora, che queste non sono,
rassomigliare? Aperto et comune et ampissimo è il campo, o donne, per lo
quale vanno spatiando gli scrittori, et quelli massimame[n]te sopra tutti gli
altri che, amando et d’Amore trattando, si dispongono di coglier frutto de’
loro ingegni et di trarne loda per questa via. Perciò che oltra che egli
si fingono le impossibili cose, non solamente a ciascun di loro sta, qualunque
volta esso vuole, il pigliar materia del suo scrivere o lieta o dolorosa,
sì come più gli va per l’animo o meglio li mette o più
agevolmente si fa, et sopra essa le sue menzogne distendere et i suoi
pensamenti più strani, ma essi anchora uno medesimo suggetto si
recheranno a diversi fini, et uno il si dipignerà lieto, et l’altro se
lo adombrerà doloroso, sì come una stessa maniera di cibo, per
dolce o amara che di sua natura ella [si] sia, condire in modo si può,
che ella hora questo et hora quell’altro sapore haverà, secondo la
qualità delle cose che le si pongon sopra.
Perciò
che quantunque molti amanti, fingendo la lontananza del loro cuore, a lagrime
et a lamenti et a dolorosi martiri la si tirino, sì come potete havere
udito molte fiate, non è per questo che io altresì in una delle
mie fingendola, a maraviglioso giuoco et a dilettevole sollazzo non me l’habbia
recata. Et acciò che io a voto non ragioni. udite anchora de’ miei
miracoli alcuno:
Preso
al primo apparir del vostro raggio,
Il cor, che ’n fin quel dì nulla mi
tolse,
Da me partendo, a seguir voi si volse;
Et come quei che trova in suo viaggio
Disusato piacer, non si ritenne
Che fu ne gli occhi, onde la luce uscia,
Gridando: "A queste parti Amor m’invia’’.
Vedete
voi sì come fingono gli amanti che i loro cuori con piacere et con gioia
di loro pure partir da·lloro si possono? Ma questo non è ad essi cosa
molto anchora maravigliosa. Di più maraviglia è quello che segue:
Indi
tanta baldanza appo voi prese
L’ardito fuggitivo a poco a poco,
Ch’anchor per suo destin lasciò quel
loco
Dentro passando, et più oltra si stese,
Che ’n quello stato a lui non si convenne;
Fin che poi giunto ov’era il vostro core,
Seco s’assise et più non parve fore.
Già
potete vedere non solamente che i nostri cuori da noi si partono, ma che essi
sanno etiandio far viaggio. Udite tuttavia il rimanente:
Ma
quei, come ’l movesse un bel desire
Di non star con altrui del regno a parte,
O fosse ’l ciel che lo scorgesse in parte
Ov’altro signor mai non devea gire,
Là, onde mosse il mio, lieto sen’venne:
Così cangiaro albergo, et da quell’hora
Meco ’l cor vostro e ’l mio con voi dimora.
Non
sono questi miracoli sopra tutti gli altri? due cuori amanti, da i loro petti
partiti, dimorarsi ciascuno nell’altrui, et ciò loro, non pure senza
noia, ma anchora da celeste dono avenire? Ma che dico io questi? Egli vi se ne
potrebbono, da chiunque ciò far volesse, tanti recare innanzi giochevoli
et festevoli tutti, che non se ne verrebbe a capo agevolmente. Et perciò
questo poco haver detto volendo che mi basti, hoggimai i tuoi fieri et gravi
miracoli, Perottino, quanto facciano per te tu ti puoi avedere. I quali
però tuttavia se sono veri, perciò che tu et i simili a te,
tristi et miseri amanti, ne parliate o scriviate, veri debbono essere
similmente questi altri vaghi et cari, poi che di loro io et i simili a me,
lieti et felici amanti, parlandone o scrivendone ci trastulliamo: per che niuna
forza i tuoi ad Amor fanno che egli dolce non possa essere, più di
quello che facciano i miei che egli non possa essere amaro. Se sono favole,
elle a te si ritornino per favole, quali si partirono, et seco ne portino la
tua così ben dipinta imagine, anzi pure la imaginata dipintura del tuo
Idio; della quale se tu scherzando ragionato non ci havessi quello tanto che
detto ne hai, io da vero alcuna cosa ne parlerei, et harei che parlarne. Ma poi
che del tuo fallo tu medesimo ti riprendesti, dicendoci, per amenda di lui, che
nel vero non solamente Amore non è Idio, ma che egli pure non è
altro che quello che noi stessi vogliamo, se io hora nuova tenzona ne recassi
sopra, non sarebbe ciò altro che un ritessere a guisa dell’antica
Penelope la poco innanzi tessuta tela. —
Tacquesi,
dette queste parole, Gismondo, et raccogliendo prestamente nella memoria quello
che dire appresso questo dovea, prima che egli riparlasse, egli
incominciò a sorridere seco stesso; il che vedendo le donne, che
tuttavia attendevano che egli dicesse, divennero anchora d’udirlo più
vaghe. Et madonna Berenice, alleggiato di sé un giovane alloro, il quale
nello stremo della sua selvetta più vicino alla mormorevole fonte, quasi
più ardito che gli al[tr]i, in due tronchi schietti cresciuto, al bel
fianco di lei doppia colonna faceva, et sopra se medesima recatasi, disse:
—
Bene va, Gismondo, poi che tu sorridi, là dove io più pensava che
ti convenisse di star sospeso. Perciò che, se io non m’inganno,
sì sei tu hora a quella parte de’ sermoni di Perottino pervenuto, dove
egli, argomentando dell’animo, ci conchiuse che amare altrui senza passione
continua non si puote. Il qual nodo, come che egli si stia, io per me volentier
vorrei, et perdonimi Perottino, che tu sciogliere così potessi di
leggiero, come fu all’antica Penelope agevole lo stessere la poco innanzi
tessuta tela. Ma io temo che tu il possa; così mi parvero a forte subbio
quegli argomenti avolti et accomandati.
—
Altramente vi parranno già testé, Madonna — rispose Gismondo. —
Né perciò di quello che essi infino a qui paruti vi sono me ne
maraviglio io molto. Anzi hora, dovendo io di questi medesimi favellarvi,
sì come voi dirittamente giudicavate, a quel riso che voi vedeste mi
sospinse il pensare come sia venuto fatto a Perottino il poter così bene
la fronte di sì parevole menzogna dipignere ragionando, che ella habbia
troppo più, che di quello che ella è, di verità sembianza.
Perciò che se noi alle sue parole risguardiamo, egli ci parrà
presso che vero quello che egli vuole che vero ci paia che sia, in maniera n’ha
egli col suo sillogizzare il bianco in vermiglio ritornato. Perciò che
assai pare alla verità conforme il dire che, ogni volta che l’huom non
gode quello che egli ama, egli sente passione in sé; ma non può
l’huom godere compiutamente cosa che non sia tutta in lui: adunque l’amare
altrui non può in noi senza continua passione haver luogo. Il che, se
per aventura pure è vero, saggio fu per certo l’atheniese Timone, del
qual si legge che, schifando parimente tutti gli huomini, egli con niuno volea
havere amistà, niuno ne amava. Et saggi sarem noi altresì se,
questo malvagio affannatore de gli animi nostri da noi scaciando, gli amici, le
donne, i fratelli, i padri, i proprij figliuoli medesimi, sì come i
più stranieri, ugualmente rifiutando, la nostra vita senza amore, quasi
pelago senza onda, passeremo; solo che dove noi, a guisa di Narciso, amatori
divenir volessimo di noi stessi. Perciò che questo tanto credo io che
Perottino non ci vieti, poi che in noi noi medesimi siam sempre. La qual cosa
se voi farete et ciascuno altro per sé farà, da questi suoi
argomenti ammaestrato, certo sono che egli a brieve andare non solamente Amore
haverà alla vita de gli huomini tolto via, ma insieme con esso lui
anchora gli huomini stessi levatone alla lor vita Perciò che cessando
l’amare che ci si fa, cessano le consuetudini tra sé de’ mortali, le
quali cessando, necessaria cosa è che cessino et manchino eglino con
esso loro insiememente. Et se tu qui Perottino mi dicessi che io di così
fatto cessamento non tema, perciò che Amore ne gli huomini per alcun
nostro proponimento mancar non può, con ciò sia cosa che ad amar
l’amico, il padre, il fratello, la moglie, il figliuolo necessariamente la
natura medesima ci dispone, che bisognava dunq[u]e che tu d’Amore più
tosto ti ramaricassi che della natura? Lei ne dovevi incolpare, che non ci ha
fatta dolve quella cosa che necessaria ha voluto che ci sia; se tu pure
così amara la ti credi come tu la fai. Nella qual tua credenza dove a te
piaccia di rimanerti, senza fallo agiatissimamente vi ti puoi spatiare a tuo
modo, che compagno che vi cci venga per occuparlati, di vero, che io mi creda,
non haverai tu niuno. Perciò che chi è di così poco
diritto conoscimento, che creda, lasciamo stare uno che ami te, o amico o
congiunto che egli ti sia, ma pure che l’amare un valoroso huomo, una santa
donna, amar le paci, le leggi, i costumi lodevoli et le buone usanze d alcun
popolo et esso popolo medesimo, non dico di dolore o d’affanno, ma pure di
piacere et di diletto non ci sia? Et certo tutte queste cose sono fuor di noi.
Le quali, posto che io pure ti concedessi che affanno recassero a’ loro amanti,
perciò che elle non sieno in noi, vorresti tu però anchora che io
ti concedessi che l’amare il cielo et le cose belle che ci son sopra et Dio
stesso, perché egli non sia tutto in noi, con ciò sia cosa che,
essendo egli infinito, essere tutto in cosa finita non può, sì
come noi siamo, ci fosse doloroso? Certo questo non dirai tu giamai,
perciò che da cosa beata, sì come sono quelle di là su,
non può cosa misera provenire. Non è adunque vero, Perottino, che
l’amore che alle cose istrane portiamo, per questo che elle istrane sieno,
c’impassioni.
Ma che
diresti tu anchora se io, tutte queste ragioni donandoti amichevolmente, et
buono facendoti quello stesso che tu argomenti, che amare altrui non si possa
senza dolore, ti dicessi che questo amar le donne, che noi huomini facciamo, et
che le donne fanno noi, non è amare altrui, ma è una parte di
sé amare et, per dir meglio, l’altra metà di se stesso?
Perciò che non hai tu letto che primieramente gli huomini due faccie
haveano et quattro mani et quattro piedi et l’altre membra di due de’ nostri
corpi similmente? I quali poi, partiti per lo mezzo da Giove, a cui voleano
t"rre la signoria, furono fatti cotali, chenti hora sono. Ma perciò
che eglino volentieri alla loro interezza di prima sarebbono voluti ritornare,
come quelli che in due cotanti poteano in quella guisa et di più per lo
doppio si valevano che da poi non si sono valuti, secondo che essi si levavano
in piè, così ciascuno alla sua metà s’appigliava. Il che
poi tutti gli altri huomini hanno sempre fatto di tempo in tempo, et è
quello che noi hoggi Amore et amarci chiamiamo. Per che se alcuno ama la sua
donna, egli cerca la sua metà, et il somigliante fanno le donne, se elle
amano i loro signori. Se io così ti favellassi, che mi risponderesti tu,
o Perottino? Per aventura quello stesso che io pure hora d’intorno a’ tuoi
miracoli ragionando ti rispondea, ciò è che questi son giuochi de
gli huomini, dipinture et favole et loro semplici ritrovamenti più tosto
et pensamenti che altro. Non sono queste dipinture de gli huomini, né
semplici ritrovamenti, Perottino. La natura stessa parla et ragiona questo
cotanto che io t’ho detto, non alcuno huomo. Noi non siamo interi né il
tutto di noi medesimi è con noi, se soli maschi o sole femine ci siamo.
Perciò che non è quello il tutto, che senza altrettanto star non
può, ma è il mezzo solamente et nulla più, sì come
voi, donne, senza noi huomini et noi senza voi non possiamo. La qual cosa
quanto sia vera già di quinci veder si può, che il nostro essere
o da voi o da noi solamente et separatamente non può haver luogo. Oltre
che etiandio quando bene separatamente ci nascessimo, certo, nati, non potremmo
noi vivere separatamente. Perciò che se ben si considera, questa vita,
che noi viviamo, di fatiche innumerabili è piena, alle quali tutte
portare né l’un sesso né l’altro assai sarebbe per sé
bastante, ma sotto esso mancherebbe; non altram[e]nte che facciano là
oltre l’Alessandria tale volta i cameli, di lontani paesi le nostre mercatantie
portanti per le stanchevoli arene, quando aviene per alcun caso che sopra lo
scrigno dell’uno le some di due pongono i loro padroni, che, non potendo essi
durare, cadono et rimangono a mezzo camino. Perciò che come potrebbono
gli huomini arare, edificare, navicare, se ad essi convenisse anchora quegli
altri essercitij fare che voi fate? O come potremmo noi dare ad un tempo le
leggi a’ popoli et le poppe a figliuoli et tra i loro vagimenti le quistioni
delle genti ascoltare? o drento a’ termini delle nostre case, nelle piume et ne
gli agi riposando, menare a tempo le gravose pregnezze et a cielo scoperto
incontro a gli assalitori, per difesa di noi et delle nostre cose, col ferro in
mano et di ferro cinti discorrendo guerreggiare? Che se noi huomini non
possiamo et i vostri uffici et i nostri abbracciare, molto meno si dee dir di
voi, che di minori forze sete generalmente che noi non siamo. Questo vide la
natura, o donne, questo ella da principio conoscea et, potendoci più
agevolmente d’una maniera sola formare come gli alberi, quasi una noce partendo
ci divise in due, et quivi nell’una metà il nostro et nell’altra il
vostro sesso fingendone, ci mandò nel mondo in quella guisa, habili
all’une fatiche et all’altre, a voi quella parte assegnando, che più
è alle vostre deboli spalle confacevole, et a noi quell’altra
sopraponendo, che dalle nostre più forti meglio può essere che
dalle vostre portata; tuttavia con sì fatta legge accomandandoleci et la
dura necessità in maniera mescolando per amendue loro, che et a voi
della nostra et a noi della vostra tornando huopo, l’uno non può fare
senza l’altro; quasi due compagni che vadano a caccia, de’ quali l’uno il
paniere et l’altro il nappo rechi, che quantunque essi caminando due cose
portino, l’una dall’altra separate, non perciò poi, quando tempo
è da ricoverarsi, fanno essi anchora così, pure con la sua
separatamente ciascuno, anzi sotto ad alcuna ombra riposatisi, amendue si
pascono vicendevolmente et di quello del compagno et del suo. Così gli
huomini et le donne, destinati a due diverse bisogne portare, entrano in questa
faticosa caccia del vivere, et per loro natura tali, che a ciascun sesso di
ciascuna delle bisogne fa mestiero, et sì poco poderosi che, oltre alla
sua metà del carico, nessun solo può essere bastante; sì
come le antiche donne di Lenno et le guerreggevoli Amazone con loro grave danno
sentirono, che ne fer pruova, le quali mentre vollero et donne essere et
huomini ad un tempo, per quanto le loro balìe si stenderono, et l’altrui
sesso a·ffine recarono et il loro.
Per
che se a stato alcuno venire né in istato mantenersi, né gli
huomini né le donne non possono gli uni senza gli altri, né ha in
sé ciascun sesso più che la metà di quello che bisogno fa
loro o al poter vivere o al poter venire alla vita, poi che non è il
tutto quello, sì come io dissi, che senza altrettanto star non
può, ma è il mezzo solamente, non so io vedere, o donne, come noi
più che mezzi ci siamo et voi altresì, et come voi la nostra
metà, sì come noi la vostra, non vi siate, et infine come la
femina et il maschio sieno altro che uno intero. Et certo non pare egli a voi,
così semplicemente risguardando et estimando, che i vostri mariti l’una
parte di voi medesime portino sempre con esso loro? Deh non vi pare egli
tuttavia che da’ vostri cuori si diparta non so che et finisca ne gli loro, che
sempre, dovunque essi vadano, quasi catena gli vi congiunga con inseparabile
compagnia? Così è senza fallo alcuno: essi sono la vostra
metà et voi la loro, sì come io quella della mia donna et essa la
mia. La quale se io amo, che amo per certo et sempre amerò, ma se io amo
lei et se ella me ama, non è tuttavia che alcun di noi ami altrui, ma se
stesso; et così aviene de gli altri amanti, et sempre averrà. Ora
per non far più lunga questa tenzona, se gli amanti amando tra loro
amano se stessi, essi deano poter fruire quello che essi amano senza dubbio
alcuno, se quello è vero che tu argomentavi, che fruire non si possa
solamente dell’altrui. Et se essi possono fruir quello che essi amano, poi che
il non poter fruire è solo quello che c’impassiona, non veggo io che ne
segua quella conchiusione che tu ne trahevi, che Amore tenga l’animo de gli
huomini sollecito et, come ci dicesti, perturbato. Cotale è il nodo,
madonna Berenice, che voi poco avanti come io sciogliere potessi dubitavate;
cotale è la tela di Perottino a quel forte subbio, che voi diceste,
accomandata; la qual nel vero a me pare che più tosto una di quelle
d’Aragne, che a quella di Penelope stata conforme dire si possa che sia. Ma non
per tutto ciò si pente, o donne, né si ritiene in parte alcuna,
raffrenando la trascorrevole follia de’ suoi ragionamenti, Perottino; anzi pure
per questo medesimo campo dell’animo più alla scapestrata, quasi morbido
giumento fuggendosi, con la lena delle parole vie più lunghi et
più stolti discorrimenti ne fa, il suo male medesimo dilettandolo. Ma
sì come suole alcuna volta del viandante avenire, il quale alla scielta
di due strade pervenuto, mentre e’ si crede la sua pigliare, per quella che ad
altre contrade il porta mettendosi, quanto egli più al destinato luogo
s’affretta d’appressarsi, tanto più da esso caminando s’allontana,
così Perottino a dir d’Amore per le passioni dell’animo già
entrato, mentre egli si studia forse avisando di giugnere al vero, quanto
più s’affanna di ragionarne, tanto egli più, per lo non diritto
sentiero avacciandosi, si diparte et si discosta da·llui. La qual cosa,
quantunque con semplici parole così essere vi potesse da ciascuno assai
apertamente venir dimostrata, nondimeno sì perché alle segnate
historie di Perottino non pare disdicevole che io un poco più partitamente
ne ragioni, et sì anchora perché il così fattamente
favellarne alla materia è richiesto, dove con vostro piacer sia,
alquanto più ordinatamente parlando, chente sia il suo errore
m’accosterò di farvi chiaro. —
A
questo rispostogli dalle belle donne che tanto di loro piacere era, quanto era
di suo, et che dove a·llui non increscesse il favellare, comunque egli il
facesse, a loro l’ascoltarlo non increscerebbe giamai, esso cortesemente
ringratiatenele, et già atteso da ciascuna, poi che egli hebbe il
braccio sinistro alquanto inverso le attendenti donne sporto in fuori,
pregandole che attentamente l’ascoltassero, perciò che, dove poche delle
parole che egli a dire havea si perdesse, niente gioverebbe l’haver parlato,
del pugno che chiuso era due dita forcutamente levando inverso il cielo,
così incominciò et disse:
— In
due parti, o donne, dividono l’animo nostro gli antichi philosophi: nell’una
pongono la ragione, la quale con temperato passo muovendosi lo scorge per calle
spedito et sicuro; dall’altra fanno le perturbationi, con le quali esso
travalicando discorre per dirottissimi et dubbiosissimi sentieri. Et
perciò che ogni huomo, quello che bene pare ad esso che sia, et di tener
disidera et, tenuto, si rallegra di possedere, et similmente niuno è che
il pendente male non solleciti, et pochi sono coloro che il sopracaduto non
gravi, quattro fanno gli affetti dell’animo altresì: Disiderio,
Allegrezza, Sollecitudine et Dolore; de’ quali, due dal bene, o presente o
futuro, et due medesimamente dal male, o avenuto o possibile ad avenire, hanno
origine et nascimento. Ma perciò che et il disiderar delle cose, dove
con sano consiglio si faccia è sano, dove da torto appetito proceda e
dannoso; et il rallegrarsi non è biasimato in alcuno, se non in quanto
egli ha i termini del convenevole trapassati; et lo schifar de’ mali che avenir
possono, secondo che noi o bene o male temiamo, così egli et di lodevole
piglia qualità et di vituperoso, quinci aviene che questi tre affetti in
buoni et in non buoni dividendo, a quella parte dell’animo, che con la ragione
s’invia, danno l’honesto disiderio, l’honesta allegrezza, l’honesto temere;
all’altra gli stremi loro, che sono il soverchio disiderare, il soverchio
rallegrarsi, la soverchia paura. Il quarto, che è de mali presenti la
maninconia, non dividono come gli altri; ma perciò che dicono d alcuna
cosa, che avenga nella vita, il prudente et costante huomo né affligersi
né attristarsi giamai, et soverchio et vano sempre essere ogni dolore
delle avenute cose, questo solo affetto intero pongono nelle perturbationi.
Così aviene che tre sono le sagge et regolate maniere de gli affetti
dell’animo, et quattro le stolte et intemperate. Oltre a·cciò,
perciò che certissima cosa è che male alcuno la natura far non
può, et che solamente buone sono le cose da·llei procedenti, le tre
maniere, sì come quelle che buone sono, affermano ne gli huomini essere
naturali altresì, le quattro dicono in noi fuori del corso della natura
haver luogo; quelle ragionevoli affetti secondo natura, queste contro natura
disordi nate perturbationi chiamando et nominando. Sono adunque due, sì
come di sopra s’è detto, le strade dell’animo, o donne: l’una della
ragione, per la quale ogni naturale movimento s’incamina; l’altra delle perturbationi,
per cui hanno i non naturali a’ loro traboccamenti la via. Hora non credo io
che voi crediate che alcun non naturale movimento possa con la ragione
dimorare, perciò che, dimorando con esso lei, bisognerebbe che egli
fosse naturale; ma naturale come può esser cosa che naturale non sia?
Né è da dire altresì che affetto alcuno naturale si
mescoli nelle perturbationi, con ciò sia cosa che mescolandosi tra loro
gli bisognerebbe essere non naturale; ma naturale et non naturale per certo
niuna cosa essere puote giamai. Divise adunque le passioni dell’animo et
trattate nella maniera che udito havete, recatevi questo sovente per la
memoria, che affetto naturale alcuno non può ne gli animi nostri con le
perturbationi haver luogo. Hora ritorniamo a Perottino, il quale pose Amore
nelle perturbationi, et ragioniamo così: che se Amore è cosa che
contro natura venga in noi, non può altrove essere il cativello che dove
l’ha posto Perottino; ma se egli pure è affetto a gli animi nostri
donato dalla natura, sì come cosa a cui buona conviene essere
altresì, con la natura caminando, non potrà in maniera alcuna
nelle perturbationi ree et ne gli affetti dell’animo sinistri et orgogliosi
trapassare. Hora che vi voglio io, avedute giovani, o pure che vi debbo io più
oltre dire? Bisogna egli che io vi dimostri che naturale è l’amore in
noi? Questo si fe’ pur dianzi, quando noi dell’amore che a’ padri, a’
figliuoli, a’ congiunti, a gli amici si porta ragionavamo. Senza che io mi
credo che non pur voi, che donne siete, anzi anchora questi allori medesimi,
che ci ascoltanon se essi parlar potessero, ne darebbono testimonianza. —
Di
poco havea così detto Gismondo, quando Lavinello, il quale lungamente
s’era taciuto, con queste parole gli si fe’ incontro:
—
Cattivi testimoni haresti trovati, Gismondo, se questi allori parlassero, a
quello che tu intendi di provarci. Perciò che se essi ritratto fanno al
primo loro pedale, sì come è natura delle piante, essi non
amarono giamai. Perciò che non amò altresì quella donna
che primieramente diè al tronco forma, del quale questi tutti sono
rampolli, se quello vero è che se ne scrive.
—
Male stimi, Lavinello, et male congiugni le cose da natura separate — rispose
incontanente Gismondo. — Perciò che questi allori bene fanno ritratto al
primo loro pedale, sì come tu di’, ma non alla donna, la quale se stessa
laseiò, quando ella primieramente la bueeia di lui prese.
Questi,
come ancho quello feee, amano et sono amati altresì, essi la terra et la
terra loro, et di tale amor pregni partoriscono al lor tempo hora talli, hora
orbache, hora frondi, secondo che esso, da cui tutti nacquero partoriva,
né mai ha fine il loro amore, se non insieme con la lor vita. Il che
volesse Idio che fosse ne gli huomini, che Perottino non harebbe forse hora
cagion di piagnere così amaramente, come egli fa vie più spesso
che io non vorrei. Ma la donna non amò già essendo amata,
sì come tu ragioni; la qual cosa perciò che fu contro natura,
forse meritò ella di divenir tronco, come si scrive. Et certo che altro
è, lasciando le membra humane, albero et legno farsi, che, gli affetti
naturali abandonando molli et dolcissimi, prendere i non naturali, che sono
così asperi et così duri? che se questi allori parlassero et le
nostre parole havessero intese, a me giova di credere che noi hora udiremmo che
essi non vorrebbono tornare huomini, poi che noi contro la natura medesima
operiamo, la qual cosa non aviene in loro; non che essi buoni testimoni non
fossero, Lavinello, a quello che io ti ragiono.
