agnolo firenzuola
i ragionamenti
Edizione di riferimento:
Agnolo Firenzuola, Le novelle, a cura di E. Ragni, Roma, Salerno Editrice 1971.
ALLA ILLUSTRISSIMA ED ECCELLENTISSIMA SIGNORA
MADONNA CATERINA CIBO
DUCHESSA DI CAMERINO
AGNOLO FIRENZUOLA.
Erami caduto nella mente più tempo fa, illustrissima signora Duchessa, un dubbio: qual cosa arrecasse più utilità agli elevati ingegni, o ’l solitario studio della propria camera, o, praticando con diverse persone che di lettere si dilettino, ragionar con esse di tutto quello di che altri non si è potuto risolvere da se medesimo; e sempre più inclinava a credere che lo allontanarsi da ogni moltitudine facesse salir gli studiosi in supremo grado di onore.
Ma egli non è molto tempo che, ritrovandomi alle tavole del mio gentil signore e difensore di tutti gli studiosi de le buone lettere, il signore arcivescovo di Ravenna, dove per sua liberalità e gentileza è sempre il fiore dei più purgati spiriti della Academia Romana, a’ quali egli e con lo ingegno e con le lettere fa ottimo paragone; ed essendomi di quei dì entro al mio studio affaticato per risolvermi d’una mia dubitazione, mai non mi era potuto venir fatto; e allora quando io ne aveva quasi perduta ogni speranza, egli nacque un ragionamento sopra quello che io così disiosamente andava cercando d’intendere, e in tal modo fu da coloro che vi si ritrovavano disputata la cosa pro e contro, che i’ potetti molto bene accorgermi dove albergasse la verità. Sì che per questa cagione e per la sperienza fatta di certi altri ragionamenti, i quali ancor non ha quattro anni passati che nacquero fra tre valorose madonne e altrettanti leggiadri giovani, da’ quali, avendoli uditi diligentemente ad una di loro racontare, e di amore e de’ suoi effetti io imparai cose bellissime, fui costretto a tener per certo che poco profitto potessino far coloro che sempre da lor stessi leggendo non ardiscono dar fuori saggio alcuno delle loro lodevoli fatiche; e da quel tempo in qua io non mi maravigliai più quando veda alcun di questi consumati sopra i libri e quasi marciti entro alle lor camere, nel vestir, nello andare, nel ragionare, ne’ costumi e in tutte le loro operazioni aver più somiglianza con qual si voglia vile animale che con uomo sempre conversato con le Muse, dove uno, che per le corti di i principi e per le ragunate degli uomini che molto sanno più che per gli libri ha trapassati tutti i suoi giorni, dia e con i fatti e con le parole tale arra dello animo suo, che e’ sia da ogni gentile uomo lodato e acarezato meritamente, quando quel l’altro divien favola della plebe. Né mancherebbe il modo a darne lo esemplo, se non fuggissi la occasione di mordere i difetti altrui.
Ma perché mi affatico io a dare ad intendere a Vostra Eccellenza la utilità delle vive lettere, con ciò sia cosa che quella, trovando in così fatti esercizii grandissimo frutto per addornare ogni dì più quel suo bellissimo animo, sia costumata tutto quel tempo che alle pubriche o alle private occupazioni invola consumarlo parlando con i destri ingegni di quelle cose delle quali mai non si sarebbe sdegnata la Academia ateniese di ragionare? Il quale lodevole costume mi ha dato ardimento di farvi un picciol dono di quei ragionamenti, i quali poco di sopra vi dissi essere accaduti ad alcune donne e certi giovani. Impercioché avendogli per comandamento d’una di loro, come leggendoli potrete vedere, ridotti in queste carte e pensando, poi che a persuasione di alcune valorose giovani era disposto mandarne in luce la sesta parte, sotto lo cui nome e’ dov<e>ssero sperimentare il rigoroso giudizio de’ moderni censori, niuna altra persona mi parve più al proposito di voi, la quale, perciò che donna sete, gli difenderete dai morsi di coloro che con nimico dente mordere gli volessero, essendo di donne la maggior parte; e come quella che sete di virtù fregiata sopra tutte le altre, lo potrete fare assai agevolmente e vorrete; perciò che quella benignità e gentileza di animo, che con voi nata insieme con gli anni vostri è cresciuta sempre, ve ne sforzerà, ancor che non voleste.
Prendeteli adunque, generosa Madonna, con quello animo che il vostro servo ve li dona; e quando talore farete tregua con le vostre più importanti faccende, in luogo di quei discorsi, i quai solete usare per vostro diporto quasi ogni giorno, alle vostre tavole leggeteli, o gli ascoltate mentre che altri gli legge; e gran premio mi parrà ricevere de le mie fatiche se io saprò mai che con amiche orechie e’ sieno stati ascoltati da Vostra Eccellenza; e dove io veggia che questa prima giornata abbi qualche pregio apo il grave vostro iudizio, sarò constretto sforzarmi con migliore animo dar fuori le altre cinque.
Vivete e lieta e felice.
Di Roma, a dì XXV del mese di maggio dell’anno del nostro Signore MDXXV.
DE’ RAGIONAMENTI DI AGNOLO FIRENZUOLA
ALLA ILLUSTRISIMA DUCHESSA DI CAMERINO
GIORNATA PRIMA
Se io non mi riserbasse in altre carte a fare con la mia penna li debiti onori a colei che mentre visse fu, sì come è ancora al presente, signora della anima mia, io penserei dovere esser grandemente biasimato ogni volta che in luogo di proemio di questi miei o più presto suoi ragionamenti io non parlassi ampiamente delle sue innumerabili virtuti e non invitassi i lettori, anzi che eglino entrassero a leggerli, a pianger meco insieme la sua o, per dir meglio, la mia disaventura; ma perciò che altrove si troverranno sparse le mie querele e in altro libro il grave danno de le smarrite virtù inviterà i gentili e piatosi spiriti a lagrimare, io lascerò di farlo al presente. Né seguiterò già in questo colui il quale con sì lagrimevole principio condusse le innamorate giovani alle sue novelle, parendomi cosa poco conveniente il voler per mezo delle miserie guidare altrui ad alcun sollazo; e però, lasciando per or le lagrime da l’un de’ lati, entriamo per più piacevole calle nel nostro viaggio.
Era in animo de la donna mia, anzi che al suo fine arrivasse, di tessere alcuni ragionamenti, i quali non ha gran tempo che nacquero infra essa e due altre nobili e generose donne non molto lungi da Fiorenza, dove eziandio alcuni giovani della medesima città si ritrovarono; e poco poi che occorsi fussero, allora quando ella voleva dar principio a così bella tela ella fu assalita da mortalissime febbri. Laonde, veggendo troncarsi l’ale di così lodevole disio, dopo un pietoso ragionarsi meco di più cose, che nella memoria continovamente serbando rinchiuse mi fanno vivere in amarissima dolceza, mi pregò strettamente che ogni volta che a Dio piacesse ridur la bellissima anima sua là donde era venuta che io fussi contento per amor suo mettere in opera così lodevole proponimento. E poco poi che ella ebbe posto fine a così giuste preghiere, piacque a Dio trarla di questa nostra prigione. Laonde, parendomi che le fatte promesse e i molti obblighi che io ho verso di lei ricercassino che io adempissi la voglia sua in quella guisa che ella far voleva, gli ho ridotti in queste carte, sperando porger forse con essi un dì qualche sollazo alle valorose donne e a quelle massimamente che or si dolgono d’aver perduta così cara compagnia.
Prendeteli adunche, graziose giovani; e se mai da le vostre domestiche cure allontanate arete tempo potervi con la mente diportare, leggeteli, non solamente per amor mio, ma per amor di colei che a questa opra mi fece, come avete inteso, poner la mano; i quali se diletto o utile alcuno vi porgeranno, a lei che fu cagione che e’ venissero in luce, non a me ne averete obbligazione. Imperò che io in pagamento de le mie fatiche altro non domando se non che con benigna fronte ognuna di voi si degni perdonarmi i molti errori che io temo d’aver commessi; pregando colei che or dal ciel n’ascolta che mi scusi se io non ho potuto satisfare a pieno al suo onesto volere. Deh, perché non lasciò l’invida morte dimorare almen tanto fra noi così valorosa madonna, che ella stessa avesse potuto pervenire al fine della sua bellissima impresa, acciò che a me questa fatica e a voi quella molestia, la qual vi porgerà la ruvidezza del mio stile, fussero tolte via? Che così non ci sarebbe fatto di bisogno per lo tristo sentiere della morte sua, per lo quale pur mi è stato forza guidarvi um-pezo, arrivare a quella valle dove ormai è tempo che con le già dette donne e con i sopra nominati giovani ascoltiate madonna Gostanza di amore e di molte altre cose bellissime ragionare.
Fra ’ più verdi colli assai vicini a Firenze siede una valletta di spazio per ciascun verso di mille passi o poco più, gli abitatori della quale con corrotto vocabolo la chiamano oggi Pazolatico, con ciò sia che gli antichi Pozolargo la nominassero; il cui bel seno con lento corso rigando un fiumicello, che riceve tutte le acque dei colli che la incoronano, la rende assai bella e dilettevole a’ riguardanti; e alcune fonti di non picciola copia di acque abbondevoli, dove assai sovente certe pastorelle che a’ piccioli greggi cercano trar la sete ragunandosi porgono altrui grandissimo disio di ferma<r>si per gustare qual cosa più diletto ne arrechi, o il dolce canto de le vaghe montanine o ’l suave mormorio delle loro onde.
Ma quello che è più bello a vedere di questo luogo sono alcuni richi palagi assai maestrevolmente edificati, i quali nelle cime di quei colli risedendo si vagheggiano l’un l’altro, con sommo piacere di tutti coloro che, alcuna fiata dalli cittadineschi esercizii discostandosi, ivi se ne vengono con la loro famiglia a diportarsi; dove i preziosi vini, i grani e le frutte d’ogni sorte suavissime, le fiorite erbe mosse dai venti che tutto l’anno leggermente vi spirano, i folti boschetti di sempre verdi arbucelli ripieni, fatti studiosam<e>nte per invescare i tordi, e gli altri luoghi da cacciare e da uccellare arrecano tanto sollazo agli abitanti, che ogni altro piacevole paese posto in qual si voglia altra parte di Toscana pare men bello e men dilettevole <di> questo. Nel quale un giovane chiamato Celso e per gentile costumi e per onesti studii assai chiaro, aveva, e credo che abbia ancora oggi, un palagio assai bello e grande, il quale, posto in cima d’un colle che i paesani chiamono La Scala, da settentrione vagheggia buona parte di Firenze e da mezogiorno tutto allegro riguarda la ridente valle.
E perciò che l’anno de la Incarnazione del Figliuol di Iddio MDXXIII, in quel tempo che la santa romana Chiesa celebra da di Lui resurrezione, una madonna Gostanza Amaretta, donna e per una singular belleza e infinite virtuti rarissima, era venuta da Roma ne la nostra città a vicitare la imagine di quella che dicendo Ecco la ancilla del Signore, ricevette nel suo virginal ventre il figliuol di Iddio. La qual donna, per esser col sopra nominato Celso congiunta così per parentado come per una lunga e stretta amicizia, si posò nelle di lui case. Ed essendo per le già dette virtù e molte scienze riguardevole, alcune donne e uomini così di lei come di Celso attenenti la venivano assai spesso a vicitare, e ogni dì più invaghiti del cortese ragionar suo e delle accorte maniere, volentieri prendevano occasione di ascoltarla e ritrovarsi seco in compagnia.
Laonde Celso, pregato da dui suoi parenti, a’ quali le virtù di costei erano lodevolmente piaciute, si diliberò condurla per alquanti giorni a questo suo villaggio; per che fare e’ dette ordine che una sua sorella insieme con la moglie d’un suo minor fratello ve la invitassero; le quali faccendo quanto loro era stato imposto, ed ella benignamente lo invito accettando, il dì dopo quel santo che quasi più che Iddio è in pregio a Vinezia, le tre donne e i tre giovani con molte fanti e famigli e con tutti quegli arnesi che faceva lor mestiero la matina per lo fresco si messono in viaggio e al palagio già detto lietamente se ne vennero; dove smontati, poscia che madonna Gostanza, come quella che mai più non era stata in quei paesi, ebbe discorse tutte le parti de la bella casa, e che la le ebbe convenevolmente lodate, essendo già arrivata l’ora del desinare, in una loggia bella e spaziosa ch’è su la prima entrata, e dove le tavole dipinte di mille fiori erano apparechiate, si posono a mangiare; e finito il disinare, poscia che e’ gl<i> ebbero consumato buono spazio di tempo in ragionar del paese e di coloro che vi avevano a fare e quanto nella belleza de le ville i Fiorentini avanzassero tutto il resto della Italia, Celso, come quel che sapeva che ognun di loro, per essersi levato più per tempo che non, doveva ragionevolmente avere bisogno di riposarsi, diede ordine che tutti se ne andassero alle lor camere. Entro alle quali quando parve a ciascuno esservi stato quel spazio che faceva lor mestiero, sanza aspettar d’esser chiamati tutti se ne vennero su ’n un pratello che è tutto di muricciuoli di terra cotta attorniato; e sotto ad uno ulivo, che vietava a’ prosuntuosi raggi del sole il potere involare alle belle donne la lor biancheza, si posono a sedere. E poscia che e’ vi fur stati un pezo di vane cose ragionando, allor quando l’ombre che di noi rende il sole si cominciavano ad allungare, tutti di compagnia si mossero per andare a vedere un vivaio che sotto al lor palagio tanto era lontano quanto potrebbe a pena un arco de’ nostri tirare una saetta in due volte; il qual vivaio riceve le onde sue da una fonte, che quegli del paese chiamano la fonte del Lama. Dove arrivati, poi che ebbero presi dei molti pesci che givan scherzando per quelle acque un gran piacere, e’ se ne vennero in su ’n un praticello che era assai vicino alla fonte, e chi qua e chi là su per le verdi erbette posti a sedere, si diedero a coglier de’ fiori; e quando ognun si avacciava d’empiersene il seno e ’l grembo, madonna Costanza sciolse la lingua con queste parole:
— Ora mi soviene, bellissime donne, e voi, leggiadri giovani, qual fusse la cagione che movesse quella bella compagnia che, secondo che pone il Boccaccio, assai lieta si passò novellando il pestifero accidente che affliggeva allor questo paese sì aspramente; ora me ne sovien, dico, perché queste fontane, queste erbe, questi fiori, tutto questo paese par che ne invitino a fare il simigliante; e però, quando e’ vi paresse seguire in questa parte il mio consiglio, io vi diviserei di maniera la vita nostra quei pochi dì che noi facciam pensier dimorar quassù, che noi la trapassarem<m>o non con minor sollazo che si facessero coloro —.
I tre giovani e le due donne, che, come io vi dissi di sopra, non cercavano altro se non udirla ragionare, tutti d’accordo per non perder così bella occasione, risposero che ella diceva bene; e a cagione che ella potesse con maggiore autorità colorire il suo disegno, e’ la elessero per lor Reina. E quando che ella ebbe fatto ogni sforzo di scaricarsi di così fatto peso, accorgendosi finalmente che ogni sua fatica era vana, sanza partirsi dalla sua naturale modestia la lo si prese; e poi che con belle cerimonie ella fu con una grillanda di fiori riconosciuta da tutti come Reina, ella prese loro a dire in questa guisa:
— Assai mi era, bellissime donne, e voi, discreti giovani, gli onori che sanza mio merito mi facevate tutto il giorno così largamente, senza avermi adornata di sì gran titolo; e io assai facilmente me gli comportava, considerando che non solamente per esser nata fuor di questo paese come a forestiera mi facevate cotali soverchie careze, ma che io, se mai accadeva che alcuno di voi venisse a Roma, la mercé di Iddio, ve ne poteva ristorare in parte. Ma ora che io veggio che di questo me ne è tolta ogni facultà e che le onoranze avanzano i particolar meriti e i generali, io non posso non ne far rosse ambo le guance. Non potendo adunque né qui né altrove guiderdonarvene, non mancherò rendervene quelle grazie che per me si possino le maggiori. E per mostrar quanto mi sien cari i vostri doni, già ne voglio prendere la possessione; e poi che noi semo sei e vogliamo star quassù sei dì, io vi voglio dividere il giorno in modo che ogni nostra opera proceda per sei. E percioché la mattina lo ingegno suole esser più svegliato che di niuno altro tempo, e’ sarà bene che, andandoci a spasso or su questo mo<n>ticello e or su quello altro, noi ragioniamo di qualche cosa che sappia più de le scuole dei filosofi che dei piaceri che ne sogliono apportar le ville; e quando ci parerà tempo, ritornandocene a casa, posti a tavola, or con suoni or con canti intramettendo le vivande, ricrieremo il corpo e lo animo, stanchi ognun di loro dallo esercizio suo particolare. Levate le tavole, ridotti in qualcuna de le nostre camere o dove altrove meglio ne parerà, ognun di noi riciterà una canzone sopra quel suggetto che gli sarà dato la sera dinanzi. E perciò che io penso che allor quando noi saremo arrivati all’ultimo delle nostre rime il sole averà tuffata buona parte dei capegli nel mar di Spagna, noi potremo, uscendo a la campagna, ridurci intorno a qualche fontana o ’n su la riva d’un di questi fiumicelli, e quivi raccontare una novella per uno; le quali doverranno durare sino a che egli venghi la ora de la cena, per che sùbito finite, tornandocene a casa renderemo il solito tributo al corpo nostro. E cenato che noi averemo, metteremo in campo alcuni ragionamenti così piacevoli, che a noi non si disconvenghino che donne semo, e a voi uomini non paia che ’l troppo licenzioso vino gli abbia insegnati; dopo i quali, venuta l’ora del dormire, ognun di noi se ne potrà andare a riposare. Ma a cagione che voi non vi maravigliate che io vadi distribuendo così ogni cosa per sei, e’ mi par convenevole il mostrarvi che cosa me ne porga cagione; perché voi dovete sapere che di agosto, dalli Latini chiamato «sestile» percioché, come sapete, e’ gli è in ordine il sesto mese, ai sei dì io rinacqui e vissi da vero, essendo di dicembre, pure ai sei dì, venuta al peregrinaggio di questo mondo. E come il rinascere mi avenisse e come io vivesse da vero, domattina piacendo a Dio spero farvi intendere più apertamente. Le quali natività, sappiendo io di quanto commodo sia capace questo numero e come sia pieno di religione, io me le ho sempre recate in filicissimo augurio; e sempre sono stata disiderosa partir tutte le mie faccende per sei —.
A cui Fioretta:
— Che capacità o di commodo o di religione ha in sé questo numero, che voi per gran ventura vi arrechiate lo esser nata o rinata, per meglio dire, e nel sesto mese e nel sesto giorno? —
A cui la Reina:
— Poi che tu ti mostri, Fioretta, disiderosa di intendere la sua virtù, io te la narrerò più succintamente che io potrò, acciò che questi altri, che forse meglio la sanno di me, ne piglino manco fastidio che sia possibile. Dicono adunque i matematici che quel numero è perfetto le parti aliquote del quale (siami lecito usare or questo vocabolo tra voi Toscani, ben che duro, poscia che altro più molle per or non mi soccorre) le parti aliquote, dico, del quale, accozate insieme, rilevano detto numero. Addomandano questi medesimi le parte aliquote quelle che, alquante volte prese, rilevano tutto il numero del quale si ragiona; come si può vedere in questo di sei, del quale le parti aliquote sono uno, dui e tre; metti questi tre numeri, uno, dui e tre insieme e vedrai che e’ faran sei; imperciò che uno e dui fan tre, e tre poi fa sei; e che questi tre numeri, uno, dui e tre siano parti aliquote di sei ve lo dimostra in prima uno, il quale preso sei volte fa sei; dui preso tre volte fa sei; e tre dui volte preso fa sei. Vedete che ciascuno di questi numeri alquante volte preso e multiplicato fa quel numero del quale egli è parte aliquota. Quattro non è parte aliquota di sei, perciò che pigliatelo quante volte voi volete e multiplicatelo per che verso voi volete e’ farà sempre più o manco di sei; preso una volta e’ fa quattro, che è men di sei; preso due e’ fa otto, che è più di sei. E acciò che voi possiate vedere più chiaramente la perfezzione di sei, egli è necessario mostrarvi la imperfezzione di otto, di cui le parti aliquote sono uno, dui e quattro, le quali, accozate insieme, fanno sette, che secondo costoro è numero difettivo o vero diminuito; dove che, se e’ rilevasse più di otto, e’ lo chiamerebbono imperfetto abbondante. E che uno sia parte aliquota di otto, voi lo potete vedere per questo: che preso otto volte e’ rileva otto; e il simile è di dui e di quattro, de’ quali l’uno preso quattro volte fa otto, e l’altro preso due volte fa pur otto. Tre non è parte aliquota di otto, perciò che preso otto volte fa ventiquattro; preso dui volte fa sei; preso tre fa nove; e pigliatelo quante volte voi volete, e’ non farà mai otto. Or conchiudendo, adunche, diciamo che essendo quel numero perfetto di chi le parti aliquote rilevano il preso numero, e rilevando le parti aliquote di sei il detto numero, ne seguita necessariamente che egli sia perfetto. Della cui perfezzione da dieci in giù niuno altro se ne ritrova capace, avenga imperò che da dieci in su se ne ritrovino molti pochi, de’ quali il primo è ventotto. Poscia che noi aviamo veduto la sua perfezzione, io voglio che discorriamo brevemente la sua fertilità, la quale è grandissima; e udite come. Avenga che il nono mese dia più frequentemente alle donne gravide il tempo di partorire, nientedimeno la natura, adescata dalla dolceza di questo numero, il concede nel settimo alcuna volta. Ma voi mi direte: «Nel settimo mese che ci ha da fare il sei più che il sette?». Ecco che brevemente ve lo dimostro. Pigliate dui di quei numeri che i medesimi matematici chiamano cubi (noi altri Toscani, che non ne avemo proprio vocabolo, potremoli chiamar quadrati); e pigliate il maschio e la femmina, i primi che si ritruovino, (maschio secondo loro è il dispari e la femina è il pari: sarà adunque il maschio ventisette e otto la femina, imperciò che questi sono i primi cubi che si ritruovino); cognungetegli insieme e vedrete che di questo cognungimento ne nascerà trentacinque, perché, come ognun di voi sa, XXVII e VIII fan XXXV; multiplicate or quel trentacinque per sei e troverrete che e’ rileverà dugento dieci; e dugento dieci dì fanno a punto il numero compito di sette mesi, il qual numero, come si è detto, è il primo tempo che aiuti alle pregna<n>ti partorire vivacemente. Dalla cui perfezzione tratto Iddio, come io mi credo, creò questo mondo così maraviglioso in sei dì e in sei etadi lo divise, come si vede che egli fece molte altre cose, le quali per brevità io lascio di raccontare. Per le quali tutte ragioni voi potete considerare in quanto buono augurio aviamo a pigliare lo avere a camminare con sei piedi ogni nostra faccenda, e se io ho ragione dovermene rallegrare —.
Folchetto il Corfinio, che lo un de’ tre giovani era, come quello che naturalmente era molto sollazevole, poi che la Reina taceva, voltosi verso le donne sogghignando disse:
— Deh, come ho io fatto bene a non ci menar la mia moglie, come volevate voi altre che io facesse; ché noi saremmo stati sette e alle sue cagioni averemmo perduto così fatta ventura; io sapeva ben, io, ch’ella era così strana e così ritrosa ch’ella ci arebbe guasto ogni nostro disegno.
— Ritroso e strano sei stato tu — disse allotta Bianca, che la cognata di Celso era e sempre si dilettava di mordere altrui con gentil dente. — Perché non lasciavi tu venir lei e tu te ne restavi a casa, che così averesti compiaciuto a noi, che la desideravamo, e non aresti guasto il numero di sei?
— Fussinci pur venuti tramendoi — soggiunse Selvaggio il Plozio, che il terzo giovane era, — che e’ non ci averebbeno fatto sconcio alcuno, percioché io so bene che alla nostra Reina non sarebbe mancato che dire sopra il numero di sette. Ma a me parrebbe che, lasciando il sette e l’otto a’ mercatanti, anzi che e’ si facesse più tardi noi ci riducessimo verso il colle; però che il sole, come vedete, ha già voltati i suoi raggi agli uomini di quell’altro orizzonte —.