È
adunque, né bisogna che io ne quistioni, o donne, naturale affetto de
gli animi nostri Amore, et per questo di necessità et buono et
ragionevole et temperato. Onde quante volte aviene che l’affetto de’ nostri
animi non è temperato, tante volte non solamente ragionevole né
buono è più, ma egli di necessità anchora non è
Amore. Udite voi ciò che io dico? Vedete voi a che parte la pura et
semplice verità m’ha portato? "Che dunque è,"
potrestemi voi dire "se egli non è Amore? ha egli nome
alcuno?". Sì bene che egli n’ha, et molti, et per aventura quelli
stessi che Perottino quasi nel principio de’ suoi sermoni gli diè, pure
di questo medesimo ragionando quello, che egli d’Amor si credea favellare:
fuoco, furore, miseria, infelicità et, oltre a questi, se io porre ne
gli posso uno, egli si può più acconciamente che altro chiamare
ogni male, perciò che in Amore, sì come poco appresso vi fie
manifesto, ogni bene si rinchiude. Che vi posso io dire più avanti?
Né v’ingannino queste semplici voci, o donne, che senza fatica escono di
bocca altrui, d’amore, d’amante, d’innamorato, che voi crediate che
incontanente Amor sia tutto quello che è detto Amore, et tutti sieno
amanti quelli che per amanti sono tenuti et per innamorati. Questi nomi piglia
ciascuno per lo più co’ primi disij, i quali esser possono non meno
temperati che altramente et, così presi, comunque poi vada l’opera, esso
pure se gli ritiene, aiutato dalla sciocca et bamba oppenione de gli huomini
che, senza discretion fare alcuna con diverse appellationi alle diverse
operation loro, così chiamano amanti quelli che male hanno disposti gli
affetti dell’animo loro nelle disiderate cose et cercate, come quelli che gli
han bene. Ahi come agevolmente s’ingannano le anime cattivelle de gli huomini,
et quanto è leggiera et folle la falsa et misera credenza de’ mortali.
Perottino, tu non ami; non è amore, Perottino, il tuo; ombra sei
d’amante, più tosto che amante, Perottino. Perciò che se tu
amassi, temperato sarebbe il tuo amore, et essendo egli temperato, né di
cosa che avenuta ne sia ti dorresti, né quello che per te havere non si
può disidereresti tu o cercheresti giamai. Perciò che, oltre che
soverchio et vano è sempre il dolore per sé, stoltissima cosa
è et fuori d’ogni misura stemperata, quello che havere non si possa, pur
come se egli haver si potesse, andare tuttavia disiderando et cercando. La qual
follia volendo significarci i poeti, fecero i Giganti che s’argomentassero di
pigliare il cielo, guerreggianti con gl’Idij, a cui essi non erano bastanti.
Che se la fortuna t’ha della tua cara donna spogliato, dove tu amante di lei
voglia essere, poscia che altro fare non se ne può, non la disiderare,
et quello che perduto vedi essere, tieni altresì per perduto. Amala
semplice et puramente, sì come amare si possono molte cose, come che
d’haverle niuna speranza ne sia. Ama le sue bellezze, delle quali tanto ti
maravigliasti già et lodastile volentieri; et dove il vederle con gli
occhi ti sia tolto, contentati di rimirarle col pensiero, il che niuno ti
può vietare. Et in fine ama di lei quello che hoggi poco s’ama nel
mondo, mercé del vitio che ogni buon costume ha discacciato,
l’honestà dico, sommo et spetialissimo thesoro di ciascuna savia, la
qual sempre ci dee esser cara, et tanto più anchora maggiormente, quanto
più care ci sono le donne amate da noi; sì come io m’ingegnai di
fare già, che ella fosse a me cara nella persona della mia donna, non
men di quello che la sua bellezza m’era gratiosa, quantunque ne’ primi miei
disij, sì come veggiamo tutto dì a’ cavalli non usati essere la
sella et il freno, ella dura et gravetta mi fosse alquanto nell’animo a
sopportare. Di che io allhora ne feci in testimonio questa canzone; la quale
tanto più volentieri vi sporrò, gratiose giovani, auanto a voi,
che non meno honeste sete che belle, ella più che alcuna dell’altre
già dette s’acconviene.
Sì
rubella d’Amor, né sì fugace
Non presse herba col piede,
Né mosse fronda mai Nimpha con mano,
Né trezza di fin oro aperse al vento,
Né ’n drappo schietto care membra
accolse
Donna sì vaga et bella, come questa
Dolve nemica mia.
Quel
che nel mondo, et più ch’altro mi spiace,
Rade volte si vede,
Fanno in costei, pur sovra ’l corso humano,
Bellezza et castità dolce concento.
L’una mi prese il cor come Amor volse,
L’altra l’impiaga, sì leggiera et
presta,
Ch’ei la sua doglia oblia.
Sola
in disparte, ov’ogni oltraggio ha pace,
Rosa o giglio non siede,
Che l’alma non gli assembri a mano a mano,
Avezza nel desio ch’i’ serro drento,
Quel vago fior, cui par huom mai non colse
Così l’appaga et parte la molesta
Secura leggiadria.
Caro
armellin, ch’innocente si giace,
Vedendo, al cor mi riede
Quella del suo penser gentile et strano
Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:
Sì novamente me da me disciolse
La vera maga mia che, di rubesta,
Cangia ogni voglia in pia.
Bel
fiume, alhor ch’ogni ghiaccio si sface,
Tanta falda non diede,
Quanta spande dal ciglio altero et piano
Dolcezza, che pò far altrui contento;
Et sé dal dritto corso unqua non tolse.
Né mai s’inlaga mar senza tempesta,
Che sì tranquillo sia.
Come
si spegne poco accesa face,
Se gran vento la fiede,
Similemente ogni piacer men sano
Vaghezza in lei sol d’honestate ha spento.
O fortunato il velo, in cui s’avolse
L’anima saga et lei, ch’ogni altra vesta
Men le si convenia.
Questa
vita per altro a me non piace,
Che per lei, sua mercede,
Per cui sola dal vulgo m’allontano;
Ch’avezza l’alma a gir là ’v’io la
sento,
Sì ch’ella altrove mai orma non volse;
Et più s’invaga, quanto men s’arresta
Per la solinga via.
Dolce
destin, che così gir la face,
Dolci del mio cor prede,
Ch’altrui sì presso, a me ’l fan
sì lontano:
Asprezza dolce et mio dolve tormento,
Dolve miracol, che veder non suolse,
Dolve ogni piaga, che per voi mi resta
Beata compagnia.
Quanto
Amor vaga, par beltate honesta
Né fu giamai, né fia.
Hora,
perciò che da ritornare è là, onde ci dipartimmo, quinci
comprender potete, donne, et quale sia l’errore di Perottino et dove egli l’ha
preso. Perciò che dovendo egli mettersi per quella via dell’animo che ad
Amor lo scorgesse nel favellare, egli, entrando per l’altro sentiero, alla
contraria regione è pervenuto, per lo quale caminando, in quelle tante
noie si venne incontrato, in quelle pene, in que’ giorni tristi, in quelle
notti così dolorose, in quelli scorni, in quelle gelosie, in coloro che
uccidono altrui et talhora per aventura se stessi, in que’ Metij, in que’
Titij, in que’ Tantali, in quelli Isioni, tra’ quali ultimamente, quasi come se
egli nell’acqua chiara guatato havesse, egli vide se stesso: ma non si
riconobbe bene, ché altramente si sarebbe doluto et vie più vere
lagrime harebbe mandate per gli occhi fuora che egli non fece. Perciò
che credendo sé essere amante et innamorato, mentre egli pure nella sua forma
s’incontra imaginando, egli è un solitario cervo divenuto, che poi, a
guisa d’Atteone, i suoi pensieri medesimi, quasi suoi veltri, vanno
sciaguratamente lacerando; i quali egli più tosto cerca di pascere che
di fuggire, vago di terminare innanzi tempo la sua vita, poco mostrando di
conoscer quanto sia meglio il vivere, comunque altri viva, che il morire, quasi
come se esso hoggimai satio del mondo niuno altro frutto aspettasse più
di cogliere per lo innanzi de gli anni suoi, i quali non hanno appena
incominciato a mandar fuora i lor fiori. Che quantunque così smaghino la
costui giovanezza, donne, et così guastino le lagrime, come voi vedete,
non perciò venne egli prima di me nel mondo, il quale pure oltre a tanti
anni non ho varcati, quanti sarebbero i giorni del minor mese, se egli di due
anchora fosse minore che egli non è. Et cotestui, come se egli al
centinaio s’appressasse, a guisa de gl’infermi perduti, chiama sovente chi di
queste contrade levandolo in altri paesi ne ’l rechi, forse avisandosi, per
mutare aria, di risanare. O sciagurato Perottino, et veramente sciagurato poi
che tu stesso ti vai la tua disaventura procacciando et, non contento della
tua, cerchi di teco far miseri insiememente tutti gli huomini. Perciò
che tutti gli uomini amano, et necessariamente ciascuno. Che se gli amanti
sempre accompagnano quegli appetiti così trabocchevoli quelle allegrezze
così dolorose, quelle così triste forme di paura, quelle cotante
angoscie che tu di’, senza fallo non solamente tutti gli huomini fai miseri, ma
la miseria medesima costrigni ad essere per se stesso cia scun huomo. Taccio le
pene di quelle maraviglie così fiere del tuo Idio che tu ci raccontasti,
le quali non che a ffar la vita de gli huomini bastassero trista et cattiva,
ma, di meno assai, gl’inferni tutti n’haverebbono et tutti gli abissi di
soverchio. O istolto, quanto sarebbe meglio por fine hoggimai alla non
profittevole maninconia, che ogni giorno andare meno giovevole ramarichio
rincominciando; et alla tua salvezza dar riparo, mentre ella sostiene di
riceverlo, che ostinatamente alla tua perdezza trovar via; et pensare che la
natura non ti diè al mondo, perché tu stesso ti venissi cagion di
tortene, che, tra queste lamentanze favolose vaneggiando et quasi al vento
cozzando, dal vero sentimento et dalla tua salute medesima farti lontano.
Ma
lasciamo hoggimai da canto con le sue menzogne Perottino, il quale hieri dal
molto dolor sospinto et molto d’Amor lamentandosi, alquanto più lunga m
ha hoggi fatta tenere questa parte della risposta, che io voluto non harei.
Né siamo noi così stolti, donne, che crediamo il dolore altro che
da Amore non essere, che pure parte alcuna non ha con lui, o che pensiamo che
amare non si possa senza amaro, il qual sapore per niente ne gli amorosi
condimenti non può haver luogo. Et poscia che l’arme di Perottino, le
quali egli contro ad Amore con sì fellone animo impalmate s’havea,
nell’altrui scudo, sì come quelle che di piombo erano, si sono
rintuzzate agevolmente, veggiamo hora quali sono quelle che Amore porge a
chiunque si mette in campo per lui; come che Perottino si credesse hieri che a
me non rimanesse che pigliare. Quantunque io né tutte le mi creda poter
prendere, ché di troppo mi terrei da più che io non sono,
né, se io pure il potessi, mi basterebbe egli il dì tutto intero
a·eeiò fare, non ehe questo poeo d’hora meriggiana ehe m’è data.
Tuttavia dove egli non fosse, dilettose giovani, ehe voi voleste ehe io
aleun’altra eosa anehora ne sopraragionassi alle raecontate.
— Di
nulla vogliam ritenerti, — rispose madonna Berenice, prima del volere delle
compagne raccertatasi — né crediamo che faccia luogo altresì. Et
a noi si fa tardi che quello, ehe tu ineomineiando il ragionare ei promettesti,
si fornisea. Ma tu per aventura non t’affrettare. Perciò che, come che a
te paia d’havere già assai lungamente favellato, se al sole guarderai,
il tempo che t’avanza è molto infino alle fresche hore. Né te ne
dei maravigliare, perciò che più per tempo ci venimmo hoggi qui,
che noi non femmo hieri. Senza che, quando bene più alquanto ci dimorassimo,
sì il poteremmo noi fare, perciò che il festeggiare non
incominciò a pezza hieri, a quello che noi credavamo, quando di qui ci
levammo con voi. Per che sicuramente, Gismondo, a tuo grandissimo agio potrai
anchora di ciò, che più di dire t’aggraderà, lungamente
ragionare. —
Il
giovane, al quale erano le parole della donna piaciute, sì come quegli
che tuttavia incominciava mezzo seco stesso venir temendo non dalla strettezza
del tempo fosse a’ suoi ragionamenti poca ampiezza conceduta, veduto per l’ombre
che gli allori facevano che così era come ella diceva, et sperando di
quivi più lunga dimora poter fare, che fatto il giorno passato non
haveano, contento già era per seguitare. Et ecco dal monte venir due
colombe volando, bianchissime più che neve, le quali, di fitto sopra i
capi della lieta brigata il lor volo rattenendo, senza punto spaven t tarsi si
posero l’una appresso l’altra in su l’orlo della bella fontana, dove per
alquanto spatio dimorate, mormorando et basciandosi amorosamente stettero, non
senza festa delle donne et de’ giovani, che tutti cheti le miravano con
maraviglia. Et poi chinato i becchi nell’acqua cominciarono a bere, et di
questo a bagnarsi sì dimesticamente in presenza d’ogniuno, ehe alle
donne pareano pure la più dolce cosa del mondo et la più vezzosa.
Et mentre che elle così si bagnavano, fuori d’ogni temenza sicure, una
rapace aquila di non so onde scesa giù a piombo, prima quasi che alcuno
aveduto se ne fosse, preso l’una con gli artigli, ne la portò via.
L’altra per la paura schiamazzatasi nella fonte et quasi dentro perdutane, pure
alla fine rihavutasi et malagevolmente uscita fuori sbigottita et debole et
tutta del guazzo grave, sopra i visi della riguardante compagnia il meglio che
poteva battendo l’ali, tutti spruzzandogli, lentamente s’andò con Dio.
Havea traffitte le compassionevoli donne la subita presura della colomba, et fu
il romore tra lor grande di così fatto accidente, né poteano
rifinare di maravigliarsi come quella innocente uccella fosse di mezzo tutti
loro così sciaguratamente stata rapita, la maladetta aquila mille volte
et più per ciascuna bestemmiandosi, non senza ramarico de’ giovani
altresì; et tra lor tutti mescolatamente chi della sciagura dell’una et
chi dello spavento dell’altra et chi della vaghezza d’amendue et della loro
dimestichezza ragionava, et hebbevi di quelli che più altamente
estimando vollono credere che ciò che veduto haveano a caso non fosse
avenuto; quando Gismondo, poscia che vide le donne rachetate,
incominciò:
— Se
la nostra colomba fosse hora dalla sua rapitrice in quella guisa portata, nella
quale fu già il vago Ganimede dalla sua, essere potrebbe men discaro
alla sua compagna d’haverla perduta, et noi a ttorto haremmo la fiera aquila
biasimata, di cui cotanto ramaricati ci siamo. Ora, perciò che il
dolerci più oltra in quelle cose che per noi amendar non si possono
è opera senza fallo perduta, queste nostre doglianze con quelle di
Perottino dimenticando, nella bontà d’Amore, per venire hoggimai alle
promesse che io vi feci, entriamo. —
Allhora
Lisa, prima che egli andasse più avanti, tutta pienà di dolce
vezzo, più per tentarlo che per altro:
— A
mal tempo — disse — lasci tu, Gismondo, i tuoi ragionamenti primieri, dopo il
caso, che ci ha hora tutti tenuti sospesi, lasciandonegli. Perciò che se
dolore è questo che noi sentiamo, d’havere in piè alla sua nimica
la nostra misera bestiuola veduta, et amore quell’altro, che della sua vaghezza
n’havea presi, assai pare che ne segua chiaro che insieme et amare et dolere ci
possiamo; et potrassi qui contra te dir quello che si dice tutto dì, che
di gran lunga il più delle volte sono dal fatto le parole lontane. —
Quivi
Gismondo verso le donne sorridendo disse:
—
Vedete argomento di costei. Ma non sei però tu per levarmi la
verità di mano, Lisa, così agevolmente come la nostra semplice
colomba l’aquila di testé fece, ché io ne la difenderò.
Tuttavolta tu mi ritorni in quelle siepi, delle quali n’eravamo usciti pur
dianzi, quando io ti conchiusi che del perdere delle cose che noi amiamo, non è
Amore, che di loro vaghi ci fa, ma la fortuna, che ce ne spoglia, cagione. Per
che et amare et dolere, come tu di’, bene ci possiamo, ma dolerci per cagion
d’Amore non possiamo. Oltra che l’amore, che tra le passioni dell’animo si
mescola, non e amore, come che egli sia detto amore et per amore tenuto dalle
più genti. Per che non sono io per disposto di più oltra
distendermi da capo nelle già dette ragioni d’intorno a questo fatto o
in simili, di quello che allhora mi stesi, come che io molte ve n’havessi
dell’altre. Elle assai essere ti possono bastanti, dove tu per aventura in su
l’ostinarti non ti mettessi; il che suole essere alle volte diffetto nelle
belle donne, non altramente che soglia essere ne’ be’ cavalli il restio.
— Se
solamente ne’ be’ cavalli — rispose Lisa tutta nel viso divenuta vermiglia —
cadesse, Gismondo, il restio, io che bella non sono — et era tuttavia bella
come un bel fiore — mi crederei dover potere hora parlare a mio senno, senza
che tu per ostinata m’havessi. Ma perciò che an chora ne’ mal fatti
cotesto vitio, et più spesso per aventura che ne gli altri, suole
capere, sicuramente tu hai trovata la via da farmi hoggi star cheta; ma io te
ne pagherò anchora. —
Poscia
che tra di queste parole et d’altre et del rossor di Lisa si fu alquanto riso
fra la lieta compagnia, Gismondo, tutti gli altri ragionamenti che sviare il
potessero troncati, dirittamente a’ suoi ne venne in questa maniera:
— La
bontà d’Amore, o donne, della quale io hora ho a ragionarvi, è
senza fallo infinita, né, perché se ne quistioni, si dimostra
ella a gli ascoltanti tutta giamai. Nondimeno quello che scorgere favellando se
ne può, così più agevolmente si potrà comprendere,
se noi quanto ella giovi et quanto ella diletti ragioneremo; con ciò sia
cosa che tanto ogni fonte è maggiore, quanto maggiori sono i fiumi che
ne dirivano. Dico adunque, dal giovamento incominciando, che senza fallo tanto
ogni cosa è più giovevole, quanto ella di più beni
è causa et di più maggiori. Ma perciò che non di molti et
grandissimi solamente ma di tutti i beni anchora, quanti unque se ne fanno
sotto ’l cielo, è causa et origine Amore, si dee credere che egli
giovevole sia sopra tutte le altre cose giovevoli del mondo. Io stimo che a voi
sembri, giudiciose mie donne, che io troppo ampiamente incominci a dir d’Amore
et facciagli troppo gran capo, quasi come se porre sopra le spalle d’un mezzano
huomo la testa d’Atalante volessi. Ma io nel vero parlo quanto si dee, et
niente per aventura più. Perciò che ponete mente d’ogni’intorno, belle
giovani, et mirate quanto capevole è il mondo, quante maniere di viventi
cose et quanto diverse sono in lui. Niuna ce ne nasce tra tante, la quale
d’Amor non habbia, sì come da primo et santissimo padre, suo principio
et nascimento. Perciò che se Amore due separati corpi non congiugnesse,
atti a generar lor simili, non ci se ne generarebbe né ce ne nascerebbe
mai alcuna. Che quantunque per viva forza comporre insieme si potessero et
collegar due viventi, potenti alla generatione, pure se Amore non vi si mescola
et gli animi d’amendue a uno stesso volere non dispone, eglino potrebbono
così starsi mill’anni, che essi non generarebbono giamai. Sono per le
mobili acque nel loro tempo i pesci maschi seguitati dalle bramose femine, et
essi loro si concedono parimente, et così danno modo, medesimamente
volendo, alla propagatione della spetie loro. Seguonsi per l’ampio aere i vaghi
uccelli l’un l’altro. Seguonsi per le nascondevoli selve et per le loro dimore
le vogliose fiere similmente. Et con una legge medesima eternano la lor brieve
vita, tutti amando tra loro. Né pure gli animanti soli, che hanno il
senso, senza amore venire a stato non possono né a vita, ma tutte le
selve de gli alberi piede né forma non hanno né alcuna qualità
senza lui. Ché, come io dissi di questi allori, se gli alberi la terra
non amassero et la terra loro, ad essi già non verrebbe fatto in maniera
alcuna il potere impedalarsi et rinverzire. Et queste herbuccie stesse, che noi
tuttavia sedendo premiamo, et questi fiori non harebbono nascendo il loro suolo
così vago, come egli è, et così verdeggiante renduto,
forse per darci hora più bel tapeto di loro, se naturalissimo amore i
lor semi et le lor radici non havesse col terreno congiunte in maniera che,
elleno da·llui temperato humore disiderando et esso volontariamente
porgendogliele, si fossero insieme al generare accordati disiderosamente l’uno
l’altro abbracciando. Ma che dico io questi fiori o queste herbe? Certo se i
nostri genitori amati tra lor non si fossero, noi non saremmo hora qui,
né pure altrove, et io al mondo venuto non sarei, sì come io
sono, se non per altro almeno per difendere hoggi il nostro non colpevole Amore
dalle fiere calunnie di Perottino.
Né
pure il nascere solamente dà a gli huomini Amore, o donne, che è
il primo essere et la prima vita, ma la seconda anchora dona loro
medesimamente, né so se io mi dico che ella sia pure la primiera, et
ciò è il bene essere et la buona vita, senza la quale per
aventura vantaggio sarebbe il non nascere o almeno lo incontanente nati morire.
Perciò che anchora errarebbono gli huomini, sì come ci disse
Perottino che essi da prima facevano, per li monti et per le selve ignudi et
pilosi et salvatichi a guisa di fiere, senza tetto, senza conversatione
d’huomo, senza dimestichevole costume alcuno, se Amore non gli havesse, insieme
raunando, di comune vita posti in pensiero. Per la qual cosa ne’ loro disiderij
alle prime voci la lingua snodando, lasciato lo stridere, alle parole diedero
cominciamento. Né guari ragionarono tra loro, che essi, gli habitati
tronchi de gli alberi et le rigide spilunche dannate, dirizzarono le capanne
et, le dure ghiande tralasciando, cacciarono le compagne fiere. Crebbe poi a
poco a poco Amore ne’ primi huomini insieme col nuovo mondo et, crescendo egli,
crebbero l’arti con lui. Allhora primieramente i consapevoli padri conobbero i
loro figliuoli da gli altrui, et i cresciuti figliuoli salutarono i padri loro;
et sotto il dolve giogo della moglie et del marito n’andarono santamente gli
huomini legati con la vergognosa honestà. Allhora le ville di nuove case
s’empierono, et le città si cinsero di difendevole muro, et i lodati
costumi s’armarono di ferme leggi. Allhora il santo no me della riverenda
amicitia, il quale onde nasca per se stesso si dichiara, incominciò a
seminarsi per la già dimesticata terra et, indi germogliando et
cresciendo, a spargerla di sì soavi fiori et di sì dolci frutti
coronarnela, che anchora se ne tien vago il mondo; come che poi, di tempo in
tempo tralignando, a questo nostro maligno secolo il vero odore antico et la
prima pura dolcezza non sia passata. In que’ tempi nacquero quelle donne, che
nelle fiamme de’ loro morti mariti animosamente salirono, et la non mai
bastevolmente lodata Alveste, et quelle coppie si trovarono di compagni così
fide et così care, et dinanzi a gli occhi della fiera Diana fra Pilade
et Oreste fu la magnanima et bella contesa. In que’ tempi hebbero le sacre
lettere principio, et gli amanti accesi alle lor donne cantarono i primi versi.
Ma che vi vo io di queste cose, leggiere et deboli alle ponderose forze
d’Amore, lungamente ragionando? Questa machina istessa così grande et
così bella del mondo, che noi con l’animo più compiutamente che
con gli occhi vediamo, nella quale ogni cosa è compresa, se d’Amore non
fosse piena, che la tiene con la sua medesima discordevole catena legata, ella
non durerebbe, né havrebbe lungo stato giamai. È adunque, donne,
sì come voi vedete, cagion di tutte le cose Amore; il che essendo egli,
di necessità bisogna dire che egli sia altresì di tutti i beni,
che per tutte le cose si fanno, cagione. Et perciò che, come io dissi,
colui è più giovevole che è di più beni causa et di
più maggiori, conchiudere hoggimai potete voi stesse che giovevolissimo
è Amore sopra tutte le giovevolissime cose. Hora parti egli, Perottino,
che a me non sia rimaso che pigliare? o pure che non sia rimasa cosa, la quale
io presa non habbia? —
Quivi,
prima che altro si dicesse, trapostasi madonna Berenice et con la sua sinistra
mano la destra di Lisa, che presso le sedea, sirochievolmente prendendo et
strignendo, come se aiutar di non so che ne la volesse, a Gismondo si rivolse
baldanzosa et sì gli disse:
—
Poscia che tu, Gismondo, così bene dianzi ci sapesti mordere, che Lisa
hoggimai più teco havere a fare non vuole, et per aventura che tu a
questo fine il facesti, acciò che meno di noia ti fosse data da noi, et
io pigliar la voglio per la mia compagna, come che tuttavia poco maestra
battagliera mi sia. Ma così ti dico che, se Amore è cagione di
tutte le cose, come tu ci di’, et che per questo ne segua che egli sia di tutti
i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione, perché non ci di’ tu
anchora che egli cagion sia medesimamente di tutti i mali che si fanno per
loro? la qual cosa di necessità conviene essere, se il tuo argomentare
dee haver luogo. Che se il dire delle orationi, che io fo, dee essere scritto
ad Amore perciò che per Amore io son nata, il male medesimamente, che io
dico, dee essere a·llui portato, perciò che se io non fossi nata, non ne
’l direi. Et così de gli altri huomini et dell’altre cose tutte ti posso
conchiudere ugualmente. Hora se Amore non è meno origine di tutti i
mali, che egli sia di tutti i beni fondamento, per questa ragione non so io
vedere che egli così nocevolissimo come giovevolissimo non sia.