Per le cui parole tutti, sanza altro dire, im-piè levatisi preseno il cammino verso casa; dove arrivati, perciò che l’ora era tarda e la cena era in punto, data l’acqua alle mani si posero a mangiare. Ed essendo venuto nelle ultime vivande un poco di marzolino, e’ parve che la Reina, subito che la ’l vidde, entrasse così mezo sopra a pensieri. Per che Fioretta (che così, se ben mi ricorda, si chiamava la sorella di Celso), che di ciò tosto s’accorse, le disse:
— A che pensate, madonna? E perché così ad un tratto vi sete recata sopra di voi?
— Pensavo — rispose ella — che già a Roma, dove questo cacio è in grandissimo pregio, me ne fu presentata una coppia con uno ornamento così leggiadro, che ogni volta che mi se ne ricorda mi fa per la sua bellezza empiere di maraviglia.
— E che domin di cosa fu quella — soggiunse allor Fioretta — che vi poté muovere a maraviglia?
— Fu — rispose la Reina — una di quelle canzoni che i poeti chiamano sestine, in così basso suggetto tanto elegantemente composta che io non posso non me ne maravigliare; lo autore de la quale ha cenato questa sera con esso noi a questa tavola —.
Avisaronsi tutti subitamente che e’ fusse Celso, con ciò fusse cosa che niuno altro di loro fusse stato mai a Roma; per la qual cosa lo pregarono strettamente che e’ la dovesse lor dire. Onde egli, dopo un modesto negarlo col fingere di non se ne ricordare, così incominciò:
Vicino al mio natal fiorito loco,
dove son quasi ugual venute l’onde
al nobil Tebro della riva d’Arno,
tra i più chiar fonti si diace una valle,
sotto al più lieto ciel, tra i più bei colli
che veggia il sole, e tra le più dolci erbe.
E perché d’ogni tempo in grembo a l’erbe,
cosa forse non vista in altro loco,
scherzano i fior con l’aura per quei colli,
e l’una l’altra van fuggendo l’onde;
più pecorelle ha ’n sen la bella valle
che non son pesci entro a le rive d’Arno;
le quai, più ch’unque arene non mosse Arno,
partoriscono agnei su per quell’erbe;
e gli accorti pastor di questa valle,
come par che richi<e>da o ’l tempo o ’l loco,
o cotti in viva brace, o dentro a l’onde,
lieti gli godon per gli ombrosi colli.
Ma quel che più mi piace di quei colli,
del che n’è ’n pregio assai la riva d’Arno,
è che tanta dolceza han le fresche onde
e di tal nutrimento vi son l’erbe
che il latte, di che abbonda il gentil loco,
ha tolto il pregio a quel d’ogn’altra valle;
il qual le pastorelle della valle,
mentre rimbomban del lor canto i colli
e sotto ai passi lor s’ingemma il loco
dove prima era come l’acqua in Arno,
per virtù di loro arte e di certe erbe
d’una parte fan cacio e dell’altra onde.
Del quale ove più ’l Tebro ha chiare l’onde
venir n’ho fatto, acciò per questa valle
si veggia quanto possin le nostre erbe.
E tu <c>h’oggi se’ ’l Sol dei sette colli,
pigliane in dono e ricordati ch’Arno
e ’l Tebro nascon ’n’un medesmo loco.
Bel loco è Roma e dolce son sue onde,
ma forse ch’Arno e che la nostra valle
non cedeno a’ suoi colli o ’n latte o ’n erbe.
Poi che Celso si taceva e da tutti era stata lodata la sua canzone, la Reina, a cui pareva che oramai fusse venuta l’ora del dormire, sanza entrare in altri ragionamenti diede ordine che ognuno si andasse a riposare.
E a pena aveva il sol la seguente mattina rendutone il giorno, che la lieta brigata già si era inviata verso un monticello, che non guari lontan da casa un mezo miglio i villani del paese chiamano Candassole, nella cui sommità alquanti arcipressi e abeti, faccendo una grillanda ad un pratello che è inanzi ad un bel casamento che signoreggia tutto quel colle, per lo dolce sofiar d’un venterello che va tutto il giorno leggermente percotendo le lor cime rendeno una armonia suavissima; dove arrivati ed essendo anzi che no un poco strachi, invitati da certe pietre che a bella posta erano state messe alli piedi di quelli arbori per far seggio, tutti di bella brigata si posero a sedere; e d’una in altra parola trascorrendo, madonna la Reina, essendo pregata che già principio dessi al ragionare, con un modo tutto pieno di graziosa modestia così mosse il suo parlare:
— Valorosi giovani, e voi, onestissime donne, con ciò sia che quel grande onore che voi ieri mi faceste eleggendomi per vostra Reina io lo riconosca da un soverchio amore che voi mi portate e pensi che questo tale amore venga parte da la vostra umanità e parte da quello poco di nome che io mi ho acquistato, la sua mercé, con ciò sia cosa che egli fusse il primo che mi mostrasse i raggi del vero splendore; egli mi è paruto convenevol cosa, in guiderdone di tanto beneficio, col parlar di lui alquante parole far la strada alli nostri primi ragionamenti. E benché per virtù dei vostri ingegni e per aver rivoltato ognun di voi il più dei libri che ne insegnano le occulte cose, voi sappiate troppo bene il valor suo sanza che io vel dica, con tutto ciò, perciò che io credo che voi camminiate così volentieri per le sue lodi, come mi faccia io, non mi vergognerò pregarvi che mi lasciate usare in questo viaggio più imperiosamente la mia maggioranza, e mi concediate il poter più di me stessa parlare che a me non si converrebbe e le vostre orechie piene di iudicio non richiederebbono.
Io, come ognun di voi sa, di padre e madre di questo paese per antico sangue assai chiari nacqui ne la famosissima città di Roma, unica al padre mio; il quale, quando giudicò che tempo fusse legarmi al matrimonial giogo, seguitando in questo il comune errore, cioè avendo più considerazione alle richeze, alle pompe, alli agi e alli contenti del corpo, che tosto passano, che a quelli dello animo, che mai non mancano, mi diede per isposa ad uno avaro venditor di leggi; e io che non sapeva né devea disdirli cosa che in piacer li fusse, ne fui contenta, e giovanetta molto entrai ne la sua casa; né potetti per lungo spazio parlar mai con lui di cosa che non gli desse speranza di accumular danari; e se pur cotali ore per sollazarsi meco alcuna notte egli intrametteva così fatti ragionamenti, egli non entrava in altri che libidinosi e brutti, e forse più sconciamente che nel santo letto del matrimonio non si sarebbe richiesto; per la qual cosa io non potetti vedere amore in quello uomo che vile e terreno non mi paresse; e se egli non fusse stato un disiderio che egli aveva d’aver di me figliuoli, il quale disiderio generava un certo benvolere verso di me che bella gli parevo, io credo certamente che fra noi dui sarebbe stato odio e contenzione, che fino a questa ora, la Iddio grazia, non è stata una torta parola.
Standomi io adunche nello stato che voi potete considerare e rivolgendomi spesso per la fantasia che lo animo, perciò che è cosa immortale, non puote star contento a queste cose mortali, e però cercando le forze e il valor dello amor suo e nel mio caro marito niente ritrovandone, mi stava e di lui e di me sinistramente contenta, pensandola sì come era che noi avessimo più simiglianza con le fiere salvatiche che con quelli animali che sono capaci de la ragione. Ma Amore, a cui sempre piacque sollevare il nostro spirito dalla pigrizia di quel sonno che ne induce la graveza di queste membra, mosso a pietà di me, con belleze di saggio giovane, dentro alle quali egli volentieri si posa, destami e a sé chiamatami, mi fece della sua più eletta schiera. E percioché egli non mi ritraesse di così lodevole compagnia la onestà, la quale da tutti e dalle donne massimamente deve esser tenuta carissima, egli mi mostrò negli ochi dello onesto giovane quanto sieno im-pregio entro allo esercito suo coloro che si armano di atti virtuosi e gentili. Laonde per guadagnarmi la grazia del mio signore, cercai con ogni studio vestirmi di così fatta armadura; e così mi venne fatto; ché Amore, che <a> nullo amato amar perdona, mostrando al leggiadro giovane il valor mio il constrinse con gentil forza a voltar verso di me ogni suo pensiero. E così nacque amore infra di noi; il quale non prima si può perfettamente chiamare amore, sin che gli animi degli amanti per le già dette cagioni non si fanno concordi; come non prima potiamo dire di udire armonia da qual si voglia instrumento, sinché il sonatore non ha bene accordato tutte le parti di quello. Questo amore adunque, carissime donne, fu la cagione che io il calle delle virtuti, che prima pieno di spine ed erto mi pareva, ascendessi con mio grandissimo piacere, lasciando l’ago e ’l fuso a chi ne averebbe aùto assai manco bisogno di me; e con l’aiuto suo mi è avenuto che molti e molte mi mirano ora con più dritti ochi che e’ non facevano im-prima. Considerate adunche se io ho cagione favellar d’Amore e se io sono tenuta lodarlo e ringraziarlo, come primo principio di questa mia così fatta ventura. Ma perciò che e’ son molti che si danno ad intendere che lo uomo non possi amarla donna, né la donna lo uomo, che non dirizi i suoi passi verso vituperoso albergo, io vi vorrei far manifesto quanto errino questi sciochi, se non avessi temenza di vi rincrescere con sì lunga diceria.
— Sapete voi quando ci rincrescerete? — disse allor Fioretta. — Quando voi ci farete carestia delle vostre parole. Seguite addunche arditamente, ché ognun di noi aspetta con gran disiderio d’intender compiutamente questa vostra amorosa oppenione.
— Poiché così vi piace — soggiunse la Reina —, seguitiamo addunche. Dicono i Platonici essere dui Amori, uno nato di quella Venere che fu figliuola del Cielo e l’altro di una altra Venere che nacque di non so che donna mortale; e vogliono che il primo, come quello che trae origine dal Cielo, faccia le operazioni sue per le cose celesti e però trapassi nello animo nostro come in cosa formata in Cielo. Il secondo, perciò che ha avuto la madre terrena, affermano che facci le operazioni sue nel nostro corpo, non solo simile alla terra, ma di essa medesima terra composto e formato; e vogliono che questa sua operazione sia doppia, perciò che egli opera alcuna volta mosso da una schietta lascivia e da uno appetito puramente sensitivo, da niuna ragion regolato; e questa operazione non vogliono che si chiami amore, ma più tosto uno immoderato fuoco acceso con l’esca della nostra libidine; il quale è giudicato degno di grandissimo vituperio. E simile alle bestie dicono esser coloro che si lasciano dalle sue fiamme riscaldare, come quegli che rettamente stimano che egli non si debba fare alcuna differenza dagli animali non ragionevoli a quelli che inutilmente adoperano l’uso della ragione; e non si accorgeno che dal suo calore non si trae altro se non un malvagio dilettamento, principiato nella belleza del corpo e finito nella brutteza del corpo; e che questo è quel fuoco per lo cui furore si commetteno gli adulteri, nasceno i sacrilegi, criansi mille vizi brutti non solo nello atto ma nel pensiero e nelle parole bruttissimi, disonestissimi, abbominevolissimi, da cui gli odii derivono, di cui escano gli scandoli, le occisioni dei parenti, lo ammazar de’ padri, il tòrsi le madri dinanzi, strangolare le mogli e imbrattarsi le mani nel sangue dei mariti, e, che a dire è peggio, incrudelire nei proprii figliuoli e finalmente in sé medesimo.
Alcuna volta questo fuoco acceso dalla natura ci riscalda più temperatamente e più ragionevolmente; imperciò che regnando negli uomini un natural disiderio, come regna similmente in tutte le cose animate, di generar simili a loro, aviene che la donna, avendo solamente rispetto a questo fine, pone amore allo uomo e lo uomo alla donna; del quale amore ne nasce un congiugnimento e di quello tale congiugnimento si criano i figliuoli. Ma perciò che Amore, sia quale esser voglia, secondo la openione di tutti i filosofi e secondo che si vede esser vero per cotidiana sperienza, si diletta grandemente della belleza, né mai sanza la sua compagnia cammina di buona voglia, perciò si vede ogni dì che in questo tale cognungimento si disidera la belleza; e questo cotale amore, non trapassando il suo fine, sarebbe sempre da commendare quando le leggi non ci avessero data una onesta forma e posto certi termini fuor de’ quali non è lecito trapassare sanza biasimo e sanza pubrica offensione; ma quegli che, stando infra questi termini, lo regolono con la forma già detta e, come dicono i poeti, lo cingono con la santa cintura di Citerea, coloro meritono e appresso a Dio e appresso agli uomini grandissima comendazione. E questo è quel suave nodo il quale, dalle leggi addomandato matrimonio, fra le altre oneste cagioni che ne diminuiscano le fatiche di questa nostra vita è una delle maggiori. E avenga che questo cotale amore sia della perfezzione che voi avete potuto comprendere, egli non è però da paragonare a quello vero e santo il quale è nato di quella Venere che io vi dissi che era figliuola del Cielo; il quale, percioché è celeste, rende odor delle cose celesti; e però, lasciando il corpo da canto come cosa terrena, driza la industria sua nello animo, come cosa celeste e creata a simiglianza del suo Fattore; e cognungendolo con quello della cosa amata, fa nascere quel disiderio delle virtuti che io, parlando di me, vi ragionava di sopra. E perché questo cotale amore nasce da belleza di animo e la belleza dello animo è la virtù e la virtù è buona e celeste; perciò egli è buono e celeste, né puote essere altrimenti già mai —.
Erasi ferma la Reina per riavere un poco lo spirito con animo di seguitar più oltre, quando Fioretta, avisando che ella avesse fatto fine al suo discorso, con lieto volto le disse:
— Assai avete voi oggi saputo ben parlar d’amore, madonna, e così acconciamente, che io non solamente non saprei biasimare alcuno de’ vostri amanti, anzi lodo un disio di innamorarmi che mi han fatto nascer le vostre parole; cosa per mia fé che prima non avrei pensata già mai. Poscia che io sono adunque diliberata entrare in questo tranquillo mare, ancor che assai biscotto ne aviate dato con lo quale abbondevolmente lo trapassi, con tutto ciò, perché egli ce ne ha di quello che agli miei denti è molto duro, io voglio che voi me lo rammorbidiate, a cagione che io possa, sanza tema di perire di fame, montare allegramente in su la nave. Dato adunque che io mi disponga a seguitare Amore in quella guisa che voi mi avete accennato, per qual cagione debbo io ricercare la belleza altrui, la quale alberga nel corpo, non avendo io a valermi delle operazioni del corpo? E inoltre, posto che la belleza del corpo sia pur necessaria, perché non è egli più conveniente ch’io rivolga questo mio amore verso una bella donna, dove non potrà mai cader biasimo, che verso un bello uomo, dove, a chi con torti ochi voglia riguardare, non mancherà occasione da poter mordere la mia onestà? E voi pur sapete che non solamente doviamo mancare di errore, ma di ogni suspizione de errore.
— Belle sono state le tue dubitazioni, Fioretta — rispose la Reina —, e degne veramente dello ingegno tuo; niente di meno io penso, con l’aiuto d’Amore, dar lor tal risposta che quella parte del biscotto che ti è paruta sì dura manco ti offenda i denti che niuna altra; e riposata che io mi era un poco sùbito che io avessi raccontate buona parte delle commodità che si traggono di questo Amore, qua voleva io venire, dove mi chiama al presente la tua domanda. Fioretta, io ti ho detto più volte che la siede d’Amore è la belleza e che ella è principalmente la belleza dello animo; e anche ti ho detto qual sia questa belleza, e hotti dimostrato che Amore non suole adoperare le sue forze sanza lei; ma perciò che la belleza dello animo ci è coperta con il velo di questo corpo, egli ci fa mestiero prendere qualche guida che ci conduca alla sua cognizione; e nessuna altra se ne può trovar migliore della belleza del corpo; perciò che, essendo questo nostro corpo uno istrumento con il quale lo animo, mentre dimora in terra, fa tutte le sue operazioni, e’ par che e’ sia da credere che nello organo bello abiti bello animo, dove che nel brutto dirà ciascuno dovervi essere animo non bello. Dimmi un poco: se tu averai dui vasi, uno di oro e l’altro d’argento, e averai eziandio dui liquori, uno prezioso e l’altro men prezioso, dove metterai il men prezioso? Nello argento, per quanto io mi creda. E il più prezioso? Nello oro. Così è da credere adunche che abbi fatto quel grande artefice e sapiente. E inoltre, avendo lo animo bello a far le operazioni secondo la sua belleza, e’ gli è da immaginare che egli le faccia molto migliori se l’organo istrumentale è bello e bene organizato che egli non farà cor uno di minor belleza e di minor perfezzione. Piglia dui candele d’uguale bontà, d’uguale grandeza e in nessuna cosa sia da l’una all’altra differenza; ponile in dui lanterne, una più trasparente, l’altra meno trasparente: e vederai che quella che è nella più trasparente renderà più chiaro lume che quell’altra. Quale è la cagione? La disposizione dello instrumento. Chi dubita che un medesimo sonator di liuto molto più suave concento porgerà agli orechi altrui con un bello e buon liuto, che egli non farà con un manco buono? Essendo adunque in amore necessaria la belleza dello animo, né possendosi conoscere né fruire sanza quella del corpo, noi potiamo conchiudere che il nostro amore si debba collocare in donna bella e vaga e in uomo leggiadro e ben formato. Poscia che e’ mi pare averti assai bene fatta morbida questa prima parte, io voglio venire alla seconda. Tu hai dunche a sapere che avendo la natura creato lo uomo e la donna d’una medesima specie e nelle virtuti e forza dello animo simili l’uno a l’altro, e bisognandole nello abito del corpo fargli tanto differenti che fra loro si potesse venire a quel congnungimento con il quale essa natura aveva ordinato che si mantenesse la umana generazione; e dubitando che per qualche accidente e’ non nascesse alcuna differenza tra questi dui individui che potesse ritrarli dal già detto congnungimento; per tòr via così fatta occasione, ella pensò trovare un vincolo che gli dovesse tener sempre insieme uniti e concordi. E avendo già instituito che la belleza fusse delle principal cose che si appetissino, diede ordine che la belleza della donna maggior disio accendesse di sé nel petto dello uomo e più piacesse e fusse più conosciuta che quella di uno altro uomo; e quella dello uomo più diletto porgesse alle donne che agli uomini stessi; come già ne fece il romitello di monte Asinaia manifesta prova, niuna altra cosa più intentamente mirando né disiderando più disiosamente che la belleza di quelle papere. E a noi lo dimostra assai chiaramente la sperienza tutto il giorno; imperò che egli non si trova mai alcuno uomo tanto nimico di noi altre che, veggendone una che vaghetta sia, non si senta destar dentro al petto un natural disiderio di piacerci; come a noi, veggendo un bel giovane, interviene il dì mille volte. Avendo adunche a venire alla cognizione della belleza della anima per mezo di quella del corpo e avendo noi altre più cognizione della belleza dello uomo e più piacer prendendone che di quella della donna, egli è necessario conchiudere che la donna debba insignorire lo uomo dello amor suo più presto che una altra donna. Or non vi accorgete voi che se egli non fusse stato questo ottimo provedimento della natura, che fra noi e gli uomini sarebbe una perpetua guerra? E così come dal governo della repubrica, dai sacerdozii e da tutte le altre pubriche amministrazioni ci avete voi altri tolte via, io non dubito punto che voi non ci aveste cacciate del mondo a nostro dispetto, che pur ora vi ci ritenete volentieri. A quello che tu dicesti del pericolo che portano gli amanti di esser biasimati da coloro che con nimico ochio gli riguardassero, io non voglio fare altra risposta se no che io vorrei che tu mi dicessi quale maggiore infamia, qual cosa più abominevole, qual più contraria alla natura, qual più vietata dalle leggi umane e dalle divine è quella quando uomo in bello uomo diriza gli ochi disconvenevolmente; come si fa oggidì troppo più spesso che io non vorrei, a beneficio dei mortali; e volesse Iddio che alcune donne, così ne’ moderni secoli come negli antichi, fussero mancate di così brutto peccato; dove che lo amar la donna un leggiadro giovane e gentile uomo a valorosa donna donando il core è stata sempre lodevole cagione di mille onesti esercizii; né le mordaci lingue, se la conscienzia, la quale come dicevano gli antichi vale per mille testimonii, è stata pura e netta, vi han potuto far gran fatto danno.
— Troppo più che io non averei saputo addimandare mi avete voi, madonna, rintenerito questo biscotto — disse Fioretta, poi che la Reina si taceva — ma prima d’un scoglio mi assicurarete che mi par scorgere in mezo a queste onde, e di poi vi prometto sicuramente drizar le vele della mia barchetta per lo mezo di quelle. Io ho sempre sentito dire che lo amore è indivisibile; laonde egli aviene che mal si puote ’n un medesimo tempo amar due persone perfettamente. Dunque, se così è, che è verissimo, come sarà egli possibile che io ami il mio marito, come è mio obligo e come mostrate far voi, e in quel medesimo tempo mi proveda d’altro amante, come voi similmente avete confessato di fare?
— Non ti ho io detto di sopra — rispose prestamente la Reina — che questo amore è doppio e che egli opera doppiamente, come già ti ho dato lo esemplo di me e darotti di bel nuovo? Quello amor terreno e corporeo del quale si è tante volte ragionato di sopra mi fa amare il mio caro marito, al quale per volontà dei miei genitori, per disposizione delle leggi e per mio consentimento io ho soggiogate tutte le operazioni di questo corpo, né più voglio, né meno disider io che esso si voglia o si disideri. Ma se egli, come troppo ingordo di quelle cose che il corpo solo fanno riguardevole, niuna stima dello animo faccendo non mi lascia adoperar verso di lui le forze di esso animo, perché non mi è egli lecito, a cagione che la ruggine non se lo roda, farne dono a qualcuno che lo accetti e lo abbia caro, laonde io possa, se mai tempo o onesta cagion ne darà luogo, parlar con lui della virtù; che si debba far per acquistarla; che sia onorevole a gentil donna e ciò che faccia chiaro leggiadro giovane? De’ quali ragionamenti noi altre donne ordinariamente parlando, che ne’ vili nostri essercizii da piccoline aveze non potiamo così a piedi scalzi camminar per li fruttiferi campi della filosofia come gli uomini, tanta commodità ne caviamo, che oltre allo imparar di ben vivere sappiamo molte cose dei secreti della natura, che in altra guisa non avremmo possuto mai sapere. E chi è quel giovane così dappoco o quella donna tanto grossiera che sia tocca nel cuore d’una picciola scintilla di quel vero amore, che non susciti il fuoco della sua virtù che poco avanti sotto alle ceneri della pigrizia diaceva sepolto inutilmente, e non lo facci render mille lucide fiamme; e come nuovo Cimone non si riscaldi di quel disio che ne guida allo albergo della vera belleza e là ove tutti i passi della nostra speranza ragionevolmente si deveno rivoltare? Per le quali tutte ragioni io tengo per fermo che niuna cosa possa più aventurosa parere a saggia donna che abbattersi in valoroso innamorato, né a gentile uomo più leggiadra che invescarsi nella belleza di virtuosa giovane. Questo vi voglio io ben dire, le mie donne: che colei che nel marito, al quale già è obligato lo amor del corpo, trova dove quello dello animo possa collocare, che ella non lo deve cambiare per alcuno altro; e questo sia detto per voi altri uomini similmente. Ma quanto questo intervenga di rado, voi, sanza che io vel dica, lo sapete troppo bene e vedetelo per isperienza tutto il giorno. E la cagione, per quello che io mi pensi, è questa: che egli può bene il corpo formato dal nostro padre e fatto dalla nostra madre quaggiù in terra esser legato da loro con i lacci di quel terreno amore, come lor piace, come quelli che possono cognoscere molto bene che simiglianza io mi abbia più con questo che con quell’altro o per sangue o per fortuna, e qual marito mi si convenga per far figliuoli e qual perché copiosamente mi pasca e onorevolmente mi vesta e faccia le altre cose che possono al mio corpo essere necessarie; ma la anima, che è creata in Cielo e della quale solo Iddio che la ha infusa in questo corpo ne averà cognizione, non puote altrimenti che da sé o, per dir meglio, quanto è mossa da esso Iddio o da’ suoi ministri allacciarsi o darsi in arbitrio di niuna altra. E però veggiamo bene spesso che il marito porta amore ad altra donna che alla sua moglie e la donna ad altro uomo che al suo marito. Già non credo io, Fioretta, che tu abbia altro che ti offenda — soggiunse la Reina, poiché ebbe fin qui detto —, imperò che io mi persuado oramai avere assai bene allontanato il tuo passaggio da quello scoglio che ti riteneva ultimamente dal dover salire in sul bel legno d’amore —.