—
Sì sapete sì, Madonna, che io mi creda — rispose incontanente
Gismondo — Perciò ehe non vi sento di così labole memoria, che
egli vi debba glà essere di mente uscito quello che io pure hora vi
ragionai. Ma voi volete la vostra compagna vendicare di cosa in che io offesa
non I ho, in quelle dispute medesime, delle quali n’eravamo usciti,
altresì come ella ritornandomi. Perciò che non vi ricorda egli
che io dissi che, perciò che ogni cosa naturale è buona, Amore,
come quello che natural cosa è, buono etiando è sempre, né
può reo essere in alcuna maniera giamai? Per che egli del bene che voi
fate è ben cagione, sì come colui che per ben fare solamente vi
mise nel mondo; ma del male, se voi ne fate, che io non credo perciò, ad
alcun disordinato et non naturale appetito, che muove in voi, la colpa ne date
et non ad Amore. Questa vita, che noi viviamo, a·ffine che noi bene operiamo
c’è data, et non perché male facendo la usiamo; come il coltello,
che alla bisogne de gli huomini fa l’artefice et dàllo altrui, se voi ad
uccidere huomini usaste il vostro et io il mio, a noi ne verrebbe la colpa,
sì come del misfatto commettitori non all’artefice che il ferro, del
commesso male istrumento, ad alcun mai fine non fece. Ma passiamo, se vi piace,
alla dolvezza d’Amore. Quantunque, o donne, grandissimo incarico è
questo per certo, a volere con parole asseguire la dimostrazione di quella cosa
che, quale sia et quanta, si sente più agevolmente che non si dice.
Perciò che sì come il dipintore bene potrà come che sia la
bianchezza dipignere delle nevi, ma la freddezza non mai, sì come cosa
il giudicio della quale, al tatto solamente conceduto, sotto l’occhio non
viene, a cui servono le pinture, similmente ho io testé quanto sia il
giovamento d’Amore dimostrarvi pure in qualche parte potuto, ma le dolcezze che
cadono in ogni senso et, come sorgevole fontana assai più anchora che
questa nostra non è, soprabondano in tutti loro, non possono
nell’orecchio solo, per molto che noi ne parliamo, in alcuna guisa capere. Ma
una cosa mi conforta, che voi medesime per isperienza havete conosciuto et
conosciete tuttavia quali elle sono, onde io non potrò hora sì
poco toccarne ragionando, che non vi sovenga il molto; il che per aventura
tanto sarà, quanto se del tutto si potesse parlare. Ma donde
comincierò io, o dolcissimo mio signore? Et che prima dirò io di
te et delle tue dolcezze indicibili, incomparabili, infinite? Insegnalemi tu,
che le fai, et sì come io debbo andare, così mi scorgi et guida
per loro. Ora per non mescolare favellando quelle parti che dilettar ci possono
separatamente, delle dolvezze de gli occhi, che in amore sogliono essere le
primiere, primieramente et separatamente ragioniamo. —
Il
che havendo detto Gismondo, con un brieve silentio fatta più attenta
l’ascoltante compagnia, così incominciò:
—
Non sono come quelle de gli altri huomini le viste de gli amanti, o donne,
né sogliono gl’innamorati giovani con sì poco frutto mirare ne
gli obbietti delle loro luci, come quelli fanno, che non sono innamorati.
Perciò che sparge Amore col movimento delle sue ali una dolcezza ne gli
occhi de’ suoi seguaci, la quale, d’ogni abbagliaggine purgandogli, fa che
essi, stati semplici per lo adietro nel guardare, mutano subito modo et,
mirabilmente artificiosi divenendo al loro ufficio, le cose che dolci sono a
vedere essi veggono con grandissimo diletto, là dove delle dolcissime
gli altri huomini poco piacere sentono per vederle et il più delle volte
non niuno. Et come che dolci sieno molte cose, le quali tutto dì
miriamo, pure dolcissime sopra tutte le altre, che veder si possano per occhio
alcuno giamai, sono le belle donne, come voi siete. Non per tanto elle dolvezza
non porgono se non a gli occhi de gli amanti loro, sì come que’ soli a’
quali Amore dona virtù di passar con la lor vista ne’ suoi thesori. Et
se pure alcuna ne porgono, che tuttavolta non è huom quegli a cui
già in qualche parte la vostra vaga bellezza non piaccia, a rispetto di
quella de gli amanti ella è come un fiore a comperatione di tutta la
primavera. Perciò che aviene spesse volte che alcuna bella donna passa
dinanzi a gli occhi di molti huomini, et da tutti generalmente volentieri
è veduta: tra’ quali, se uno o due ve n’ha che con diletto più
vivo la riguardino, cento poi son quelli per aventura che ad essa non mandano
la seconda o la terza guatatura. Ma se tra que’ cento l’amante di lei si sta et
vedela, che a questa opera non suole però essere il sezzaio, ad esso
pare che mille giardini di rose se gli aprano allo ’ncontro et sentesi andare
in un punto d’intorno al cuore uno ingombramento tale di soavità, che
ogni fibra ne riceve ristoro, possente a scacciarne qualunque più folta
noia le possibili disaventure della vita v’havessero portata et lasciata. Egli
la mira intentamente et rimira con infingevole occhio, et per tutte le sue
fattezze discorrendo, con vaghezza solo da gli amanti conosciuta, hora
risguarda la bella treccia, più simile ad oro che ad altro, la quale
sì come sono le vostre, né vi sia grave che io delle belle donne
ragionando tolga l’essempio in questa et nelle altre parti da voi, la quale,
dico, lungo il soave giogo della testa, dalle radici ugualmente partendosi et
nel sommo segnandolo con diritta scriminatura, per le deretane parti s’avolge
in più cerchi; ma dinanzi, giù per le tempie, di qua et di
là in due pendevoli ciocchette scendendo et dolcemente ondeggianti per
le gote, mobili ad ogni vegnente aura, pare a vedere un nuovo miracolo di pura
ambra palpitante in fresca falda di neve. Hora scorge la serena fronte con allegro
spatio dante segno di sicura honestà; et le ciglia d’ebano piane et
tranquille, sotto le quali vede lampeggiar due occhi neri et ampi et pieni di
bella gravità, con naturale dolcezza mescolata, scintillanti come due
stelle ne’ lor vaghi et vezzosi giri, il dì che primieramente
mirò in loro et la sua ventura mille volte seco stesso benedicendo. Vede
dopo questi le morbide guancie, la loro tenerezza et bianchezza con quella del
latte appreso rassomigliando, se non in quanto alle volte contendono con la colorita
freschezza delle matutine rose. Né lascia di veder la sopposta bocca, di
picciolo spatio contenta, con due rubinetti vivi et dolci, haventi forza di
raccendere disiderio di basciargli in qualunque più fosse freddo et
svogliato. Oltre a cciò quella parte del candidissimo petto riguardando
et lodando, che alla vista è palese, l’altra che sta ricoperta loda
molto più anchora maggiormente, con acuto sguardo mirandola et
giudicandola: mercé del vestimento cortese, il quale non toglie
perciò sempre a’ riguardanti la vaghezza de’ dolci pomi che, resistenti
al morbido drappo, soglion bene spesso della lor forma dar fede, mal grado
dell’usanza che gli nasconde. —
Trassero
queste parole ultime gli occhi della lieta brigata a mirar nel petto di
Sabinetta, il quale parea che Gismondo più che gli altri s’havesse tolto
a dipignere, in maniera per aventura la vaga fanciulla, sì come quella
che garzonissima era, et tra per questo et per la calda stagione d’un drappo
schietto et sottilissimo vestita, la forma di due poppelline tonde et sode et
crudette dimostrava per la consentiente veste. Per che ella si vergognò
veggendosi riguardare, et più harebbe fatto, se non che madonna
Berenice, accortasi di ciò, subitamente disse:
—
Cotesto tuo amante, Gismondo, per certo molto baldanzosamente guata et per
minuto, poi che egli infino dentro al seno, il quale noi nascondiamo, ci mira.
Me non vorrei già che egli guatasse così per sottile.
—
Madonna, tacete, — rispose Gismondo — ché voi ne havete una buona
derrata. Perciò che se io volessi dir più avanti, io direi che
gli amanti passano con la lor vista in ogni luogo et, per quello che appare,
agevolmente l’altro veggono, che sta nascoso. Per che nascondetevi pure a gli
altri huomini a vostro senno, quanto più potete, ché a gli amanti
non vi potete voi nascondere, donne mie belle, né dovete altresì.
Et poi dirà Perottino che ciechi sono gli amanti. Cieco è egli,
che non vede le cose che da veder sono, et non so che sogni si va, non dico
veggendo, ché veder non si può ciò che non è, anzi
pure ciò che non può essere, ma dipingendo: un garzone ignudo,
con l’ali, col fuoco, con le saette, quasi una nuova chimera fingendosi, non
altramente che se egli mirasse per uno di quelli vetri che sogliono altrui le
maraviglie far vedere.
Ma
tornandomi all’amante, del quale io vi ragionava, mentre che egli queste cose
che io v’ho dette et quelle che io taccio rimira et vàlle con lo spirito
de gli occhi ricercando, egli si sente passare un piacere per le vene tale, che
mai simile non gliele pare havere havuto; onde poi e’ ragiona seco medesimo et
dice: "Questa che dolvezza è che io sento? o mirabile forza de gli
amorosi risguardamenti, quale altro è di me hora più
felice?". Il che non diranno giamai quegli altri che la riguardata donna
non amano. Perciò che là dove Amore non è, sonnocchiosa
è la vista insieme con l’anima in que’ corpi et, quasi col cielabro,
dormono loro gli occhi sempre nel capo. Ma egli non è perciò
questa ultima delle sue dolcezze, che al cuore li passano per le luci. Altre
poi sono et possono ogni ora essere senza fine; sì come è il
vedere la sua donna spatiando con altre donne premere le liete herbe de’ verdi
prati, o de’ puri fiumicelli le freschissime ripe, o la consentiente schiena
de’ marini liti, incontro a’ soavi zephiri caminando, talhora d’amorosi versi
discrivendo al consapevole amante la vaga rena, o ne’ ridenti giardini entrata,
spiccare con l’unghie di perle rugiadose rose dalle frondi loro, per aventura
futuro dono di chi la mira; o forse carolando et danzando muovere a gli
ascoltati tempi de gli strumenti la schietta et diritta et raccolta persona,
hora con lenti varchi degna di molta riverenza mostrandosi, hora con cari
ravolgimenti o inchinevoli dimore leggiadrissima empiendo di vaghezza tutto il
cerchio, et quando con più veloci trapassamenti, quasi un trascorrevole
sole, ne gli occhi de’ riguardanti percotendo. Et pure queste tutte essere
possono gioie di novelli amanti, né anchora molto rassicurati ne’ loro
amori. Che se di quelli che a pieno godono volessimo ragionare, di certo quanti
diletti possono tutti gli huomini che non amano in tutti gli anni della lor
vita sentire, non mi si lasciarebbe credere che a quel solo aggiugnessero, che
in ispatio di poca hora si sente da uno amante, il quale, con la sua donna
dimorando, la miri et rimiri sicuramente, et ella lui, con gli occhi disievoli
et vacillanti dolcezza sopra dolcezza beendo, l’uno dell’altro inebbriandosi.
Deh
perché vo io nelle cose che, o poco o molto che piacciano altrui, pure
et piacevoli sono da sé in ogni modo et come che sia piacciono elle
sempre a chiunque le mira, il tempo et le parole distendendo, quando anchora di
quelle che, vedute, affanno sogliono recare all’altre persone, a gli amanti
alcuna volta sono dolcissime oltra misura? O care et belle giovani, quanto sono
malagevolissime ad investigarsi pure col pensiero le sante forze d’Amore, non
che a raccontarsi! Senza fallo quale piU affannosa cosa può essere che
il veder piagnere i suoi più cari? et chi e di Si ferigno animo, che
nelle cadenti loro lagrime possa tener gli occhi senza dolore? Non per tanto
questo atto tale, quale io dico, del piagnere, vede fare alle volte l’amante
alla sua donna, la quale egli ha più cara che tutto il mondo, vie
maggior diletto et festa sentendone, che d’infiniti risi non sogliono tutti gli
altri huomini sentire. —
Tosto
che così hebbe detto Gismondo, et madonna Berenice così disse
—
Cotesto non vorrei già io che a me avenisse, che il mio signore fe sta
et diletto delle mie lagrime si prendesse. Anzi ti dico io bene che io mi
credo, Gismondo, se io il risapessi, che io ne gli vorrei male et per aventura,
se io potessi, io darei a·llui cagione altresì di piagnere et ridere mi
poscia di lui allo ’ncontro. — Appresso alle cui parole seguirono le due
giovani, quello a Gismondo raffermando che ella havea detto, aggiugnendo oltre
a·cciò che egli cortesia farebbe a spesso piagnere dinanZi alla sua
donna, per darle quel piacere; et tutte insieme ne ragionavano scherzevolmente,
alla nuova occasione di motteggiarlo appigliatesi con gran festa. Ma egli, che
in quest’arte rade volte si lasciava vincere, poscia che alquanto le hebbe
lasciate cianciare et ridere, in viso madonna Berenice guardando, le disse:
—
Molto dovete esser cruda et acerba voi, Madonna, et poco compassionevole,
poscia che voi il vostro signore vorreste far piagnere. Ma io non vi veggo
già così fiera nel volto, se voi non m’ingannate, anzi mostrate voi
d’essere la più dolce cosa et la più piacevole che mai fosse. Et
certo sono che, se il romitello del Certaldese veduta v’havesse, quando egli
primieramente della sua celletta uscì, egli non harebbe al suo padre
chiesto altra papera da rimenarne seco et da imbeccare che voi. —
Tacque
a tanto madonna Berenice, mirando con un tale atto mezzo di vergogna et di
maraviglia ne’ volti delle sue compagne. Et Lisa ridendo ver lei, come quella
che stava tuttavia aspettando che Gismondo co’ suoi motti alcun’altra ne
toccasse, per havere nel suo male compagnia, veggendola in quella guisa
soprastare, tutta si fe’ innanzi et sì·lle disse:
—
Madonna, e’ mi giova molto che in sul vostro hoggimai passi quel la gragniuola,
la quale pur hora cadde in sul mio. Io non mi debbo più dolere di
Gismondo, poscia che anchor voi non ne sete risparmiata. Ben vi dico io,
Madonna, che egli ha hoggi rotto lo scilinguagniolo. Di che io vi so confortare
che non lo tentiate più, ché egli pugne come il tribolo da ogni
lato.
—
Già m’accorgo io che egli così è come tu mi di’, Lisa —
rispose madonna Berenice. — Ma vatti con Dio, Gismondo, che tu ci sai hoggi a
tua posta fare star chete. Io per me voglio esser mutola per lo innanzi. —
In
questa guisa rimanendo a Gismondo più libero l’altro corso de’ suoi
sermoni, dalle donne ispeditosi, ad essi procedendo così disse:
— Le
narrate dolcezze de gli amanti, o donne, essere vi possono segno et
dimostramento delle non narrate, le quali senza dubbio tante so; no et alle
volte così nuove et per lo continuo così vive, che egli non e
hoggimai da maravigliarsi di Leandro, se egli, per vedere la sua donna pure un
poco, largo et periglioso pelago spesse volte a nuoto passava. Hora entrisi a
dire dell’altro senso, il quale scorge all’anima le vegnenti voci, di cui, se
ben si considera, niente sono le dolvezze minori. Perciò che in quanti
modi esser può recamento di gioia il vedere le lor donne a gli amanti,
in tanti l’udirle può loro essere similmente. Che sì come uno
medesimo obbietto, diversamente da gli occhi nostri veduto, diversi diletti ci
dà, così una stessa voce, in mille guise da gli orecchi
ascoltata, ci dona dolcezza in mille maniere. Ma che vi posso io dir più
avanti d’intorno a questa dolcezza, che a voi, sì come a me, non sia
chiaro? Non sapete voi con quanta sodisfattione tocchi i cuori delle innamorate
giovani un sicuro ragionar co’ loro signori in alcuno solitario luogo o forse
sotto gratiose ombre di novelli alberi, nella guisa che noi ragioniamo, dove
altri non gli ascolti che Amore, il quale allhora suole essere non men buono
confortatore delle paurose menti, che egli si sia de gli ascoltati ragionamenti
segreto et guardingo testimonio? Non v’è egli anchor palese di quanta
tenerezza ingombri due anime amanti un vicendevole raccontamento di ciò
che avien loro? un dimandare, un rispondere, un pregare, un ringratiare? Non
v’è egli manifesto di quanta gioia dell’una ogni parola dell’altra sia
piena? ogni sospiro, ogni mormorio, ogni accento, ogni voce? O chi è
quello, nel cui rozzo petto in tanto ogni favilluzza d’amoroso pensiero spenta
sia, che egli non conosca quanto sia caro et dilettevole a gli amanti talhora
recitare alcun lor verso alle lor donne ascoltanti et talhora esse recitanti
ascoltare? o gli antichi casi amorosi leggendo, incontrarsi ne gli loro et
trovar ne gli altrui libri scritti i loro pensieri, tali nelle carte
sentendogli, quali essi gli hanno fatti nel cuore, ciascuno i suoi
affettuosamente a quelli et con dolve maraviglia aguagliando. O pure con quanta
soavità ci soglia li spiriti ricercare un vago canto delle nostre donne,
et quello massimamente che è col suono d alcun soave strumento
accompagnato, tocco dalle loro dilicate et musice mani? con quanta poi, oltre a
questa, se aviene che elle cantino alcuna delle nostre canzoni o per aventura
delle loro? Che quantunque de gli uomini quasi proprie sieno le lettere et la
poesia, non è egli perciò che, si come Amore nelle nostre menti
soggiornando con la regola de gli occhi vostri c insegna le più volte quest’arte,
così anchora ne’ vostri giovani petti entrato, egli alle volte qualche
rima non ne tragga et qualche verso: i quali poi tanto più cari si
dimostrano a noi, quanto più rari si ritruovano in voi. Così
aviene che rinforzando le nostre donne in più doppi la soavità
della loro harmonia, fanno altresì la nostra dolcezza rinforzare, a
quale, passando nell’anima, sì la diletta che niuna più, come
quella che, dalle celestiali harmonie scesa ne’ nostri corpi et di loro sempre
disiderosa, di queste altre a sapor di quelle s’invaghisce, più gioia
sentendone, che quasi non pare possibile, a chi ben mira, di cosa terrena
doversi sentire. Benché non è terrena l’harmonia, donne, anzi
pure in maniera con l’anima confacevole, che alcuni furono già che dissero
essa anima altro non essere che harmonia.
Ma
tornando alle nostre donne, in tante maniere quante io dissi raddoppianti i
concenti loro, quale animo può essere così tristo, quale cuore
così doloroso, quale mente così carica di tempestosi pensieri,
che udendole non si rallegri, non si racconforti, non si rassereni? O chi, tra
tante dolcezze posto et tra tante venture, i suoi amari et le sue disaventure
non oblia? Leggesi ne’ poeti che, passante per gli abissi Orpheo con la sua
cethera, Cerbero rattenne il latrare che usato era di mandar fuori a ciascuno
che vi passava; le Furie l’imperversare tralasciarono; gli avoltoi di Titio, il
sasso di Sisipho, le acque et le mele di Tantalo, la ruota sione et l’altre
pene tutte di tormentare soprastettero i dannati loro, ciascuna, dalla piacevolezza
del canto presa, il suo ufficio, non mai per o adietro tralasciato,
dimenticando. Il che non è a dire altro, se non che e dure cure de gli
huomini, che necessariamente le più volte porta seco la nostra vita, in
diverse maniere i loro animi tormentanti, cessano di dar lor pena, mentre essi
invaghiti quasi dalla voce d’Orpheo, così da quella delle lor donne,
lasciano et obliano le triste cose. Il quale obliamento tuttavia di quanto
rimedio ci soglia essere ne’ nostri mali et quanto poi ce gli faccia oltre
portare più agevolmente, colui lo sa che lo pruova. Senza che necessario
è a gli huomini alcuna fiata dare a’·llor guai alleggieramento et, quasi
un muro, così alcun piacere porre tra l’animo et i neri pensieri.
Perciò che, sì come non puo il corpo nelle sue fatiche durare
senza mai riposo pigliarsi, così l’animo senza alcuna traposta
allegrezza non può star forte ne’ suoi dolori. Tale è la
dimenticanza, o Perottino, nella quale si tuffa la memoria de gl’innamorat.
huomini così trista, che tu dicevi; tale è la medicina
così venenata de gli amanti, che tu ci raccontasti; tali sono gli
assenzi, tali sono l’ebbriezze loro. Ma queste dolcezze nondimeno, sì
come io dissi di quelle de gli occhi, se aviene, che può avenire spesso,
che gli orecchi tocchino di quegli huomini, che delle donne, da cui elle
escono, amanti non sono, non crediate che elle passino il primo cerchio.
Perciò che sì come se il giardinaio di qua entro, lungo la doccia
di questo canale passando, non ne levasse alle volte o pietre o bronchi o altro
che vi può cadere tuttodì, ella in brieve si riempierebbe et
riturerebbe in maniera, che poi all’acqua che vi corre della fontana essa luogo
dare non potrebbe, così quell’orecchio, che Amore non purga, alle
picchianti dolcezze non può dar via. Et chi non sa che se noi tutti qui
la voce udissimo della mia donna, che a gli orecchi ci venisse in qualche modo,
niuna è di voi che quella dolcezza ne sentisse che sentire’ io? Et
così fareste voi, se il somigliante avenisse de vostri signori,
ché niuna tanta gioia di sentir quegli dell’altre piglierebbe, quanta
ella farebbe del suo. Ma passiamo più avanti; et perché io,
donne, per le dolcezze di questi due sentimenti scorte v’habbia, non crediate
perciò che io scorgere vi voglia per quelle anchora de gli altri tre,
ché io potrei pervenire a parte, dove io hora andare non intendo.
Scorgavi Amore, che tutte le vie sa per le quali a que’ diletti si perviene che
la nostra humanità pare che disideri sopra gli altri. Et quale scorta
potreste voi più dolve di lui havere né più cara? certo
niuna. Esso que’ diletti ci fa essere carissimi et dolcissimi, quale è
egli, che, senza lui havuti, sono, come l’acqua, di niun sapore et di niun
valore parimente. Per che pigliatelo sicuramente per vostro duca, o vaghe
giovani. Et io, in guiderdone della fatica che io prendo hoggi per lui, ne ’l
priego che egli sempre felicemente vi guidi. Ma tuttavia venite hora meco per
quest’altra strada.
Dico
adunque che, oltra i cinque sentimenti, i quali sono ne gli huomini strumenti
dell’animo insieme, insieme et del corpo, hacci etian dio il pensiero, il
quale, perciò che solamente è dell’animo, ha vie più
d’eccellenza in sé che quelli non hanno, et di cui non sono partecipi
gli animali con esso noi, sì come partecipi sono di tutti gli altri.
Perciò che bene vedono essi et odono et odorano et gustano et toccano et
l’altre operagioni de gl’interni sensi essercitano altresì, come noi
faciamo, ma non consigliano né discorrono in quella guisa, né in
brieve hanno essi il pensiero che a noi huomini è dato. Il quale
tuttavia non è solo di maggior pregio, perciò che egli proprio
sia de gli huomini, dove quelli sono loro in comune con le fiere, ma per questo
anchora, che i sentimenti operar non Si possono se non nelle cose che presenti
sono loro et in tempo parimente et in luogo, ma egli oltre a quelle et nelle
passate ritorna, quando esso vuole, et mettesi altresì nelle future, et
in un tempo et per le vicine discorre et per le lontane, et sotto questo nome
di pensiero et vede et ascolta et fiuta et gusta et tocca et in mille altre
maniere fa et rifà quello a che non solamente i sentimenti tutti d’uno
huomo, ma quelli anchora di tutti gli huomini essere non potrebbono bastanti.
Per che comprendere si può che egli più alle divine
qualità s’accosta, chi ben guarda, che alle humane. Questo pensiero
adunque tale, quale voi vedete, se essercitando le sue parti, sì come
buon lavoratore per li suoi colti, così egli per l’animo s’adopra, che
è suo, infinite dolcezze ci rende l’animo di questa coltura, tanto da
doverci essere di quelle del corpo più care, quanto è esso
più eccellente cosa che il corpo. Se pigro et lento et pieno di
melenSaggine Si giace, lasciamo stare che dolcezze non se ne mietino, ma certo
io non veggo a che altro fine sia l’animo dato al corpo, che al porco si dia il
sale, perché egli non infracidisca. La qual cosa aviene ne gli huomini
che non amano. Perciò che a chi non ama, niuna cosa piace; a chi niuna
cosa piace, a niuna volge il pensiero: dorme adunque il pensiero in loro. Et il
contrario ne viene de gli amanti. Perciò che a chiunque ama, piace
quello che egli ama, et d’intorno a quello che piace sovente pensa ogniuno
volentieri. Per che si conchiude che le dolcezze del pensiero sono de gli
amanti et non de gli altri. Le quali dolcezze tuttavia quante sieno non
dirò io già, che non sarei a raccontarle più bastante che
io mi fossi a noverar le stelle del cielo. Ma quali, se noi vorremo in qualche
parte dirittamente riguardare? Quanto diletto è da credere che sia d’un
gentile amante il correre alla sua donna in un punto col pensiero et mirarla,
per molto che egli le sia lontano, ad una ad una tutte le sue belle parti
ricercando? Quanto poi, ne’ costumi di lei rientrato, la dolcezza considerare,
la cortesia, la leggiadria, il senno, la virtù, l’animo et le sue belle
parti? O Amore, benedette sieno le tue mani sempre da me, con le quali tante
cose m’hai dipinte nell’anima, tante scritte, tante segnate della mia dolce
donna, che io una lunga tela porto meco ad ogni hora d’infiniti suoi ritratti
in vece d’un solo viso, et uno alto libro leggo sempre et rileggo pieno delle
sue parole, pieno de’ suoi accenti, pieno delle sue voci, et in brieve mille
forme vaghissime riconosco di lei et del suo valore, qualhora io vi rimiro,
cotanto dolci sutemi et cotanto care, non picciola parte di quella viva
dolcezza sentendo nel pensiero, che io già, operandolo ella, ne’ loro
avenimenti mi sentia. Le quali figure, posto che pure da sé non
chiamassero a·lloro la mia mente così spesso, sì la chiamerebbeno
mille luoghi che io veggo tutto dì, usati dalla mia donna hora in un
diporto et hora in altro; i quali non sono da me veduti più tosto, che
alla memoria mi recano: qui fu Madonna il tal giorno, qui ella così
fece, qui sedette, quinci passò, di qui la mirai; et così
pensando et varcando, quando meco stesso, quando con Amore, quando con le
piagge et con gli alberi et con le rive medesime, che la videro, ne ragiono. La
qual cosa, perciò che a me pare hoggimai d’haver compreso che a ciascuna
di voi piacciono molto meglio i versi et le rime, che i semplici ragionamenti
non fanno, dimostrare anchor vi posso con questa canzone, la quale non ha guari
del cuor mi trassero queste medesime contrade, che della mia donna mi
sovenivano et udironlami tra esse cantare, sì come io l’andava tessendo:
Se
’l pensier, che m’ingombra,
Com’è dolce et soave
Nel cor, così venisse in queste rime,
L’anima saria sgombra
Del peso, ond’ella è grave,
Et esse ultime van, ch’anderian prime;
Amor più forti lime
Useria sovra ’l fianco
Di chi n’udisse il suono;
Io, che fra gli altri sono
Quasi augello di selva oscuro humile,
Andrei cigno gentile
Poggiando per lo ciel, canoro et bianco,
Et fora il mio bel nido
Di più famoso et honorato grido.
Ma
non eran le stelle,
Quando a solear quest’onda
Primier entrai, disposte a tanto alzarme;
Che, perché Amor favelle
Et Madonna risponda
Là, dove più non pote altro
passarme,
S’io voglio poi sfogarme,
Sì dolce è quel concento,
Che la lingua no ’l segue,
Et par che si dilegue
Lo cor nel cominciar de le parole;
Né giamai neve a sole
Sparve così, com’io strugger mi sento:
Tal ch’io rimango spesso
Com’huom, che vive in dubbio di se stesso.
Legge
proterva et dura
S’a dir mi sferza et punge
Quel, ond’io vivo, hor chi mi tene a freno?
Et s’ella oltra mia cura
Dal mondo mi disgiunge,
Chi mi dà poi lo stil pigro et terreno?
Ben posson venir meno
Torri fondate et salde;
Ma ch’io non cerchi et brami
Di pascer le gran fami,
Che ’n sì lungo digiuno, Amor, mi dai,
Certo non sarà mai:
Sì fur le tue saette acute et calde,
Di che ’l mio cor piagasti,
Ove ne gli occhi suoi nascosto entrasti.
Quanto
sarebbe il meglio,
Et tuo più largo honore,
Ch’i’ havessi in ragionar di lei qualch’arte.
Et sì come di speglio
Un riposto colore
Saglie talhor et luce in altra parte,
Così di queste carte
Rilucesse ad altrui
La mia celata gioia;
Et perché poi si moia,
Non ci togliesse il gir solinghi a volo
Da l’uno a l’altro polo;
Là dove hor taccio a tuo danno, con cui
S’io ne parlassi, havria
Voce nel mondo anchor la fiamma mia.
Et
forse avenirebbe,
Ch’ogni tua infamia antica
Et mille alte querele acqueteresti;
Ch’uno talhor direbbe:
"Coppia fedele, amica,
Quanti dolci pensier vivendo havesti!".
Altri: "Ben strinse questi
Nodo caro et felice,
Che sciolto a noi dà pace".
Hor, poi ch’a lui non piace,
Ricogliete voi, piagge, i miei desiri
Et tu, sasso, che spiri
Dolcezza et versi amor d’ogni pendice,
Dal dì che la mia donna
Errò per voi secura in treccia e ’n
gonna.
Et
se gli honesti preghi
Qualche mercede han teco,
Faggio, del mio piacer compagna eterna,
Pietà ti stringa et pieghi
A darne segno hor meco,
Et mova da la tua virtute interna
Chi ’l mio danno discerna,
Sì che, s’altro mi sforza
Et di valor mi spoglia,
S’adempia una mia voglia
Dopo tante, che ’l vento ode et disperde.
Così mai chioma verde
Non manchi a la tua pianta, et ne la scorza
Qualche bel verso viva,
Et sempre a l’ombra tua si legga o scriva.
Già
sai tu ben, sì come
Facean qui vago il cielo
De le due chiare stelle i santi ardori,
Et le dorate chiome
Scoperte dal bel velo,
Spargendo di lontan soavi odori
Empiean l’herba di fiori;
Et sai, come al suo canto
Correano inverso ’l fonte
L’acque nel fiume, e ’l monte
Spogliar del bosco intorno si vedea,
Ch’ad ascoltar scendea,
Et le fere seguir dietro et da canto,
Et gli augelletti inermi
Sovra in su l’ali star attenti et fermi.
Riva
frondosa et fosca,
Sonanti et gelid’acque,
Verdi, vaghi, fioriti et lieti campi,
Chi fia, ch’oda et conosca
Quanto di lei vi piacque,
Et meco d’un incendio non avampi?
Chi verrà mai, che stampi
L’andar soave et caro
Col bel dolce costume,
Et quel celeste lume,
Che giunse quasi un sole a mezzo ’l die
Sovra le notti mie:
Lume, nel cui splendor mirando imparo
A sprezzar il destino
Et di salir al ciel scorgo ’l camino?
Quando,
giunte in un loco,
Di cortesia vedeste,
D’honestà, di valor sì care
forme?
Quando a sì dolce foco
Di sì begli occhi ardeste?
Et so ch’Amor in voi sempre non dorme.
O chi m’insegna l’orme,
Che ’l piè leggiadro impresse?
O chi mi pon tra l’herba,
Ch’anchor vestigio serba
Di quella bianca man, che tese il laccio,
Onde uscir non procaccio,
Et del bel fianco et de le braccia istesse,
Che stringon la mia vita,
Sì ch’io ne pero et non ne cheggio
aita?
Genti,
a cui porge il rio
Quinci ’l piè torto et molle,
Et quindi l’alpe il dritto horrido corno,
Deh hor tra voi foss’io,
Pastor di quel bel colle
O guardian di queste selve intorno
Quanto riluce il giorno
Del mio sostegno andrei
Ogni parte cercando,
Reverente inchinando
Là ’ve più fosse il ciel sereno
et queto
E ’l seggio ombroso et lieto;
Ivi del lungo error m’appagherei,
Et basciando l’herbetta,
Di mille miei sospir farei vendetta.
Tu
non mi sai quetar, né io t’incolpo,
Pur che tra queste frondi,
Canzon mia, da la gente ti nascondi.
Né
pure i luoghi, stati alcuna volta delle nostre donne ricevitori, o quelli che
più spesso ci sogliono di loro essere et conservatori fedelissimi et
dolcissimi renditori, alla mente le ci ritornano, come io dissi; ma in ciascuna
parte anchora sempre si vede qualche cosa, nella qual noi con gli occhi della
testa riguardando, nelle nostre donne con quelli dell’anima miriamo, di loro
dolcissimamente ricordandoci per alcuno sembievole modo. Che per dir pure di me
stesso, come fece di sé Perottino, certo se io sono, come io soglio alle
volte, in alcun camino, niuna verde ripa di chiaro fiume, niuna dolve vista di
vaga selva scorgono gli occhi miei et di lieta montagnetta niuna solinga parte,
niun fresco seggio, niuna riposta ombra, niun segreto nascondimento non miro,
che alla bocca non mi corra sempre: "Deh fosse hor qui la mia donna meco
et con Amore, se ella tra queste solitudini, di me solo non si tenendo sicura,
pure si cercasse compagnia’’; et così, volto il pensiero ver lei, poi di
lei meco medesimo in lunga gioia lunga pezza lunghi ragionamenti non tiri. Et
dove per lo fuggir del sole la sopravenuta ombra della terra, levando il colore
alle cose, mi lievi et tolga la vista loro, non è che io nella tacita
notte le stelle mirando non pensi: "Deh se queste sono delle mondane
venture dispensatrici, quale è hor quella che indestinò prima la
dolce necessità de’ miei amori?". O alla vaga luna riguardando et
nel suo freddo argento fisse tenendo le mie luci, io non ragioni tra me stesso:
"Or chi sa che la mia donna hora in questo medesimo occhio non miri, che
io miro?" et così ella di me ricordandosi, come io di lei mi
ricordo, non dica: "Forse guardano gli occhi del mio Gismondo, qualunque
terra egli prema hora col piede, te, o Luna, sì come guardo io"; et
a questa guisa in uno obbietto stesso et le nostre luci s’avengano et i nostri
pensieri? ". Così, hora in un modo et quando in altro,
nell’imaginar pure della mia don na rientrando et de’ nostri amori, vie
più con lei che con me stesso dimoro. Ma che giova ramemorar quello che
il pensiero ci risveglia nelle lontane contrade? Già nella nostra
città niuna bella donna mi può davanti apparere, che io
incontanente nelle bellezze non entri con l’animo della mia. Niun vago giovane
veggo per via piè innanzi piè solo et pensoso portar se stesso,
che io non istimi:"Forse pensa costui hora della sua donna"; il che
istimare, me altresì della mia mette tantosto in dolcissimi pensamenti.
Et se nelle nostre diportevoli barchette alle volte pigliando aria alquanto da
gli strepiti della città m’allontano, a niuna parte m’avicino de’ nostri
liti, che a me non paia vedervi la mia donna andar per loro spatiandosi, al
suono cantando delle roche onde et marine conche con vaghezza fanciullesca ricogliendo.
Infinite et innumerabili oltre a queste, et tante appunto, quante noi medesimi
vogliamo, sono le vie per le quali può mandare all’animo le dolcezze de’
diletti già passati il nostro vago et maestrevole pensiero.
Perciò che a·llui né passo, né ponte, né porta si
rinchiude. Non cielo che minacci, non mare che si turbi, non scoglio che
s’apponga lo ritiene. Amor gli presta le sue ali, contro le quali niuna
ingiuria può bastare. Et queste ali tuttavia, sì come nelle
passate gioie a sua posta il ritornano, così né più
né meno, quandunque ad esso piace, ne ’l portano nelle future. Le quali,
posto che pure perdano dalle passate, in quanto le future così certe non
sono, sì avanzano elle poi da quest’altra parte, che dove della suta
dolcezza una sola forma ritorna nell’animo col pensarvi, tale quale ella fu, di
quella che ad essere ha, perciò che non fu anchora, mille possibili
maniere ci si rapresentano care et vaghe et dilettevolissime ciascuna.
Così le nostre feste, et prima che avengano con la varietà, et
appresso avenute con la certezza del pensiero dilettandoci, continue et
presenti si fanno a noi in ogni luogo, in ogni tempo; il che dicono esser
proprio di quelle de gl’Idij.
Hora
per ritornare alquanto adietro per questa così dilettevole strada, per
la quale infino a qui venuti ci siamo, poscia che ciascun di questi tre
piaceri, che io dissi, cotanti giuochi ci può porgere separatamente,
sì come in parte ci s’è ragionato, quanti è da credere,
donne, che porgan tutti e tre congiunti et collegati? Ohimè, niun
condimento è così dolce, niuno così soave. Essi sono pur
tanti et tali, che malagevolissimamente con la stimativa si comprendono, non
che con la lingua si raccontino altrui. Ma perciò che Perottino hieri,
nelle passioni di quella miseria, che egli Amore si credea che fosse,
mettendosi, mescolatamente s’andò per loro ravolgendo et raviluppando
lunga hora, a me non fie noievole che noi altresì, nelle feste di questa
felicità, che io so che è Amore, già entrati, alquanto
più innanzi anchora senza ordine erriamo et discorria mo per loro. Nel
quale discorrimento se averrà che davanti ci si parino le gioie de gli
altri sentimenti, le quali io di tacer vi proposi, acciò che elle in
tutto doler di noi non si possano, o forse s’accordassero per lo innanzi di
lasciarci, sì come noi hora havessimo loro lasciate, la qual cosa Idio
non voglia, che io ne starei molto male, noi potremmo far quello stesso qui
ragionando, che nelle pur dianzi ricordate tavole della nostra Reina desinando
et cenando facciamo. Perciò che delle molte maniere di vivanda et di
beveraggio che dinanzi recate ci sono, a una o a due fermatici, di quelle ci
satolliamo, dell’altre tutte, almeno per honorare il convito, alcuna tazza et
alcun tagliere assaggiamo solamente et assaporiamo. Così hora alla
pastura delle dolcezze de’ due primi sentimenti et del pensiero stando contenti
nel ragionare, quelle de gli altri, dove elle ci vengano dinanzi, presone il
sapore et il saggio, lasciaremo noi andare con la loro buona ventura.
Quantunque io per me non mi seppi far mai così savio, che io a quella
guisa ne’ conviti d’Amore mi sia saputo rattemperare, alla quale ne gli altri
mi rattempero tutto dì. Né consiglierei io già il nostro
novello sposo che, quando Amore gli porrà dinanzi le vivande delle sue ultime
tavole, che egli anchora non ha gustate, egli di quelle contento che gustate
ha, assaggiandole et assaporandole, partire le si lasciasse; ché egli se
ne potrebbe pentere. Non so hora il consiglio che voi, belle giovani, dareste
alla sposa.
Ma
tornando alle nostre dolcezze, dico che sì come quanta sia la bellezza
del dì, allhora più interamente si comprende, qualhora più
allo ’ncontro quanti sieno gl’incommodi della notte si considera sottilmente,
così per aventura gli amorosi giuochi più aperti ci si verranno
dimostrando et più chiari, se noi alquanto alla vita di quelli che non
amano porrem mente. Perciò che essi primieramente niuna vaghezza tenendo
di se medesimi, sì come coloro che non hanno a cui piacere, di niuna cortese
maniera cercano d’adestrar la loro persona, ma così abandonatamente la
portano le più volte, né capello, né barba, né
dente ordinandosi, né mano, né piede, come se ella non fosse la
loro. Male et disagiatamente vestono, habitano disordinati et maninconosi.
Né famiglia, né cavallo, né barchetta, né giardino
hanno essi, che così non paia piagnere come fanno i loro signori. Essi
non hanno amicitie, essi non hanno compagnie. Né sono giovati da gli
altri, né essi giovano altrui. Né dalle cose, né da gli
huomini pigliano o danno frutto alcuno. Fuggono le piazze, fuggono le feste,
fuggono i conviti, ne’ quali se pure alcuna volta s’avengono dalla
necessità o dalla loro seiagura portati, né costume, né
parlare, né accoglienza, né motto, né giuoco hanno essi,
che villano et salvatico non sia. Né di prosa sovien loro, né di
verso. Veggono, ascoltano, pensano tutte le cose ad un modo. Et in brieve,
sì come essi di fuori vivono pieni sempre di mentecattaggine et di
stordigione, così vive l’anima in loro. A’ quali se voi dimandaste
chenti sono le dolcezze et il frutto che essi sentono del loro vivere dì
per dì, essi si maraviglierebbono che voi parlaste in questa maniera, et
risponderebonvi che voi havete buon tempo, ma che essi già altro che
noie et rincrescimenti et fatiche non sentirono della lor vita giamai. Ma se
voi ad amanti ne dimandaste, essi per aventura in altra guisa vi
risponderebbono et direbbono così: ’O donne, che è quello che voi
ci dimandate? Senza numero sono i nostri avanzi et le nostre dolcezze et non si
possono raccontare. Perciò che incontanente che Amore con gli occhi
d’alcuna bella donna primieramente ci fiere, destasi l’anima nostra, che infino
a quella hora è giaciuta, tocca da non usato diletto, et destandosi ella
sente destare in sé un pensiero, il quale d’intorno alla imagine della
piaciuta donna con maravigliosa festa girando, accende una voglia di piacerle,
la quale è poi d’infinite gioie, d’infiniti beni principio. Mirabile
cosa è ad estimare gli occulti raggi di questo primo disio, quali essi sono.
Perciò che non solamente ogni vena empiono di soavissimo caldo et tutta
l’anima ingombrano di dolcezza, ma anchora gli spiriti nostri raccendendo, che
senza Amore si stanno a guisa di lumi spenti, di materiali et grosse forme ci
recano ad essere huomini aveduti et gentili. Con ciò sia cosa che per
piacere alle nostre donne et per la loro gratia et il loro amore acquistare,
quelle parti che più lodarsi ne gli altri giovani sentiamo, sovente
cerchiamo d’haver noi, acciò che per loro più riguardevoli tra
gli altri huomini et più pregiati divenuti, più altresì
alle nostre donne gradiamo. Onde in poco spatio tutte le prime rustichezze
lasciate et di dì in dì et d’hora in hora più di gentili
costumi apprendendo, quale si dà all’armeggiare, quale ad usar
magnificenze si dispone, quale ne’ servigi delle corti a gran re et a gran
signori si fa caro, quale a cittadinesca vita s’adordina, nelle honorate
bisogne della sua patria et in cortesie il tempo che gli è dato
ispendendo, et quale, a gli studi delle lettere volto il pensiero, o le
historie de gli antichi leggendo, se stesso con gli altrui essempi fa migliore
et diviene simile a loro o, nell’ampissimo campo della philosophia mettendosi,
et in dottrina et in bontà come albero da primavera cresce di giorno in
giorno, o pure nel vago prato entra della poesia et quivi, hora in una maniera
et hora in altra, cantando tesse alla sua donna care girlande di dolcissimi et
soavissimi fiori. Quale poi, di più abondevole ingegno sentendosi o da
più alto amore sollecitato, di diversi costumi s’anderà ornando,
d’arme, di lettere, di cortesie et d’altre parti insieme tutte lodate et
pregiate; onde egli quasi un celeste arco, di mille colori vestito, vaghissimo
si dimostrerà a’ riguardanti. In questa maniera ciascun per sé,
mentre d’esser cari ad una sola donna s’ingegnano, si fanno da tutti gli
huomini per valorosi tenere et per da molto; dove se dallo spron d’Amore punti
non fossero stati, per aventura conosciuti non sarebbono da persona o, per dir
più il vero, non si conoscerebbono essi stessi. Così quello, che
né battitura di maestro, né minaccie di padre, né lusinghe
o guiderdoni, né arte o fatica o ingegno o ammaestramento alcuno non
può fare, fallo Amore spesse volte agevolmente et dilettevolmente.
Et
certo pieni et dolci frutti son questi, tra quelli che ci rende Amore, i quali
sono veramente diversissimi et senza fine. Perciò che sì come non
sono tutte una le maniere de gli amanti ma molte, così non sono tutte
una le guise de’ nostri guadagni ma infinite. Sono alcuni che altro che
l’honestà pura et semplice l’uno dell’altro non amano, et di questa sola
tanto appagamento ne viene alle menti loro, qualunque volta essi nell’altezza
mirano de’ loro disij, che estimare senza fallo non si può se non si
pruova. Alcuni dall’amorose fiamme più riscaldati, ogni disvolere
levando de’ loro amori, niuna cosa si niegano giamai, ma quello che vuole
l’uno, vuole l’altro subitamente con quello medesimo affetto che esso facea, et
in questa guisa due anime governando con un solo filo, ad ogni possibile
diletto fortunosamente si fanno via. Alcuni poi, tra l’una et tra l’altra posti
di queste contentezze, hora il pregio della schifeltà honorando, hora i
frutti della dimestichezza procacciando, et con l’agro dell’una il dolce
dell’altra mescolando, un sapore sì dilettevole ne condiscono, che
d’altro cibo alle loro anime né prende maraviglia, né sorge
disio. Oltre a·cciò a quella timidetta verginella incomparabile festa
porgono i saluti et le passate del suo nuovo et accettevole amadore.
Quest’altro beano le lettere della sua cara donna, vergate con quella mano che
egli anchor tocca non ha, non più le note di lei leggendovi che la voce
et il volto et il cuore. Quell’altro mettono in un mare di dolvezza dieci
tremanti parole dettegli dalla sua. A molti la loro lungamente amata donna et
affettuosamente da gli anni più teneri vagheggiata, nel bel colmo delle
lor fiamme donerà il cielo a moglie, somma et honestissima ventura de
gli humani disii. Et alquante saranno altre coppie di cari amanti, le quali,
havendo le più calde hore della loro età in risguardo et in
salvatichezza trapassate, l’uno scrivendo et l’altra leggendo et amendue fama
et grido solamente di cercar dilettandosi de’ loro amori, poscia che la neve
delle tempie sopravenuta ogni sospetto ha tolto via, sedendo et ragionando et
gli antichi fuochi con sicuro diletto ricordando, tranquilli et riposati menano
dolcissimo tutto il rimanente della lor vita, ogni hora del così
condotto tempo più contenti. Ma che v’andiamo noi pure tuttavia di molti
amanti i diletti ragionando et le venture, quando delle sole di ciascuna coppia
lunga historia tessere se ne può agevolmente? Perciò che quale
diletto è da dire che sia il vedere quella fronte nella quale corrono
tutti i pensieri del cuore, nudi et semplici, secondo che essi nascono et
risorgono in lui? Quale, mirando ne’ coralli et nelle perle, di cui sono men
pretiose tutte le gemme de gli or[i]entali thesori, sentirne uscir quelle voci
che sono dall’ascoltante anima ricevute sì volentieri? Quale poi, tacendo
et mirando, far più dolve un silentio che mille parlari, tuttavolta con
lo spirito de gli occhi ragionando cose, che altri che Amore né
può intendere, né sa dettare? Quale, per mano tenendosi, tutto il
petto sentirsi allagare della dolcezza, non altramente che se un fiume di calda
manna ci andasse il cuore et le midolle torniando? Tacciansi le altre cotante
dolvezze et così vive; delle quali dire si può che, poi che tale
è la nostra vita, quale la natura ce la fece essere, poscia che noi venuti
ci siamo, dolcissima cosa è per certo accordarci col suo volere et
quella far legge della vita, che gli antichi fecero delle cene: o
pàrtiti, o bei. Oltre a cciò quanta contentezza credete voi che
sia la nostra, quanta sodisfattione, quanta pace, d’ogni nostro fatto, d’ogni
nostro accidente, d’ogni ventura, d’ogni sciagura, d’ogni oltraggio, d’ogni
piacere ragionarsi tra due con quella medesima sicurezza con che appena suole
altri seco medesimo ragionare? di nulla nascondere la nostra compagna anima, et
sapere altresì di nulla essere da·llei nascosi? ogni diletto, ogni
speranza raccomunare, ogni disio? niuna fatica schifare per lo suo riposo,
più di quello che ciascun fa per se stesso, niuna gravezza, niun peso?
bene, male, ogni cosa portar dolcemente, acconci con lieto viso, sì come
di vivere l’uno per l’altro, così di morire? Il che fa che a ciascuno et
le seconde cose via più giovano et le sinistre offendono meno, in quanto
le seconde l’uno col piacer dell’altro allettando in molti doppi crescono, et
quell’altre, subitamente partite et da ciascuno la metà toltane
fratellevolmente, già da prima perdono della loro intera forza; oltre
che poi et confortando et consigliando et aiutando, esse si deleguano, come
neve sotto primi soli, o almeno da nuovi diletti aombrate, sì ne gli
oblij delle passate cose le tuffiamo, che appena dir si può che elle ci
sieno state.