Ed ella:
— Non, per la Iddio grazia e per la vostra; e presta sono a dare al vento le mie primiere vele, poiché le son padroneggiate da sì buon marinaio —.
Aviavasi la Reina, poi che Fioretta taceva, a ripigliare il di sopra lasciato ragionamento, quando Bianca, venuta per onesta temenza simile alle mattutine rose, con queste parole la interroppe:
— Non si disdirà a me, onorevole madonna, poi che egli non si è disdetto a Fioretta, il domandarvi di alcuna cosa.
— Non si disdica a me il rispondere — seguitò la Reina — come a te non si disdice il domandare; e Dio voglia che io non mi sia messa ’n un pelago così cupo che, allor che io pensi esser fuor dell’acqua, io porti pericolo di annegare. Ma sia con Dio: poi che egli ci son tanti buon marinari attorno, domin che e’ non ci sia qualcun che mi ripeschi? Che cosa è addunche quella della quale tu mi vuoi addimandare? —.
A cui Bianca:
— Egli mi ricorda aver già letto non so dove che ogni volta che la amicizia si contrae per alcuna particolar cagione, che ella suole allora cessare quando manca quella cagione. Se addunche la belleza del corpo è cagione di farci innamorare, mancando quella e’ mancherà insieme la amicizia. Ma percioché questa corporal belleza, che, secondo che voi dite, è cagione di farci innamorare, dalla mattina alla sera per diversi accidenti si scolorisce e languida per li molti anni cade per terra, e’ sarà necessario dire che questo amore facilmente possa mancare. Ma perciò che secondo la oppenione dei savi egli è stolta cosa amar quello oggi che non si possi amar domani, adunche è stolta cosa commettere la volontà nostra nel mare di questo vostro amore, poi che così facilmente può cessare il buon vento.
— Sottilmente, aveduta giovane — disse la Reina —, né fuor di quello che io mi pensavo ti sei ingegnata di svegliere fin dalle radici i ben barbati arbori dello orto d’amore, dal quale, per quanto io ho potuto oggi comprendere, tu ti se’ così ostinatamente ribellata; ma io, per veder se ti potessi rimetter per la buona via, spero far sì con l’aiuto suo che egli non ti verrà fatto di levarne pure una foglia.
— Me non è gran fatto rimettere nella strada, ché spesso ne esco — rispose Bianca, più presto altiera che, no ma non so già come voi vi difenderete questi arbori dal vento della mia opposizione.
— Ah, Bianca, Bianca — disse allor la Reina così ridendo —, non ti riscaldar tanto contro a questo nostro signore, acciò che egli poscia per sua vendetta non ti riscaldi in guisa che e’ non basti l’acque delle tue lagrime per rinfrescarti; e pensa che le belle donne, come sei tu, son come zolfo intorno alle sue faville. Or, per tornare a casa, tu hai da sapere che accesi gli animi degli duoi amanti dal fuoco d’amore col mezo della belleza del corpo e nata la reciproca benivolenza e accresciuta per la lunga consuetudine, né per crespe di fronte, né per biancheza di capegli, né per discoloramento di viso, né per qual si voglia altro accidente puote mai mancare amore. Non ti ho io detto di sopra che questa belleza corporale non è quella che si ama principalmente, ma è quella della anima? E questa belleza della anima che, come io ti ho similmente accennato più volte, consiste nella virtù, quando la vedesti tu mai o per vechieza o per malattia venir meno? Non mai, che io mi creda; anzi come l’oro nel fuoco si affina, così ella per li assai travagli e per gli molti anni si fa migliore; sì che non mancando la principal belleza, che è la vera siede d’amore, non mancherà la principal cagione dello amore. Considera dunche, Bianca, omai quanto sei stata lungi dalla ragione riprendendo amore così arditamente e credendo che le fronde degli arbori suoi non potessero scansar questo tuo così fatto vento —.
Stava sopra sé Bianca per le parole della Reina e pensava alla risposta, quando Selvaggio, credendosi che ella non volesse rispondere altro, con allegre parole disse:
— Io credetti che la battaglia fusse attaccata per un pezo, conoscendo di che lena fussero i cavalieri; pur poi che io veggio che ella è già fornita, voglio anch’io appiccare una picciola scaramuccia. Mettete addunche mano per le vostre armi. Voi diceste, madonna, se io ho bene tenuto a mente, che amore è quello che ci muove ad amare; e poco più di sotto soggiugneste che della cognizione che fanno gli animi degli amanti l’un dell’altro ne nasce amore. Io non so considerare come amore, anzi che egli sia prodotto in essere, possa far cosa del mondo o nascere da poi che egli ha operato cosa alcuna. Questa spina vorrei che voi mi traeste dell’uno de’ piedi, la quale, avenga che molto a drento non sia, pur m’impedisce il caminare dritto per questo vostro viaggio —.
Stata che fu la Reina per la domanda di Selvaggio così un poco sopra di sé, vòltasili disse:
— Se così fussero stati i tuoi assalti fieri come furono le parole, io dubito che io sarei rimasta prigione a questa volta; ma è ben vero che i cani che abbaion molto mordon poco. Tu hai dunque a considerare amore in due modi: il primo modo è considerarlo come quella intelligenza che muove gli animi nostri ad amare, senza il quale movimento noi siamo insufficienti a questo effetto. Secondariamente e’ bisogna intenderlo per quella benivolenza che è nata per quello primo movimento, cioè per lo molto piacere l’una persona all’altra; e benché il motore e il moto siano diversi, hanno un medesimo nome, il che non è inconveniente più che sarebbe se noi chiamassimo uno instrumento da sonare un suono, come si fa tutto il dì nella vostra città, e poscia addomandassimo suono quel concento che per la repercussione dello aere rende quello istrumento —.
Pareva rimasto il Selvaggio fuor d’ogni puntura per la risposta della Reina e le voleva dimandar di non so che altro, quando Bianca, anzi un poco turbatetta che no, togliendogli le parole di bocca di nuovo disse:
— Ditemi un poco a me, madonna: e se poi che egli sarà nato questo vostro amore e dello amore la benivolenza e del voler di dui ne sarà fatto un solo, come ci sforzan le leggi sue, e quello uomo, chiunque egli sia che io amerò, mi ricerchi di cosa lungi dalla onestà, dunque non gliela negherò io, né gliela potrò, volendo, negare, poi che e’ mi convien voler quello che gli aggrada —.
Sorrise la Reina udendo queste parole e disse:
— Dimmi un poco, Bianca: se lo amore vero e buono del quale noi parliamo al presente alloggia, come avemo dimostrato, nelli animi virtuosi, come potrà uno amico virtuoso discendere a cotanta brutteza che egli non perda la virtù e consequentemente lo alloggiamento d’amore? Or non sai tu che la prima legge della amicizia è che noi richiediamo l’amico di cose oneste? Colui addunche che rompe le leggi d’amore come rubello debbe esser bandito della sua corte, e noi lo doviamo fuggire come d’amore capitalissimo nimico e nostro —.
Voleva seguir più oltre la Reina, se non che Celso, avisando che ella volesse tacere, interrompendola disse:
— Poscia che io mi accorgo che egli si avicina il fine di questo nostro aringo e che io vi veggio così benigna a rispondere a tutti quelli che vi domandono, io non voglio rimanere con un dubbio nella fantasia. Ditemi addunche che differenza voi fate dallo amore alla amicizia; imperò che, dove io mi pensava che elle fussero una cosa medesima, vo’ ci avete fatto, se io ho bene avvertito il parlar vostro, più volte differenza; e poi, perciò che il sole comincia di già ad esser soverchio rubesto, ci potremo ridurre, quando vi piaccia, verso casa.
— Brevemente, e non secondo che merita la tua domanda — rispose la Reina — sodisfarò al tuo disiderio, perciò che, come tu hai detto, il sole ci minaccia di offenderci se noi non poniamo fine a così lungo parlamento. Dico addunche che la prima differenza è questa: che amore è sempre mosso da naturale inclinazione e alcuna volta scende sanza salire, dove che la amicizia non si contrae se non per accidente di conversazione, il quale la fa essere reciproca sempre mai; amore è fra donna e uomo comunemente, e la amicizia discorre fra donna e donna o uomo e uomo il più delle volte. Tramettesi la amicizia tra uomini non così virtuosi, come intervenne tra Gracco e Blossio (perdonici in questo la riverenza di Cicerone); e amore fra i virtuosi sempre si annida. Muovesi amore principalmente per la belleza, e la amicizia poco o niente se ne cura; ha in sé amore tutte le commodità della amicizia, ma non ha già la amicizia tutti i commodi di amore; e per dire, allo estremo, la sua maggior differenza, è la amicizia sempre fra la creatura e la creatura, dove che amore è eziandio fra la creatura e ’l creatore; e cominciando in Dio e passando in noi e di nuovo ritornando in Dio come per un cerchio, ci mostra parte delle sue belleze, mostrandole ce le fa amare, amandole ce le fa piacere, e piaccendoci ci fa partecipe in terra delle cose del cielo. O grandissimo dono d’Iddio, o dono sopra tutti gli altri maraviglioso, tu ne apporti la pace, tu ne fai lontana la guerra, tu hai scacciata la tempesta dal periglioso mare di questa nostra vita, e il soffiar dei rabbiosi suoi venti ne hai renduto dolce e suave; tu di fiere selvagge ci hai trasmutati in uomini e di uomini duri e rozi in mansueti e affabili; tu con amorevole famigliarità insieme congnungendoci e delle roze spilonche traendoci, nelle populose cittadi ci hai congregati e haici fatto abitare le murate case; tu collo agevolarne quello che per sé era pieno di fatica, ne hai mostrato la via del riposo di questo mondo; tu ne hai fatto scancellare quello odio che per la trasgressione del nostro primo padre ne portava Iddio meritamente, e in quello scambio ne hai data la sua benivolenza, cognungendo esso con noi e noi con esso; e insegnandoci porgerli solenni sacrificii, ne hai turato il calle che ne dava il passo per gli sterili campi della ingratitudine; tu hai messo a cavallo gli animi nostri nella via delle virtù e il bel cammino, il qual prima erto e lungo ci si mostrava, ne hai fatto parere e piano e breve. Questo è quello che ci è stato nelle fatiche dolceza, nella dolceza frutto, nel frutto accrescimento di bene, nel bene contento sanza sazietà; egli allo andar porge grazia, al seder diletto, al parlar modestia, al tacer virtù, alla virtù piacevoleza, alla piacevoleza onestà, alla onestà quel fine il quale ogni uomo ragionevole è tenuto disiderare —.
Poi che la Reina ebbe posto fine agli amorosi suoi ragionamenti, Folchetto, che sempre era stato con grandissimo silenzio ad ascortarla, vòltosile così piacevolmente le disse:
— Madonna, voi mi avete dipinto questo vostro amore con certi colori e ’n un posar così strano, che io per me non lo giudico di mano di troppo eccellente maestro; ché per essere io uomo e in conseguenza composto così di corpo come di animo, e’ mi par ragionevol cosa dover fare stima di quei piaceri che arrecano diletto e al corpo e allo animo tutto ad un tratto; e se io vi ho a dire quello che io sento di queste vostre dispute, e’ mi parrebbe che le fussero molto più convenienti dentro alle clausure delle vergini monacelle e per li chiostri dei religiosi frati che tra una compagnia di bellissime donne e di giovani uomini, come è la nostra, venuta a la verdura per diportarsi e non per istare in contemplazione. Tenetevi addunche cotesto amore che voi dite è nipote del Cielo, voi i quali volete anzi tempo penetrar le regioni dello avol suo, e lasciate a me quello che voi dite che è nipote della Terra, ché non mi curo andar su per la avola carponi, e bramo veder frutto delle mie fatiche alli dì miei.
— Non è amore il tuo — soggiunse la Reina allora —, ma folle disiderio di cosa brutta, di cosa che quando ne sarai divenuto possessore averai brama che niuno ti veda possederla. Ma non ritorniamo di grazia nel profondo di quel pelago donde ci partiamo pur ora, poi che ci è venuto fatto di non vi annegare; e tanto più che il sole, che non è guari lontano dalla metà del suo viaggio, ci accenna che noi ci riduciamo alla cima del nostro colle. Andiamone addunche; ché giunti che noi saremo, averemo tempo di ragionare a nostro bell’agio —.
E così sanza più dire messasi in via e gli altri seguitandola, con lenti passi preseno il cammino verso casa; dove arrivati, dopo un breve riposo data la acqua alle mani, si posero a tavola e con suoni e canti vinseno il piacere delle molte e ben divisate vivande; le quali finite, cadde alcuno ragionamento, per cagione di quelli che sonavano, sopra del liuto e della vivuola; e finalmente per verissima conclusione di madonna la Reina fu detto che, ancor che il liuto per sé fusse di maggior diletto e che maggior maestria si ricercasse al sonarlo, niente di meno a pudica donna e a nobile uomo, a’ quali secondo il costume greco oggidì è permesso saper ben sonare e ben cantare, e a quelli massimamente che avessero qualche dimesticheza con le Muse era la vivuola — o vogliamo dir lira — assai più conveniente come proprio instrumento di Apollo, signore e maestro di tutte le Muse e de’ poeti, e come quella che quasi spirava poetico furore ne’ petti di questi cotali, cavando i versi alcuna fiata de il seno di coloro, donde sanza la di lei armonia e’ non sarebbono usciti mai. E perché Selvaggio come quello che era di lliuto ottimo sonatore voleva contraporsi con non so che ragioni, e Bianca come colei alla quale stava meglio la vivuola in mano che a persona di quei contorni la voleva difendere, la Reina, non vedendo altro modo da poter così presto tòr via questa contesa, levatasi da tavola e ridottasi ’n una delle camere, comandò a Selvaggio che desse principio alle ordinate canzoni; il quale sanza altro dire preso un liuto in mano, poi che lo ebbe accordato vi cantò su questa canzone:
Amor, da cui cognosco l’esser mio,
poi che la tua mercé là mi scorgesti
dove porge onestà ciò che io disio,
deh, fa ch’anzi ch’io muoia
possa narrar la gioia
ch’io sento, e la virtù che tu mi desti,
allor ch’io mossi il mio vago pensiero
per quel cammin che lo condusse al vero.
Presemi amor di donna sì gradita
ch’unqua, e poco è ’l mio dir, non ebbe pare;
ond’io, per fare a lei simil mia vita
e indirizare il core
alla strada d’onore,
presi le sue sante orme a seguitare,
e l’alma in ciel fra gentil cose aveza
tosto s’accorse della sua belleza.
El vide dentro agli ochi una onestade,
che la fe’ d’onestà venire amante;
e dentro al sen conobbe una bontade,
che le’ fece esser vile,
con disusato stile,
tutto che fusse fuor dell’orme sante;
e parendole in cielo esser tornata,
si vive entro al terren carcer beata.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E però s’io m’allegro in quel bel volto,
s’io pasco il pensier mio delle parole
che m’han con mio piacer me da me tolto
per girmen seco insieme
senza malvagia speme;
s’io son da’ raggi di questo mio sole
alluminato del vero splendore,
che debb’io se non te lodare, Amore?
Canzone, uscita donde esce la stella
ch’apporta il giorno fuore,
come son pochi quei ch’ardon d’amore!
Già era venuto il Plozio allo ultimo delle sue rime, e già erono state dalla Reina sommamente commendate, quando Bianca così gli prese a dire:
— Bella è stata veramente la tua canzone e ripiena di molto sapere al senso e alle parole; della quale e’ non mi par che e’ gli si possa oppor cosa veruna; ma io non mi ricordo già di aver mai veduto appresso di alcuno autore o antico o moderno così fatta testura. Laonde io dubito che tu non la abbia ritrovata da te stesso; la qual cosa quando vera fusse, io non saprei vedere come la Reina ti avesse lodato molto ragionevolmente.
— Da me stesso la ho io ritrovata — rispose Selvaggio, più tosto in collera che altrimenti —, ma qual cagione ti muove a darmene riprensione? Dunque non è egli lecito agli moderni trovar nuovi modi di canzoni come fu agli antichi? Dunque non ci sarà mai permesso di poter migliorar questa lingua e arrichirla di nuove cose, anzi sarà mestieri lasciarla in quegli puri termini che ella si ritrovava quando ella nacque, o almeno in quelli stessi che ella si ritruova al presente? Dimmi, Bianca, per tuo fé: sei tu anche tu di quelle che nel riprendere le cose altrui non adduci altra ragione se non: «E’ non l’usa il Petrarca»? Or non sai tu che agli poeti e agli dipintori fu tuttavia permesso aggiugnere e levare secondo che loro aggrada? E se bene io non son poeta, però non mi negherai che nello atto di questa canzone io non sia poeta al par degli altri.
— Poeta sei e più che comunale; io non ti niego questo — rispose Bianca, parendole quasi che e’ si volesse adirare —, né ti biasimo se non di questa innovazione, la quale, secondo me e secondo chi sa più di me, si debbia fuggire quanto la mala ventura; ed evidente ragione, come dice Dante nel principio del suo Convivio, deve esser quella che nello statuire le nuove cose ne faccia partire da quello che si è usato lungamente. Né mi sodisfa quella ragione, che alli poeti siano leciti tanti miracoli; perciò che, se tu guarderai bene lo autore di cotesta sentenzia, tu cognoscerai che egli non parla ne’ termini nostri, ma parla della invenzione delle cose da dirsi, nella quale io ti confesso esser vera la openion tua; ma con modestia però, e secondo che soggiugne il medesimo scrittore, il quale non permette che tu ritruovi una testura a modo tuo, o che tu canti con i versi eroici gli amori di Isotta e di Tristano, o adoperi gli elegi per descrivere la sanguinosa battaglia di Chiaradadda, o per cantar le egregie opere dei nostri cittadini prenda i lirici. E però se questa tua novità non mi piaceva, tu puoi vedere oramai che io non mi moveva sanza fondamento.
— Bianca, io non voglio dare altra risposta a queste tue ragioni — rispose egli — se non questa: che, se egli fusse stata approvata cotesta tua opinione, che, poi che e’ furono trovati i versi eroici, coloro averebbeno errato che trovarono i lirici, avendo fatto innovazione; e peggio chi aggiunse gli elegi; e chi ci arrecò i comici o i tragici, pessimamente; e per parlar più in caso nostro, se il Petrarca fusse stato costretto da coteste vostre leggi, egli sarebbe caduto nel medesimo errore quando egli ritrovò nuovi modi di canzoni, nel quale tu di’ che mi ha fatto traboccar la mia canzone. Rallegrinsi addunche coloro che cercano aggiugnere a questa nostra lingua i versi tragici, poi che la innovazion non piace; faccian festa quelli che han scritto in rime sciolte, poi che le cose nuove non dilettano, a’ quali (e dica ognun quello che e’ vuole) questa nostra lingua toscana è obbligata grandissimamente. Ma vuoi tu, Bianca, che io ti dica ad una parola dove è male lo innovare? Dove si fa confusione, dove gli antichi e moderni scrittori greci, latini e toscani hanno avuta una comune osservazione e han posto i termini e comandato che egli non si passi più oltre. Questo è lo innovar che è rio, questo è quello che ti deve dispiacere; non il far quel che fece Dante, il Petrarca e molti altri, i quali addobarono questa nostra lingua di nuove testure, di nuove canzoni e di poemi nuovi, in modo che oggi sanza imperio alcuno, il che non è mai avenuto dell’altre, la non si vergogna distendendosi per le province altrui a pareggiarsi con la latina. E però dichino i moderni censori con esso teco quello che e’ vogliono, ché io non acconsentirò mai al parer loro infinché una legge universale non me ne farà proibizione; e basterammi in quelle poche canzoni che io farò farle con i dovuti numeri e poner gli accenti in quelle partì del verso dove debbono stare ragionevolmente —.
Godeva Fioretta a questi ragionamenti come quella che essendo con la canzone che ella doveva dir poco da poi rimasta alla medesima pania, se ne vedeva sviluppar sanza sua fatica; laonde voltasi a Bianca, acciò che adducendo nuove ragioni non le i<n>tricasse le ali una altra volta, disse:
— Tanto mi par che il nostro Selvaggio sia da biasimare in questo quanto mi parrebben coloro i quali aggiugnessero un nuovo drappo o un nuovo panno alle molte sorti che si usano oggidì; i quali, ancor che e’ fussero di minor belleza di quei primieri, per la loro novità piacerebbeno pur per una volta in modo che noi loderem<m>o coloro che ne fussero stati ritrovatori. E però se egli ha vestita questa sua canzone di nuovi drappi, egli lo ha fatto per più nostro diletto; la qual cosa così mi è sempre piaciuta, che io ne voglio trar fuore una ogni volta che egli sarà <a> ggrado alla Reina, la quale sarà vestita similmente di nuova gonna.
— Poi che egli non mi può piacer prima che adesso — disse allor la Reina sorridendo —, adesso voglio che mi piaccia; mostraci adunque questa nuova foggia di vestimenti, ché noi aspettiamo vederla con disiderio —.
Alle cui parole, mentre che ’l Corfinio sonava dolcemente un suo liuto, ella niente replicando, così cominciò:
Amor, che già movesti
quel primo alto Fattore
a crear l’uomo alla suo simiglianza,
e quando poi vedesti
quel primo antico errore
farci smarrir la divina sembianza,
prender Dio nostra carne
forzasti per salvarne;
ascolta quella ancella,
ch’esser della tua schiera
disposto ha ’l pigro cor novellamente,
e la sua navicella
driza presta e leggiera
al porto, ove surge or sì poca gente,
e con tranquillo vento
cava ’l nocchier di stento.
Già sento intorno al core
spiritel di virtute
da lungo sonno ardito alzar la testa;
che fia dunque s’Amore
con sue nuove ferute
il ver valore entr’all’anima desta,
poscia ch’una sol voglia
d’ogni viltà mi spoglia?
Come quei ch’anzi il sonno
grave martir gli addoglia,
che poi si sveglian d’ogni dolor scarchi,
ch’appena creder puonno
che quella amara doglia
non gli ritenga ancor noiosi e carchi;
tale a me ’l bel pensiero
face parere il vero.
Fie mai ch’io viva tanto
che con dritt’ochio io veggia
quel ch’or miro in sembianza in fragil speglio,
e ’l dolce laccio e santo
l’alma ch’ancor vaneggia
. . . . . . . . . . . . . . . <-eglio>
e dica: «O spirto mio,
or sei tu presso a Dio»?
Canzon, né ’n leggier carta o ’n fragil cera,
né ’n scorza d’orno o faggio,
ma nel cor scritta t’aggio.
Già si taceva Fioretta e da tutti era stata meritamente comendata, quando la Reina le prese a dire:
— Non per biasimare, accorta giovane, la tua canzone, la quale come ognun di noi ha già detto è stata bellissima, ma per chiarirmi d’un dubbio voglio io con tua buona grazia dir sopra quella alquante parole. Io ho già, essendo a Roma, udito dir molte volte che voi altri Toscani fate in questa lingua, che molti non posson soffrire che si chiami toscana, grandissimi errori; anzi, che voi ne sapete manco che tutti gli altri Italiani che ne hanno alcuna volta fatto professione. E perciò che io non sono conforme alla loro openione, avenga che io sia nata a Roma, io intendo alcuna fiata domandarvi di qualche cosa sopra di ciò, a cagione che voi — i quali sete nati in quelle parti dove ella non solamente è stata illustrata ma è nata e allevata, e i quali, sempre che voi vogliate drizarci lo animo, ne potrete e doverrete sapere ragionevolmente sempre più che i forestieri — mi dimostriate se egli è ’l vero quello che costoro dicono, o se è, come io mi penso, menzogna. Dimmi addunche, e volterommi a te, Fioretta: perché hai tu usato nello ultimo verso della seconda stanzia della tua canzone stento? La qual parola né il Petrarca né alcuno altro dei buoni autori, per quanto io mi ricordi aver letto, poser mai entro alle opere loro —.