Dicono
i sonatori che, qua[n]do sono due liuti bene et in una medesima voce accordati,
chi l’un tocca, dove l’altro gli sia vicino et a fronte, amendue rispondono ad
un modo, et quel suono che fa il tocco, quello stesso fa l’altro non tocco et
non percosso da persona. O Amore, et qua’ liuti o qua’ lire più
concordemente si rispondono, che due anime che s’amino delle tue? Le quali, non
pur quando vicine sono et alcuno accidente l’una muove, amendue rendono un
medesimo concento, ma anchor lontane et non più mosse l’una che l’altra,
fanno dolcissima et conformissima harmonia. Pensa della sua cara donna il lontano
amante volentieri quando e’ può, et vedela et odela col pensarvi,
né ella con più diletto a veruna cosa giamai volge l’animo che
a·llui, et sono certi ciascuno che quello che l’uno fa, faccia l’altro tuttavia
parimente. Per che noi ci maravigliamo di Laodomia, alla quale per mirar nel
suo lontano Protesilao fosse huopo la dipinta cera della sua figura. A questa
guisa, donne, et vicini et lontani, sempre diletto, sempre sollazzi troviamo.
Perciò che Amore, sì come il sole, quantunque cangi segno, sempre
chiaro si mostra però a’ mortali, così egli, benché alle
volte muti paese con noi, pur tuttavia in ogni luogo de’ suoi doni ci fa
sentire. Egli in piano, egli in monte, egli in terra, egli in mare, egli ne’
porti et nelle sicurezze, egli nelle fortune et ne gli arrischiamenti, egli ad
huomini, egli a donne, sì come la sanità, sempre è
piacevole, sempre giova. Trastulla nelle rigide spilunche et nelle semplici et
povere capanne i duri et vaghi pastori. Conforta ne’ morbidi palagi et nelle
dorate camere le menti pensose de gli alti re. Tranquilla le noie de’
giudicanti, ristora le fatiche de’ guerreggianti; in quelli con le severe leggi
de gli huomini la piacevolissima della natura mescolando, a questi nel mezzo
de’ nocentissimi et sanguinosi guerreggiari pure et innocentissime paci
recando. Pasce i giovani, sostiene gli attempati, diletta gli uni et gli altri;
et sovente fa quello che cotanto pare a vedere maraviglioso, con ciò sia
cosa che egli nelle vecchie scorze ritorna il vigore delle fanciulle piante et,
sotto le bionde et liscie cotenne, insegna essere innanzi tempo mille vizzi et
canuti pensieri. Piace a’ buoni, diletta i saggi, è salutevole a tutti.
Scaccia la tristitia, toglie la maninconia, rimuove le paure, compone le liti,
fa le nozze, aceresce le famiglie. Insegna parlare, insegna tacere, insegna
cortesia. Dolci ci fa le dipartenze, perciò che più cari et di
più viva forza pieni ci apparecchia i ritorni loro; dolcissimi i ritorni
et le dimore, i quali col pensiero delle lor gioie ci fanno poi essere ogni nostra
lontananza soave. Lietissimi ci mena i giorni, ne’ quali ci fanno luce et
risplendono spesse volte due soli; ma le notti anchor più, sì
come quelle che il nostro sole non ci togliono perciò sempre. Il che
quando pure non aviene, egli non manca per lo più che il sonno cortese
quelle medesime feste non ci apporti et non ci doni, che alle vigilie vengono
tolte et negate; et così ci miriamo noi, così ragioniamo insieme,
così le nostre ragioni contiamo, così per mano ci prendiamo, come
quelli fanno che più veracemente l’appruovano quando che sia. Crescono
ogni giorno le dolcezze, avanzano ogni notte le venture; né per quelle
che sopravengono, mancano o scemano le sottostanti, anzi, sì come belle
nevi da belle nevi sopragiunte, più fresche et più morbide si mantengono
in quella maniera, così de gli amorosi sollazzi, sotto le dolci
copriture de gli ultimi, più dolci si conservano i primieri. Né
per le vecchie le nuove, né le d’hoggi per quelle di hieri menomano et
perdono della loro forza giamai, anzi, sì come numero che s’accosti a
numero, vie maggior somma fa, che soli et separati far non possono, così
le nostre feste, poste et giunte altre con altre, più di bene ci porgono
ciascuna, che fatto da sé non havrebbono. Sole bastano, accompagnate
crescono. Una mille ne fa, et delle mille in brieve tempo mille ne nascono per
ciascuna. Sono aspettate giocondissime, sono non aspettate venturose. Sono care
agevoli, ma disagevoli vie più care, in quanto le vittorie con alcuna
fatica et con alcun sudore acquistate fanno il triompho maggiore. Donate,
rubate, guadagnate, guiderdonate, ragionate, sospirate, lagrimate, rotte,
reintegrate, prime, seconde, false, vere, lunghe, brievi, tutte sono
dilettevoli, tutte sono gratiose. Et in brieve, sì come nella primavera
prati, campi, selve, piagge, valli, monti, fiumi, laghi, ogni cosa che si vede
è vaga; ride la terra, ride il mare, ride l’aria, ride il cielo; di
lumi, di canti, d’odori, di dolvezze, di tiepidezze ogni parte, ogni cosa
è pieno; così in Amore ciò che si dice, ciò che si
fa, ciò che si pensa, ciò che si mira, tutto è piacevole,
tutto è caro. Di feste, di sollazzi, di giuochi, d’allegrezze, di
piacimenti, di venture, di gioia, di riposo, di pace ogni stato, ogni anima
è ripiena". —
Non
si potea rattener Gismondo del dire, già tutto in su le lode d’Amore con
le parole et con l’animo riscaldato, et tuttavia diceva, quando le trombe, che
nelle feste della Reina le danze temperavano col lor suono, del palagio
rimbombando, alla bella brigata dello incominciato festeggiare dieder segno.
Per che, parendo a ciascuno di doversi partire, et levatisi, disse loro
Gismondo:
—
Queste et altre cose assai per aventura, o mie donne, v’harebbono ragionato gli
amanti huomini, se voi a dirvi di sopra quali sono gli amorosi diletti gli
haveste chiesti et dimandati. Et a me hora non picciolo spatio convien lasciare
del mio aringo, che io correre non posso. Ma Lavinello, al quale tocca domane
l’ultimo incarico de gli amorosi ragiona menti, dirà per me quello che
io dire hoggi compiutamente non ho potuto, come io volea; non voglio dire
"dovea’’, ché io sapea bene non ci essere bastante. —
Allhora
madonna Berenice, già insieme con gli altri verso il palagio inviatasi,
disse:
—
Come che hora il fatto si stia, Gismondo, del tuo havere a bastanza ragionato o
no, noi siam pure molto ben contente che di Lavinello habbia a dovere essere il
ragionar di domane; il quale se noi non conoscessimo più temperato nelle
sue parole, che tu hoggi nelle tue non sei stato, io per me non so quello che
io mi facessi di venirci.
— Et
che ho io detto, Madonna? — rispondea Gismondo. — Ho io detto altro che quello
che si fa, et anchor meno? Per che se io cotanto spiaciuto vi sono, ben ti so
confortar, Lavinello, che tu di quello ragioni che non si fa, se tu le vuoi
piacere. —
Voleasi
Lavinello pure ritrarre dal dover dire, recandone sue ragioni, che detto se
n’era assai et che egli non era hoggimai agevole, appresso due tali et
così diverse openioni et così abondevolmente sostentate dall’uno
et dall’altro de’ suoi compagni, recarne la sua, et quasi darne sentenza. Ma
ciò era niente; perciò che alle donne pure piaceva che anchora
egli dicesse, vaghe d’havere uditi una volta tutti e tre que’ giovani
partitamente ragionare, che elle sempre tenuti haveano et riputati per da
molto. Et quando bene le donne lasciate di male se ne havessero, non se ne
lasciava Gismondo; anzi diceva:
— O
Lavinello, o tu ci prometti di dire, o io ti fo citar questa sera dinanzi la
Reina; ché io disposto sono di vedere se i patti, che si fanno nelle sue
nozze, s’hanno a rompere in questa maniera. Et forse averrà quello che
tu quando i patti si fecero non istimavi, che ti converrà poi dire in
sua presenza.
—
Non si tiene ragione hora, — rispondea Lavinello — mentre il festeggiar dura.
Le liti ci sono sbandite. — Pure, temendo di quello che avenir gli potea, disse
di fare ciò che essi voleano. Et con queste parole giugnendo in su le
sale, et quivi da altri giovani cortigiani, che le feste inviavano, vedute le
belle donne venire, senza lasciarle più oltre passare f[u]rono invitate
tutte e tre et messe in danza, et li tre giovani si rimasero tra gli altri.
Non
si può senza maraviglia considerare, quanto sia malagevole il ritrovare
la verità delle cose che in quistion cadono tutto ’l giorno.
Perciò che di quante, come che sia, può alcun dubbio nelle nostre
menti generarsi, niuna pare che se ne veda sì poco dubbiosa, sopra la
quale et in pro et in contro disputare non si possa verisimilmente, sì
come sopra la contesa di Perottino et di Gismondo, nelli dinanzi libri
raccolta, s’è disputato. Et furono già di coloro, che, di
ciò che venisser dimandati, prometteano incontanente di rispondere.
Né mancarono ingegni, che in ogni proposta materia disputassero et all’una
guisa et all’altra. Il che diede per aventura occasione ad alcuni antichi
philosophi di credere, che di nulla si sapesse il vero et che altro già
che semplice openione et stima havere non si potesse di che che sia. La qual
credenza quantunque et in que’ tempi fosse dalle buone schuole rifiutata, et
hora non truovi gran fatto, che io mi creda, ricevitori, pure tuttavia è
rimaso nelle menti d’infiniti huomini una tacita et comune doglianza incontro
la natura, che ci tenga la pura midolla delle cose così riposta et di
mille menzogne, quasi di mille buccie, coperta et fasciata. Per che molti sono
che, disperando di poterla in ogni quistion ritrovare, in niuna la cercano et,
la colpa alla natura portando, lasciata la cognitione delle cose, vivono a
caso; altri poi, et vie più molti anchora ma di meno colpevole
sentimento, i quali, dalla malagevolezza del fatto in[viliti], o ad altrui
credono ciò che ciascuno ne dice et, a qualunque sentenza udire sono
quasi dall’onde portati, in quella sì come in uno scoglio si fermano, o
essi ne cercano leggiermente et di quello, che più tosto viene loro
trovato, contenti, non vanno più avanti. Ma de’ primieri non è da
farne lungo sermone, i quali a me sembrano a male recarsi che essi sieno nati
huomini più tosto che fiere, poseia ehe eglino, quella parte ehe da esse
ei diseosta rifiutando, privano del suo fine l’animo et del nostro maggiore
ornamento spogliano et see mano la loro vita. A quest’altri si può ben
dire primieramente ehe egli non si dee così di leggiero a rischio
dell’altrui erranza porre et mandar la sua fede, quando si vede che alcuni da
particòlare affettione sospinti, altri dalla institutione della vita o
dalla disciplina de’ seguitati studi presi et quasi legati, a ragionare et a
scrivere d’alcuna cosa si muovono, et non perché essi nel vero credano
et stimino che così sia (senza che sì suole egli etiandio non so
come alle volte avenire che, o parlando o scrivendo d’alcuna cosa, ci
sott’entra nell’animo a poco a poco la credenza di quello medesimo, che noi
trattiamo); et poi, che egli non basta, poscia che essi ne cercano,
leggiermente cercarne et d’ogni primo trovamento contentarsi; perciò che
se a gli a[l]tri, che ne hanno cerco, non si dee subitamente credere tutto
quello che essi ne dicono, perché si sono ingannar potuti, né a
noi doveremo credere subitamente, che ingannare altresì ci possiamo; et
sì anchora perciò che la debolezza de’ nostri giudicij è
molta, et di poche cose aviene che una prima et non molto considerata et con
lunghe disputationi essaminata openione sia ben sana. Che se alla debolezza de’
nostri giudicij s’aggiugne la oscurità del vero, che naturalmente pare
che sia in tutte le cose, vedranno chiaro questi cotali niuna altra differenza
essere tra essi et quelli che di nulla cercano, che sarebbe tra chi, assalito
da contrari venti sopra il nostro disagevole porto, non sperando di poterlo
pigliare, levasse dal governo la mano et del tutto in loro balìa si
lasciasse, né di porto né di lito procacciando, et chi, con
speranza di doverlo poter pigliare, pure al terreno si piegasse, ma dove
fossero i segni che la entrata dimostrano non curasse di por mente. La qual
cosa non faranno quegli huomini et quelle donne che me ascolteranno; anzi,
quanto essi vedranno essere et maggiore la oscurità nelle cose et ne’
nostri giudicij minore et meno penetrevole la veduta, tanto più
né a gli altri quistionanti ogni cosa crederanno, senza prima diligente
consideratione havervi sopra, né, quando del vero in alcun dubbio
cercheranno, appagheranno se stessi per cercarne poco, et meno a quello, che
trovato haveranno ne’ primi cercari, comunque loro paia potersene sodisfare, si
terranno appagati, estimando ehe se più oltre ne eereheranno, altro
anchora ne troverranno, come quel tanto hanno fatto, che più loro
sodisfarà. Né essi della natura si verran dolendo, come quelli
fanno, perciò che ella non ci habbia in aperto posta la verità
delle conoscibili cose, quando ella né l’argento, né l’oro,
né le gemme ha in palese poste, ma nel grembo della terra per le vene de
gli aspri monti et sotto la rena de’ correnti fiumi et nel fondo de gli alti
mari, sì come in più segreta parte, sotterate. Che se ella questi
più cari abbellimenti della nostra caduca et mortal parte ha, come si
vede, nascosi, che dovea ella fare della verità, non bellezza solamente
et adornamento, ma luce et scorta et sostegno dell’animo, moderatrice de’
soverchievoli disij, delle non vere allegrezze, delle vane paure discacciatrice
et delle nostre menti ne’ suoi dolori serenatrice et d’ogni male nimica et
guerriera? Le cose da ogniuno agevolmente possedute sono a ciascuno parimente
vili, et le rare giungono vie più care. Quantunque io stimo che saranno
molti che mi biasimeranno in ciò, che io alla parte di queste
investigationi le donne chiami, alle quali più s’acconvenga ne gli
uffici delle donne dimorarsi, che andare di queste cose cercando. De’ quali
tuttavia non mi cale. Perciò che se essi non niegano che alle donne
l’animo altresì come a gli huomini sia dato, non so io perché
più ad esse che a noi si disdica il cercare che cosa egli sia, che si
debba per lui fuggire, che seguitare; et sono queste tra le meno aperte
quistioni, et quelle per aventura d’intorno alle quali, sì come a perni,
tutte le scienze si volgono, segni et berzagli d’ogni nostra opera et
pensamento. Che se esse tuttavolta a quegli uffici, che diranno que’ tali esser
di donna, le loro convenevoli dimore non togliendo, ne gli studi delle lettere
et in queste cognitioni de’ loro otij ogni altra parte consumeranno, quello che
alquanti huomini di ciò ragionino non è da curare, perciò
che il mondo in loro loda ne ragionerà quando che sia. Et hora le
quistioni etiandio di Lavinello, il terzo giorno a maggior coro na, che quelle
de’ suoi compagni non furono, recitate, ascoltiamo.
Perciò
che, cercandosi il dì dinanzi delle tre donne per quelle che dimorar con
esso loro soleano, nello andare che elle fecero nelle feste, et trovato che
elle erano nel giardino et la cagione risaputasi, pervenne la novella di bocca
in bocca a gli orecchi della Reina, la quale ciò udendo et sentendo che
belle cose si ragionavano tra quella brigata, ma più avanti di loro non
sapendole perciò alcuna ben dire, mossa dal chiaro grido che i tre
giovani haveano di valenti et di scientiati, ne le prese talento di volere
intendere quali stati fossero i loro ragionamenti. Per che la sera, poscia che
festeggiato si fu et cenato et confettato, né altro attendendosi che
quello che la Reina commandasse, havendo ella tra le più vicine a
sé madonna Berenice, il viso et le parole verso lei dirizzando
lietamente disse:
—
Chente v’è paruto il nostro giardino, madonna Berenice, questi
dì, et che ce ne sapete dire? perciò che noi habbiamo inteso che
voi con vostre compagne vi sete stata.
—
Molto bene, Madama — rispose la donna, al dire di lei levatasi in chinevolmente.
— Egli m’è paruto tale, quale bisognava che egli mi paresse, essendo di
Vostra Maestà. —
Et
quivi dettone quello che dir se ne poteva cortesemente, et talvolta il
testimonio di Lisa et di Sabinetta mescolandovi, che molto lontane non l’erano,
fece tutte l’altre donne, che l’udivano et veduto non l’haveano, in maniera
disiderose di vederlo, che loro si facea già tardi che la Reina si
levasse, per potervi poi andare quella sera anchora col giorno, il quale
tuttavia di gran passo s’inchinava verso il Marrocco per nascondersi. Ma la
Reina leggiermente avedutasene, poi che madonna Berenice si tacque:
—
Nel vero — disse — egli ci suole essere di diporto et di piacere assai. Et
perciò che buoni dì sono che noi non vi siamo state, et queste
donne per aventura piglierebbono un poco d’aria volentieri, noi vi potemo
andare tutte hora per lo fresco. —
Et
così levatasi et presa per mano madonna Berenice, con tutte l’altre
scesa le scale et nel bel giardino entrata, lasciatene molte andare chi qua chi
là sollazzandosi, con lei ad una delle belle finestre riguardanti sopra
lo spatievole piano si pose a sedere et sì·lle disse:
—
Voi ci havete ben detto di questo giardino molte cose, le quali noi sapevamo,
come che voi ce l’havete fatte maggiori che elle non sono. Ma de’ vostri
ragionamenti, che fatti v’havete, de’ quali niuna cosa sappiamo et nondimeno
intendiamo che sono suti così belli et così vaghi, non ci havete
perciò detto cosa niuna. Fatecene partecepa, ché egli ci
sarà caro. —
Per
che ella non sapendo come negargliele et, dopo altre parole et dopo molte lode
date a’ tre giovani, fatta dolvemente sua scusa, che ella pure a ripensare tra
se stessa il tutto di tanti et tali ragionamenti non si sarebbe di leggiero
arrischiata, non che di raccontargli a Sua Maestà si fosse tenuta
bastante, dalla maggioranza data primieramente a Gismondo et dalla sua cagione
cominciatasi, non ristette prima di dire, che ella, tutte le parti de’ sermoni
di Perottino et di quelli di Gismondo brievemente raccogliendo, la somma delle
loro questioni al meglio che ella seppe le hebbe isposta, havendo sempre
risguardo che come donna et come a Reina gli esponea. La Reina, uditola et
parendole la macchia et l’ombra haver veduta di belle et convenevoli dipinture,
sentendo che Lavinello havea a dire il dì seguente, si dispose di
volerlo udire anchora essa et d’honorare sì bella compagnia, quel
dì che ella potea, con la sua presenza; et dissegliele. Il che alla
donna fu molto caro, parendole che, se la Reina vi venisse, ogni materia
dovesse potere essere tolta via a chiunque di così fatti ragionamenti et
di tale dimora fosse venuto in pensiero di parlarne meno che convenevolmente.
Erasi
già col fine delle parole di madonna Berenice ogni luce del dì
partita dal nostro hemispero, et le stelle nel cielo haveano cominciato a
riprendere da ogni parte la loro; per che, con quella di molti torchi, la Reina
et l’altre donne, risalite le scale, s’andarono alle loro camere per riposarsi.
Nelle quali come fu con le sue compagne madonna Berenice, detto loro ciò
che con la Reina ragionato havea tanta hora et il suo pensiero, mandarono di
presente per li tre giovani; i quali venuti, disse madonna Berenice a
Lavinello:
—
Lavinello, egli t’è pure venuto fatto quello, di che hoggi Gismondo ti
minacciò: sappi che ti converrà dire in presenza di madonna la
Reina domane. —
Et
fatto loro intendere come la cosa era ita et alquanto sopra ragionatone,
licentiatigli, a’ bisogni della notte et al sonno diedero le sue hore.
Ma
venuto il dì et desinatosi et ciascuno alle sue dimore ritornato, presa
la Reina quella compagnia di donne et di gentili huomini, che le parve dover
pigliare, con le tre donne et co’ tre giovani n’andò nel giardino et,
messasi anchor lei a sedere sopra la verde et dipinta herbetta all’ombra de gli
allori, come l’altre, in su due bellissimi origlieri, che quivi posti dalle sue
damigielle l’aspettavano, et ciascuno altro delle donne et de gli huomini
secondo la loro qualità, chi più presso di lei et chi meno,
rassettatisi, altro che il dire di Lavinello non s’attendeva: il quale, fatta
riverenza alla Reina, incominciò:
—
Poscia che io intesi, Madonna, esser piacere di Vostra Maestà che io in
presenza di voi ragionassi quello, che alla picciola nostra brigata di questi
due dì havere a ragionare mi eredea, stetti buona pezza sopra me, alla
debolezza del mio ingegno et all’importanza delle cose propostemi et al
convenevole di Vostra Altezza ripensando; et pareami havere mal fatto quando
io, alle nostre donne et a’ miei compagni promettendo di dire, accettai questo
peso. Perciò che, quantunque io allhora estimassi come che sia poter per
aventura sodisfare al loro disio, nondimento tosto che io mi pensai che le mie
parole alle vostre orecchie doveano pervenire, et la imagine di voi mi posi
innanzi, subitamente et le mie forze più brievi et la materia più
ampia essere m’apparvono d’assai, che elle non m’erano per lo adietro parute.
Per che io mi tenni essere a stretto partitO infino a·ttanto che, all’infinita
vostra naturale humanità rivolto il pensiero, da·llei confortato ripresi
animo, estimando di non dover potere erra re ubidendovi, perciò che io
d’ogni mio possibile fallo ne la conoscea vie maggiore. Oltre che poi,
più altre parti d’intorno a questo fatto considerate, compresi che se la
fortuna, havendo risguardo alla grandezza delle cose che dir si poteano, havea
loro maggiore ascoltatrice et più alta giudice apparecchiata, ciò
a me non dovea essere discaro, quando da voi et perdono, dove io errassi, et
aiuto, dove io mancassi, venire abondevolmente mi potea et non altro. Senza
che, se io risguardo più avanti, buona arra mi può esser questa
di dovere anchora poter vincere la presente quistione da Gismondo propostaci,
et da·llui et da Perottino disputata, il vedere allo ascoltamento de’ miei
amorosi ragionamenti datami la Reina di Cipri, la qual cosa non avenne de gli
loro. Vagliami adunque il così preso di voi augurio, Madonna, in quella
parte che io il prendo, et aspiri hora in ciò che io debbo dire il dolce
raggio della vostra salutevole assidenza, nell’ampio favor della quale
distendendo le sue ali il mio picciolo et pauroso ardire, con buona licenza di
voi io incomincierò.
Comportevoli
poteano essere amendue le openioni, Madonna, hieri a voi dalle nostre donne et
loro questi giorni da’ miei compagni recitate, et di volontà si sarebbe
la lor lite terminar potuto senza nuovo giudicio alcuno, se, l’uno dalla noia
et l’altro dalla gioia, che essi amando sentono, sollecitati, la giusta misura
nel giudicare passata non havessero et la libertà del dire portata
ciascuno in troppo stretto et rinchiuso luogo. Perciò che, per
comprendere in brieve spatio tutto quello in che essi occuparono lunga hora,
se, come hanno voluto dimostrarci, l’uno che Amore sempre è reo,
né può esser buono, et l’altro che egli sempre è buono,
né può reo essere, havessero così detto che egli è
buono et che egli è reo, et oltre a cciò non si fossero iti
ristrignendo, di meno si sarebbe potuto fare di dare hora questo disagio a
Vostra Maestà d’ascoltarmi. Perciò che nel vero così
è, che Amore, di cui ragionato ci s’è, può essere et buono
et reo, sì come io m’accostarò di far lor chiaro. Et quantunque,
di queste loro tali et così fatte openioni, manifestamente ne segua
convenirsi di necessità confessare che almeno l’una non sia vera,
perciò che esse tra sé si discordano, non pertanto eglino sopra
ciò in cotal guisa le vele diedero de i loro ragionamenti, che senza
fallo et l’una et l’altra sono potute a gli ascoltanti parer vere, o almeno
quale sia la men vera sciorre non si può agevolmente; il che tuttavia
che amendue sieno false non è picciol segno, con ciò sia cosa che
la verità, quando ella è tocca, saglie quasi favilla fuori delle
bugie, subitamente manifestandosi a chi vi mira. Et certo molte cose hae raccolte
Perottino, molte novelle, molti argomenti recati per dimostrarci che Amore
sempre è amaro, sempre è dannoso; molti dall’altra parte Gismondo
in farci a credere che egli altro che dolcissimo et giovevolissimo essere non
possa giamai. L’uno doglioso, l’altro festoso è stato. Quegli piangendo
ha fatto noi piagnere, questi motteggiando ci ha fatti ridere più volte.
Et mentre che in diverse maniere ciascuno et con più amminicoli
s’è ingegnato di sostentare la sua sentenza, dove gli altri per trarne
il vero disputano, che in dubbio sia essi con le loro dispute l’hanno posto in
quistione dove egli non v’era. Hora non aspettino i miei compagni che io a
ciascuna parte m’opponga delle loro contese, che sono per lo più di
soverchio. Io di tanto con loro garreggierò, di quanto fie bastevole a
fargli racconoscenti delle loro torte et mal prese vie.
Dico
adunque, Madonna, che con ciò sia cosa che Amore niente altro è
che disio, il quale come che sia d’intorno a quello che c’è piaciuto si
gira, perciò che amare senza disio non si può, o di goder quello
che noi amiamo o d’altramente goderne, che noi non godiamo, o di goderne
sempre, o di bene, che noi con la volontà all’amate cose cerchiamo; et
disio altro non è che amore, perciò che disiderare cosa che non
s’ami non è di nostra possa, né può essere in alcun modo:
ogni amore et ogni disio sono quel medesimo et l’uno et l’altro. Et questi sono
in noi di due maniere solamente, o naturali o di nostra volontà.
Naturali sono, sì come è amare il vivere, amare lo intendere,
amare la perpetuagione di se medesimi, i figliuoli, et le giovevoli cose che la
natura senza mezzo alcuno ci dà, et sempre durano et sono in tutti gli
huomini ad un modo. Di nostra volontà sono poi quegli altri, che in noi
separatamente si creano, secondo che essa volontà, invitata da gli
obbietti, muove a disiderare hor uno hor altro, hor questa cosa hor quella, hor
molto hor poco; et questi disij et scemano et crescono, et si lasciano et si
ripigliano, et bastano et non bastano, et in quest’animo d’una maniera et in
quello sono d’altra, sì come noi medesimi vogliamo et acconci siamo a
dar loro ne’ nostri animi alloggiamento et stato. Ma non a ventura né a
caso ci furono così date queste guise di disij, Madonna, che io vi
ragiono, anzi con ordinato consiglio di chiunque s’è colui, che è
di noi et di tutte le cose prima et verissima cagione. Perciò che
volendo egli che la generation de gli huomini, sì come ancho quelle de
gli altri animali, s’andasse col mondo perpetuando, ricoverandosi di tempo in
tempo, s’avide essere di necessità crear in tutti noi altresì,
come in loro, questo amor di vita, che io dissi, et de’ figliuoli et delle cose
che giovano et fanno a nostro migliore et più perfetto stato; il quale
amore se stato non fosse. sarebbe co’ primi huomini la nostra spetie finita,
che anchor dura. Ma perciò che, havendoci esso a maggiori cose et a
più alto fine creati, che fatto gli altri animali non havea, aggiunse
ne’ nostri animi le parti della ragione, fu di mestiero, acciò che ella
in noi vana et otiosa non rimanesse, che egli la volontà, che io dissi,
etiandio aggiugnesse in noi libera et di nostro arbitrio, con la quale et
disiderare et non disiderare potessimo d’intorno alle altre cose, secondo che a
noi venisse parendo il migliore. Così aviene che nelle naturali et
primiere nostre voglie tutti amiamo et disideriamo ad un modo, sì come
fanno gli altri animali medesimi, i quali procacciano di vivere et di bastare
al meglio che essi possono ciascuno; ma nelle altre non così,
perciò che io tale ne potrò amare, che non amerà
Perottino, et tale amerà egli, che io per aventura non amerò, o
egli molto l’amerà, dove io l’amerò poco. Hora è da saper
quello di che hieri Gismondo ci ragionò, che, perciò che la
natura non s’inganna, i disij, che naturali sono, sono similmente buoni sempre,
né possono rei essere in alcuna maniera giamai; ma gli altri, il che non
ci ragionò già hieri Gismondo, perciò che la nostra
volontà può ingannarsi, et più sovente il fa che io non
vorrei, et buoni et rei esser possono altresì, come sono i fini a cui
ella dirizza il disio. Et di questa maniera di disij è quello di cui ci
propose il ragionare Gismondo, et il quale Amore generalmente chiamano le genti
tutto dì, et per lo quale noi Amanti comunemente ci chiamiamo; con ciò
sia cosa che secondo l’arbitrio di ciascuno amiamo et disamiamo, et
diversamente amiamo, et non necessariamente sempre et tutti quel medesimo et ad
un modo, sì come aviene ne’ naturali disij. Per che egli et buono et reo
esser può, secondo la qualità del fine che dalla nostra
volontà gli è dato. Quantunque Gismondo per sostegno delle sue
ragioni, che cadeano, co’ naturali disij ne ’l mescolasse, volendoci dimostrar
per questo che egli buono fosse sempre, né potesse malvagio essere in
alcun tempo. Perciò che chi non sa che se io gentile et valorosa donna
amerò et di lei lo ’ngegno, l’honestà, la cortesia, la leggiadria
et l’altre parti dell’animo, più che quelle del corpo, né quelle
del corpo per sé, ma in quanto di quelle dell’animo sono fregio et
adornamento, chi non sa, dico, che se io così amerò, il mio amore
sarà buono, perciò che buona sarà la cosa da me amata et
disiderata? Et allo ’ncontro, se io ad amare dishonesta et stemperata donna mi
disporrò, o pure di casta et di temperata quello, che suole essere
obbietto d’animo dishonesto et stemperato, come si potrà dire che tale
amore malvagio et fello non sia, con ciò sia cosa che quello che si
cerca è in se medesimo fello et malvagio? Certo, sì come a chi in
quella guisa ama, le più volte aviene che quelle venture lo seguono, che
ci disse Gismondo che seguivano gli amanti: risvegliamento d’ingegno,
sgombramento di sciocchezza, accrescimento di valore, fuggimento d’ogni voglia
bassa et villana et delle noie della vita in ogni luogo in ogni tempo dolcissimo
et salutevolissimo riparo, così a chi in questa maniera disia, altro che
male avenire non gliene può, perciò che bene spesso quell’altre
sciagure lo ’ncontrano, nelle quali ci mostrò Perottino che incontravano
gli amanti, cotante et così gravi: scorni, sospetti, pentimenti,
gielosie, sospiri, lagrime, dolori, manchezza di tutte le buone opere, di
tempo, d’honore, d’amici, di consiglio, di vita et di se medesimo perdezza et
distruggimento.
Ma
non credere tuttavia, Gismondo, perciò che io così parlo, che io
per aventura stimi buono essere lo amare nella guisa che tu ci hai ragionato.
Io tanto sono da te, quanto tu dalla verità lontano, dalla quale ti
discosti ogni volta che fuori de’ termini de’ duo primi sentimenti et del
pensiero ti lasci dal tuo disiderio traportare, et di loro amando non stai
contento. Perciò che è verissima openione, a noi dalle più
approvate schuole de gli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il
buono amore che di bellezza disio. La qual bellezza che cosa è se tu con
tanta diligenza per lo adietro havessi d’intendere procacciato, con quanta ei
hai le parti della tua bella donna voluto hieri dipignere sottilmente,
né come fai ameresti tu già, né quello, che ti cerchi
amando, haresti a gli altri lodato come hai. Perciò che ella non
è altro che una gratia che di proportione et di convenenza nasce et
d’harmonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi
suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa et più vaghi, et
è accidente ne gli huomini non meno dell’animo che del corpo.
Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra
tengono proportione tra loro, così è bello quello animo, le cui
virtù fanno tra sé harmonia; et tanto più sono di bellezza
partecipi et l’uno et l’altro, quanto in loro è quella gratia, che io dico,
delle loro parti et della loro convenenza, più compiuta et più
piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu
vedi, et d’animo parimente et di corpo, et a·llei, sì come a suo vero
obbietto, batte et stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre
ha: l’una, che a quella dell’animo lo manda, et questa è l’udire;
l’altra, che a quella del corpo lo porta, et questa è il vedere.
Perciò che sì come per le forme, che a gli occhi si manifestano,
quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che
gli orecchi ricevono, quanta quella dell’animo sia comprendiamo. Né ad
altro fine ci fu il parlare dalla natura dato, che perché esso fosse tra
noi de’ nostri animi segno et dimostramento. Ma perciò che il passare a’
loro obbietti per queste vie la fortuna et il caso sovente a’ nostri disiderij
t"r possono, da·lloro, sì come spesso aviene, lontanandoci,
ché, come tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l’occhio
né l’orecchio non si stende, quella medesima natura, che i due
sentimenti dati n’havea, ci diede parimente il pensiero, col quale potessimo al
godimento delle une bellezze et delle altre, quandunque a noi piacesse,
pervenire. Con ciò sia cosa che, sì come ci ragionasti tu hieri
lungamente, et le bellezze del corpo et quelle dell’animo ci si rappresentano
col pensarvi, et pìgliassene, ogni volta che a noi medesimi piace, senza
alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come alle bellezze dell’animo
aggiugnere né fiutando, né toccando, né gustando non si
può, così non si può né più né meno
etiandio a quelle del corpo, perciò che questi sentimenti tra le siepi
di più materiali obbietti si rinchiudono, che non fanno quegli altri.
Che perché tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra
quest’herbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è
odorante, quale fiatoso, quale amaro, quale dolce, quale aspero, quale morbido,
ma che bellezza sia la loro, se tu non gli mirassi altresì, mica non
potresti tu conoscere, più di quello che potesse conoscere un cieco la
bellezza d’una dipinta imagine, che davanti recata gli fosse. Per che se il
buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, et se alla bellezza
altro di noi et delle nostre sentimenta non ci scorge che l’occhio et
l’orecchio et il pensiero, tutto quello che è da gli amanti con gli
altri sentimenti cercato, fuori di ciò che per sostegno della vita si
procaccia, non è buono amore, ma è malvagio; et tu in questa
parte amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose. Perciò
che sozzo et laido è l’andare di que’ diletti cercando, che in straniera
balìa dimorano et havere non si possono senza occupatione dell’altrui et
sono in se stessi et disagevoli et nocenti et terrestri et limacciosi, potendo
tu di quelli havere, il godere de’ quali nella nostra potestà giace et
godendone nulla s’occupa, che alcuno tenga proprio suo, et ciascuno è in
sé agevole, innocente, spiritale, puro. Questi bastava che tu hieri ci
havessi lodati, o Gismondo, questi potrai tu ad ogni tempo con le prose et con
le rime inalzare, ché sopra il convenevole senza fallo alcuno essi
giamai non saranno inalzati. Di quegli altri se tu pure ragionar ci volevi,
biasimandogli a tuo potere et avallandogli dovevi tu farlo, che il buono amore
haresti lodato acconciamente in questa guisa, dove tu l’hai sconciamente in
quella maniera vituperato. Il quale, perciò che grande idio si dice
essere, io ti conforterei, Gismondo, che tu hora il contrario facessi in amenda
del tuo errore, di quello che fe’ già Stesichoro ne gli antichi tempi in
amenda del suo; perciò che, havendo egli co’ suoi versi la greca Helena
vituperata, et fatto per questo cieco, da capo in sua loda ricantandone,
tornò sano; eosì tu hoggi contrariamente tanto di loro ei
rifavellassi disprezzandogli, quanto tu hieri ci hai apprezzandogli ragionato,
et sì rihaverai tu la luce del diritto giudicio, che hai perduta. —
Tacque
Lavinello così un poco, detto che egli hebbe infin qui, et, come aviene
che si fa ragionando, sostatosi, ricoglieva spirito per riparlare, quando la
Reina, soavemente alquanto sopra sé recatasi, così a llui con
sereno aspetto cominciò, et disse:
—
Bene havete fatto, Lavinello, per certo a sovenirci hora di quello, poeti et
versi ricordandoci, di che per aventura la vaghezza de’ vostri ragionamenti,
tacendol voi, ci harebbe tenuta obliosa. Perciò che, havendo i vostri
compagni, sì come noi habbiamo inteso, tra gli loro ragionamenti di
questi dì cotante et così belle rime mescolate, che le vostre
donne udite hanno, non volete anchor voi hora alcuna delle vostre mescolare et
tramettere in questi parlari, che noi etiandio ascoltiamo, poscia che le loro
non habbiamo ascoltate?
— Se
io rime havessi, Madonna, — rispose con riverente fronte Lavinello — le quali
di tanto fossero di quelle de’ miei compagni più vaghe, di quanto sete
voi delle nostre donne maggiore, io per aventura potrei hoggi senza biasimo
d’arroganza recitarne alcuna, sì come essi fecero hieri et dianz’hieri
le molte loro, che voi dite. Ma io non le ho pure di gran lunga al nostro
picciolo primier cerchio bastevoli, non che elle ardissero di lasciarsi in
così ampio theatro, quale la vostra presenza è, in alcuna guisa
sentire. Per che piaccia più tosto a Vostra Maestà di non mi
porre addosso quel peso, che io portar non posso.
—
Voi di troppo ci honorate — riprese la Reina — con la vostra grande
humanità, et le vostre donne si potranno di voi dolere, le quali noi
come sorelle honoriamo. Ma, lasciando ciò andare, voi di certo ci
fareste ingiuria, se di quello non voleste rallegrarci, di che hanno i vostri
compagni le loro ascoltatrici rallegrate et di che tuttavia sentiamo che sete
abondevole et dovitioso anchor voi. —
Per
la qual cosa non trovando Lavinello via come honestamente ricusare gliele
potesse, dopo altre parole, sì di madonna Berenice, che la Reina
cortesemente pregava che al tutto lo facesse dire alcuna canzone, et sì
di Gismondo, che diceva che egli n’era maestro, esso così disse:
— Io
dirò, Madonna, poi che così piace a Vostra Maestà; et
dirò pure come io potrò, et poscia che a questo fare mi chiamate
hora, che io delle tre innocenti maniere di diletti che bene amando si sentono,
vi ragionava, quello di loro, che tre mie canzoni nate ad un corpo ne
raccogliessero già, in parte vi racconterò, acciò che io
così, più tosto questo rischievole passo valicato, l’altra parte
de’ miei ragionamenti possa con più sicuro piede fornire. —
Et
ciò detto, così incominciò la primiera
Perché
’l piacer a ragionar m’invoglia,
Et di sua propria man mi detta Amore,
Né da l’un, né da l’altro
ardisco aitarmi;
Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,
Et sol questa mercede appaghi il core,
Tanto ch’io dica et possa contentarmi;
C’haver dinanzi sì bel viso parmi,
Sì pure voci et tanto alti pensieri,
Che, perch’io mai non speri
Per forza di mio ingegno o per altr’arte,
Cose leggiadre et nove,
Che ’n mill’anni volgendo il ciel non piove,
Qual’io le sento al cor, stender in carte,
Pur le mie ferme stelle
Portan ad hor ad hor ch’io ne favelle.
Era
ne la stagion che ’l ghiaccio perde
Da le viole, e ’l sol cangiando stile
La faccia oscura a le campagne ha tolta,
Quando tra ’l bel cristallo e ’l dolce verde
Mi corse al cor la mia donna gentile,
Che correr vi dovea sol una volta.
Mia ventura in quel punto havea disciolta
La treccia d’oro, et quel soave sguardo,
Lieto, cortese et tardo,
Armavan sì felici et cari lumi,
Che quant’io vidi poi,
Vago amoroso et pellegrin fra noi,
Rimembrando di lor, tenni ombre et fumi;
Et dicea fra me stesso:
"Amor senz’alcun dubbio è qui da
presso".
Ben
diss’io ’l ver, che come ’l dì col sole,
Così con la mia donna Amor ven sempre,
Che da’ begli occhi mai non s’allontana;
Poi senti’ ragionando dir parole
Et risonar in sì soavi tempre,
Che già non mi sembiar di lingua
humana:
Correa da parte una chiara fontana,
Che vide l’acque sue quel dì più
vive
Avanzar per le rive,
E ’ncontro i raggi de le luci sante
Ogni ramo inchinarsi
Del bosco intorno et più frondoso
farsi,
Et fiorir l’herbe sotto le sue piante,
Et quetar tutti i venti
Al suon de’ primi suoi beati accenti.
Quante
dolcezze con amanti unquanco
Non eran state certo infin quel giorno,
Tutte fur meco, et non la scorsi apena:
Vincea la neve il vestir puro et bianco
Dal collo a’ piedi, e ’l bel lembo d’intorno
Havea virtù da far l’aria serena;
L’andar toglieva l’alme a la lor pena
Et ristorava ogni passato oltraggio;
Ma ’l parlar dolve et saggio,
Che m’havea già da me stesso diviso,
E i begli occhi et le chiome,
Che fur legami a le mie care some.
De le cose parean di paradiso
Scese qua giuso in terra,
Per dar al mondo pace et torli guerra.
"Deh
se per mio destin voci mortali,
Et son di donna pur queste bellezze,
Beato chi l’ascolta et chi la mira;
Ma se non son, chi mi darà tante ali
Ch’io segua lei, s’aven ch’ella non prezze
Di star là ’ve si piagne et si
sospira?".
Così pensava, e ’n quanto occhio si
gira,
Vidi un che ’l dolce volto dipingea
Parte, et parte scrivea
Ne l’alma dentro le parole e ’l suono,
Dicendo: "Queste homai
Penne da gir con lei tu sempre harai’’.
Alhor mi scossi et, qual io qui mi sono,
Tal la mia donna bella
M’era nel petto in viso et in favella.
Rimanti
qui, canzon, poi che de l’alto
Mio thesoro infinito
Così poveramente t’hai vestito.
Detta
questa canzone, volea Lavinello a’ suoi ragionamenti ritornare, ma la Reina,
che del suo dire di tre canzoni nate ad un corpo non s’era dimenticata,
essendonele questa piaciuta, volle che egli etiandio alle altre due passasse,
onde egli la seconda in questa guisa incomin ciando seguitò, et disse:
Se
ne la prima vogha mi rinvesca
L’anima desiosa, et pur un poco
Per levarmi da lei l’ale non stende,
Meraviglia non è, di sì
dolc’esca
Movono le faville et nasce il foco,
Ch’a ragionar di voi, Donna, m’accende
Voi sete dentro, et ciò che fuor
risplende
Esser altro non pò che vostro raggio;
Ma perch’io poi non haggio
In ritrarlo ad altrui le rime accorte.
Ben ha da voi radice
Tutto quel che per me se ne ridice.
Ma le parole son debili et corte;
Che se fosser bastanti,
Ne ’nvaghirei mille cortesi amanti.
Però
che da quel dì, ch’io feci imprima
Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia
Tutto questo mio viver non è stato;
Et se per lunghe prove il ver s’estima,
Quantunque ch’io mi viva o ch’io mi moia,
Non spero d’esser mai se non beato,
Sì fermo è ’l piè del mio
felice stato.
Et certo sotto ’l cerchio de la luna
Sorte gioiosa alcuna,
Et un ben, quanto ’l mio, non si ritrova;
Ché s’altri è lieto alquanto,
Immantenente poi l’assale il pianto;
Ma io non ho dolor che mi rimova
Da la mia festa pura,
Vostra mercé, Madonna, et mia ventura.
Et
se duro destin a ferir viemmi
Con più forza talhor, di là non
passa
Da la spoglia, ond’io vo caduco et frale;
Ché ’l piacer, di che Amor armato
tiemmi,
Sostiene il colpo et gir oltra no ’l lassa,
Là ’ve sedete voi, che ’l fate tale.
Però s’io vivo a tempo, che mortale
Fora ad altrui, non è per proprio
ingegno:
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral de le sventure humane;
Ma voi sete il mio schermo,
Et perch’io sia di mia natura infermo,
Sotto ’l caso di me poco rimane.
Lasso, ma chi pò dire
Le tante guise poi del mio gioire?
Che
spesso un giro sol de gli occhi vostri,
Una sol voce in allentar lo spirto
Mi lassa in mezzo ’l cor tanta dolcezza,
Che no ’l porian contar lingue né
inchiostri;
Né così ’l verde serva lauro o
mirto,
Com’ei le forme d’ogni sua vaghezza;
Et ho sì l’alma a questo cibo avezza,
Ch’a lei piacer non pò, né la
desvia
Cosa che voi non sia
O col vostro penser non s’accompagne,
Et quando il giorno breve
Copre le rive et le piagge di neve,
Et quando ’l lungo infiamma le campagne,
Et quando aprono i fiori,
Et quando i rami poi tornan minori.
Gigli, caltha, viole,
acantho et rose
Et rubini et zaphiri et
perle et oro
Scopro, s’io miro nel bel vostro volto.
Dolce harmonia de le più care cose
Sento per l’aere andar et dolce choro
Di spiriti celesti, s’io v’ascolto.
Tutto quel che diletta, inseme accolto
Et posto col piacer, che mi trastulla
Se di voi penso, è nulla.
Né giurerei ch’Amor tanto s’avanzi
Perc’ha la face et l’arco,
Quanto per voi, mio pretioso incarco;
Et hor me ’l par veder,
ch’a voi dinanzi
Voli superbo et dica:
"Tanto son io, quanto m’è questa
amica".
Né
tu per gir, canzon, ad altro albergo,
Del mio ti partirai,
Se quanto rozza sei conoscerai.
Et
poi di questa passò Lavinello etiandio alla terza senza dimora, et
disse:
Dapoi
ch’Amor in tanto non si stanca
Dettarmi quel, ond’io sempre ragioni,
E ’l piacer più che mai dentro mi
punge,
Anchor dirò; ma se dal vero manca
La voce mia, Madonna il mi perdoni,
Che ’n tutto dal nostr’uso si disgiunge.
Et come salirei dov’ella aggiunge,
Io basso et grave et ella alta et leggera?
Basti matino et sera
L’alma inchinarle, quanto si convene,
Et qualche pura scorza
Segnar, alhor che ’l gran desio mi sforza,
Del suo bel nome, et le più fide arene,
Acciò che ’l mar la chiami
Et ogni selva la conosca et ami.
Questo
faccia il desir in parte satio,
Che vorria alzarsi a dir de la mia donna;
Ma tema di cader lo tene a freno.
Et se per le sue lode unqua mi spation
Ch’è ben d’alto valor ferma colonna,
Non è però ch’io creda dirne a
pieno.
Ma perch’altrui lo mio stato sereno
Cerco mostrar, che sol da lei deriva,
Forza è talhor ch’io scriva
Com’ogni mio pensier indi si miete:
O di quella soave
Aura, che del mio cor volge la chiave,
O pur di voi, che ’l mio sostegno sete,
Stelle lucenti et care,
Se non quando di voi ml sete avare.
Voi
date al viver mio l’un fido porto,
Ché come ’l sol di luce il mondo
ingombra
Et la nebbia sparisce inanzi al vento,
Così mi ven da voi gioia et conforto
Et così d’ogni parte si disgombra
Per lo vostro apparir noia et tormento.
L’altro è quando parlar Madonna sento,
Che d’ogni bassa impresa mi ritoglie
Et quel laccio discioglie,
Che gli animi stringendo a terra inclina;
Tal ch’io mi fido anchora,
Quand’io sarò di questo carcer fora,
Far di me stesso a la morte rapina,
E ’n più leggiadra forma
Rimaner de gli amanti exempio et norma.
Il
terzo è ’l mio solingo alto pensero,
Col qual entro a mirarla et cerco et giro
Suoi tanti honor, che sol un non ne lasso;
Et scorgo il bel sembiante humile altero
E ’l riso, che fa dolce ogni martiro,
E ’l cantar, che potria mollire un sasso.
O quante cose qui tacendo passo,
Che mi stan chiuse al cor sì
dolcemente!
Poi raffermo la mente
In un giardin di novi fiori eterno,
Et odo dir ne l’herba:
"A la tua donna questo si riserba;
Ella potrà qui far la state e ’l
verno".
Di cota’ viste vago,
Pascomi sempre et d’altro non m’appago.
Et
chi non sa quanto si gode in cielo
Vedendo Dio per l’anime beate,
Provi questo piacer, di ch’io li parlo.
Da quel dì inanzi mai caldo né
gelo
Non temerà, né altra indignitate
Ardirà de la vita unque appressarlo;
Et pur ch’un poco mova a salutarlo
Madonna il dolce et gratioso ciglio,
Più di nostro consiglio
Non havrà huopo et vincerà il
destino,
Ché quelle vaghe luci
A salir sopra ’l ciel li saran duci,
Et mostreranli il più dritto camino,
Et potrà gir volando,
Ogni cosa mortal sotto lasciando.
Ove
ne vai, canzon, s’anchora è meco
L’una compagna et l’altra?
Già non sei tu di lor più ricca
o scaltra.