Sorrise Fioretta udendo queste parole e rispose:
— Quasi che io mi avisava che io ne sarei ripresa; e dicovi più oltre: che non perché e’ mi paia però avere errato, ma per fuggir questi certi così fatti, i quali non tengono conto se non di loro, io la averei lasciata da canto; ma il poco tempo mi tolse la occasione di poterlo fare. Tuttociò io non mi lasciai così vincere dal breve spazio che io non pensassi potermi difendere con ottime ragioni; non da voi, madonna, che so che non mi volete offendere, ma da costoro, che per soverchio sapere dimenticano bene spesso; i quali non per altro prendono a leggere le cose dei moderni Toscani se non per vedere diligentemente se cosa vi trovino che caggia sotto la lor troppo severa censura; né prima danno essi al giudicio di molti qualche cosa, come che e’ ne dien rarissime, che eglin non incorrino in quegli stessi errori e più grandi che hanno biasimati in altrui. E sonvi di quegli i quali, come poco grati di ciò che hanno apparato nelle nostre contrade e appresso de’ nostri autori, non si vergognano, come avete già accennato voi, dir che noi altri Toscani siamo della nostra lingua ignorantissimi. Ma tornando alla risposta di quello che voi mi domandaste, io vorrei sapere da costoro chi è stato quello di cotanta autorità che abbia potuto instituire così severa legge che voglia che chi non userà quelle parole che sono entro al Petrarca sia fatto rubello della nostra bella Toscana; e derogando alli ragionevoli statuti di Orazio e di quello che scrisse la Rettorica ad Eren<n>io, sia stato ardito riempire la terra altrui di così inique ordinazioni. Dice Orazio nella Poetica che coloro i quali intrecceranno nelle loro composizioni alcun vocabolo con lo quale e’ significhin le cose novellamente ritrovate, come sarebbe oggi la bombarda, che e’ faranno cosa degna di lode, benché gli antichi e celebrati scrittori non gli abbino usati ne’ lor libri; soggiugnendo poi (il che fa più a nostro proposito) che, se altri puote aqquistarne qualcuno che sia bello e di buon suono, faccendolo egli non ne deve divenir favola dei maldicenti, con ciò sia cosa che Catone ed Ennio con i loro novellamente ritrovati facessero ricco il parlar latino. E poco più di sotto dice che molti nomi, diversi verbi, infiniti modi di parlare, i quali già essendo stati in consuetudine son poi venuti in abbandono, se e’ vorrà lo uso dei più ritorneranno nella medesima consuetudine, e molti mancheranno che sono nella frequenzia e uso già detto, appresso del quale è l’arbitrio e la regola del parlare. Quello che scrisse ad Erennio e Cicerone nel suo Oratore, accordandosi con Orazio o, per dir meglio, Orazio con loro, dicono in più luoghi che doviamo usar parole che sieno nella bocca degli uomini tutto il giorno e lasciare quelle che son già dismesse e abbandonate; e però disse quel filosofo a quel giovanetto che sempre con le sue parole rimescolava la antiquità, che parlasse alla moderna e vivesse alla antica. Se secondo costoro addunche e’ si deveno scrivere quelle parole che volano per le orechie altrui ogni giorno, ancor che elle non sieno appresso dei famosi dicitori; e questo parlare è quello che ci ha a dare la regola di quei vocaboli che noi aviamo ad adoperare, e non sono gli autori; per qual cagione o con che autorità voglion costoro proibirmi con le lor regole che io non possa usar stento, udendo che egli passa ne’ cotidiani ragionamenti quasi per la bocca d’ognuno con grandissimo piacere di chi lo ascolta? Risponderanno: «E’ non l’usò il Petrarca». Ma chi ha detto loro che quelle parole che non usò il Petrarca non si possino usar per noi altri? Chi son stati quei senatori, quale è stato quel popolo che ha data lor questa commissione? Niuno, per quanto io possa vedere; anzi eglino, come nuovi Fallari, sanza aver però molto séguito, si sono voluti far tiranni nelle province altrui contro alla voglia dei proprii cittadini. E però, sanza prestare orechie alle lor strida, poi che le regole degli antichi e de’ moderni scrittori me lo concedano, io non mi reputerò ad errore aver messo stento nella mia canzone; con ciò sia che questa parola sia in bocca di ognuno e non abbia tristo suono e faccia di sé la lingua più ricca, sì che noi potiamo esprimere ora una qualità di miseria che prima non potevamo così facilmente.
— Tutte queste tue ragioni mi piacerebbono — disse allor la Reina —, se io non avesse udito più vol<t>e dire che la gramatica, la quale non è altro che una certa regola di ben parlare, è una arte osservata e cavata dagli scritti dei buoni poeti e dagli oratori. E qual altro buon poeta ha questa lingua, fuor del Petrarca, da li cui versi si possi trar regola di ben parlare?
— Sapete voi dove ha luogo — soggiunse prestamente Fioretta — il dire che quella parola non si debbe scrivere la quale non è appresso dei buoni autori? Nella lingua latina, la quale non si parla cotidianamente, nella greca, nella ebrea e in tutte le altre che per forza di scrittori si conservono, s’imparano e si ragionano, e nelle quali non si può guardare ciò che si facci l’uso, come quello che è tolto via; ma in questa nostra, che non solamente nella region dove ella è nata ma in molti altri luoghi si favella e con la quale noi altri avemo il commerzio fin dalla culla, e potemo sapere qual vocabolo fiorisce e a quale cascon le foglie, non ci fa mestiero correre né alla gramatica né agli scrittori, ma all’uso cotidiano, appresso del quale, come avemo già detto un’altra volta, sta la regola e la forza del ben parlare. Questo vi confesserò io bene: che nello scrivere o prosa o versi, dove fa di bisogno avere una grande avvertenza di scegliere quelle parole e quei modi di parlare che sieno accomodati alle composizioni, alle persone, alle clausule e alla materia della quale si parla, e or prendere i gravi ora i leggeri, testé i bassi poco di poi gli alti, quando i mediocri, quando i dolci, quando i rozi, e talor l’uno e talor l’altro, come ognun sa sanza che io lo dica; allora sì che eglin si debbono imitare i buoni scrittori, come è il Boccaccio, come il Petrarca, come saranno il Molza e ’l Tolommeo, quando e’ si degneranno farci partecipe delle loro comp<o>sizioni; a quelli si debbe ricorrere, quelli si deveno tòr per guida e per maestri; ma non deviamo però serrarci con esso loro in così picciolo cerchio che noi non possiamo trarne fuori il piede alcuna volta. Lesse più e più fiate le orazione di Catone Marco Tullio e confessò avere imparato da quelle assai; con tutto ciò e’ non si lasciò così da llor serrar la bocca che e’ non n’uscisse una gran copia di nuove parole e di nuovi ornamenti, i quali tal luogo gli diedero in quella lingua e così alto, che mai a niuno altro son bastate le forze di vi montare. E però sanza citar molte altre ragioni che la brevità del tempo mi fura, conchiuderemo che noi possiamo mettere in opra non solamente stento, ma tutte le altre parole nuove, le quali avendo dolce suono si travagliono nel ragionar di molti, ancor che le non sieno dentro al Petrarca o scritte dagli altri dicitori —.
Aveva imposto fine Fioretta con queste parole al suo ragionare, quando la Reina, non vedendo forse da repricare, senza altro dire impose a Celso che seguitasse con la sua canzone; il quale con benigno modo così diede principio alle sue rime:
Amor bello e gentile,
per cui l’anima mia
gioisce ardendo in così dolce face;
ochi, ond’io tengo a vile
ciò che altro bel si sia,
sì che ormai fuor di voi nulla mi piace;
o bella e rara pace,
che nel sen di madonna
rendi dolce concento
per crescer l’ornamento
della leggiadra sua terrestre gonna,
fie mai che le mie carte
lodin di voi delle mille una parte?
O quanti arder d’amore,
essendo in scempio foco,
penson ch’avrieno ’nvidia al mio bel stato!
Quanti hanno in troppo onore
quel ch’arien poscia in gioco
sappiendo perch’io vivo oggi beato!
Come fòra pregiato
quel ch’or si spreza e sì lontan si fugge!
Quel ch’or si chiama e vuole
con sì dolci parole,
come vedrebbe ognun che ’l rode e sugge,
s’io potessi dar saggio
qual entro accende il core onesto r<a>ggio!
Io vi direi che i rai
del mio fulgente speglio,
dal ver sprendor del terzo cerchio accesi,
se si rivolton mai
vèr me, che bramar meglio
non seppi poi che ’l lor valore intesi;
che ne’ più caldi mesi,
no ’nfiammò terra il sole
come mi scalda ’l seno
il bel splendor sereno,
a voler con Amor quel ch’Amor vuole;
e da quel tempo a questo
sempre ebbi in grado il bel men che l’onesto.
Quando la bianca mano
questa mia fida scorta
mi porge, a ciò non le rimanga a tergo,
e per bel calle e piano,
per strada ombrosa e corta
mi scorge lieta al suo felice albergo,
né pensier mai fuor ergo
che mi torca a mal passo
perch’una sua parola
ogni forza l’invola.
Ond’io veggendo ch’è securo il passo,
quanta gioia ha ’l cor mio
sallo Amor, sal madonna, e sòllo anch’io.
Canzon, se forze avessi quanta hai voglia,
potresti arditamente
gire a ’nfiamar d’amor tutta la gente.
Non era Celso arrivato a pena allo ultimo verso della sua canzone, che Folchetto ridendo gli disse:
— Io credo, il mio Celso, che chi andasse molto ben considerando questi tuoi versi, che egli vi troverebbe il sentimento assai lontano da quello che suonono le parole; imperò che quel calle piano e quella strada ombrosa ti potrebbono condurre a così buono albergo che ancora io vi alloggerei molto volentieri; e allor mi parrebbe che questa tua canzone significasse qualche cosa, altrimenti io non so vedere quello che questo vostro amore da monache si possi significare. Ma lasciamolo andare omai e ascoltiamo la canzona di Bianca, ché io veggio che la Reina, che già già voleva attaccarla meco, se le voltava per comandarglielo —.
Stette Bianca, poi che la Reina le fe’ cenno che ella incominciasse, così un poco sopra di sé; e poscia vezosamente così cantando disse:
Amor, poi che beltade è la tua sede
e io son bella, vaga e giovinetta,
perché ’l mio duro adamantino cuore
non fu segno già mai di tuo saetta?
E se là volentier rivolti il piede
ov’è ’n pregio disio sempre d’onore,
perché non colmi quel petto d’ardore
dove altro che onestà non piace o piacque?
Deh dimmi, Amor, qual dunque è la cagione
che ’n me, ch’esser devrei la tua magione,
fin qui di te disio già mai non nacque?
Surge un de’ miei pensieri e par che dica:
«La tua dureza ti gli fa nimica».
Come non puote l’uomo in pietra viva
imprimer segno alcuno o ’n dura cera,
non per difetto del sigillo agente,
ma perché gl<i> è ’ndisposta la matera;
così è qui, che la virtute attiva
non opra, ché non vuole la paziente;
dispongasi ad amar dunque la mente
con la cognizion del suo valore,
ed egli allor verrà dentro al tuo petto.
Ma un altro pensier, com’egli ha detto:
«Fuggi», dice, «alma sciolta, aver signore».
Onde or la mente ondeggia, or si sta dura,
ché tanta novità le fa paura.
L’un pensier segue: «Amor quanti sottragge
con bel principio, che, nel fin ridotti,
hanno per guiderdon la penitenza!
Spargere i passi alle più fredde notti
per folti boschi e per diserte piagge;
chi è colui che se ne può far senza,
se ’l face poscia, non facci fallenza?
Onde con sue ragion l’altro pensiero
cerca atterrar l’avversario argumento,
e dice: «Chiunque ha di virtù talento,
chi cerca in parte d’appressarsi al vero,
se secur brama entrar per dritta via
prendasi saggio amor per compagnia».
Tra sì contrari venti in fragil barca
tròvomi in alto mar sanza governo,
come già disse il fiorentino amante.
Che farò, lassa, al più turbato verno,
di questa nave d’ogni saver scarca?
S’io non mi volto a quelle luci sante
con braccia estese e con umil sembiante
come chi brami ritrovar conforto
e le preghi che drizin questo legno,
che da lontano e’ veggia qualche porto;
che, mentre io bramo questo e quel non voglio,
temo or di spiaggia, or di nascosto scoglio.
S’alcun, canzon, travagliata ti vede,
e però vuol biasmar la tua ragione,
rispondi: «Oh quanto è fuor dello intelletto
colui che l’arbor anzi suo stagione
porger bel pomo e ben maturo crede,
sendo or da’ venti, or dalla nebbia stretto!
Ché se chi puote assai del miser petto
scaccia la nebbia e fa fermare i venti,
vedranti in altra guisa andar le genti».
Empié tutti di maraviglia la canzone di Bianca, così per la dolceza della voce, la quale era grandissima, come per la armonia della ben sonata viola; ma quello che sopra ogn’altra cosa diede lor diletto fu lo aver così altamente parlato del combattimento che facevano i suoi pensieri, l’uno in vece della virtù intellettiva e l’altro della volontà non ancor bene illuminata dagli amorosi raggi. Onde la Reina tutta maravigliosa le disse:
— Bianca, e’ mi pare aver udito Orfeo insieme sì dottamente cantare e con tanta dolceza sonare, che io mi maraviglio che questi colli, anzi il cielo stesso si sieno potuti ritenere di non si avicinare a così fatta maraviglia; ma a cagione che tu non entrassi in troppa vanagloria se io parlassi di te quanto ricercano i meriti tuoi, io voglio che noi ascoltiamo la canzone di Folchetto —.
E vòltasigli lo pregò che e’ fusse contento di seguitare; onde egli senza farsi molto pregare spiegò le sue note in questa guisa:
O fiere aspre e selvagge,
amorosetti augelli,
saltanti capre e voi, lanosi armenti,
che ’n queste verdi piagge
lungo i freschi ruscelli
vivete con Amor lieti e contenti;
satir lascivi e attenti
con le ’ncerate canne
gabbar le pastorelle,
che ’n queste valli e ’n quelle
menono il gregge fuor delle capanne:
quest’è ’l loco u’ mi piacque
chi per mio piacer nacque.
Qui si scontraron gli ochi
della mia donna, e ’l core
arse d’entrambi in amoroso fuoco;
qui furo i pensier tochi
d’egual voglia, ove Amore
n’aperse via di dilettoso gioco,
e quinci, o dolce loco,
con caldo e vivo zelo,
fra le scherzanti aurette,
con le tenere erbette,
d’ambodui cinse e strinse e l’alma e ’l velo
di laccio sì suave,
ch’ogn’altro è duro e grave.
E perciò volentieri,
in questa amena valle,
com’<a> Amor piace, assai sovente torno.
E dico: «Qui l’altr’ieri
fui seco e ’n questo calle
vidi farle ombra i rami di quell’orno;
qua entro si posòrno
i pargoletti piedi;
ecco che ancor questa erba
quelle bell’orme serba;
e là quel tronco ch’or fiorito vedi,
già secco al suo apparire
incominciò a fiorire.
Potess’io con mie rime
far palese la gioia
ch’ebb’io, merzé d’Amor, tra questi fiori!
Come sarien le prime
quell’a chi amore è noia
che porgerieno il petto ai dolci ardori!
Dichinlo questi allori,
de’ quai aspra dureza
di donna ebbe già forza
mutarli in fronde e scorza,
ch’ancor, la suo mercé, tanto s’appreza
com’è gentile e vaga
chiunque d’amor s’impiaga.
Canzon, se ben sei nata in mezo ai boschi,
ben spesso roza gonna
covre leggiadra donna.
Posto che ebbe silenzio alle sue rime Folchetto, Fioretta tutta ridente gli prese a dire:
— Benché il senso di questa tua canzone non sia fuor di sospetto, le parole sono state sì belle che io per me non te ne saprei dir male; e però, lasciando il sentimento da parte, voglio fare un poco di esamina sopra le parole, le quali, come ho già detto, mi paiono state bellissime; se non che nello ultimo verso della ultima stanza tu proferisti chiunque con dui sillabe, la qual parola non mi voglio ricordare che si truovi se non con tre; e parmi che egli ne sia fatta regola da questi dicitori, per osservazione di tutti i poeti e massimamente del Petrarca —.
Ed egli:
— Grande è certamente la autorità del Petrarca. ma non la doverresti allegar tu, che la sprezasti dianzi quando la allegò la Reina; ma tu avevi più ragione allora che tu non hai al presente; imperò che ella non deve mai esser tale che ella sola atterri tutte le ragioni, avenga che se coloro che traggono da lui cotesta regola stampandolo a modo loro non lo guastassero, e’ si avedrebbono che ancora egli lo usa alcuna volta come ho fatto io.
— E in che luogo, se Dio ti guardi? — disse Bianca allora. — Deh, dimmelo di grazia, che io averò caro buona cosa di saperlo; perciò che, se ben mi ricorda, ancora io lo ho usato nella mia canzone a modo tuo —.
A cui Folchetto disse:
— In quel sonetto che comincia: L’alto e nuovo miracol che a’ dì nostri, vi è fra gli altri un verso che dice: «Io mel conosco e provalo ben chiunque», dove, secondo che io ho veduto in alcuni antichi testi scritti quasi al tempo del Petrarca e secondo che e’ fu stampato nella nostra città l’anno del mille cinquecento quindici, quel chiunque sta in modo che per forza bisogna confessar che sia di due sillabe. Ma costor che hanno voluto mantenere che e’ sia di tre, avendone aùto commodità lo hanno fatto stampare in guisa che e’ faccia a proposito loro, e dicono che egli si deve scrivere: «Io mel conosco, e proval ben chiunque». Ma dato mille volte che al Petrarca fusse sempre venuto bene di usarlo in questo modo, e però tutti i testi stessero come costor dicono, io vorrei che egli mi fusse risposto a questa ragione sola, e poi mi tacerei. I Toscani, come ognun di voi sa, hanno per regola ordinaria che ogni volta che una sillaba finisce in vocale e l’altra vi comincia che egli si debba toglier via una delle due; stando adunque ferma questa regola ed essendo questa parola chiunque composta di chi e di unque, egli è necessario che nel comporla insieme e’ gli si toglia via o quello i o quello u, e doverrebbesi dir chunque o chinque, come per lo più è costume di tutti i nostri villani; ma perciò che e l’uno e l’altro pareva voce troppo roza e troppo aspra, ottenne lo uso comune che senza levar quello i, ma lasciandovelo fiacco e senza tempo dove egli si proferiva con tre tempi fuor di composizione, e’ si proferisse con dui e dicessesi chiun-que. E questo modo di toglier via la forza e il tempo da una parola lasciandovi le lettere così languide e sanza tempo non aviene solamente quando dui così fatte vocali si accozano insieme pella cagione già detta, ma nel principio, nel mezo e nel fine d’una semplice parola, come dimostrano queste tre manifestamente: ieri, cioè, e voglio e vogliamo. Vedete che quel ie della prima parola, quello io della seconda, quello ia della terza fanno un tempo solo, senza tòr via alcuna lettera; e non si dice vo-gli-o, ma vo-glio. La qual cosa non procede solamente nel verso, ma nella prosa e nel parlar cotidiano, come mostra Cicerone a Bruto nel suo Oratore che si facesse eziandio al tempo dei Latini. Per la qual ragione e’ si vede manifestamente che chiunque si ha a proferire con due sillabe e con dui tempi, e come ho fatto io nella mia canzone e non come vogliono cotesti vostri osservatori; e se il Petrarca lo <ha> allungato alcuna volta insino alle tre, noi diremo che e’ llo abbi fatto come poeta, ai quali è permesso alcuna volta delle cose che non ne vendono gli speziali; e però disse Marco Tullio nel già detto luogo che questa propria licenza era stata concessa a Nevio due volte e ad Ennio una sola. E però lasciando andar così torte vie, attendiamo oramai a camminar per la dritta, e dando riposo alla stanca lingua concediamo luogo alli orechi, che disiderano di udire la canzone della Reina —.
E detto sin qui, si tacque. Onde ella:
— Maggior piacer mi sarebbe stato che voi insieme contrastaste un pezo che avere a far quello del che io sono certa d’avere a diventar rossa. Imperò che a sodisfare alla espettazione che voi avete di me, la quale in ogni cosa mi ha tolto troppo a nimicar con voi, e’ mi sarebbe mestier di vi trapassar tutti; e voi vi sete messi tant’alto, che appena vi aggiungono le ali del mio disio non che la graveza delle mie rime; e se e’ non fusse che io non voglio esser quella che diminuisca il già lodato numero di sei, io prenderei sicurtà di voi, che umanissimi vi cognosco, e fareimi per oggi esente da questa fatica, anzi da questo rossore. O pur, sia che vuole, d’una cosa mi conforto: io ho a far con persone che di me volentieri prenderanno la buona volontà —.
E avendo così detto, diede a’ suoi versi cominciamento:
Nei più bei giorni, giovanetta donna,
per coglier fior men gìa lungo la riva
dove men bianca han fatto assai lor gonna;
quando davanti a gli ochi m’appariva
giovane in vista d’ogni viltà schiva,
dicendo: «Anima vaga
di chi t’incende e ’mpiaga,
torna a te stessa e vedi
di che t’infiori e du’ ti bagni i piedi».
L’orechie rivoltai sùbita e presta
dove sonàr l’angeliche parole,
e vidi i prati e tutta la foresta
esser vermiglia; l’erbe e le viole
conobbi ch’eran del color che suole
esser u’ non è lume;
e l’acqua del rio fiume
vid’io tinta di sangue;
ond’io per tema ne divenni esangue.
E se non fòra che la presta aita
del giovine gentil d’indi mi trasse,
giunta era al fin la mia più vera vita.
Stava io con ciglie ancor tremanti e basse,
come chi tra vergogna e tema stasse,
quando la fida scorta
mi disse: «Or ti conforta,
né temer più, che ’l cielo
tolto ha dagli ochi tuoi l’oscuro velo».
Né prima al bel parlar chius’ei la bocca,
ch’io giunsi in loco ove per me s’intese
cose, ch’a ppochi tal ventura tocca;
ond’io gli dissi: «O giovane cortese,
qual mia ventura oggi mi fe’ palese
la bella vista vostra,
che della oscura chiostra
viva mi trasse fuore?».
Ed ei rispose: «Un messagger d’Amore».
O spiritel gentil, che ’l mio pensiero
già del fango traesti,
e tal guida gli desti,
ch’al ciel gli drizò l’ali;
avess’io grazie alli tuoi me<r>ti uguali!
Come la Reina ebbe fatto fine alla sua canzone, sanza dar luogo a niuno di dirne il parer suo, voltasi a Celso disse:
— Poi che ’l sole incomincia a scendere verso lo occidente, e’ sarà bene che noi drizamo i nostri passi in qualche luogo nel quale si possa commodamente dar principio al novellare. Tu adunque che sei pratico per il paese guida questa nostra barca in qualche porto, dove sanza tema di venti ne potiamo dimorar securamente —.
È all’ultima parte del colle dove costoro dimoravano e quasi al principio della già detta valle una spiaggetta assai piacevole chiamata Campettoli, nel cui principio sotto ad alcuni selvaggi arbucelli di acqua surgente riluce una chiarissima fontana, alle fresche onde della quale Celso, sanza altro dire, guidò la bella compagnia. La quale, poi che con lenti passi ivi fu arrivata e con le belle acque della fonte ebbero le tre donne scacciata la polvere che nello scendere del colle troppo arditamente si era posta sopra delle lor candide guance, la Reina prese loro a dire in questa forma:
— Discretissimi giovani, e voi, oneste donne, ancor che io non vogli ristrignere in parte alcuna il campo per lo quale voi avete a correr con le vostre novelle, niente di meno io non resterò pregarvi che non corriate così a briglia sciolta che alla onestà di voi donne e alla gentileza di voi uomini si disconvenga. E ben che io sappia che nelle novelle si ragioni per lo più di accidenti amorosi, dove assai sovente accade dir le sconce cose, tutto ciò il dire il medesimo con parole rimesse o con soverchio liberali dà assai manifesto segno chente sia dentro lo animo di quello che llo dice; e finalmente dove è donne non sta bene parlare stoicamente. Né ho già detto questo pensando che egli ve ne facesse mestiero, ma per far parte di quel debito che si ricerca a chi ha quel carico che voi mi avete imposto, la vostra mercé. E a cagione che egli non mi intervenga delle novelle come m’intervenne delle canzoni, io intendo di essere la prima; e così ritornando indietro, ciascuno seguirà l’ordine che si tenne in quelle —.