Ispeditosi
Lavinello del dire delle tre canzoni, i suoi primieri ragionamenti così
riprese:
—
Questo poco, Madonna, che io v’ho fin qui detto, sarebbe alle nostre donne
potuto per aventura bastare per dimostramento della menzogna che l’uno et
l’altro de’ miei compagni sotto le molte falde delle loro dispute haveano
questi giorni, sì come udito havete, assai acconciamente nascosa; ma non
a voi, né pure alla vostra fanciulla, che così vagamente
l’altr’hieri alle tavole di Vostra Maestà cantando, ci mostrò
quello che io dire ne dovea, poscia che i miei compagni, per le pedate
dell’altre due mettendosi, haveano a tacerlo. Nella qual cosa tuttavia ben
provide senza fallo alcuno al mio gran bisogno la fortuna di questi
ragionamenti. Perciò che andando io questa mattina per tempo, da costor
toltomi et del castello uscito, solo in su questi pensieri, posto il piè
in una vietta per la quale questo colle si sale, che c’è qui dietro,
senza sapere dove io m’andassi, pervenni a quel boschetto, che, la più
alta parte della vaga montagnetta occupando, cresce ritondo come se egli vi
fosse stato posto a misura. Non ispiacque a gli occhi miei quello incontro,
anzi, rotto il pensar d’amore et in sul piè fermatomi, poscia che io
mirato l’hebbi così dal di fuori, dalla vaghezza delle belle ombre et
del selvareccio silentio invitato, mi prese disiderio di passar tra loro, et
messomi per un sentiero, il quale appena segnato, dalla vietta ove io era
dipartendosi, nella vaga selva entrava, et per entro passando, non ristetti
prima, sì m’hebbe in uno aperto non molto grande il poco parevole
tramitello portato. Dove come io fui, così dall’uno de’ canti mi venne
una capannuccia veduta, et poco da·llei discosto tra gli alberi un huom tutto
solo lentamente passeggiare, canutissimo et barbuto et vestito di panno simile
alle corteccie de’ querciuoli, tra’ quali egli era. Non s’era costui aveduto di
me, il quale in profondo pensiero essendo, sì come a me parea di vedere,
tale volta nello spatiare si fermava et, stato ched egli era così un
poco, a passeggiare lento lento si ritornava; et così più volte
fatto havea, quando io mi pensai che questi potesse essere quel santo huomo,
che io havea udito dire che a guisa di romito si stava in questo dintorno,
venutovi per meglio potere, nello studio delle sante lettere dimorando, pensare
alle alte cose. Per che volentieri mi sarei fatto più avanti per
salutarlo et, se egli era colui che io istimava che egli fosse, ricordandomi
che io havea hoggi a dire dinanzi a Vostra Maestà, per havere da·llui
etiandio alcun consiglio d’intorno a miei ragionamenti. Perciò che io
havea inteso che egli era scientiatissimo et che, con tutto che egli fosse di
santa et disagevole vita, sì come quegli che di radici d’herbe et di
coccole salvatiche et d’acqua et sempre solo vivea, egli era nondimeno
affabilissimo, et poteasi di ciò, che altri havesse voluto, sicuramente
dimandarlo, ché egli a ciascuno sempre dolce et humanissimo rispondea.
Ma villania mi parea fare a torlo da suoi pensieri; et così mirandolo mi
stava in pendente. Né stetti guari, che egli si volse verso la parte dove
io era et, veggendomi, occasione mi diede a quello che io cercava;
perciò che, incontro passandogli, con molta riverenza il salutai.
Stette
nel mio saluto alquanto sopra sé il santo huomo et poi, verso me con
miglior passo facendosi, disse: "Dunque sei tu pure qui hora, il mio
Lavinello’’. Et questo detto, ravicinatomisi et di me amendue le gote
soavemente prendendo, mi basciò la fronte. Nuova cosa mi fu senza fallo
alcuno l’essere quivi così amichevolmente ricevuto et per nome chiamato
da colui, del quale io alcuna contezza non havea, né sapea in che modo
egli havere di me la si potesse. Per che da subita maraviglia soprapreso, et
mirando cotal mezzo con vergogna il santo huomo pure per vedere se io
racconoscere ne ’l potessi, et non racconoscendolo, sì come quello che
io altra volta veduto non havea, stetti per buono spatio senza nulla dire,
infino a·ttanto che egli, con un dolce sorriso, del mio maravigliare mostrò
che s’accorgesse. Là onde io, preso ardire, così risposi:
"Qui è hora, Padre, Lavinello per certo, sì come voi dite,
non so se a caso venutoci o pure per volere del cielo. Ma voi il fate sopra
modo maravigliare, né sa pensare come ciò sia, che voi lui
conosciate, il quale né in questo luogo fu altra volta più,
né vi vide, che egli sappia, giamai’’. Allhora il buon vecchio, che
già per mano preso m’havea, movendo verso la capanna il passo, con lieto
et tranquillo sembiante disse: "Io non voglio, Lavinello, che tu di cosa
che ad alto possa piacere ti maravigli. Ma perciò che tu, come io veggo,
a piè qui dal castello venuto, salendo il colle puoi havere alcuna
fatica sostenuta più tosto che no, sì come dilicato che mi pare
che tu sij, andiamoi colà, et sì sederai et io ti terrò
volentieri compagnia, che non sono perciò il più gagliardo huom
del mondo, et quello che io so di te, sedendo et riposando, ti farò
chiaro’’. Indi con pochi valchi sotto alcune ginestre guidatomi, che dinanzi la
picciola casa erano, sopra il piano d’un tronco d’albero, il quale, lungo le
ginestre posto, a·llui et a’ suoi hosti semplice et bastevole seggio facea, si
pose a sedere et volle che io sedessi; et poi che m’hebbe alquanto lasciato
riposare, incominciò: "Tanto è largo et cupo il pelago della
divina providenza, o figliuolo, che la nostra humanità, in esso
mettendosi, né termine alcuno vi truova, né in mezzo può
fermarsi; perciò che vela di mortale ingegno tanto oltre non porta et
fune di nostro giudicio, per molto che ella vi si stenda, non basta a pigliar
fondo; in maniera che bene si veggono molte cose tutto dì avenire,
volute et ordinate da·llei, ma come elle avengano o a che fine, noi non
sappiamo, sì come hora in questo mio conoscerti, di che ti maravigli,
è avenuto’’. Et così seguendo mi raccontò che, dormendo
egli questa notte prossimanamente passata, gli era nel sonno paruto vedermi a
sé venire tale quale io venni, et dettogli chi io era et tutti gli
accidenti di questi due passati giorni et le nostre dispute et il mio dover
dire d’hoggi alla presenza di Vostra Maestà et quello che io in parte
pensava di dirne, che è quanto testé udito havete, raccontatogli,
dimandarlo di ciò che ne gli paresse et che esso d’intorno a questo
fatto dicesse, se a·llui convenisse ragionarne, come a me conveniva. Là
onde egli con questa imaginatione destatosi et levatosi, buona pezza v’havea
pensato et tuttavia, quando io il sopragiunsi, vi pensava. Di che egli a guisa
di conosciuto mi ricevette et a sé già per la contezza della
notte fatto dimestico et famigliare. Crebbe in cento doppi la mia dianzi presa
maraviglia, udendo il santo huomo, et la credenza, che io vi recai, della sua
santità, divenne senza fine maggiore. Et così tutto d’horrore et
di riverenza pieno, come esso tacque: "Ben veggo io, ’‘ dissi "Padre,
che io non senza volere de gl’Idij qui sono, a’ quali voi cotanto siete, quanto
si vede, caro. Ora, perciò che si dee credere che essi con l’havuta
visione v’habbiano dimostrato essere di piacer loro che voi a questo mio
maggiore huopo aiuto et consiglio mi prestiate, credo io acciò che la
nostra Reina, dolce cura della loro maestà, non come io posso ma come
essi vogliono, s’honori, piacciavi al voler loro di sodisfare, ché al
mio hoggimai non debbo io dir più’’. "Anzi pure a Colui piaccia al
quale ogni ben piace, che io al tuo disiderio possa con la sua volontà
sodisfare’’ rispose il santo huomo. Et così risposto et gli occhi verso
il cielo alzati et per picciolo spatio con fiso sguardo tenutovegli, a me
rivolto in questa guisa riprese a dire:
"Grande
fascio havete tu et i tuoi compagni abbracciato, Lavinello, a me hoggimai non
meno di figliuol caro, a dir d’Amore et della sua qualità prendendo:
sì perché infinita è la moltitudine delle cose che dire vi
si posson sopra, et sì anchora maggiormente perciò che tutto il
giorno tutte le genti ne quistionano, quelle parti ad esso dando, che meno gli
si converrebbe dare, et quelle che sono sue certissime, propriissime,
necessariissime tacendo et da parte lasciando per non sue; la qual cosa ci fa
poi più malagevole il ritrovarne la verità contro le openioni de
gli altri huomini, quasi allo ’ndietro caminando. Non pertanto non dee alcuno
di cercarne spaventarsi et, perché faticoso sia il poter giugnere a
questo segno, ritrarsi da farne pruova. Perciò che di poche altre cose
può avenire, o forse di non niuna, che lo intendere ciò che elle
sono più ci debba esser caro, che il sapere che cosa è Amore. Il
che quanto a voi sia hora nelle dispute de’ tuoi compagni et in quello che tu
stimi di poterne dire avenuto, et chi più oltre si sia fatto di questo
intendimento et chi meno, ne rimetto io a madonna la Reina il giudicio. Ma
dello havere havuto ardire di cercarne, bella loda dare vi se ne conviene.
Tuttavolta se a te giova che io anchora alcuna cosa ne rechi sopra et
più avanti se ne cerchi, facciasi a tuo sodisfaccimento, pure che non
istimi che la verità sotto queste ginestre più che altrove si
stia nascosa. Et a ffine che tu in errore non istij di ciò che detto
hai, che Amore et disidero sono quello stesso, io ti dico che egli nel vero non
è così. Ma veggasi prima che cosa in noi o pure che parte di noi
è Amore; dapoi, che egli non sia disidero, ti farò chiaro.
È adunque da sapere che, sì come nella nostra intellettiva parte
dell’animo sono pure tre parti o qualità o spetie, ciascuna di loro
differente dall’altre et separata (perciò che v’è primieramente
l’intelletto, che è la parte di lei acconcia et presta allo ’ntendere et
può nondimeno ingannarsi; v’è per secondo lo intendere, che io
dico, il quale non sempre ha luogo, ché non sempre s’intendono le
intelligibili cose, anzi non ha egli se non tanto, quanto esso intelletto si
muove et volge con profitto d’intorno a quello che a·llui è proposto per
intendersi et per sapersi; èvvi dopo queste ultimamente et di loro nasce
quella cosa o luce o imagine o verità, che dire la vogliamo, che a noi
bene intesa si dimostra, frutto et parto delle due primiere, la qual tuttavia,
se è male intesa, né verità né imagine né
luce dire si può, ma caligine et abbaglia mento et menzogna),
così, né più né meno, sono nella nostra vogliosa
parte del medesimo animo pure tre spetie, per gli loro ufficij propria et
dall’altre due partita ciascuna. Con ciò sia cosa che v’è di
prima la volontà, la qual può et volere parimente et dis[vo]ere,
fonte et capo delle due seguenti; et che v’è dopo questa il volere, di
cui parlo, et ciò è il disporsi a mettere in opera essa
volontà o molto o poco, o anchora contrariamente, che è
disvolendo; et che v’è per ultimo quello, che di queste due si genera: il
che, se piace, amore è detto, se dispiace, odio per lo suo contrario
necessariamente si convien dire. Nasce adunque amore, Lavinello, et creasi
nella guisa che tu hai veduto, et è in noi o di noi quella parte, che tu
intendi. Hora che egli non sia disiderio in questo modo potrai vedere.
Perciò che bene è vero che disiderar cosa per noi non si
può, che non s’ami, ma non perciò ne viene che non s’ami cosa,
che non si disideri altresì; perciò che se n’amano molte et non
si disiderano, et ciò sono tutte quelle che si posseggono; ché,
tosto che noi alcuna cosa possediamo, a noi manca di lei il disiderio in quella
parte che noi la possediamo, et in luogo di lui sorge et sottentra il piacere.
Ché altri non disidera quello che egli ha, ma egli se ne diletta godendone;
et tuttavia egli l’ama et hallo caro vie più che prima: sì come
fai tu, il quale, mentre anchor bene l’arte del verseggiare et del rimare non
sapevi, sì l’amavi tu assai, sì come cosa bella et leggiadra che
ella è, et insieme la disideravi; ma hora che l’hai et usar la sai, tu
più non la disideri, ma solamente a te giova et ètti caro di
saperla et amila molto anchor più, che tu prima che la sapessi et
possedessila non facevi. La qual cosa meglio ti verrà parendo vera, se tu
a quello che odio et timor siano parimente risguarderai. Perciò che
quantunque temere di niuna cosa non si possa, che non s’habbia in odio, pure
egli non è che alle volte non s’odij alcuna cosa senza temerla.
Ché tu puoi havere in odio i violatori delle mogli altrui, et di loro
tuttavia non temi, perciò che tu moglie non hai, che essere ti possa
violata. Et io in odio ho i rubatori dell’altrui ricchezze, né
perciò di lor temo, ché io non ho ricchezza da temerne, come tu
vedi. Per la qual cosa ne segue che, sì come odio può in noi essere
senza timore, così vi può amore essere senza disio. Non è
adunque disio Amore, ma è altro.
Tuttavia
io non voglio, Lavinello, ragionar teco et disputare così sottilmente
come per aventura farei tra philosophi et nelle schuole. Et sia per me, se così
a te piace, amore et disidero quello stesso. Ma io sapere da te vorrei, poscia
che tu questa notte detto m’hai che amore può essere et buono et reo,
secondo la qualità de gli obbietti et il fine che gli è dato,
perché è che gli amanti alle volte s’appigliano ad obbietti
malvagi et cattivi. Non è egli per ciò, che essi nello amare
più il senso seguono che la ragione?’’. "Non per altro, che io mi
creda, ’‘risposi "Padre, che per cotesto’’. "Ora se io ti dimanderò
allo ’ncontro’’ seguitò il santo huomo "perché aviene che
gli amanti etiandio s’invogliano de gli obbietti convenevoli et sani, non mi
risponderai tu eiò avenire per questo, che essi, amando, quello che la
ragione detta loro più seguono, che quello che il senso pon loro innanzi?’’.
"Così vi risponderò, ’‘dissi io "et non altramente’’.
"È adunque’’ diss’egli "ne gli huomini il seguir la ragione
più che il senso, buono, et allo ’ncontro il seguire il senso più
che la ragione, reo’’. "È’’ dissi io "senza fallo alcuno’’.
"Hora mi di’, ’‘ riprese egli "che cagione fa che ne gli huomini
seguire il senso più che la ragione sia reo?’’. "Fallo’’ risposi
"ciò, che essi la cosa migliore abandonano, che è la
ragione, et essa lasciano, che appunto è la loro, là dove alla
men buona s’appigliano, che è il senso, et esso seguono, che non
è il loro’’. "Che la ragione miglior cosa non sia che il senso,
io’’ diss’egli "non ti niego, ma come di’ tu che il senso non è il
loro? non è egli de gli huomini il sentire? ’‘. "A quello che io
avedere me ne possa, Padre, voi hora mi tentate, ’‘ risposi "ma io
nondimeno v’ubidirò’’; et dissi: "Sì come nelle scale sono
gradi, de’ quali il primiero et più basso niuno n’ha sotto sé, ma
il secondo ha il primo et il terzo ha l’uno et l’altro et il quarto tutti e
tre, così nelle cose che Dio create ha infino alla spetie de gli
huomini, dalla più vile incominciando, essere si vede avenuto.
Perciò che sono alcune che altro che l’essere semplice non hanno,
sì come sono le pietre et questo morto legno, che noi hora sedendo
premiamo. Altre hanno l’essere et il vivere, sì come sono tutte le
herbe, tutte le piante. Altre hanno l’essere et la vita et il senso, sì
come hanno le fiere. Altre poi sono, che hanno l’essere et la vita et il senso
et la ragione, et questi siam noi. Ma perciò che quella cosa più
si dice esser di ciascuno, che altri meno ha, come che l’essere et il vivere
sieno parimente delle piante, non si dice tuttavia se non che il vivere
è il loro, perciò che l’essere delle pietre è et di molte
altre cose parimente, delle quali non è poi la vita. Et quantunque
l’essere et il vivere et il sentire sieno delle fiere, come io dissi,
medesimamente ciascuno, non pertanto il sentire solamente si dice essere il
loro, perciò che il vivere ess[e] hanno in comune con le piante et
l’essere hanno in comune con le piante et con le pietre, delle quali non
è il sentire. Simigliantemente perché l’essere et il vivere et il
senso et la ragione sieno in noi, dire per questo non si può che
l’essere sia il nostro o il vivere o il sentire, che sono dalle tre maniere,
che io dico, havute medesimamente et non pur da noi, ma dicesi che è la
ragione, di cui le tre guise delle create cose sotto noi non hanno parte’’.
"Se così è, ’‘ disse allhora il santo huomo "che la
ragione sia de gli huomini et il senso delle fiere, perciò che dubbio
non è che la ragione più perfetta cosa non sia che il senso,
quelli che amando la ragione seguono, ne’ loro amori la cosa più
perfetta seguendo, fanno in tanto come huomini, et quelli che seguono il senso,
dietro alla meno perfetta mettendosi, fanno come fiere’’. "Così non
fosse egli da questo canto, ’‘ risposi io "Padre, vero cotesto che voi
dite, come egli è’’. "Adunque possiamo noi la miglior parte nello
amare abandonando,’’ diss’egli "che è la nostra, alla men buona
appigliarci, che è l’altrui?’’. "Possiamo’’ rispos’io "per
certo’’. "Ma perché è’’ diss’egli "che noi questo
possiamo? ’‘. "Perciò che la nostra volontà, ’‘ risposi
"con la quale ciò si fa o non fa, è libera et di nostro
arbitrio, come io dissi, et non stretta o, più a questo che a quello
seguire, necessitata’’. "Ora le fiere’’ seguitò egli "possono
elleno ciò altresì fare, che la miglior parte et quella che
è la loro abandonino et a dietro lascino giamai? ’‘. "Io direi che
esse abandonare non la possono, ’‘ risposi "se non sono da istrano
accidente violentate. Perciò che ad esse volontà libera non
è data, ma solo appetito, il quale, dalla forma delle cose istrane con
lo strumento delle sentimenta invitato, sempre dietro al senso si gira. Perciò
che il cavallo, quandunque volta a bere ne lo ’nvita il gusto, veduta l’acqua,
egli vi va et a bere si china, dove, la briglia ritrahendo, non gliele vieti
colui che gli è sopra’’.
"Quanto
vorrei che tu altramente m’havessi potuto rispondere, Lavinello’’ disse il
santo huomo. "Perciò che, se noi possiamo ne’ nostri amori, alla
men buona parte appigliandoci, la migliore abandonare, et le fiere non possono,
esse non operando come piante et noi operando come fiere, piggior conditione
pare che sia in questo la nostra, figliuolo, a quello che ne segue, che non
pare la loro; et questa nostra volontà libera, che tu di’, a nostro male
ci sarà suta data, se questo è vero. Et potrassi credere che la
natura, quasi pentita d’havere tanti gradi posti nella scala delle spetie, che
tu di’, poscia che ella ci hebbe creati col vantaggio della ragione, più
ritorre non la ne potendo, questa libertà ci habbia data dell’arbitrio,
a·ffine che in questa maniera noi medesimi la ci togliessimo, del nostro
scaglione volontariamente a quello delle fiere scendendo; a guisa di Phebo, il
quale, poscia che hebbe alla troiana Cassandra l’arte dell’indovinare donata,
pentitosi et quello che fatto era frastornare non si possendo, le diede che
ella non fosse creduta. Ma tu per aventura che ne stimi? parti egli che
così sia? ’‘. "Io, Padre, quello che me ne paia o non paia, non so
dire, ’‘ risposi "se io non dico che tanto a me ne pare, quanto pare a
voi. Ma pure volete voi che io creda che la natura si possa pentere, che non
può errare? ’‘. "Mai no, che io non voglio che tu il creda’’ disse
il santo huomo. "Ben voglio che tu consideri, figliuolo, che la natura, la
quale nel vero errar non può, non havrebbe alla nostra volontà
dato il potere, dietro al senso sviandoci, farci scendere alla spetie che sotto
noi è, se ella dato medesimamente non l’havesse il potere, dietro alla
ragione inviandoci, a quella farci salire che c’è sopra. Perciò
che ella sarebbe stata ingiusta, havendo nelle cose, da sé in uso et in
sosten tamento di noi create, posta necessità di sempre in quelli
privilegi servarsi, che ella concessi ha loro; a noi, che signori ne siamo et
a’ quali esse tutte servono, havere dato arbitrio d’arrischiare il capitale
da·llei donatoci sempre in perdita, ma in guadagno non mai. Né è
da credere che alle tante et così possenti maniere d’allettevoli
vaghezze, che le nostre sentimenta porgono all’animo in ogni stato in ogni
tempo in ogni luogo, perché noi dietro all’appetito avallandoci sozze
fiere diveniamo, ella ci habbia concesso libero et agevole inchinamento; et a
quelle che lo ’ntelletto ci mette innanzi, a·ffine che noi con la ragione
inalzandoci diveniamo Idij, ella il poter poggiare ci habbia tolto et negato.
Perciò che, o Lavinello, che pensi tu che sia questo eterno specchio
dimostrantesi a gli occhi nostri, così uno sempre, così certo,
così infaticabile, così luminoso, del sole, che tu miri? et
quell’altro della sorella, ehe uno medesimo non è mai? et gli tanti
splendori che da ogni parte si veggono di questa circonferenza che intorno ci
si gira, hora queste sue bellezze hora quelle altre scoprendoci, santissima,
capacissima, maravigliosa? Elle non sono altro, figliuolo, che vaghezze di
Colui che è di loro et d’ogni altra cosa dispensatore et maestro, le
quali egli ci manda incontro a guisa di messaggi, invitantici ad amar lui.
Perciò che dicono i savi huomini che, perciò che noi di corpo et
d’animo constiamo, il corpo, sì come quello che d’acqua et di fuoco et
di terra et d’aria è mescolato, discordante et caduco da’ nostri genitori
prendiamo, ma l’animo esso ci dà purissimo et immortale et di ritornare
a·llui vago, che ce l’ha dato. Ma perciò che egli in questa prigione
delle membra rinchiuso più anni sta, che egli lume non vede alcuno,
mentre che noi fanciulli dimoriamo, et poscia, dalla turba delle giovenili
voglie ingombrato, ne’ terrestri amori perdendosi può del divino
dimenticarsi, esso in questa guisa il richiama, il sole ogni giorno, le stelle
ogni notte, la luna vicendevolmente dimostrandoci. Il quale dimostramento che
altro è, se non una eterna voce che ci sgrida: "O stolti, che
vaneggiate? Voi ciechi, d’intorno a quelle vostre false bellezze oc cupatl, a
guisa di Narciso vi pascete di vano disio, et non v’accorgete che elle sono
ombre della vera, che voi abandonate. I vostri animi sono eterni: perché
di fuggevole vaghezza gl’innebbriate? Mirate noi, come belle creature ci siamo,
et pensate quanto dee esser bello Colui, di cui noi siam ministre".
Et
senza dubbio, figliuolo, se tu, il velo della mondana caliggine dinanzi a gli
occhi levandoti, vorrai la verità sanamente considerare, vedrai alla
fine altro che stolto vaneggiamento non essere tutti i vostri più lodati
disij. Che per tacere di quegli amori, i quali di quanta miseria sien pieni li
perottiniani amanti et Perottino medesimo essere ce ne possono abondevole
essempio, che fermezza, che interezza, che sodisfattione hanno perciò
quegli altri anchora, che essi cotanto cercar si debbano et pregiare, quanto
Gismondo ne ha ragionato? Senza fallo tutte queste vaghezze mortali che pascono
i nostri animi, vedendo, ascoltando et per l’altre sentimenta valicando et
mille volte col pensiero entrando et rientrando per loro, né come esse
giovino so io vedere, quando elle a poco a poco in maniera di noi s’indonnano,
co’ loro piaceri pigliandoci, che poi ad altro non pensiamo, et gli occhi alle
vili cose inchinati, con noi medesimi non ci raffrontiamo giamai, et infine,
sì come se il beveraggio della maliosa Circe preso havessimo, d’huomini
ci cangiamo in fiere; né in che guisa esse così pienamente
dilettino so io considerare: pogniamo anchora che falso diletto non sia il
loro, quando elle sì compiute essere in suggietto alcuno non si vedono,
né vedranno mai, che esse da ogni parte sodisfacciano chi le riceve, et
pochissime sono le più che comportevolmente non peccanti. Senza che esse
tutte ad ogni brieve caldicciuolo s’ascondono di picciola febbre che ci
assaglia, o almeno gli anni vegnenti le portan via, seco le giovanezza, la
bellezza, la piacevolezza, i vaghi portamenti, i dolci ragionamenti, i canti, i
suoni, le danze, i conviti, i giuochi et gli altri piaceri amorosi trahendo. Il
che non può non essere di tormento a coloro che ne son vaghi, et tanto
anchor più, quanto più essi a que’ diletti si sono lasciati
prendere et incapestrare. A’ quali se la vecchiezza non toglie questi disij,
quale più misera disconvenevolezza può essere che la vecchia
età di fanciulle voglie contaminare, et nelle membra tremanti et deboli
affettare i giovenili pensieri? Se gli toglie, quale sciocchezza è amar
giovani così accesamente cose, che poi amare quelli medesimi non possono
attempati? et credere che sopra tutto et giovevole et dilettevole sia quello,
che nella miglior parte della vita né diletta né giova?
Ché miglior parte della vita nostra è per certo quel la,
figliuolo, in cui la parte di noi migliore, che è l’animo, dal servaggio
de gli appetiti liberata, regge la men buona temperatamente, che è il
corpo, et la ragione guida il senso, il quale dal caldo della giovanezza
portato non l’ascolta, qua et là dove esso vuole scapestratamente
traboccando. Di che io ti posso ampissima testimonianza dare, che giovane sono
stato altresì, come tu hora sei; et quando alle cose, che io in quegli
anni più lodar solea et disiderare, torno con l’animo ripensando, quello
hora di tutte me ne pare, che ad un bene risanato infermo soglia parere delle
voglie che esso nel mezzo delle febbri havea, che schernendosene conosce di
quanto egli era dal convenevole conoscimento et gusto lontano. Per la qual cosa
dire si può che sanità della nostra vita sia la vecchiezza et la
giovanezza infermità; il che tu, quando a quegli anni giugnerai, vederai
così esser vero, se forse hora veder no ’l puoi.