E così dicendo, rassettasi un poco meglio a sedere, in questa guisa incominciò:
— Poi che i nostri ragionamenti sono stati tutto oggi d’amore, io non voglio già che la mia novella introduca nuova materia; e da che con tante ragioni voi avete sentito lo odor de’ suoi suavissimi fiori, egli non sarà fuor di proposito che voi cognosciate per isperienza quanto dolci sieno i suoi frutti; e comincerommi con quelli di quel ramo che noi aviamo detto ch’è di minor perfezione, regolatolo però e potatolo come io vi dissi questa mattina; tra’ quali non sarà male mescolarne qualcuno di quelli che si cogliano sopra dello arboro della amicizia; ché io non dubito punto che quando voi gli averete assaporati, voi non potiate immaginarvi ad un dipresso quanto possino esser più dolci quelli di quei rami che gettano odor delle celesti e di quanto più grazioso sapore.
NOVELLA PRIMA
Niccolò, andando in Valenza, è condotto da una gran fortuna in Barberia e venduto. La moglie del padrone se ne innamora e per amor suo si fa cristiana; e con essa, su la nave d’un suo amico fuggendo, se ne viene in Sicilia; dove, essendo riconosciuti, sono rimandati dal Re indirietro. I quali, condotti vicini a Tunizi, sono da una tempesta ributtati a Livorno, e quivi, presi da certi corsali, si riscattano e, venuti a Firenze, viveno filicemente.
Furono addunche, già è gran tempo, nelle vostre contrade dui cittadini d’alto legnaggio e de’ beni della fortuna molto agiati, i quali, non contenti agli valorosi fatti dei lor passati, né tenendo le opere altrui per veri ornamenti, si facevano con le proprie chiari e riguardevoli; sì che eglino porgevan maggiore chiareza alla nobilità che ella a lloro; e con lettere, cortesie e mille altri onesti essercizii si avevano acquistato un nome per Firenze così fatto che beato a chi ne poteva dir meglio; e fra le altre cose che erano da esser lodate in loro era un certo amore e una certa fratellanza così da cuore, che sempre dove era l’uno era l’altro, quel che voleva l’uno voleva l’altro.
Vivendosi adunche questi giovani così lodevole e tranquilla vita, parve che la fortuna ne avesse loro invidia; imperò che egli accadde che Niccolò degli Albizi, che l’uno dei duoi amici era, ebbe nuove della morte d’un fratel di suo madre; il quale essendo in Valenza ricchissimo mercatante, né avendo o figliuoli o altri che più stretto parente gli fusse, lo aveva lasciato suo erede universale; per la qual cosa fu bisogno a Niccolò, volendo rivedere in viso le cose sue, diliberarsi di andare insino in Ispagna; per che fare richiese Coppo che così si chiamava lo amico suo, che seco andasse; ed egli ne fu contentissimo. E già eran rimas<i> del come e del quando, quando la disgrazia lor volse (o forse la ventura) che a punto su quel che e’ volevan partire, il padre di Coppo, che aveva nome Giovambatista Canigiani, si amalò d’una infirmità così fatta, che in pochi dì egli passò di questa vita; sì che, se Nicolò volse andare, e’ bisognò che egli andasse solo; il quale mal volentieri lasciandolo e per tal cagione massimamente, sforzato dal bisogno se ne prese la via verso Genova, e quivi montato sur una nave di Genovesi diede le vele al vento.
Al cui viaggio fu molto contraria la fortuna: imperciò che egli non si era discostato ancor da terra cento miglia che, in su il tramontar del sole, il mare tutto divenuto bianco cominciò a gonfiare e co<n> mille altri segni a minacciargli di gran fortuna; onde il padrone della nave, di ciò sùbito accorgendosi, voleva dare ordine con gran presteza di fare alcun riparo; ma la pioggia e ’l vento l’assaltarono ’n un tratto così rovinosamente, che non gli lasciavan far cosa che si volesse; e inoltre l’aria era ’n un tratto divenuta sì buia che e’ non si scorgeva cosa del mondo, se non che, talor balenando, appariva un certo bagliore che lasciandogli poi ’n un tratto in maggiore scurità faceva parer la cosa vie più orribile e più spaventosa. Che piatà era a veder quei poveri passaggeri per volere anche loro riparare a’ minacci del cielo far bene spesso il contrario di quel che bisognava! E se il padrone diceva lor nulla, egli era sì grande il romor dell’acqua che pioveva e dell’onde che cozavan l’una nell’altra, e così stridevan le funi e fistiavan le vele e i tuoni e le saette facevano un fracasso sì grande, che niuno intendeva cosa che e’ si dicesse; e quanto più cresceva il bisogno, tanto più mancava l’animo e il consiglio a ciascuno. Che cuor credete voi che fusse quel de’ poveretti veggendo la nave che or pareva se ne volesse andare in cielo e poco poi, fendendo il mare, se ne volesse scendere nello inferno? Che rizar di capegli pensate voi che fusse il parer che ’l cielo tutto converso in acqua si volesse piovere nel mare, e allora allora il mare per vendetta gonfiando volesse salir su nel cielo? Che animo vi stimate voi che fusse il loro a vedere altri gittare in mare le robbe sue più care, o egli stesso gittarvele per manco male? La sbattuta nave, lasciata a discrizion de’ venti, e or da quei sospinta e or da l’onde percossa, tutta piena d’acqua se n’andava cercando d’uno scoglio che desse fine alle fatiche degli sfortunati marinari; i quali, non sapendo omai altro che farsi, abbracciandosi e baciandosi l’un l’altro si davano a piangere e a gridare misericordia quanto loro usciva della gola. Oh quanti volevan confortare altrui, che, avendo mestier di conforto, finivan le lor parole o in sospiri o in lacrime! Oh quanti poco fa si facevan beffe del cielo, che or parevan monacelle in orazione! Chi chiamava la Vergine Maria, chi San Nicolò di Bari, chi gridava Sant’Ermo, chi vuole ire al Sepolcro, chi farsi frate, chi tòr moglie per l’amor d’Iddio; quel mercatante vuol restituire, quell’altro non vuol far più l’usura; chi chiama il padre, chi la madre, chi si ricorda degli amici, chi de’ figliuoli; e il veder la miseria l’un dell’altro e l’aversi compassione l’uno all’altro e l’udir lamentar l’uno l’altro faceva così fatta calamità mille volte maggiore.
Stando gli sfortunati adunque in così fatto periglio, lo arboro, sopragiunto da un<a> gran rovina di vento, si spezò e la nave, sdrucita in mille partì, ne mandò il maggior numero di loro nello spaventoso mare ad esser pasto de’ pesci e dell’altre bestie marine; gli altri, forse più pratichi o in minor disgrazia della fortuna, procacciarono il loro scampo chi in su questa tavola e chi in su quell’altra. Infra’ quali avendone Niccolò abbracciata una, mai non la lasciò fin che e’ non percosse ad una spiaggia di Barberia vicina a Susa a poche miglia; dove condotto e veduto da non so quanti pescatori che quivi erano venuti a pescare, gli mosse a compassione del fatto suo; laonde sùbito presolo, il menarono ad una lor capannetta ivi vicina e, fatto un gran fuoco, ve lo appressarono. E poscia che con gran fatica lo ebbero rinvenuto, il fecciono parlare; e udito che egli favellava latino, pensandola sì come era che e’ fusse cristiano, senza pensar per quella mattina a miglior pesce tutti d’accordo il menarono in Tunizi e quivi il venderono per ischiavo ad un gran gentiluomo della terra chiamato Lagi Amet; il quale, vedutolo giovane e di grazioso aspetto, fece pensiero ritenerlo a’ servigi della persona sua; ne’ quali egli si portò con tanta destreza e diligenza, che in breve tempo e’ divenne caro e a llui e a tutti quelli di casa; ma sopra tutti e’ divenne carissimo alla moglie la quale era delle più accorte, gentili e più belle donne che fussero state un pezo fa o fussero allora in quei paesi; e fu sì fatto il piacerle, che la non trovava luogo né dì né notte se non tanto quanto o lo vedeva o lo udiva ragionare; e tanto seppe far col marito, che egli, che arebbe pensato ogn’altra cosa che questa, gnele fece un presente, che la se ne servisse per la persona sua.
Della qual cosa la donna prese grandissimo conforto e più giorni tacitamente si sopportò le amorose fiamme. Ed era l’animo suo, senza che egli medesimo se ne accorgesse, godersele un pezo; se non che per la continua pratica le crebber tanto che e’ le fu mestieri sfogarle per qualche verso, e più volte si deliberò di manifestargli questo suo fuoco; ma ogni volta che ell’era per dare effetto al suo pensiero, la vergogna dello essere innamorata d’un schiavo e creder di non si poter fidar di lui, i pericoli grandi ne’ quali la vedeva entrare lo onore e la vita sua sùbito ne la ritraevano. Laonde assai spesso, trattasi in disparte, tutta travagliata diceva infra di sé:
«Spegni stolta, spegni questo tuo fuoco, mentre che egli è sul principio dello abruciare; perciò che dove che ogni poco d’acqua sarà or bastevole, se egli ti piglia molto campo addosso e’ non saranno assai tutte le onde del mare. Ah, cieca donna, or non consideri tu la infamia che tu acquisteresti se egli si risapesse mai per alcuno che tu avesse donato lo amor tuo ad un forestiero, ad uno stiavo, ad un cristiano, al quale non mostrerai prima un segno di libertà che tu gli darai occasione di fuggirsi e lasciar te misera a piangere la tua follia? Or non sai tu che dove non è ferma la fantasia non può fermarsi amore? Come devi tu dunque sperar di essere amata da uno che mai non pensa ad altro che tornarsi in libertà? Tòtti adunque da questa folle impresa, lascia andar così vano amore; e se pur vuoi machiar la tua onestà, sieno le cagioni almen tali che elleno non ti arrechin doppia vergogna, ma te ne scusino in conspetto di tutti coloro che avesser mai fumo de’ tuoi portamenti. Ma a chi parlo io, misera, o a chi porgo così fatte preghiere? Come poss’io seguir la voglia mia, se io sono d’altrui? Questi pensieri, questi consigli, queste deliberazioni stanno bene a quegli che possano far di sé il piacer loro, non a chi è in forza altrui, come sono io; alla quale farà mestiero omai volgere gli orechi dove altri mi chiamarà. Spendi adunche, stolta, spendi queste parole in più sano consiglio; non perder più tempo, non ti strugger più; ché quello che tu non farai oggi, con più tuo danno tel converrà far domani. Cerca adunche che la voglia del tuo amante divenghi teco una medesima; e considera che, se bene egli è forestiero, che egli non deve esser per questo né da te né da veruno altro tenuto in minor pregio; imperciò che, se egli non si avessero a tener care altre che quelle cose che nascono nelle nostre contrade, io non so vedere perché l’oro e le perle e le altre cose più preziose fussero stimate fuor di quei paesi dove le nascano, come le sono. Se la fortuna lo ha fatto schiavo, per questo ella non gli ha già ascosto quella eccessiva belleza, per questo non gli ha ella tolto quelle accorte maniere. Io riconosco pur la nobilità dello animo suo, io veggio pur lo splendor di quelle sue virtuti; non muta la fortuna il nascimento; lo esser servo può accadere ad ognuno, non è la colpa la sua, anzi è della fortuna; e però debbo dispregiar la fortuna e non lui. O se io divenissi serva, e’ non sarebbe però che quanto allo animo io non fusse quella medesima? Dunque non mi ritrarran queste cose dal volergli bene. Che dunque mi ritrarrà: l’essere egli d’una altra fede? Deh, stolta, come se io avesse molto maggior certeza della mia che della sua! E dato mille volte che io ne avesse tutte le certeze del mondo, per questo non la rinnego io già, né ne fo cosa alcuna contro alli nostri iddii. Chi sa se, amando lui ed egli me, io lo persuaderò a credere alle nostre leggi? E così ad un tratto farò cosa grata e a me e agli nostri iddii. Perché dunque contrasto io a me medesima? Perché son contraria a’ miei piaceri? Perché non ubbidisco alle mie voglie? Dunque penso io poter resistere alle leggi d’amore? Oh, come sarebbe scempio il mio pensiero se io, vil femminella e propria esca del suo fucile, credessi poter schifar quello che non han potuto milli uomini savi! E però vinca il voler mio ogn’altra ragione e non contrastino le debili forze d’una tenera giovane con quelle d’un così potente signore».
Poscia che la innamorata donna ebbe più volte con questi e altri simili ragionamenti discorso e combattuto con se medesima, dando finalmente la vittoria a quella parte alla quale, volendo ella medesima, la sforzava amore, come più presto gnene parve aver l’agio, tratto Niccolò in disparte e narratogli i suoi dolori gli chiese lo amor suo. Stette Niccolò in sul principio sopra di sé udendo così fatto ragionamento, e varie cose se gli aggirarono per la fantasia; e dubitò che ella non facesse per tentarlo ed entrò mezo in pensiero renderli sinistra risposta. Ma percioché e’ si li rivoltò per il capo cotali amorevoleze che ella gli era costumata di fare alcuna volta, e che egli la aveva cognosciuta per molto più discreta che non sogliono essere le altre donne di quei paesi e che egli si ricordò della novella del conte d’Anversa e di madonna la Reina di Francia e di mille altre simili, e’ giudicò che e’ fusse a proposito, andassene quel che volesse, dire che egli era presto ad ogni suo piacere; e così fece. Con tutto ciò, o che e’ llo facesse per fargnele saper buono, o che e’ ne pur volesse fare un poco di pruova, o come la s’andasse, avanti che e’ si venisse alle conclusioni e’ la tenne a bada parechi giorni; e quando pur costei, che altro voleva che parole, gli serrava (come si dice) i basti adosso, egli, accortosi per mille segni che il padro<ne> era egli, per colorir com’io mi credo un suo disegno se mai la occasione gli venisse, pensò tentar di farla far cristiana anzi che egli la contentasse, e con belle e accomodate parole le disse che era presto ad ogni sua richiesta, ma che ben la pregava che ella gli promettesse fare una sol cosa, la quale egli assai agevole le imporrebbe. La donna, ché le pareva mill’anni di dar ricapito alla sua faccenda, senza pensar quello che e’ si potesse volere, trasportata dalla volontà gl<i> impegnò la fede sua e fecegnene milli sacramenti di far tutto quello di che egli la ricercasse; laonde egli assai piacevolmente le espose lo animo suo. Parve duro alla donna sul principio la condizione impostale; e se non che, come ella già più volte disse, egli era mestiero seguir la voglia altrui, io non dubito punto che ella non avesse fatto le pazie. Ma Amore, che sa talor far de’ miracoli anch’egli, tanto la seppe ben persuadere che dopo mille storcimenti, dopo mille stran pensieri, ella fu forzata dire:
— Fa di me ciò che ti piace —.
E così, per non ve la allungare, il dì medesimo ella si battezò, e il dì medesimo feceno il parentado e consumòrno il matrimonio il dì medesimo; e così gli parveno dolci i misterii di questa nuova fede che, come già fece Alibech, a tutte le ore riprendeva se stessa d’esser tanto indugiata ad assaggiarla; e sì le piaceva d’esservi dentro profondamente amaestrata, che la non aveva mai bene se non quando la imprendeva questa nuova dottrina.
E mentre che Niccolò insegnando ed ella apparando, senza che altri se ne accorgesse, si dimoravano in così dolce scuola, Coppo, che lo amico di Niccolò era, avendo inteso la sventura sua, con animo diliberato di riscattallo con un gran numero di danari se ne era venuto alla volta di Barberia; e appunto in quei dì arrivò in Tunizi. E a ffatica era smontato che egli si riscontrò in Niccolò, che per sorte tornava di non so donde con la sua padrona. E poi che con gran fatica si fur riconosciuti e che e’ si furno abbracciati e baciati l’un l’altro ben mille volte, Niccolò, avendo inteso la cagione della sua venuta, poi che gli ebbe rendute quelle grazie che si gli convenivano gl<i> impose che non facesse parola con alcuno per lo suo riscatto fin che egli non gli riparlasse, e che più a bell’agio gli direbbe la cagione; e dettoli dove il dì vegnente si avesseno a ritrovare, sanza altro dire da llui si accommiatò. Volse sùbito intender la donna chi costui fusse e che ragionamenti erano stati i loro, come quella che stava sempre in gelosia che, non che altro, gli uccelli che volavano per aria non gli togliessino questo suo amante; ma egli, che non era mica povero di parole, con certe sua filastroccole la fece rimaner tutta sodisfatta.
Aveva Niccolò, come può pensare ognuno, grandissimo disiderio di ritornarsene a casa sua; ma tenendo per certo che se la infiammata giovane di niente si accorgesse, o lo arebbe rovinato del mondo, o almanco gli arebbe guasto ogni suo disegno, stava intra ddue di tentar modo veruno; e questa era stata la cagione che egli non aveva voluto che Coppo facessi di lui parola con altri; e credo io che lo amor grande che la lunga consuetudine gli aveva rinchiuso nel petto (che voi sapete ben che finalmente Amore a niuno amato amar perdona) gli arebbe messo tanti pericoli inanzi e tanti dubbi, che egli si sarebbe acconcio a starsi dove l’aveva condotto la fortuna. Se non che e’ non era perciò così fuor di sé che egli non si accorgessi che questa sua donna si lasciava trasportar così strabochevolmente dalle sue voglie, che egli era impossibile che alla fine Lagi Amet non se ne accorgesse. Per le quali tutte ragioni egli aveva pensato più volte di tentarla se ella se ne voleva andare al paese suo, e vedevala così cieca del fatto suo che egli teneva per certo che egli non avesse ad esser gran fatto fatica al persuaderla; ma perciò che egli non ci aveva veduto mai né via né verso, egli se ne era stato cheto sino a questo tempo; ma pensando, or che Coppo era arrivato, che la venuta sua fussi tanto a proposito che la cosa era per riuscirli facilmente, e’ giudicò che egli fusse bene ragionargnene prima che egli del suo riscatto ragionasse con altri; laonde trovatolo ed esaminata la cosa ben pro e contro, finalmente e’ co<n>chiusono che, ogni volta che la donna volesse, che egli si dovesse fare. Laonde Niccolò, scelto un tempo e un luogo assai accomodato, la assaltò con queste parole e disse:
— Padrona mia dolcissima, il pensare a’ rimedii, poi che altri è incorso nel male che si poteva dal principio schifare, altro non è che senza saper niente voler mostrar d’esser savio dopo il fatto. E’ mi parrebbe necessario, se già noi non volessimo esser nel numero di quei tali, che noi scansassimo quei pericolosi passi a’ quali ci guida questo nostro amore avanti che noi vi ci rompessimo il collo. Egli ci ha oramai preso (come voi vi potete essere accorta meglio di me) tanto ardire addosso, che io ho paura, anzi son certo che, se noi non ci rimediamo, egli sarà cagione della nostra rovina. E però io ho pensato fra me stesso più volte che modi noi avessimo a tenere a fuggire così gran pericolo; e de’ molti che mi si sono aggirati per la fantasia, dui ne ho sempre veduti men difficili che tutti gli altri. E il primo è ingegnarsi a poco a poco por fine a questa nostra amorosa pratica; la qual cosa, se uguali sono alle mie le vostre fiamme, vi sarà così aspra e così dura che ogn’altro duro partito vi parrà men laborioso di questo; e però a mio iudizio mi è sempre più piacciuto l’altro, il quale, se ben nel principio vi parrà duro e da non potersi eseguire così facilmente, io non dubito che, quando poi ci averete molto ben pensato, egli non vi riesca di maniera che voi vi disporrete al prenderlo in ogni modo; perciò che voi ne vedrete resultare l’utile e l’onore d’un vostro amante, d’un vostro marito e una perpetua occasione di poterci godere i nostri amori sanza sospetto e sanza pericolo alcuno. E questo è venirvene meco nella nostra bella Italia, la quale che paese sia rispetto a questo al presente non accade che io ve ne ragioni, perciò che e da me e da altri per lo addietro ne avete udito ragionare dimolte volte; nel mezo della quale, sotto al più temperato cielo, siede Fiorenza, la mia dolcissima patria, la quale (e questo sia detto con pace di tutte le altre) è sanza contrasto la più bella città che sia in tutto il mondo; dove lasciamo stare i templi, i palagi, le private case, le diritte strade, le belle e spaziose piaze e le altre sue parti di dentro; le campagne che vi son dattorno, i giardini, i villaggi, de’ quali ella è più che ogn’altra copiosa. non vi parranno altro che paradisi; dove, se ne concedesse Iddio grazia che noi ci conducessimo a salvamento, egli sa quanto voi <vivereste> contenta e quanto riprendereste voi medesima ogni dì per non esser stata quella che me ne aveste ricercato. Ma lasciam or star l’utile e ’l piacer vostro, il quale apo l’utile e ’l piacer mio io so che voi lo stimate niente. Quando ogn’altra cosa ve ne facesse lontana, non vel doverrebbe persuadere il pensare di che brutto stato voi trarreste un vostro amante, un vostro marito? Il quale così vi ama ferventemente, che per non vi abandonare si vive stiavo nell’altrui paese, potendo viver libero nel suo; potendo, dico: ché oramai non mi mancherebbe il modo di riscattarme, pur che lo amor che io vi porto mi lasciasse far di me la voglia mia; e quello cristiano con chi io parlai l’altro giorno è già quasi d’accordo col vostro marito. Ma a Dio non piaccia che io mi parta mai sanza la donna mia, sanza la mia padrona, sanza l’anima mia, la quale io so che mi porta tanto amore e tanta fede presta alle mie parole, che già mi par veder mover quella rosata bocca a dir di sì, già mi par vederla fermare i suoi pensieri in quella parte che più mi piace. Ma oimè, qual tardanza è quella che vi ritiene, madonna, che io non odo così presto come io vorrei quelle amorevoli parole? Forse vi pare strano il lasciare la vostra patria? Or non sapete voi che ad una coraggiosa donna come voi sete gli è patria ogni paese? E se io sonno il vostro bene, come voi medesima mi avete già detto mille volte, dove sarò io non vi sarà la vostra patria, il vostro marito e i vostri parenti? De’ quali quanti qua ne lascerete, tanti, anzi per ognun cento, di là ne ritroverrete; infra i quali tanto vi piacerà la pratica di quelle nostre donne e d’una mia sirochia massimamente, che vi parrà aver lasciate le fiere salvatiche per venire ad abitare tra gli uomini; la qual mia sorella, oltre alla sua natural piacevoleza, intendendo quali e quanti sieno stati i vostri portamenti verso di me tante careze vi farà e così vi vedrà allegramente, che voi mi benedirete il dì mille volte che io vi abbi condotto in così sollazevole paese. Degli altri uomini, come e’ gli siano non accade disputar con voi, che già più tempo fa ne avete data resoluzione: con ciò sia cosa che se io, che sono apo loro più rozo che voi qua prode non mi tenete, sono sì piacciuto e piaccio che di voi medesima mi avete fatto cortese dono, gli altri vi doverranno tanto più piacere quanto e’ sono più degni di così fatto cognoscitore. Ritienvi forse, se ben tutte le altre ragioni vi persuadeno al partire, il timore di quello che si dirà di voi per queste contrade dopo il vostro partire? Ah, la mia donna, né anco questo vi impedisca al fare ’n un tratto e a voi e a me tanto beneficio; non già perché l’onor non sia da preporre ad ogn’alt<r>a cosa, o che io confessi esser vera la openion di coloro che dicono che poca briga ci de’ dare s’altri dice mal di noi che noi no<n> l’udiamo; ma perciò che né voi né veruno si deve curar del biasimo che altri riceve a torto, come interverrà a voi se altri vi vorrà di questo incolpare. Chi vi può mordere con giusti denti dello aver lasciata la falsa legge e preso la buona? Chi del fuggir lontan da coloro che sonno capitalissimi nimici di noi altri cristiani? Chi di ridurvi nella patria del vostro marito, dello averlo tratto di servitù? Niuno che sia di sano iudizio; ma sì ben saranno infiniti coloro che ve ne loderanno e ve ne esalteranno ins<in>o al cielo. A che pensate, anima mia dolcissima? Forsi vi ritiene la difficultà e ’l pericolo che voi conoscete in così fatto partito? Quando questo solo fusse, io ve ne vorrei riprendere agramente: perciò che, ancor che io non ci conosca pericolo alcuno, pur se niente ce ne ha e’ gli è dubbio; dove il restar qui e tener quei modi a’ quali ci sforzano le nostre amorose passioni è pericolo manifesto. Or chi è quello che non si metta ad un pericolo incerto per evitarne uno che egli cognosca certissimo? Della difficultà ne voglio prendere il carico io sopra di me e vi impegno la fede mia, se non mi toglia Iddio la grazia vostra la quale mi fa viver lieto in servitù, che per mezo di quello amico al quale voi mi vedeste parlar più giorni sono io ho trovato modo che in sur una sua nave noi andremo sicurissimi. Considerate adunque, la mia dolcissima donna, quanta <fede> io ho aùta in voi, che vi ho fatti palesi così importanti pensieri; ponete cura a quanti beni risulteranno di così fatta deliberazione; vedete che né il lasciar della patria, né de’ parenti, non la tema dello onore, non de’ pericoli, non delle difficultà vi debbano ritenere; e però disponetevi a trarmi di servitù, disponetevi a condurmi alla mia bella città, anzi alla vostra, a’ vostri parenti e alla vostra sorella, che già tanto tempo ne aspetta, e con gli ochi pien di lacrime e con le braccia in croce vi prega che voi insieme con voi me le rendiate —.