Ma
tornando al tuo compagno, che ha le molte feste de’ suoi amanti cotanto sopra
’l cielo tolte ne’ suoi ragionamenti, lasciamo stare che le minori di loro
asseguire non si possano senza mille noie tuttavia, ma quando è che
egli, nel mezzo delle sue più compiute gioie, non sospiri alcun’altra
cosa più che prima disiderando? o quando aviene che quel la conformità
delle voglie, quella comunanza de’ pensieri, della fortuna, quella concordia di
tutta una vita in due amanti si trovi, quando si vede niuno essere che ogni
giorno seco stesso alle volte non si discordi, et talhora in maniera che, se
uno lasciare se medesimo potesse, come due pos sono l’uno l’altro, molti sono
che si lascierebbono et un altro animo si piglierebbono et un altro corpo? Et
per venire, Lavinello, etiandio a’ tuoi amori, io di certo gli loderei et
passerei nella tua openione in parte, se essi a disiderio di più
giovevole obbietto t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono
innanzi, et non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò
che essi ci possono a miglior segno fare et meno fallibile intesi. Perciò
che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma
è della vera bellezza disio; et la vera bellezza non è humana et
mortale, che mancar possa, ma è divina et immortale, alla qual pel
aventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle da noi sieno
in quella maniera, che esser debbono, riguardate. Hora che si può dire
in loro loda per ciò, che pure sopra il convenevole non sia? con
ciò sia cosa che, del loro allettamento presi, si lascia il vivere in
questa humana vita come Idij. Perciò che Idij sono quegli huomini,
figliuolo, che le cose mortali sprezzano come divini et alle divine aspirano
come mortali, che consigliano, che discorrono, che prevedono, che hanno alla
sempiternità pensamento, che muovono et reggono et temprano il corpo, che
è loro in governo dato, come de gli dati nel loro fanno et dispongono
gli altri Idij. O pure che bellezza può tra noi questa tua essere,
così piacevole et così piena, che proportion di parti, che in
humano ricevimento si trovino, che convenenza, che harmonia, che ella empiere
giamai possa et compiere alla nostra vera sodisfattione et appagamento? O
Lavinello, Lavinello, non sei tu quello che cotesta forma ti dimostra,
né sono gli altri huomini ciò che di fuori appare di loro
altresì. Ma è l’animo di ciascuno quello che egli è, et
non la figura, che col dito si può mostrare. Né sono i nostri
animi di qualità, che essi con alcuna bellezza, che qua giù sia,
conformare si possano et di lei appagarsi giamai. Che quando bene tu al tuo
animo quante ne sono potessi por davanti et la scielta concedergli di tutte
loro et riformare a tuo modo quelle, che in alcuna parte ti paressero mancanti,
non lo appagheresti perciò, né men tristo ti partiresti da’
piaceri che havessi di tutte presi, che da quegli ti soglia partire che prendi
hora. Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si
possono contentare. Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte
le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina
eterna bellezza prende qualità et stato, quando di queste alcuna ne vien
loro innanzi, bene piacciono esse loro et volentieri le mirano, in quanto di
quella sono imagini et lumicini, ma non se ne contentano né se ne
sodisfanno tuttavia, pure della eterna et divina, di cui esse sovengono loro et
che a cercar di se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola,
disiderosi et vaghi. Per che sì come quando alcuno, in voglia di
mangiare preso dal sonno et di mangiar sognandosi, non si satolla,
perciò che non è dal senso, che cerca di pascersi, la imagine del
cibo voluta, ma il cibo, così noi, mentre la vera bellezza et il vero
piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre, che in queste bellezze
corporali terrene et in questi piaceri ci si dimostrano, aggogniando, non
pasciamo l’animo, ma lo inganniamo. La qual cosa è da vedere che per noi
non si faccia, acciò che con noi il nostro buon guardiano non s’adiri et
in balìa ci lasci del malvagio, veggendo che per noi più amore ad
una poca buccia d’un volto si porta et a queste misere et manchevoli et
bugiarde vaghezze, che a quello immenso splendore, del quale questo sole
è raggio, et alle sue vere et felici et sempiterne bellezze non
portiamo. Et se pure questo nostro vivere è un dormire, sì come
coloro i quali a gran notte addormentati con pensiero di levarsi la dimane per
tempo et dal sonno sopratenuti si sognano di destarsi et di levarsi, per che
tuttavia dormendo si levano et presa la guarnaccia s’incomiciano a vestire,
così noi, non delle imagini et sembianze del cibo et di questi aombrati
diletti et vani, ma del cibo istesso et di quella ferma et soda et pura
contentezza nel sonno medesimo procacciamo et a pascere incominciancene
così sogniando, acciò che poi, risvegliati, alla Reina delle
Fortunate isole piacciamo. Ma tu forse di questa Reina altra volta non hai
udito’’. "Non, Padre, ’‘ diss’io "che me ne paia ricordare, né
intendo di qual piacimento vi parliate’’. "Dunque l’udirai tu hora’’ disse
il santo huomo, et seguitò:
"Hanno
tra le loro più secrete memorie gli antichi maestri delle sante cose,
essere una Reina in quelle isole, che io dico, Fortunate, bellissima et di
maraviglioso aspetto et ornata di cari et pretiosi vestiri et sempre giovane.
La qual marito non vuole già et servasi vergine tutto tempo, ma bene
d’essere amata et vagheggiata si contenta. Et a quegli che più l’amano
ella maggior guiderdone dà de’ loro amori, et convenevole, secondo la
loro affettione, a gli altri. Ma ella di tutti in questa guisa ne fa pruova.
Perciò che venuto che ciascuno l’è davanti, che è secondo
che essi sono da·llei fatti chiamare hor uno hor altro, essa, con una verghetta
toccatigli, ne gli manda via. Et questi, incontanente che del palagio della
Reina sono usciti, s’addormentano, et così dormono infino a·ttanto che
essa gli fa risvegliare. Ritornano adunque costoro davanti la Reina un’altra
volta risvegliati, et i sogni che hanno fatti dormendo porta ciascuno scritti
nella fronte tali, quali fatti gli hanno, né più né meno,
i quali essa legge prestamente. Et coloro i cui sogni ella vede essere stati
solamente di cacciagioni, di pescagioni, di cavagli, di selve, di fiere, essa
da sé gli scaccia et mandagli a stare così vegghiando tra quelle
fiere, con le quali essi dormendo si sono di star sognati, perciò che
dice che, se essi amata l’havessero, essi almeno di lei si sarebbono sognati
qualche volta, il che poscia che essi non hanno fatto giamai, vuole che vadano
et sì si vivano con le lor fiere. Quegli altri poi a’ quali è
paruto ne’ loro sogni di mercatantare o di governare le famiglie et le comunanze
o di fare somiglianti cose, tuttavvia poco della Reina ricordandosi, essa gli
fa essere altresì quale mercatante, quale cittadino, quale anziano nelle
sue città, di cure et di pensieri gravandogli et poco di loro curandosi
parimente. Ma quelli che si sono sognati con lei, essa gli tiene nella sua
corte a stare et a ragionar seco tra suoni et canti et sollazzi d’infinito
contento, chi più presso di sé et chi meno, secondo che essi con
lei sognando più o meno si sono dimorati ciascuno. Ma io per aventura,
Lavinello, hoggimai troppo lungamente ti dimoro, il quale più voglia dei
havere o forse mestiero di ritornarti alla tua compagnia, che di più
udirmi. Senza che oltre a·cciò a te gravoso potrà essere lo
indugiare a più alto sole la partita, che hoggimai tutto il cielo ha
riscaldato et vassi tuttavia rinforzando’’. "A me voglia né
mestiero fa punto che sia, Padre,’’ diss’io "anchora di ritornarmi, et
dove a voi noioso non sia il ragionare, sicuramente niuna cosa mi ricorda che
io facessi giamai così volentieri, come hora volentieri v’ascolto.
Né di sole che sormonti vi pigliate pensiero, poscia che io altro che a
scendere non ho, il che ad ogni hora far si può agevolmente’’.
"Noioso a gli antichi huomini non suole già essere il ragionare,’’
disse il buon vecchio "che è più tosto un diporto della
vecchiezza che altro. Né a me può noiosa esser cosa che di
piacere ti sia. Per che seguasi’’. Et così seguendo, disse:
"Dirai
adunque a Perottino et Gismondo, figliuolo, che se essi non vogliono essere tra
le fiere mandati a vegghiare, quando essi si risveglieranno, essi miglior sogno
si procaccino di fare, che quello non è, che essi hora fanno. Et tu,
Lavinello, credi che non sarai perciò caro alla Reina, che io dico,
poscia che tu poco di lei sognandoti, tra questi tuoi vaneggiamenti consumi
più tosto senza pro, che tu in alcuna vera utilità di te usi et
spenda, il dormire che t’è dato. Et infine sappi che buono amore non
è il tuo. Il quale, posto che non sia malvagio in ciò, che con le
bestievoli voglie non si mescola, sì è egli non buono in questo,
che egli ad immortale obbietto non ti tira, ma tienti nel mezzo dell’una et
dell’altra qualità di disio, dove il dimorare tuttavia non è
sano, con ciò sia cosa che nel pendente delle rive stando, più
agevolmente nel fondo si sdrucciola, che alla vetta non si sale. Et chi
è colui che a’ piaceri d’alcun senso dando fede, per molto che egli si
proponga di non inchinare alle ree cose, egli non sia almeno alle volte per
inganno preso, considerando che pieno d’inganni è il senso, il quale una
medesima cosa quando ci fa parer buona, quando malvagia, quando bella, quando
sozza, quando piacevole, quando dispettosa? Senza che come può essere
alcun disio buono, che ponga ne’ diletti delle sentimenta quasi nell’acqua il
suo fondamento, quando si vede che essi havuti inviliscono, et tormentano non
havuti, et tutti sono brevissimi et di fugitivo momento? Né fanno le
belle et segnate parole, che da cotali amanti sopra ciò si dicono, che
pure così non sia. I qua’ diletti tuttavolta, se il pensiero fa
continui, quanto sarebbe men male che noi la mente non havessimo celeste et
immortale, che non è, havendola, di terreno pensiero ingombrarla et
quasi sepellirla? Ella data non ci fu, perché noi l’andassimo di mortal
veleno pascendo, ma di quella salutevole ambrosia, il cui sapore mai non
tormenta, mai non invilisce, sempre è piacevole, sempre caro. Et questo
altramente non si fa, che a quello dio i nostri animi rivolgendo, che ce gli ha
dati. Il che farai tu, figliuolo, se me udirai; et penserai che esso tutto
questo sacro tempio, che noi mondo chiamiamo, di sé empiendolo, ha
fabricato con maraviglioso consiglio ritondo et in se stesso ritornante et di
se medesimo bisognoso et ripieno; et cinselo di molti cieli di purissima
sustanza sempre in giro moventisi et allo ’ncontro del maggiore tutti gli
altri, ad uno de’ quali diede le molte stelle, che da ogni parte lucessero, et
a quelli, di cui esso è contenitore, una n’assegnò per ciascuno,
et tutte volle che il loro lume da quello splendore pigliassero, che è
reggitore de’ loro corsi, facitore del dì et della notte, apportatore
del tempo, generatore et moderatore di tutte le nascenti cose. Et questi lumi
fece che s’andassero per li loro cerchi ravolgendo con certo et ordinato giro,
et il loro assegnato camino fornissero et fornito rincominciassero, quale in
più brieve tempo et quale in meno. Et sotto questi tutti diede al
più puro elemento luogo et appresso empié d’aria tutto ciò
che è infino a noi. Et nel mezzo, sì come nella più infima
parte, fermò la terra, quasi aiuola di questo tempio; et d’intorno a
llei sparse le acque, elemento assai men grave che essa non è, ma vie
più grave dell’aria, di cui è poscia il fuoco più
leggiero. Quivi diletto ti sarà estimare in che maniera per queste
quattro parti le quattro guise della loro qualità si vadano mescolando,
et come esse in un tempo et accordanti sieno et discordanti tra loro; mirare
gli aspetti della mutabile luna; riguardare alle fatiche del sole; scorgere gli
altri giri dell’erranti stelle et di quelle che non sono così erranti
et, di tutti le cagioni, le operagioni considerando, portar l’animo per lo
cielo et, quasi con la natura parlando, conoscere quanto brieve et poco
è quello che noi qui amiamo, quando il più lungo spatio di questa
nostra vita mortale due giorni appena non sono d’uno de’ veri anni di questi
cieli et quando la minore delle conosciute stelle di quel tanto et così
infinito numero è di tutta questa soda et ritonda circunferenza, che
terra è detta, maggiore, per cui noi cotanto c’insuperbiamo, della quale
anchora quello che noi habitiamo è, a rispetto dell’altro, stretta et
menomissima particiuola. Senza che qua ogni cosa v’è debole et inferma:
venti, piogge, ghiacci, nevi, freddi, caldi vi sono, et febbri et fianchi et
stomachi et gli altri cotanti morbi, i quali nel votamento del buon vaso, male
per noi dall’antica Pandora scoperchiato, ci assalirono; dove là ogni
cosa v’è sana et stabile et di convenevole perfettion piena, ché
né morte v’è né aggiugne, né vecchiezza vi
perviene, né difetto alcuno v’ha luogo.
Ma
vie maggior diletto ti sarà et più senza fine maraviglioso, se tu
da questi cieli che si veggono a quelli che non si veggono passerai, et le vere
cose che ivi sono contempierai, d’uno ad altro sormontando, et in questo modo a
quella bellezza, che sopra essi et sopra ogni bellezza è, inalzerai,
Lavinello, i tuoi disij. Perciò che certa cosa è tra coloro, che
usati sono di mirare non meno con gli occhi dell’animo che del corpo, oltra
questo sensibile et material mondo, di cui et io hora t’ho ragionato et
ciascuno ne ragiona più spesso, perciò che si mira, essere un
altro mondo anchora né materiale né sensibile, ma fuori d’ogni
maniera di questo separato et puro, che intorno il sopragira et che è da·llui
cercato sempre et sempre ritrovato parimente, diviso da esso tutto, et tutto in
ciascuna sua parte dimorante, divinissimo, intendentissimo, illuminatissimo et
esso stesso di se stesso et migliore et maggiore tanto più, quanto egli
più si fa alla sua cagione ultima prossimano; nel qual cielo bene ha
etiandio tutto quello che ha in questo, ma tanto sono quelle cose di più
eccellente stato, che non son queste, quanto tra queste sono le celesti a
miglior conditione, che le terrene. Perciò che ha esso la sua terra,
come si vede questo havere, che verdeggia, che manda fuori sue piante, che
sostiene suoi animali; ha il mare, che per lei si mescola; ha l’aria, che li
cigne; ha il fuoco; ha la luna; ha il sole; ha le stelle; ha gli altri cieli.
Ma quivi né seccano le herbe, né invecchiano le piante, né
muoiono gli animali, né si turba il mare, né s’oscura l’aere,
né riarde il fuoco, né sono a continui rivolgimenti i suoi lumi
necessitati o i suoi cieli. Non ha quel mondo d’alcun mutamento mestiero, perciò
che né state, né verno, né hieri, né dimane,
né vicinanza, né lontananza, né ampiezza, né
strettezza lo circonscrive, ma del suo stato si contenta, sì come quello
che è della somma et per se stessa bastevole felicità pieno;
della quale gravido egli partorisce, et il suo parto è questo mondo
medesimo che tu miri. Fuori del quale, se per aventura non ci pare che altro
possa essere, a noi adivien quello che adiverrebbe ad uno, il quale, ne’ cupi
fondi del mare nato et cresciuto, quivi sempre dimorato si fosse, perciò
che egli non potrebbe da sé istimare che sopra l’acque v’havesse altre
cose, né crederebbe che frondi più belle che alga, o campi
più vaghi che di rena, o fiere più gaie che pesci, o habitationi
d’altra maniera che di cavernose pietre, o altre elementa che terra et acqua
fossero et vedessersi in alcun luogo. Ma se esso a noi passasse et al nostro
cielo, veduto de’ prati et delle selve et de’ colli la dipintissima verdura et
la varietà de gli animali, quali per nodrirci et quali per agevolarci
nati, veduto le città, le case, i templi che vi sono, le molte arti, la
maniera del vivere, la purità dell’aria, la chiarezza del sole, che
spargendo la sua luce per lo cielo fa il giorno, et gli splendori della notte,
che nella sua oscura ombra et dipinta la rendono et meravigliosa, et le altre
così diverse vaghezze del mondo et così infinite, esso
s’avedrebbe quanto egli falsamente credea et non vorrebbe per niente alla sua
primiera vita ritornare. Così noi miseri, d’intorno a questa bassa et
fecciosa palla di terra mandati a vivere, bene miriamo l’aere et gli uccelli
che ’l volano con quella maraviglia medesima, con la quale colui farebbe il
mare et i pesci che lo natano parimente, et per le bellezze etiandio
discorriamo di questi cieli che in parte vediamo; ma che oltre a questi altre
cose sieno vie più da dovere a noi essere, che le nostre a quel marino
huomo non sarebbono, et maravigliose et care, o in che modo ciò sia,
nella nostra povera stimativa non cape. Ma se alcuno Idio vi eci portasse,
Lavinello, et mostrasseleci, quelle cose solamente vere cose ci parrebbono, et
la vita, che ivi si vivesse, vera vita, et tutto ciò che qui è,
ombra et imagine di loro essere et non altro; et giù in queste tenebre
riguardando da quel sereno, gli altri huomini, che qui fossero, chiameremmo noi
miseri et di loro ci prenderebbe pietà, non che noi più a
così fatto vivere tornassimo di nostra volontà giamai.
Ma
che ti posso io, Lavinello, qui dire? Tu sei giovane et, non so come, quasi per
lo continuo pare che nella giovanezza non appiglino questi pensieri o, se
appigliano, sì come pianta in aduggiato terreno essi poco allignano le
più volte. Ma se pure nel tuo giovane animo utilmente andassero innanzi,
dove tu al fosco lume di due occhi, pieni già di morte, qua giù
t’invaghi, che si può istimare che tu a gli splendori di quelle eterne
bellezze facessi, così vere, così pure, così gentili? Et
se la voce d’una lingua, la quale poco avanti non sapea fare altro che piagnere
et di qui a poco starà muta sempre, ti suole essere dilettevole et cara,
quanto si dee credere che ti sarebbe caro il ragionare et l’harmonia che fanno
i chori delle divine cose tra loro? Et quando, a gli atti d’una semplice
donnicciuola, che qui empie il numero dell’altre, ripensando, prendi et ricevi
sodisfaccimento, quale sodisfaccimento pensi tu che riceverebbe il tuo animo,
se egli da queste caliggini col pensiero levandosi et puro et innocente a
quelli candori passando, le grandi opere del Signore, che là su regge,
mirasse et rimirasse intentamente et ad esso con casto affetto offeresse i suoi
disij? O figliuolo, questo piacere è tanto, quanto comprendere non si
può da chi no ’l pruova, et provar non si può, mentre di
quest’altri si fa caso. Perciò che con occhi di talpa, sì come i
nostri animi sono di queste voglie fasciati, non si può sofferire il
sole. Quantunque anchora con purissimo animo compiutamente non vi s’aggiugne.
Ma, sì come quando alcuno strano passando dinanzi al palagio d’un re,
come che egli no ’l veda, né altramente sappia che egli re sia, pensa
fra se stesso quello dovere essere grande huomo che quivi sta, veggendo pieno
di sergenti ciò che v’è, et tanto maggiore anchora lo stima,
quanto egli vede essere quegli medesimi sergenti più horrevoli et
più ornati, così tutto che noi quel gran Signore con veruno
occhio non vediamo, pure possiam dire che egli gran Signore dee essere, poscia
che ad esso gli elementi tutti et tutti i cieli servono et sono della sua
maestà fanti. Per che gran senno faranno i tuoi compagni, se essi questo
Prence corteggieranno per lo innanzi, sì come essi fatto hanno le loro
donne per lo adietro, et ricordandosi che essi sono in un tempio, ad adorare
hoggimai si disporranno, ché vaneggiato hanno eglino assai, et, il falso
et terrestre et mortale amore spogliandosi, si vestiranno il vero et celeste et
immortale: et tu, se ciò farai, altresì. Perciò che ogni
bene sta con questo disio et da·llui ogni male è lontano. Quivi non sono
emulationi, quivi non sono sospetti, quivi non sono gielosie, con ciò
sia cosa che quello che s’ama, per molti che lo a[min]o, non si toglie che
altri molti non lo possano amare et insieme goderne, non altramente che se un
solo amandolo ne godesse. Perciò che quella infinita deità tutti
ci può di sé contentare, et essa tuttavia quella medesima riman
sempre. Quivi a niuno si cerca inganno, a niuno si fa ingiuria, a niuno si
rompe fede. Nulla fuori del convenevole né si procaccia, né si
conciede, né si disidera. Et al corpo quello che è bastevole si
dà, quasi un’offa a Cerbero, perché non latri, et all’animo
quello che più è lui richiesto si mette innanzi. Né ad
alcuno s’interdice il cercar di quello che egli ama, né ad alcun si
toglie il potere a quel diletto aggiugnere, a cui egli amando s’invia.
Né per acqua, né per terra vi si va; né muro, né tetto
si sale. Né d’armati fa bisogno, né di scorta, né di
messaggiero. Idio è tutto quello, che ciascun vede, che il disidera. Non
ire, non scorni, non pentimenti, non mutationi, non false allegrezze, non vane
speranze, non dolori, non paure v’hanno luogo. Né la fortuna v’ha potere,
né il caso. Tutto di sicurezza, tutto di contentezza, tutto di
tranquillità, tutto di felicità v’è pieno.
Et
queste cose di qua giù, che gli altri huomini cotanto amano, per lo
asseguimento delle quali si vede andare così spesso tutto ’l mondo
sottosopra et i fiumi stessi correre rossi d’humano sangue et il mare medesimo
alcuna fiata, il che questo nostro misero secolo ha veduto molte volte et hora
vede tuttavia, gl’imperij dico et le corone et le signorie, esse non si cercano
per chi là su ama più di quello che si cerchi, da chi può
in gran sete l’acqua d’un puro fonte havere, quella d’un torbido et paludoso
rigagno. Là dove allo ’ncontro la povertà, gli esilij, le presure
se sopravengono, il che tutto dì vede avenire chi ci vive, esso con
ridente volto riceve, ricordandosi che, quale panno cuopra o quale terra
sostenga o qual muro chiuda questo corpo, non è da curare, pure che
all’animo la sua ricchezza, la sua patria, la sua libertà, per poco
amore che egli loro porti, non sia negata. Et in brieve, né esso [a]i
dolci stati con soverchio diletto si fa incontro, né dispettosamente
rifiuta il vivere ne gli amari; ma sta nell’una et nell’altra maniera temperato
tanto tempo, quanto al Signor, che l’ha qui mandato, piace che egli ci stia. Et
dove gli altri amanti et vivendo sempre temono del morire, sì come di
cosa di tutte le feste loro discipatrice, et, poscia che a quel varco giunti
sono, il passano sforzatamente et maninconosi, egli, quando v’è
chiamato, lieto et volentieri vi va et pargli uscire d’un misero et lamentoso
albergo alla sua lieta et festevole casa. Et di vero che altro si può
dire questa vita, la quale più tosto morte è, che noi qui
peregrinando viviamo, a tante noie, che ci assalgono da ogni parte così
spesso, a tante dipartenze, che si fanno ogni giorno dalle cose che più
amiamo, a tante morti, che si vedono di coloro dì per dì che ci
sono per aventura più cari, a tante altre cose, che ad ogni hora nuova
cagione ci recano di dolerci, et quelle più molte volte, che noi
più di festa et più di sollazzo doverci essere riputavamo? Il che
quanto in te si faccia vero, tu il sai. A me certo pare mill’anni che io, dallo
invoglio delle membra sviluppandomi et di questo carcere volando fuora, possa,
da così fallace albergo partendomi, là onde io mi mossi ritornare
et, aperti quegli occhi che in questo camino si chiudono, mirar con essi quella
ineffabile bellezza, di cui sono amante, sua dolce mercé, già
buon tempo; et hora, perché io vecchio sia, come tu mi vedi, ella non
m’ha perciò meno che in altra età caro, né mi
rifiuterà perché io di così grosso panno vestito le vada
innanzi. Quantunque né io con questo panno v’andrò, né tu
con quello v’andrai, né altro di questi luoghi si porta alcun seco
dipartendosi che i suoi amori. I quali se sono di queste bellezze stati, che
qua giù sono, perciò che elle colà su non salgono, ma
rimangono alla terra di cui elle sono figliuole, elle ci tormentano, sì
come hora ci sogliono quelli disij tormentare, de’ quali godere non si
può né molto né poco. Se sono di quelle di là su
stati, essi maravigliosamente ci trastullano, poscia che ad esse pervenuti
pienamente ne godiamo. Ma perciò che quella dimora è sempiterna,
si dee credere, Lavinello, che buono amore sia quello, del quale goder si
può eternamente, et reo quell’altro, che eternamente ci condanna a
dolere’’. Queste cose ragionatemi dal santo huomo, perciò che tempo era
che io mi dipartissi, egli a me rimise il venirmene.
Il
che poscia che hebbe detto Lavinello, a’ suoi ragionamenti pose fine.