E accompagnando queste ultime parole con certi affetti d’amore che averieno fatto muovere i sassi e con quelle lacrime che li parse che ad uomo e ad uno effetto simile fussero convenienti, si tacque. Mossono le costui parole cotanto il petto della innamorata giovane che, avenga che e’ le paresse duro e strano un così fatto partito e che e’ se le voltasse per lo cervello mille difficultà, mille pericoli e tanti inganni che si dice che voi altri uomini avete fatti alle semplici innamorate; sforzata dallo amor grande, che ogni gran monte le faceva parer piano, come donna di grande animo che ella era sanza far troppo parole gli rispose che era presta a fare la voglia sua. E, per non ve la andare allungando, poi che egli ebbe dato ordine con Coppo del come e del quando e che e’ si furon messi in arnese di ciò che faceva lor di bisogno, la donna, avendo fatto prima una bu<o>na ragunata d’oro e d’ariento e d’altre cose preziose, una mattina per tempo, infingendosi d’andarsi diportando, insieme con Niccolò si condusse alla nave di Coppo.
Né prima furono arrivati che ella e tutti quelli che dovevano far passaggio mostrando di voler veder la nave, lasciando gli altri in sul lito su vi montarono, e sùbito montati diedero le vele al vento; né prima se ne accorsero quelli che erano venuti in lor compagnia che e’ furon lontani un mezo miglio; i quali, finalmente avistisi del tratto, tutti smarriti e malcontenti a casa se ne ritornarono e feceno asapere a Lagi Amet come eran passate le cose. Voi dovete pensare che il romor si fe’ grande e che per un pezo e’ vi fu da fare e da dire e che e’ fu mandato lor dietro ed e’ si fece ogni cosa per raggiugnergli; ma e’ gl<i> ebbero il vento così favorevole che e’ fur quasi prima arrivati in Sicilia che coloro avesser preso modo di seguitarli. Condotti adunque che e’ furono in Sicilia, smontati al porto di Messina, perciò che la donna, che poco era usa a così fatti disagi, aveva bisogno di rinfrescarsi un poco, e’ fecero pensiero condurla dentro alla terra e alloggiando al migliore ostiere che vi fussero attendere a ristorarla; e così fecero.
Era per aventura venuta di quei dì la Corte in Messina; per che uno imbasciadore del Re di Tunizi, che era venuto per trattare alcune faccende di grandissima importanza con il Re di Sicilia, alloggiava appunto per disgrazia in quello albergo dove si posavan costoro; il quale avendo non so che volte veduta questa giovane così alla sfuggita, gli parve riconoscerla. E mentre che egli stava così intra due se l’era o se la non era, e’ gli sopraggiunson lettere del suo signore che gli davano aviso del seguìto e gli imponevano che, se ella capitasse per aventura in quei paesi, che egli mettesse ogni suo sforzo e con il Re e con chi bisognava perché la fusse rimandata al suo marito. Laonde egli, che come prima ebbe lette le lettere tenne per fermo ch’ella fusse dessa, senza ricercare altro se n’andò dal Re e gli espose la volontà del suo signore. Perché il Re, sanza indugio alcuno fatto d’avere a sé la donna e i duoi giovani, sanza molta fatica intese che ell’era quella che s’andava cercando; e come quel che disiderava far cosa grata al Re di Tunizi, diede sùbbito spaccio, sanza udire altre ragioni, che si rimandassero.
Che cuore fusse quello della povera giovane e del suo sfortunato Niccolò e di Coppo similmente quando e’ sentiron così trista novella, e che strida e che pianti e che preghiere, a me non darrebbe mai il cuore di raccontarne la millesima parte. I quali, ricondotti per forza al porto e fatti rientrare nella medesima nave, la quale il Re fece patroneggiare ad uno uomo suo, come prigionieri del Re di Tunizi furono rimandati in Barberia. E già erano, con assai miglior bonaccia che e’ non disideravano, arrivati presso al Cavo di Cartagine a poche miglia, quando la fortuna, sazia oramai di tanti strazii e di tante fatiche del povero Niccolò, si diliberò dar volta alla ruota e fece nascere un vento e una tempesta così terribbile, che ributtò la nave indietro sì impetuosamente, che in tanto poco tempo che non sarebbe credibile la trasportò in questo nostro mare Tirreno vicino a Livorno, e sanza arboro e sanza sarte e tutta sdrucita la dette nelle mani di certi corsali pisani, da’ quali la donna e i duoi giovani ricomperatisi con una bu<o>na quantità di danari si condussero a Pisa; e quivi per far curar la giovane, che per gli molti affanni e disagi grandi era forte sbattuta, stettero parechi giorni. E quando parve loro che la fusse quasi che riavuta, e’ se ne preson la via verso Firenze; dove arrivati, le accoglienze grandi, le feste, le careze che fur lor fatte io non le saprei immaginar non che ridire. Poi che la giovane si fu fra tanta allegreza dimorata molti giorni, sì che ell’era ritornata sana e lieta come la soleva, Niccolò, avendo con festa di tutta la città fattala di nuovo battizare in San Giovanni, volse che la si chiamasse Beatrice. E avendo diliberato di sposarla solennemente e secondo il costume cristiano, acciò che la festa fusse maggiore e con maggiore allegreza e che la amicizia fra Coppo e lui fusse legata cum più stretti nodi, e’ gli dette la sua sirochia per moglie, la quale, oltre a che era bellissima, niente degenerava dalle virtù del suo fratello.
E così, fatto le noze onorevoli e grandi, madonna Beatrice, contenta più l’un di che l’altro e del paese e della conversazione degli uomini e delle donne, si avide che Niccolò non le aveva detto le bugie; e tanto amor pose a quella sua cognata ed ella a llei, che egli non era facile a discernere qual fusse maggiore amicizia, o fra le due donne o fra i duoi giovani; i quali tutt’a quattro sanza che mai fussi tra loro una torta parola visseno in tanta pace e in tanta unione e così allegramente, che tutta Firenze non aveva altro che dire. Ogni dì eran più allegri, ogni dì eran più contenti, ogni dì eran più disiderosi di compiacersi l’uno l’altro; né mai la troppa familiarità o la lunga dimesticheza generò o stracheza o disprezamento nel petto di alcun di loro; anzi accrescendo ogni dì più gli offici l’un verso l’altro, vissono filicissimi lungo tempo —.
Già si taceva la Reina e ciascuno aveva commendata la sua novella, quando ella, voltasi a Folchetto, con vago sembiante gli impose che seguitasse; onde egli sanza farsi molto pregare disse in questo modo:
— Io aveva fatto pensiero, amorevole compagnia, narrarvi oggi una bella vendetta la quale non è molto tempo che fece dentro da Roma ad un suo marito una valente donna sanese; ma la amicizia di Coppo e di Niccolò e le altre particolarità della novella della Reina mi hanno fatto mutare openione; perché, serbandovi la vendetta a domani, vi voglio oggi raccontare un caso che vicino a Roma intervenne non è molto tempo; per lo quale, veggendo de quanto travaglio traessero gli accorti consigli d’un suo amico un povero giovane, voi cognoscerete quanto è utile alla umana generazione il volersi bene l’uno a l’altro. E nel vero, se tutti i frutti di amore sono come quegli che Niccolò e colui che io vi intendo raccontare al presente colsero su gli arbori delle lor padrone, che la Reina ha avuto mille ragioni a lodarlo tutto dì d’oggi, e io ho avuto torto a biasimarlo.
NOVELLA SECONDA
Fulvio si innamora in Tigoli; entra in casa della sua innamorata in abito di donna; ella, trovatolo maschio, si gode sì fatta venuta. E mentre d’accordo si vivono, il marito si accorge che Fulvio è maschio, e per le parole sue e d’un suo amico si crede che e’ sia divenuto così in casa sua; e ritienlo a’ medesimi servigi per fare i fanciulli maschi.
Fu adunque in Tigoli, antichissima città de’ Latini, un gentile uomo chiamato Cecantonio Fornari, al quale allor cadde in pensiero di tòr moglie quando gli altri ne sogliono aver mille rincrescimenti; e, come è usanza degli attempati, e’ non la voleva se la non era giovane e bella; e véneli fatto, imperò che uno de’ Coronati chiamato Giusto, uomo per altro assai ricipiente, trovandosi agravato di molte figliuole, per fuggir la ’ngordigia delle dote gnene diede una bella e gentilesca; la quale, veggendosi maritare ad un vechio rimba<m>bito e privarsi di quei piaceri per li quali ella aveva bramato tanto tempo di abbandonar la propria casa, lo amor del padre e le careze della madre, fortemente se ne turbò; e tanto le venne finalmente in fastidio la bava, il tossire e gli altri trofei della vechiaia di questo suo marito, che la pensò trovarci qualche riparo; e messosi in animo ogni volta che le venisse in acconcio prendersi qualcuno che meglio provedesse a’ bisogni della sua giovaneza che non aveva saputo fare il padre medesimo; al cui pensiero molto più le fu favorevole la fortuna che ella medesima non averebbe saputo addomandare.
Imperò che essendo andato a Tigoli una state per via di diporto un giovane romano chiamato Fulvio Macaro insieme con <uno> amico suo chiamato Menico Coscia, e’ gli venne più volte veduta questa giovane; e parendole bella la sì come era, di lei ferventemente si innamorò; e conferendo questo suo amore con quello Menico, quanto più poté il meglio si gli raccomandò. Menico, che era uno uomo da trar le mani d’ogni pasta, sanza repricar molte parole gli disse che stesse di buona voglia imperò che quando egli si diliberasse seguire in tutto e per tutto il parer suo e’ gli dava il cu<o>re di fare in modo che egli si ritroverrebbe con la giovane a piacer suo.
Ben sapete che Fulvio, che non aveva altro disiderio che questo, non stette a dire: «Torna domani»; ma sùbito gli rispose che era presto a fare ogni cosa pur <che> con presteza procedesse al mal suo.
— Io ho udito dire — seguitò Menico allora — che ’l marito della tua donna cerca d’una fanciulletta di quattordici in quindici anni per tenerla a’ servigi di casa e maritarla poi in capo ad un certo tempo, come s’usa ancora in Roma; laonde io ho fatto pensiero che tu sia tu quello che vadi a star con esso lui per tutto quel tempo che ti piacerà; e odi come. Questo nostro vicino qui da Tagliacozo che alcuna fiata ci fa qualche servigio, come tu sai è molto mio amico; ragionandosi egli ier mattina meco, e’ mi disse, a non so che proposito, che e’ gl<i> aveva imposto che e’ gnene trovasse una; per che fare egli era diliberato andar fra pochi dì sino a casa sua e veder di menargnela. Egli è povero uomo e fa piacere volentieri alle persone da bene; sì che io non dubito punto che con ogni poco beveraggio che si gli dia e’ non sia per far tutto quello che noi vorremo. Potrà adunque costui infingersi di essere andato a Tagliacozo, e di qui a venti dì o un mese tornando e avendoti vestito a guisa d’una di quelle villanelle e mostrando che tu sia una qualche sua parente, metterti in casa della tua donna; dove, se poscia non ti bastasse l’animo di mandare lo avanzo ad esecuzione, ti potresti doler poi di te medesimo. E a tutto questo ci aiutarà l’esser tu di pel bianco e sanza segno alcuno di avere a metter barba di questi dieci anni e l’avere il viso femminile, in modo che i più, come tu sai, credono che tu sia una femina vestita da uomo; e inoltre, per esser stata la tua balia di quel paese so che saprai parlare assai bene all’usanza di quei villani —.
Aconsentì al tutto il povero innamorato e mille anni gli pareva che la cosa avesse effetto; anzi già gli era aviso di ritrovarsi con lei ad aiutarla far le sue bisogne; e tanto poteva la immaginazione che egli si contentava di quello che aveva ad essere non altrimenti che se egli fusse in verità. Sì che sanza dar punto indugio alla cosa, ritrovato il villano, che presto fu contento del tutto, diedero ordine a ciò che si avesse da fare. Né passò un mese, per non ve la allungare, che Fulvio si trovò in casa della sua donna come sua fanticella, e con tanta diligenza la serviva che in breve spazio non solamente Lavinia, che così era il nome della giovane, ma tutta la casa le posero grandissimo amore.
E mentre che Lucia, che così si era fatto chiamar la nuova fante, dimorando in quella guisa aspettava occasione di servirla d’altro che di rifarle il letto, accadde a Cecantonio andare a Roma per dimorare non so che giorni; laonde a Lavinia, vedutasi rimasta sola, venne voglia di menar Lucia a dormir seco. E poscia che ambodue furono la prima sera entrate nel letto e che all’una, tutta contenta della non aspettata ventura, pareva mill’anni che l’altra si addormentasse per ricevere il guiderdone delle sue fatic<h>e mentre ella dormia, l’altra, che forse aveva in fantasia qualcuno che meglio le scoteva la polvere del pelliccione che ’l suo marito, cominciò con grandissimo disio ad abbraciarla e baciarla; e scherzando così come interviene le venne messo le mani là dove si conosce il maschio dalla femmina; e trovando che la non era donna come lei, fortemente si maravigliò e non altrimenti tutta stupefatta tirò ’n un tratto a sé la mano che ella si avesse fatto se sotto ad un cesto di erba avesse ritrovata una serpe all’improviso. E mentre che Lucia, senza osar di dire o far cosa veruna, attendeva l’esito di questa cosa, Lavinia, dubitando quasi che la non fusse dessa, la cominciò a guardar fiso fiso come trasecolata; pur veggendo che l’era Lucia, senza attentarsi di dirle niente, dubitando che non le fusse forse paruto quello che non era, volse di nuovo metter le mani a così fatta maraviglia; e trovando quello che l’aveva trovato la prima volta, stava intra due, s’ella dormiva o s’ell’era desta; poi pensando che forse il toccare la poteva ingannare, levata la coperta del letto volse vedere cogli ochi il fatto tutto intero. Per che non solamente vidde con gli ochi quello che l’aveva tocco con mano, ma scoperse una massa di neve in forma di uomo tutta colorita di fresche rose; in modo che la fu costretta lasciare andar tante maraviglie e credersi che miracolosamente fusse accaduta sì gran trasmutazione acciò che la si potesse sicuramente godere gli anni della sua giovinezza. Laonde tutta baldanzosa vòltasele, disse:
— Deh, che cosa è questa che io veggio stasera con gli ochi miei? Io so pur che poco fa tu eri femmina e or ti veggio esser venuto maschio! Oh, come può essere avenuto questo? Io ho paura di non travedere, o che tu non sia un qualche malo spirito incantato che mi sia venuto inanzi questa sera in cambio de Lucia a farmi venire la mala tentazione. Per certo, per certo che egli mi convien vedere come sta questa faccenda —.
E così dicendo, messasela sotto le fece di quelli scherzi che le volontarose giovani fanno bene spesso a questi pollastroni che son cresciuti inanzi al tempo; e in quella guisa si chiarì che la non era uno spirito incantato e che ella non aveva avuto le travveggole: della qual cosa elle ne prese quella consolazione che voi medesime pensar potete. Ma non crediate però che la ne fusse chiara alla prima volta o anco la terza; percioché io vi posso far fede che, s’ella non dubitava di non la far convertire in spirito da dovero, la non se ne chiariva alla sesta; alla quale poi che la fu arrivata, voltando i fatti in ragionamenti, la cominciò con amorevoli parole a pregare che le dicesse come stava questa bisogna. Per che Lucia, fattasi dal primo giorno del suo innamoramento per insino a quell’ora, tutto le raccontò; della qual cosa ella ne fu sopramodo contenta, accorgendosi di essere stata amata da un così fatto giovane in guisa che egli non avesse schifati tanti disagi e pericoli per amor suo. E di queste in mille altre sollazevoli parole trascorrendo e forse ancora alla settima chiareza arrivando, stettero tanto a llevarsi che il sole era intrato per le fessure delle finestre; onde parendone lor tempo, poscia che ebbero dato ordine che Lucia il dì in presenza delle brigate si rimanesse femmina, e poi la notte o quando avevono agio d’essere insieme a solo a solo si ritornasse maschio, tutti allegri di camera uscirono.
E continovando questo santo accordo, stettero parechi e parechi mesi sanza che niuno di casa si accorgesse mai di niente. E sarebbe durato gli anni, se non che Cecantonio, ancor che, come io vi disse, fusse assai bene oltre di tempo e il suo asino assai malvolentieri una volta il mese portasse del grano al suo mulino, veggendosi andar questa Lucia per casa e parendogli vaghetta, si era diliberato di scaricarne una soma al suo palmento, e più volte gnene dette noia; perché ella, che dubitava che e’ non avesse a riuscire un dì qualche scandolo, pregò Lavinia per lo amor d’Iddio che le levasse dalle spalle così fatta ricadìa. Or io non vi dico se e’ le salse il moscherino e se la ne fece un cantar di cieco la prima volta ch’ella si abboccò con lui; che per un tratto io vi so dire che la li disse manco che messere.
— Guarda — diceva — che fante ardito che vuole far or le pruove da cavalieri! O che diacin faresti tu se tu fussi giovane e gagliardo, che, or che tu piatisci co’ cimiteri e aspetti ogni dì la sentenzia contro, mi vuoi far così bel fregio in sul viso? Lascia, lascia, vechio pazo, lascia il peccato come egli ha lasciato te; non ti accorgi tu che se tu fussi tutto acciaio tu non faresti la punta ad un ago da dDomasco? O<h>, e’ ti sarà il bello onore quando tu averai condotta questa povera figliuola, che è meglio che il pane, a presso che tu non me lo hai fatto dire: questa sarà la dota, questo sarà il marito! Oh, grande allegreza ne averà il padre e la madre; e come ne sarà lieto il parentado, poiché eglin si accorgeranno di aver dato le pecore in mano de’ lupi! Dimmi un poco a me, pessimo uomo: chi facesse così alle cose tue, che te ne parrebb’egli? Come: non mettestù a questi <dì> a romore il paradiso perché e’ mi fu fatta una serenata? Ma sai tu quello che io ti ho da dire? Se tu non attendi ad altro, tu mi farai pensare a di quelle cose che io non ho mai pensato sino a qui. E che sì, e che sì, che tu riderai un dì! Sta pure a vedere che io ti farò trovare quello che tu vai cercando; ché, poi che io veggio che il portarmi bene non mi giova, io vederò pur se e’ mi gioverà il portarmi male. In fine chi vuole aver bene in questo mondaccio traditore, e’ gli bisogna far male —.
E accompagnando queste ultime parole con quattro lacrimette fatte venir giù per maledetta forza, fece tanto rintenerire il buon vechio che e’ le chiese perdonanza e le promesse di non le dir mai più cosa veruna. Ma poco valsero le sue promesse; e se finte furono le lagrime e la fine delle preghiere, finta fu la compassione che elle mossero. Imperò che essendo ivi a non molti giorni andata Lavinia ad un paio di noze che si facevano in casa quei di Tobaldo e avendo lasciata Lucia in casa perché la si sentiva un poco di mala voglia, lo ardito vechione, ritrovandola in non so che parte della casa addormentata, anzi che ella di niente accorgere si potesse le messe le mano sotto e, alzandole i panni per farne il piacer suo, trovò di quelle cose che egli non andava cercando. Per la qual cosa tutto pieno di maraviglia stette un pezo come una cosa balorda; e raviluppandosele intorno mille mali pensieri, con le più brusche parole del mondo la cominciò a domandar che questo fusse. Lucia, ancora che per li molti minacci e per le strane parole avesse su quel principio un gran capriccio di paura, avendo niente di manco pensato insieme con Lavinia, se mai tal cose fusse intervenuto, la scusa un pezo fa, e sappiendo che egli era un certo buono uomo da credersi così la bugia come la verità e che non era così terribile co’ fatti come e’ dimostrava con le parole, niente si smarrì; anzi, mostrando di piangere a cald’ochi, lo pregava che gli ascoltasse le sue ragioni. E poi che la fu con alquante miglior parole da llui rassicurata, con una voce tutta tremante e con gli ochi confitti per terra così a dire gl<i> incominciò:
— Sappiate, messer mio, che quando io venni in questa casa (che sia maladetta quell’ora che mai ci messi piè, poi che egli mi ci doveva intervenire così soza cosa), che io non era come io sono al presente; perciò che da tre mesi in qua (o Dio, trista alla vita mia!) egli mi è nata questa cosa; e un dì faccendo il bucato che io durai una gran fatica, la cominciò a venirmi fuor piccola piccola, dipoi a poco a poco s’è ita ingrossando talmente che la si è condotta al termine che voi vedete; e se non che io viddi a questi dì un de’ vostri nipotini, quel maggiorello, aver questa simil cosa, io mi credeva che fusse un qualche male enfiato, perciò che e’ mi dà a le volte tanto fastidio che io vorrei inanzi non so io che; e sòmmene tanto vergognata e vergògnomene tuttavia, che io non ho mai aùto ardire dirne niente a veruno; sì che non ci avendo io né colpa né peccato, io vi prego per lo amor d’Iddio e di quella benedetta Nostr<a> Donna dell’Ulivo che voi vogliate aver misericordia del fatto mio e non ne far parola con creatura del mondo; ch’io vi prometto che io vorrei inanzi morire che egli si sapesse d’una povera fanciulla così soza cosa come è questa —.
Il bon vechione, che non sapeva più là che si bisognasse, veggendo piover giù le lacrime a quattro a quattro e udendola dir le ragion sue tanto acconciamente, cominciò quasi a credere che ella dicesse il vero. Con tutto ciò, perché la gli pareva pure una gran cosa e che e’ si rivoltava per lo cervello cotali careze che gli era costumata Lavinia di fare, e’ dubitava che non ci fusse sotto magagna e che Lavinia, essendosene accorta, alla barba sua non si fusse goduta così fatta ventura; per la qual cosa e’ lla prese addomandar più strettamente s’ella ne aveva mai aùto sentore alcuno.
— Dio me ne guardi! — rispose allora assai arditamente, parendole ormai che la cosa pigliasse buon cammino, — anzi me ne son sempre mai guardata come dalla mala ventura; e dicovi di bel nuovo che io vorrei più presto morire che alcuno ne sapesse cosa del mondo; e se Dio mi scampi di tanto male, eccetto voi e’ non lo sa uomo nato; e volesse Iddio, poi che così ha voluto la mia disgrazia, che io potessi tornar come era prima, ché a dirvi il vero io ne ho preso tanto dolore che io son certa d’avermene a morir presto; imperò che oltre alla vergogna che io arò ogni volta che io vi vederò pensando che voi il sappiate, e’ mi pare esser la più impacciata cosa del mondo a sentir batter questo presso ch’io non dissi tra gambe.
— Orsù, fanciulla mia — seguitò il vechione tutto rintenerito —, statti così sanza dir niente a persona, ché e’ si potrà trovar forse qualche medicina che ti guarrà; lasciane il pensiero a me; ma sopra tutto non dir niente a madonna —.
E così sanza dire altro, avendo il capo pien di confusione da lei si partì e andò a trovare il medico della terra, che si chiamava mastro Consolo, e non so chi altri, per domandar loro di questa cosa. In questo mezo, venuta la fine delle noze, Lavinia se ne ritornò a casa; e inteso da Lucia come eran passate le cose, se la ne fu malcontenta io lo voglio lasciare giudicare a voi; ché io per me credo che questa le fusse più trista novella che non fu quella quando intese di avere avere un marito così vechio. Cecantonio, che era andato, come io vi dissi, a ’nformarsi di questa cosa, avendola intesa da chi ’n un modo e da chi ’n un altro, se ne tornò a casa più confuso che mai; per che, sanza dir niente ad alcuno per quella sera, si diliberò la mattina vegnente andarsene a Roma e cercar di qualche valentuomo che meglio gnene diciferasse; e così venuto l’altro giorno, la mattina per tempo montato a cavallo se ne inviò verso Roma. E smontato a casa d’uno amico suo, poi che egli ebbe fatto un poco di collezione, egli se n’andò allo studio pensando di trovar là meglio che in altro luogo chi sapesse cavar così fatta pulce dello orechio; e per buona sorte egli si abbatté in quello amico che gli aveva fatto condurre Lucia in casa sua, il quale alcuna volta per passar tempo era usato di praticare in quel luogo; e veggendolo ben vestito e onorato da molti, e’ si pensò che fusse qualche gran bacalare; per che, trattolo in disparte, e’ lo prese segretamente addomandar del bisogno suo.
Menico, che molto bene conosceva il vechione e sùbito si accorse della bisogna, ridendo infra se stesso disse: «A buono ostieri sei capitato»; e dopo un lungo ragionamento, e’ gli diede assai bene ad intendere che non solamente e’ gli era possibile, ma che e’ gli era accaduto dell’altre volte; e a c<a>gione che e’ gliel credesse più facilmente e’ lo menò in bottega d’un cartolaio chiamato Iacomo di Giunta, e fattosi dare un Plinio volgare, gli mostrò quello che nel settimo libro al quarto capitolo e’ dica di questo fatto, e simigliantemente gli fece vedere ciò che Battista Fulgosio ne scriva nel capitolo dei miracoli; in modo che e’ quietò tanto l’animo dello affannato vechio, che, se fusse venuto tutto il mondo, e’ non gli arebbe mai potuto dare a credere che la cosa fusse potuta essere in altra guisa.
Or poi che Menico si accorse che gl<i> era così bene entrato nel pecoreccio che e’ non era per uscirne ad otta, d’uno in altro ragionamento trapassando, perciò che la assenzia di Fulvio faceva molto a proposito suo e’ gli cominciò a persuadere che e’ non se lo cavasse di casa, perciò che egli era buono augurio a dove gli stava e che e’ faceva fare i fanciui maschi e mille belle cose; che, quando pur e’ si diliberasse levarselo dinanzi, e’ lo pregava che e’ lo indirizasse a lui, che se lo prenderebbe più che volentieri; e tanto seppe ben dire le ragion sue che Cecantonio non lo arebbe dato per mille fiorini. Il quale, poi che ebbe ringraziato il valente uomo e profertogli ogni suo avere, da llui si partì e mille anni gli parse di tornarsi a Tigoli per vedere se e’ poteva far fare alla moglie un fanciul maschio. E perché egli la medesima sera fece ogni suo sforzo e Lucia ne lo aiutò quanto poté, l’augurio non fu vano; imperò che Lavinia s’ingravidò d’un fanciul maschio, il quale fu poi cagione che Lucia si stesse a’ servigii loro quanto le fu in piacere, e poi che si fu partita andasse e venisse a posta sua sanza che il buon vechio si avedesse mai o si volesse accorgere di niente —.
Dette da ridere assai la novella del Corfinio a tutti quanti e fu tenuta molto aventurosa Lavinia, poscia che tanto tempo sanza alcun pericolo si era goduta dello amor suo; ma assai fu biasimato il giovane, il quale, lasciandosi in così tenera età sopravenire da tanto ardore, per saziare il suo disonesto appetito si fusse messo a sopportar tanti disagi in così lorda vita e in quel tempo massimamente che egli aveva a cercar di prender la via donde egli riuscisse e prode e valoroso; e quasi tutti levavono i pezi a quel Menico, il quale non solo gli aveva dato aiuto e consiglio che egli entrassi a così brutto vivere, ma avendo aùta occasione di levarnelo ve lo aveva voluto mantenere.
E però disse la Reina:
— Folchetto, poi che noi avemo veduto chenti sono i frutti di questo tuo amore e delle amicizie tue, io credo che e’ saran pochi quegli che faccino professione di uomini ragionevoli che si curino di coglierne alcuno, poi che per aggiugnerli si ha a prendere la scala di cucina; e però rimanghinsi su per gli arbori loro fin che il buon vento gli mandi per terra; e veggasi quello che Bianca intende raccontarci con la sua novella, che mill’anni mi par di ascoltarla —.
Per le quali parole ella senza altro dire così cominciò:
— I pericoli a’ quali si mettono gli uomini e le donne tutto il giorno per quel disiderio che molti poco ragionevolmente chiamano amore, e la ventura che ebbe Lavinia di potere assai segretamente godersene mi fanno ricordare adesso d’una nostra Fiorentina, la quale più stima del buon nome faccendo che della onestà da dovero, si diede assai astutamente in preda a queste passioni e talmente le venne fatto che quel medesimo che co’ fatti gli toglieva la onestà volendo non gliela averebbe potuta togliere con le parole.
NOVELLA TERZA
Carlo ama Laldomine ed ella per compiacere alla padrona finge di amar lo Abbate; e credendoselo mettere in casa, vi mette Carlo; ed egli credendosi diacer con Laldomine, diace con la padrona; e la padrona, credendo dormire con lo Abbate, dorme con Carlo.
Fu in Firenze al tempo de’ nostri padri un mercatante richissimo addomandato Girolamo Cambini, il quale ebbe una moglie che sanza contesa alcuna fu tenuta al tempo suo la più bella e la più gentil donna della nostra città. Ma sopra tutte le altre cose di che si parlava di lei era la sua onestà; con ciò fusse cosa che mostrando stimare apo quella niente ogn<i> altra cosa, né in chiesa, né in piaza, né ad uscio, né a finestra faceva segno di vedere uomo, non che la lo pur guardasse; per la qual cosa avvenne che molti, i quali per la sua maravigliosa belleza di lei si innamoravano, veduta alla fine tanta salvaticheza, senza frutto pur d’un solo sguardo im-breve tempo si toglievano dalla impresa; le strida de’ quali arrivando spesse fiate fino al cielo, mi penso io che sforzassero Amore a far la lor vendetta.
Imperciò che essendo in quel medesimo tempo in Firenze un giovane di gran parentado addomandato messer Pietro de’ Bardi — ma perciò che essendo prete, fra gli altri benefici egli l’aveva una badìa e’ gli dicevan l’Abbate —, il quale a giudizio d’ognuno era tenuto il più bel giovane di Toscana (e io mi voglio ricordare averlo veduto, quando io era picciola fanciulla, che e’ pareva bellissimo così vechio), non potette la bella giovane, la mercé della costui belleza, non rimuovere dal gentil core tanta dureza, sì che ella si inamorò di lui fieramente. Niente di meno, per non si partir dalla usanza sua, senza dimostrarsi in cosa nessuna si godeva le sue belleze nel cor suo; e cun una sua fanticella, che seco nata e allevata in casa del padre ella teneva ai servigi della persona sua, ragionandone segretamente il meglio che poteva si sopportava le amorose fiamme.
Ed essendo stata molti e molti giorni in così fatto tormento, alla fine le cadde im-pensiero di goder di questo suo amore in modo che lo Abbate stesso, non che altri, non potesse accorgersi di cosa veruna. Per la qual cosa ella dette ordine che Laldomine, che così era il nome della sua fanticella, e con sguardi e con cenni amorosi ogni volta che le venisse veduto questo Abbate lo intrattenesse, pensando che e’ potesse accader facilmente che egli se ne innamorasse; imperò che oltre allo esser vaghetta molto e aver assai dello attrattivo, uno abito stranetto né da padrona in tutto né da serva che ella portava le dava una grazia maravigliosa. E ritrovandosi queste due donne una mattina tra l’altre in Santa Croce a non so che festa, ed essendovi lo Abbate, la buona femmina metteva assai acconciamente in opera i comandamenti della padrona, avenga che indarno, perciò che lo Abbate, forse per esser molto giovane e in conseguenza poco uso a così fatte giostre, o non se ne accorgeva o faceva le vista di non se ne accorgere.
Erasi per aventura accompagnato con l’Abate un altro giovane pur fiorentino chiamato Carlo Sassetti, il quale, avendo più giorni erano posti gli ochi addosso a questa Laldomine, tosto si accorse di quelle sue guardature; per che egli pensò sùbito ad una sua malizietta; e aspettando la occasione, sùbito le dette effetto. Imperò che occorrendo di quei dì al marito della Agnoletta, che così era il nome della giovane, cavalcar fuor di Firenze per molti giorni, Carlo, che altro non aspettava che questo, quasi ogni sera là tra le tre e le quattro ore passava per la contrada dove stavano queste donne; e una volta tra l’altre e’ gli venne veduto Laldomine per una finestra assai bassa che era sopra il pianerottolo della scala e riusciva ’n una stradetta accanto alla casa; la quale per lo caldo, che già era grande, andava con un lume in mano a trarre um-poco d’acqua per la padrona; la quale come più presto Carlo ebbe veduta, affacciatosi alla finestra con voce assai bassa la incominciò a chiamare per nome. Della qual cosa ella fortemente si maravigliò e in cambio di serrar la finestra e andar pe’ fatti suoi, come si apparteneva a chi non avesse voluto né dare né ricevere la baia, ascondendo il lume e fattasi più vicina alla finestra disse:
— Chi è là? —
A cui Carlo prestamente rispondendo disse che era quello amico che ella si sapeva, che le voleva dir quattro parole.
— Che amico o non amico! — soggiuns’ella allotta. — Voi fareste il meglio a ire pe’ fatti vostri; che vi doverreste vergognare; alla croce d’Iddio, che se egli ci fusseno i nostri uomini voi non fareste a cotesto modo. E’ si par bene che egli non ci son se non donne; levatevi di costì nella vostra mal otta, sgraziato che voi sete; e che sì, che io vi do di questa mezina nel capo —.
Carlo, che era stato più volte a simil contrasti e sapeva che il vero dir di <no di> noi altre suole essere il non porgere orechie ad una minima parola di questi cotali, non si spaurì mica per così brusca risposta, anzi con le più dolce paroline del mondo la pregò di nuovo che gli aprisse, e finalmente le disse che era lo Abate. Come la buona femmina sentì udir nominar l’Abate tutta si rammorbidì, e con assai manco brusche parole che prima, rispondendo disse:
— Che Abate o non Abate! Che ho io a far con l’Abate o co’ monaci, io? Alla buona, alla buona che se voi fuste lo Abate, che voi non sareste qui a questa otta; ché io so ben che i buon preti com’è egli non vanno fuor la notte dando noia alle donne altrui e massimamente in casa le persone da bene.
— Laldomine mia — rispose allor Carlo —, lo amor grande che io ti porto mi constringe a far di quelle cose che forse non doverrei; però se io ti vengo a dar noia a questa ora non te ne maravigliare, ché io ho tanto disiderio d’aprirti lo animo mio che egli non è cosa che io non facesse per dirti due parole. Sì che, speranza mia, sie contenta d’aprirmi un poco l’uscio, né volere essermi discortese per così picciola cosa —.
Udendo Laldomine così piatose parole, forte gnene ’ncrebbe; e tenendo per certo che e’ fusse lo Abate, fu per aprirgli detto fatto; ma pensando che gli era pur ben chiarirsi se egli era desso con qualche contrassegno, si diliberò d’indugiare ad un’altra sera; e così mezo ridendo gli rispose:
— Eh, andate, andate, baionaccio! Credete voi che io non cognosca che voi non sete desso? Che quando io cognoscessi che fuste desso, io vi aprirrei non per mal veruno, ché voi non credeste, ma per saper quello che voi volete da me e dir poi a Girolamo le belle pruove che voi fate quando egli non ci è. E se voi non fuste poi desso, u<h> dolente a me, io mi terrei la più disfatta femmina di Borgo Allegri! Ma passate doman di qua alle XXII ore, che io vi attenderò in sull’uscio; e per segno che voi sete voi, quando sarete al dirimpetto dell’uscio nostro soffiatevi il naso con questo fazoletto (e così gli diede un fazoletto lavorato tutto di seta nera); e faccendo questo, io vi prometto che se voi verrete qui domandassera a quest’otta, che io vi aprirrò, e potrete dirmi quello che voi vorrete; onestamente però, ché voi non pensaste —.
E così detto, sanza volerli pur toccar la mano, gli serrò la finestra addosso; e andatasene sùbito dalla padrona gli narrò tutto il fatto come stava. La quale, alzando le mani a<l> cielo, tenendo per fermo che e’ fusse venuto il tempo che il suo pensiero avesse avere effetto, baciandola e abbracciandola strettamente ben mille volte la ringraziò. Carlo, andatosene in quel mezo a casa e messosi a lletto, mai non potette per quella notte chiudere ochio, pensando come egli avesse a fare che lo Abate adempiesse il contrasegno avuto dalla donna.
E con questo pensiero levatosi, su l’ora della messa se n’andò nella Nunziata, dove, ritrovato uno amico suo che tutto il dì usavai con lo Abate chiamato Girolamo Firenzuola, gli narrò ciò che gli era accaduto la passata notte e chiesegli aiuto e consiglio sopra il fatto del contrasegno; a cui rispose sùbbito il Firenzuola che stesse di buona voglia, che se non c’era altro da fare che di questo non dubitasse, imperciò che al debito tempo e’ darebbe ricapito a tutto quello che bisognava; e così dicendo, fattosi dare il fazoletto da lui si accommiatò. E quando gli parse l’ora a proposito andatosene a trovar lo Abbate, per via di diporto lo trasse di casa e così, passo passo, d’un in altro ragionamento trascorrendo, lo condusse a casa di Agnoletta che egli non se ne accorse; e quando che e’ furon quasi al dirimpetto dell’uscio, disse il Firenzuola allo Abbate, avendoli dato prima quel fazoletto:
— Messer l’Abate, nettatevi il naso, che voi lo avete imbrattato —.
Per che egli, sanza pensare a cosa alcuna, preso il fazoletto si nettò il naso; in modo che Laldomine e la Agnoletta ebbero ferma credenza che egli non si fusse nettato il naso per altro se non per adempire il contrassegno; e ne furono sopra modo contente. I dui giovani poscia, senza più dire, se ne vennero verso la piaza di San Giovanni, dove arrivati il Firenzuola presa licenza dallo Abate se ne andò a trovar Carlo, che lo attendeva in sul muricciuolo de’ Pupilli; e narratoli come eran passate le cose, senza più dire, tutto allegro lasciandolo, da lui si accommiatò.
E venuta la sera, là dalle tre ore Carlo se ne prese la via verso la casa delle due donne, e messosi a piè della finestra dell’altra sera attendeva il venir di Laldomine; né vi fu stato guari che ella, che era sollicitata da chi ne aveva più voglia di lui, alla finestra se ne venne; e vedutolo e riconosciutolo per quel dell’altra sera gli fece cenno che se n’andasse all’uscio. Ed egli andatovi e trovatolo aperto, pianamente se ne entrò in casa; e volendo, sùbito entrato, cominciare ad abbracciare e baciare Laldomine, ella, come fedele della sua padrona, per niente non volse; e disseli che stessi fermo sanza far romore alcuno sin che la padrona fusse andata a dormire; e quivi mostrando d’esser chiamata, in terreno lasciatolo, se n’andò dalla Agnoletta, la quale con grandissimo disiderio attendeva il fine di questa cosa; e s’ella ne fu contenta il processo della mia novella ve lo farà manifesto senza che io vel dica.
La quale, avendo già fatto apprestare ’n una camera vicina alla sala un bellissimo letto con sottilissime lenzuola, le impose che andasse per lui e quivi il facesse coricare; per che Laldomine, al buio al buio tornatasene da Carlo segretamente, sanza che egli di niente si accorgesse, menatolo in camera e fattolo spogliare lo messe nel letto; di poi, fingendo d’andare a veder se la padrona era ancora addormentata, se ne uscì fuori. Né vi andò molto che madonna Agnoletta tutta lavata, tutta profumata in vece di Laldomine da lui chetamente se ne venne e accanto se le coricò; e benché il buio s’ingegnasse nasconder la sua belleza, niente di meno ell’era tale e tanta che, aiutata dalla sua biancheza, a mala pena vi si poteva nascondere. Credendosi addunche questi duoi amanti l’un con Laldomine e l’altra con l’Abate diacere, senza molte parole per non si discoprir l’uno all’altro, con saporiti baci e con stretti abbracciamenti e con tutti quegli atti che ad una coppia così fatta si conveniva si facevano tante carezze quante voi potete pensare le maggiori; e se pur talvolte qualche amorosa parola usciva lor di bocca, e’ la dicevan sì piano che il più delle volte e’ non si intendevano l’un l’altro, e ciascun di loro se ne maravigliava, e tutt’a dui lo avevon caro. Ma quel che mi fa venir più voglia di rider quando io ci penso è un contento di animo che ambodui avevano d’esser venuti con sì bello inganno al frutto de’ lor disiderii; e mentre che ella godeva di ingannar lui ed egli godeva di ingannar lei, s’inga<n>navano tramenduni così dolcemente, che ognun di loro prendeva diletto dello inganno; nel quale senza mai accorgersi l’un dell’altro egli stettono in tanto sollazo, in tanta festa, in tanta gioia tutta quella notte, che si sarebbono contentati che la fusse durata tutto un anno.
E venuta poscia l’ora vicina al giorno, madonna Agnoletta, levatasi infingendo di andare a far non so che sua faccenda, rimandò Laldomine in luogo suo; la quale come più presto puoté fatto rivestir Carlo, per una porticella che riusciva dietro alla casa segretamente lo trasse fuori. Ma perciò che la non avesse ad esser l’ultima volta come era stata la prima, e’ diedero ordine, sempre che Girolamo ne desse loro agio, di pigliarsi di così fatte venture; per la qual cosa, senza mai saper l’un dell’altro, dimolte altre volte ad aver così chiare notti si ritrovarono. Considerate addunche, belle giovani, se la astuzia di questa donna fu grande, poi che sotto nome altrui, senza pericolo dello onor suo, si dava buon tempo d’altro che di parole —.
Fu da tutti lodata la sagacità della innamorata giovane e conchiuso che la si era portata benissimo del male, poi che la si era lasciata vincere da quel folle disiderio; imperò che, se le altre donne si traessero le lor voglie in questa guisa, gli uomini ne prenderebbeno manco scandolo e le donne ne aqquisterebbono minor vergogna, affermando però che non per lo costei esemplo si devono metter le donne in così disoneste imprese, le quali, se bene alcuna volta son celate agli uomini, sono sempre palesi a Dio, al quale deveno cercar più ragionevolmente di piacere e le cui offese più ci deveno parer gravi che quelle di noi medesimi. E poscia che ognuno ebbe detto il parer suo, Celso, a ccui toccava il novellare, per comandamento della Reina così mosse il suo parlare:
— La ventura della Agnoletta e il suo sagace ingegno fanno che egli mi sovviene al presente della disgrazia d’un povero prete pistolese, il quale, per non esser così cauto ne’ suoi amori come fu ella, fu costrett’a capponarsi con le sue mani.
NOVELLA QUARTA
Don Giovanni ama la Tonia ed ella per promessa d’un paio di maniche li compiace; e perché egli non gnele dà, ella d’accordo col marito il fa venire in casa e quivi gli fanno da se medesimo prendere la penitenza.
Voi dovete adunque sapere che e’ non è molto tempo che nelle montagne di Pistoia fu un prete chiamato don Giovanni del Civelo, cappellano della chiesa di Santa Maria a Quarantola; il quale, per non mancar de’ costumi de’ preti di quel paese, s’innamorò sconciamente d’una sua populana chiamata la Tonia, la quale era moglie d’un di quei primi della villa addomandato Giannone abenché da tutti gli era detto il Ciarpaglia per sopranome. Aveva questa Tonia forse ventidu’anni ed era un poco brunotta per amor del sole, tarchiata e ritonda che la pareva una meza colonna di marmo stata sotto terra parechi anni; e fra l’altre vertudi che l’aveva, come era saper ben rappianar un magolato e tener nette le solga quando la marreggiava, ell’era la più bella ballerina che fusse in quei contorni; e quando l’arrivava per disgrazia su ’n un rigdone a farla chirintana, ell’era di sì buona lena ch’ell’arebbe straccati cento uomini; e beato a quel che poteva ballar con essa pure una danza, ché vi so dire che e’ ne fu già fatta più d’una quistione. Or come la buona femmina s’accorse degli struggimenti del sere, non se ne faccendo schifa di niente, gli faceva otta catotta di belle carezocce; in modo che ’l domine saltava d’allegreza che pareva un puledruccio di trenta mesi; e pigliandole ogni dì più animo a dosso, sanza parlarle però di cosa che fusse dalla cintura in giù, si veniva a star con lei di buone dotte e contavale le più belle novelloze da ridere che voi mai vedeste. Ma ella, che era più scaltrita che ’l fistolo, per vedere se egli era acconcio come le persone e come egli stava forte alla tentazione della borsa, gli chiedeva sempre qualche cosellina come la sapeva che egli andasse a città: verbigrazia dui quattrini di pezetta di Levante, um-poco di biacca, o che le facesse rimettere una fibbia allo scheggiale, o simili novellette; nelle quali il domine spendeva così volentieri i suoi danari, come se ne avesse fatto racconciare una pianeta. Con tutto ciò o che e’ gli paresse esser tanto bello in piaza e calzar bene una giornea di panno cilestre con le maniche tagliate sul gomito, e avere una sofficente grazia con l’amore, o che gli avesse paura del marito, o come la s’andasse, egli aspettava che la Tonia dicesse: «Don Giovanni, venitevi a colcar meco».
E così durò la cosa là da duo mesi, che egli pascendosi come il caval del Ciolle ed ella cavandone cotai servigetti, e’ non andavan più oltre. Alla fine, o che la Tonia cominciasse a fare um-poco troppo in grosso, come colei che non si vergognò chiedergli tutto ad un tratto un paio di scarpette gialle di quelle fatte a foggia che son tagliate dal lato e che si affibbian con la cordellina, e un paio di zoccoli a scaccafava con le belle guigge bianche stampate con mille belli g<h>irigori, o la passion delle mutande che ogni dì cresceva più, o pur altro ne desse cagione, e’ pensò che e’ fusse bene come prima gli venisse in acconcio, che che avenir se ne potesse, richiederla dello onor suo. E appostando una volta tra l’altre che la fusse sola, le portò una insalata dell’orto suo (che vi aveva la più bella lattuga tallita e ’ più begli stoppionacci che voi mai vedeste); e poi che e’ gli l’ebbe data, e’ se le messe a sedere al dirimpetto, e avendola guatata un pezo fiso fiso e’ le cominciò di secco in secco a dir queste belle parole:
— Deh, guatala come l’è belloccia oggi questa Tonia! Alle guagnele che io non so ciò che tu ti abbia fatto; o<h>, tu mi par più bella che quel Santo Antonio che ha fatto dipingere Fruosino di Meo Puliti a questi dì nella nostra chiesa per rimedio della anima sua e di mona Pippa suo moglie e suoro. Or quale è quella cittadina in Pistoia che sia così piacente e così avenente come sei tu? Guata se quelle due labbruccia non paiono gli orli della mia pianeta del dì delle feste! Oh, che filicità sarebb’egli potervi appiccar su un morso, che e’ vi rimanesse il segno per insino a vendemmia! Gnaffe! Io ti giuro per le sette virtù della messa che, se io non fussi prete e tu ti avesse a maritare, io farei tanto che io ti arei al mio dimino. O<h>, che belle scorpacciate che io me ne piglierei! Diavol, che io non mi cavassi questa stiza che tu mi hai messa addosso! —
Stava la Tonia mentre che ’l sere diceva queste parole tutta in cagnesco, e sogghignando così un poco sott’ochi or l’aguardava e or pareva che lo volesse minacciare; e quando egli ebbe finita così bella diceria, scotendo così un poco il capo gli rispose:
— Eh sere, sere, andate, andate, e’ non bisogna dileggiare. Voi fareste il meglio; se io non piaccio a voi, basta che io piaccia al Ciarpaglia mio —.
Il prete, che già era venuto in bietolone, rimenandosi per dolceza come una cutrettola e spignendo il mento in fuori che pareva pur che e’ si distruggesse, udendo così fatta risposta prese animo e seguitò:
— Così non mi piacestù tanto, vezo mio, come tu mi piaci! Buon per me! Non vedi tu che mi fai andar ratìo ogni dì quinci oltre per vederti? O<h>, che paghere’ io a poterti toccare una volta sola que’ duo pippioni che tu hai in seno, che mi fanno abbruciar più ratto che non fa una candela d’un quattrino ad un altare!
— E che malasin paghereste voi — disse allotta la Tonia — che sete più stretto ch’un gallo? Gnaffe! Chi disse preti disse miseri. E forse che non vuol far testé del largo in cintura! Come se io non cognoscessi che a questi dì, quando io vi chiesi quei zoccoli, voi faceste un viso di matrigna che pareva che io vi avesse chiesto qualche gran cosa. So ben che se ’l Mencaglia vostro vicino volse nulla dalla moglie di Tentennino, che e’ gli bisognò pagar la metà della gonnella che la si fece questo Ognissanti; e sai che la non fu del più bel romagnuolo che sia in questo comune; e costòlle il panno solo più di dodici lire, senza il soppanno e gli orli, la balzana e la manifattura, che le costò un tesoro.
— Al corpo di santa Nulla, Tonia mia, — disse allora don Giovanni — che tu hai più de millanta torti; ché io son più largo nelle donne che non è non so io chi; e non vo mai a città che io non ispenda almanche sia duo bolognini con quelle belle cristiane che stanno dietro al palagio de’ Priori. Sì che pensa quello che io farei per te, che hai cotesto viso così avenevolozo, che mi ha in modo bucherato il fegato e le budella, e che e’ non mi vien da mano a dir buccata d’uficio; e, a dirti il vero, io ho paura che tu non mi abbi affatturato —.
Mona costei, udendo così larghe promesse, ne volse fare un poco di sperienza e disseli che era contenta far di sé il piacer suo ogni volta che e’ le promettesse pagare un paio di maniche di saia gialla con uno orletto di velluto verde da mano e parechi nastretti da capo pur verdi che svolazassino e una rete di refe bigio con la culaia, e imprestarle tre bolognini che le mancavano per riscuotere una tela dalla tessitrice; e che quando non volesse far questo, e’ se n’andasse a Pistoia da quelle belle cristiane che ne davano per duo bolognini.
Il povero prete che già aveva messo in ordine il battaglio per attaccarlo nella sua campana, per non si perder così fatta ventura le promesse non che le maniche la gammurra col camurrino; e già le voleva metter le mani ne’ capegli, quando ella faccendo così un poco dello schifo disse:
— Deh, don Giovanni mio, guardate costinci ritta se per disgrazia voi aveste a canto quelli pochi quattrinelli che io vi ho chiesti, che io ne ho una nicissità grandissima, ché, a dirvi il vero, il mio colui non si truova cencio di camicia —.
Il buon prete, che averebbe pur voluto fare a credenza come quel da Varlungo, si aiutava pur col dir che non gli aveva a canto, ma che finita la compieta e’ gli andrebbe infino alla chiesa e guarderebbe se nella cassetta delle candele ne fussero tanti che bastassero e gnele porterebbe. Udendo la Tonia che costui li dava la lunga, mostrò di volersi adirare e borbottando gli disse:
— Non vel diss’io che voi eri la largura del pian di Pistoia? Fatevi in là, alla croce d’Iddio, che voi non mi tocherete se voi non mi date prima questi pochi soldi. In buona fé, in buona fé, che egli si vuole imparar da voi altri, che non volete mai cantare se voi non siate pagati im-prima im-prima; basta ben che io son contenta di aspettare del resto finché voi andiate a città; ma di questi io ne ho tanto di bisogno che io non vel potrei mai dire.
— Orsù, non ti adirar, Toniotta mia — disse don Giovanni udendo far sì grande scalpore —, che io guaterò se per disgrazia io gli avessi a canto —.
E così dicendo trasse fuori un certo suo borsello che e’ teneva ’n un paio di calze a vangaiuole, e tanto lo premé e tanto si scontorse, che stropicciandoli ad uno ad uno e’ ne trasse sei soldi e si gnene dette; e come e’ gliel’ebbe dati, la fu contenta che ’n una capanna ivi vicina e’ sonasse un colpo a gloria le sue campane; e in questo luogo si ritrovaron dimolte altre volte fino a che egli andasse a Pistoia. E quando poi e’ gli accadde lo andarvi, alla tornata sua, o che se lo dimenticasse o che gli paresse fatica lo spendere, e’ non le portò altro che la rete; con la quale andatosene da llei prese scusa d’aver lasciate le maniche in casa per dimenticaggione, e promettendognene portare il dì da poi seppe si ben dire che la gliel credette, e pigliando la rete fu contenta di ritornar con lui nella capanna.
Ma perché il mal sere e passa un dì e passa l’altro non le portava né maniche né manichini, la Tonia si cominciò adirare e una sera fra l’altre gli disse una gran villania. Ma egli, che già aveva allentato lo straccale all’asino e aveva fatto pensiero che se la voleva delle maniche che la se ne procacciasse, gli rispose certe parole tanto brusche che la lo ebbe molto per male e si diliberò di vendicarsene; e mordendosi il dito, disse infra sé: «Va pur là, pretaccio da gabbia! Se io non te ne fo pentire, che mi venga una cassale che mi ammazi. Ma paza sono stata io ad impacciarmi con questa pessima generazione, come se io non avessi mille volte udito dire che e’ son tutti d’una buccia; ma siemi ammesso per una volta». E per mostrar ben di essere adirata, stette tre o quattro dì che mai non lo volse vedere. Di poi, a cagione che e’ le fusse più facile il vendicarsi secondo un suo disegno, la ’l cominciò di nuovo a ’ntrattenere con mille belle paroline, e sanza parlar più delle maniche mostrò d’aver fatta la pace con esso lui.
E un dì fra gli altri, quando le parve venuto il tempo a proposito a quello che ella aveva disegnato, benignamente a sé ’l chiamò; e dicendoli che ’l suo Ciarpaglia era andato a Cutigliano, il pregò che se e’ si voleva dare un bel quattro con esso lei, che egli là ’n sulla ora della nona se ne venisse in casa sua, che ella tutta sola lo attenderebbe; e che, se pur per disgrazia egli non ve la trovasse, e’ non gli paresse fatica lo aspettare un poco, che la non starebbe molto a venire.
Or non domandate se don Caprone si tenne buono di sì fatta richiesta e se e’ se ne ringalluzava tutto, dicendo da se medesimo: «Io mi maravigliava ben io che la penasse tanto a guastarsi del fatto mio; vedi, vedi che testé non li danno noia le maniche. Ma pazo sono stato io a darle fiato che tanto se n’era; e io non arei quel manco. Ma sa’ tu come ell’è, don Giovanni? Se tu non ne ricavi il tuo a ddoppio, tu sarai un gran pazo».
Queste e altre cotai parole dicendo, aspettò tanto che e’ venisse l’ora impostagli; la quale come più presto fu venuta, egli fece quanto dalla donna gli era stato comandato.
Aveva detto al suo marito la malvagia femmina il medesimo dì come questo prete la aveva richiesta dello onor suo più volte; laonde tutt’a dui d’accordo per dargnene una mala gastigatoia avevano ordinato quanto avete udito. E come più presto s’accorse ella che don Giovanni le era entrato in casa, fatto cenno al Ciarpaglia e ad un suo fratello che attendevan questa faccenda, aviatasi pian piano loro inanzi, trovò il drudo che si stava sul letto a gambettare; il quale appena la ebbe veduta che sanza temer di cosa alcuna se le fece incontro; e cortesemente salutandola, gli volse gittare le mani al collo per darle un bacio alla franciosa; ma egli non si le era accostato appena, che ’l Ciarpaglia comparì su gridando com’un pazo:
— Ah, pretaccio ribaldo, schericato, vedi, vedi che io ti ci ho pur giunto, can paterino discacciato da dDio! A questo modo fanno i buoni religiosi? Che dolenti vi faccia Iddio, gente di scarriera; andate a guardare i porci e a star per le stalle, non per le chiese a governare i cristiani! —
E voltandosi al fratello con una furia che mai la maggiore seguitava:
— Non mi tenere, lèvati, non mi tenere, che io darò a te; lasciami andar, che io voglio svenar questa puttanaccia di mògliama e a quel traditor voglio mangiare il cuor caldo caldo —.
Il prete, mentre che costui diceva queste parole, pisciandosi sotto per la paura si era ricoverato sotto il letto e davasi a piangere e a gridar misericordia quanto della gola gli usciva; ma tutto era gittato al vento, ché il Ciarpaglia era venuto ad animo diliberato che i secolari a questa volta dessino la penitenzia al prete; e udite se la fu crudele.
Egli aveva in quella camera un cassonaccio che era stato fin dello avol di suo padre, dove che egli teneva lo scheggiale e la gammurra, le maniche di colore e le altre cose di valuta della moglie; e’ lo aperse e cavonne fuor tutte quelle bazicature che vi eran dentro; e tratto per forza il prete di sotto il letto e fattoli mandar giù le mutande, le quali egli mentre aspettava la Tonia si aveva sfibbiate per non la tenere, com’io mi stimo, a disagio, e’ gli prese i testimoni, i quali per essere egli avvezo assai volte a starsi sanza brache il dì a miriggio con le donne, egli aveva grandi e di buona misura, e gnene messe in quel cassonaccio; e mandato giù il coperchio, con una chiavaccia rugginosa che teneva ataccata quivi presso ad uno arpione lo serrò; e fattosi dar dal fratello un certo rasoiaccio tutto pieno di tache col quale alcuna volta il sabato la moglie gli faceva la barba, lo messe in sul cassone, e sanza dire altro tirato a sé l’uscio di camera se n’andò a fare le sue faccende.
Rimaso adunque lo sventurato prete nel termine che voi vi potete considerare, fu sopraggiunto ’n un tratto da tanto dolore, che poco mancò che egli non si venisse meno. E avenga che, per esser la serratura tutta scassinata, il buncinello tenesse in modo in collo che il coperchio non si accostasse alle sponde del cassone ad un mezo dito, e però gli facesse in quel principio poco o niente male, pure ogni volta che e’ vedeva quel rasoio e pensava donde e’ si trovava legato aveva tanto il dolore al cuore, che gli era da maravigliarsi che e’ non morisse; e se non fusse stato che egli si rassicurava pure un poco col creder che e’ lo avesser fatto per fargli un poco di paura, e perciò non starebbon molto a trarlo di quel tormento, io mi penso che egli sarebbe intervenuto a punto quanto io vi ho divisato.
Ma poi che e’ fu stato un pezo fra ’l dubbio e la speranza e che e’ vedeva che niuno veniva ad aiutarlo, e quella materia che era cominciata ad ingrossar gli dava un poco di passione, e’ si dette a chiamar aiuto; e veduto che l’aiuto non veniva, e’ si messe a voler sconficcar la serratura. Laonde egli si affaticò, e nello affaticarsi e’ venne a stirar la pelle di quella cosa in modo che ella enfiò ed enfiando gli cominciò a dare un dolore incompor<t>abile. Sì che posto fine a questa fatica si ritornava a domandare aiuto e gridar misericordia; e veggendo che l’aiuto non veniva e la misericordia era perduta e il dolor cresceva, quasi disperato della sua salute pigliava in man quel rasoio, con animo di uscir di tanto stento almen morendo. Di poi, sopraggiunto da una viltà di animo e da una compassione di se medesimo, diceva piangendo:
— Eh Dio, sarò io mai sì crudele contro a me stesso che io mi metta a sì manifesto pericolo? Che maledetta sia la Tonia e quel dì primo che io la viddi! —
E affannato da un grandissimo dolore, né potendo più aprir la bocca, si taceva. Poco da poi affisando quel rasoio lo prendeva in mano e se lo accostava, e segando così leggermente guardava come e’ si faceva male; ne l’aveva a pena accostato che e’ gli veniva un sudor freddo e una paura, con un certo disfacimento di cuore ch’e’ pareva che si mancasse. Né sappiendo più che farsi, per istracco si pose bocconi in sul cassone; e or piangendo, or sospirando, or gridando, or bottandosi, or biastemando, si affannò tanto che quella doglia gli crebbe in guisa che, non possendola più sopportare, e’ fu constretto cercar via d’uscir di quello impaccio. Per che fatto della nicistà virtù, e’ prese in mano il rasoio e da sé a sé fece la vendetta del Ciarpaglia e restò sanza testimoni; e fu tanto il dolor che lo sopraggiunse, che gittando un muglio ad uso d’un toro quando egli è ferito cadde tramortito in terra. Corsono a quel romore alcuni che dal Ciarpaglia furono mandati a sommo studio, e con non so che incanti e lor novelle fecer tanto che e’ non perdé la vita, se vita si può dire avere un uomo che non è più uomo. E cotal fine e così fatta ventura ebbe lo amore del venerabbile sacerdote —.
Aveva mosso la novella di Celso ognuno a ridere nel principio, ma poscia, udendo gli affanni crudeli dello sventurato prete, non vi fu alcuno che non si movesse a grandissima compassione; che avenga che a tutti paresse che e’ gli avesse meritato quello e peggio, pur non poté essere che la lor benigna natura non movesse la pietà a far le sue dovute operazioni.
E poi che si fu sopra di lui ragionato alquanto, la Reina comandò a Fioretta che seguitasse; la quale tutta allegra in questa guisa mandò fuori le sue parole.
— Poscia che io vi veggio così afflitti del miserabil caso di don Giovanni, io ho fatto pensiero di riconsolarvi con una bella pacioza che fece Amor tra la madre e la figliuola dopo molte cattive parole.
NOVELLA QUINTA
Mona Francesca s’innamora di fra’ Timoteo; e mentre con lui si sollaza, Laura sua figliuola, accorgendosene, fa venire un suo amante; la madre se ne avvede e gridala, e Laura con una bella parola la fa tacere, e vergognandosi dello error suo s’accorda con la figliuola.
Voi avete dunque a sapere che fu in Siena (e’ non è però tanto tempo che ciascun di voi non se ne potesse ricordare) nella contrada di Camporeggi una mona Francesca di assai buon parentado popolare e assai benestante, la quale con una sua figliuola già da marito (la quale ella in capo a non so che mesi maritò ad un Meo di Mino da Rossia, il quale per esser occupato nelle faccende de’ poderi del magnifico Borghese che allora la città reggeva stava il più del tempo fuor di Siena) e con un figliolino che appena aveva finiti sett’anni era rimasa vedova, al governo de’ quali senza volerse più rimaritare si stava assai pianettamente. E mentre che ella così si dimorava, un frate di Santo Domenico baccelliere nella teologia, chiamato fra’ Timoteo, veggendola assai fresca e bella le pose gli occhi addosso; e con ciò fusse cosa che per le molte discipline che si dava e per i gran digiuni che faceva sovente e’ gli luccicasse in modo la pelle che in su duo gotelline rosse che egli aveva vi si fusse su potuto di bel gennaio accendere un zolfanello, la buona donna, a cui forse pareva che al quieto stato della sua viduità non mancasse altro che un così fatto che segretamente la sovvenisse alle sua necessità vedovili, pensò che costui dovessi essere il bisogno. E da llui o da lei che si venisse la prima volta io nol dirò già, che io nol so; bàstavi che fecion tanto che ella diventò parente di messer Domenedio; e andavasi sì spesso a confessare e tanto stava in San Domenico volentieri, che pel vicinato si bucinava che la fusse una meza santarella.
E mentre che le cose passavano nella guisa che voi av<e>te udito, Laura, che così aveva nome la figliuola di mona Francesca, che già si era per molti segni accorta della savieza della madre, per non guastar quel bel proverbio che dice: «Chi di gallina nasce convien che razoli», si diliberò al tutto seguitar le sue pedate; e seppe in breve tempo così ben fare, che quando la madre al devoto frate mostrava la sua conscienza ella da un messer Andreuolo Pannilini, che era dottore in legge, apprendeva il modo che ella aveva a tenere nella consumazion del matrimonio. E accadendo una volta tra l’altre che la buona vedova là ’n sulle du’ ore di notte avendosi fatto venire in camera il suo padre spirituale, non aveva saputo far così segretamente che la figliuola non se ne fusse accorta; la quale per aver cagion di non star più in su le guardie con esso lei, sùbito che se ne fu aveduta, fattasi chiamar per il suo fratellino una certa Agnesa suo vicina, la quale assai volentieri con le sue parole soveniva a’ bisogni de’ poveri innamorati, la mandò dicendo allo amante che prestamente da llei se ne venisse.
Non stette guari a comparire il messere avuta la imbasciata, e per la via usata intrando in camera con essa nel letto agiatamente si coricò; e in cambio di fare in modo che la madre né altri non gli sentisse, Laura ad alta voce e come se col suo marito stata fusse gli faceva le più belle careze del mondo.
— O anima mia cara — diceva —, che tu sia per le mille volte la benvenuta! O guance mie morbide, o labbra mia vermiglie, quando fie mai che io vi baci tanto che io mi strachi, non voglio dir mi sazii? Non mai che io mi creda, se ben mentre che io viverò non facesse mai altro che baciarvi —.
E così dicendo vi gli dava su certi baciozi che si sarebbono uditi insin di Camollia. Il dottore anch’egli, che era stato avertito del tutto, non restava di fare il debito dal canto suo, in modo che alla fine e’ feciono sì sconcio romore che e’ venne agli orechi di mona Francesca. La quale come più presto lo ’ntese, venutasene su piano piano e accostatasi all’uscio dove costoro erano, si chiarì affatto che e’ gli era stato romor d’altro che di parole; e come a chi più cale del fallo altrui che del suo, fu sopramodo dolorosa; e spignendo l’uscio con una furia che mai la maggiore, entrata drento e trovata Laura nel letto, vòltasele con una rabbia che pareva che se la volesse inghiottire viva viva, le disse la più rillevata villania che mai si dicesse a cattiva femmina.
— Dimmi un poco, pessima donna che tu se’ — diceva —, chi è quello che io ho udito ragionarsi teco così di voglia? Ah, Laura, Laura, a questo modo, eh, a questo modo fanno le fanciulle da bene? Son questi li ammaestramenti che io ti ho dati? Hott’io allevata in questa guisa? Hott’io nutrita in modo che tu mi debbi far questo bello scherzo in sul viso e questo bello onore? Hai veduto far questo a me? O Dio, chi somigli tu? E’ si suol pur dire: come gli figli vuoi, così la moglie tòi. O marito mio, come sei tu stato aventurato a morirti anzi che tu mirassi cogli ochi tuoi quello che io miro testé con gli miei! O sciagurata alla vita mia, ora sì che ne può esser lieto il parentado, ora sì che se ne può rallegrar quel poverel del tuo marito, che non ti guata a mezo! Almanche sia avestù aspettato di far sì brutte cose a casa sua e che egli vi ti avesse menata così come egli vi ti crede menare! Tira via, malvagia femmina, tira via, lèvamiti dinnanzi, che io non ti voglio più per mia figliuola, vituperata, svergognata che tu se’. O Dio, che io mi poteva bene accorger d’ogni cosa, se io non fussi stata cieca affatto! Ma oimè, quando are’ io mai creduto d’una mia figliuola sì soza cosa, che appena mi può capire in animo di crederla al presente che io la ho udita con questi orechi e veduta con questi ochi! O Dio, che ’l troppo amore e il saper chente fusse stata la vita mia mi facevano travedere! Or so io la cagione perché l’altra mattina in Santo Agostino mi disse mona Andreoccia che io non ti menassi così ro<n>zando ad ogni festa; qualche cosa ne sapeva ella, e anche questo ci mancava: che ne fusser le nuove sino in città. Questa era la pratica della Agnesa così stretta, questa, questa nella mal otta! Ma crédemi, maladetta da Dio, che io te ne pag<h>erò. E forse che io non le ho dato così bel marito, così giovane e così gagliardo come un altro sia qual si voglia? Ma aspetta pur che e’ torni, che io voglio che e’ sappia queste tue prodeze e che egli stesso te ne gastighi, come tu hai meritato —.
E con queste e con altre simili rampogne faceva tanto stiamazo che e’ non lo fece mai tale una povera donnicciuola che avesse perduto il gallo e tutte le galline. Onde Laura, che mentre la madre l’aveva sgridata in questa guisa sempre era stata cogli ochi fitti in terra come se la si vergognasse, quasi di tremar mostrando così le rispose:
— Madre mia carissima, io vi confesso di aver mal fatto e chieggiovi mercé per Dio e pregovi che scusando la mia giovanezza e avendo riguardo in un medesimo tempo e a l’onor mio e al vostro, che voi siate contenta, perdonandomi per questa volta, non dirlo al mio marito, che io vi giuro per lo amor che io gli porto che mai più non farò cosa contro alla vostra voglia. E a cagione che messer Domeneddio mi perdoni questo peccataccio e cavimi di boca a Lucifero di Santa Maria de’ Servi e mi lievi un grande stimolo che io ho nel mezo de la coscienza, io intendo avanti che io dorma di confessarmi; e perciò voi sarete contenta mandare in camera vostra per quel santo frate che entro rinchiuso vi ritenete, acciò che egli sia quel che faccia questo bene —.
Or pensate, donne mie, come rimase la povera madre quando sentì così fatte parole, e se e’ le ’ncrebbe aver fatto tanto scalpore di quello che ella così vituperosamente si vedeva scoperta. E mentre che per ricoprir cotanta vergogna ella voleva dir non so che filastroccole fuor d’ogni proposito, parve tempo a messer Andreuolo, che dietro alle cortine era stato a ridere fino allora di tutto quello che era intervenuto, parendoli che a llui tocasse, come buon dottore che gli era, di decider questa quistione, uscendo fuori così a l’improviso le disse:
— Mona Francesca, che bisogna far tante parole e tante maraviglie? Se voi avete scoperta la vostra figliuola con un giovane ed ella vi ha scoperto con un frate, il giuoco è pari, e però lasciate andar XXIV danari per un soldo. Il meglio che voi possiate fare sarà, tornandovi in camera da lui, far sì che io qui con Laura mi rimanga e tutti a quattro d’una santa concordia ci godiamo i nostri amori; il che andrà così segretamente che e’ non se ne saprà mai parola per niuno; dove che se voi vorrete far le pazie, voi metterete tanta carne al fuoco che bisognarà più d’una soma di legne a far che la si cuoca, e la prima pentita ne sarete voi. Siate adunque savia e pigliate i buon partiti quando voi potete, e non dite poi: «E’ non mi fu detto» —.
Non sapeva che si dire la povera vedova per la gran vergogna e arebbe dato d’un cantone ogni danaio per potere scapolar via sanza rispondergli altrimenti. Pur a la fin considerando che egli le aveva detta la verità, tutta vergognosa disse:
— Poi che la cosa è qui e che io scusar non mi posso, io non vi dirò altro se non che voi facciate quello che meglio vi torna; ma ben vi prego, giovane da bene, che lo onor mio e di questa mia figliuola vi sia raccomandato, da poi che la nostra disgrazia ci ha accecate tramendune —.
E dette queste parole, parendoli mill’anni di levarsi lor dinanzi, se ne tornò in camera dal suo fra’ Timoteo. A la quale il giovane andando dietro non restò mai finché e’ non diede ordine che la sera medesima e’ cenassero insieme tutt’a quattro e come parenti si riconoscessero, acciò che poi più agiatamente e senza aver più temenza l’un de l’altro si ritrovassero a fare e’ fatti loro. E fu tale questo santo accordo che ciascuna delle donne se ne trovava più contenta l’un dì che l’altro. È ben vero che talvolte la mattina ragionandosi tutta due insieme, come accade, delle pruove de’ loro amanti, e’ si trovava bene spesso che il giovane era stato avanzato dal frate, ancor che e’ fusse un poco più attempatello, di più d’un colpo, in modo che Laura portava un poco d’invidia alla madre, e fecene già di gran rebbuffi al suo messer Andreuolo —.
Mosse a molte risa tutti gli ascoltanti la novella di Fioretta e molto fu tenuto accorto il pensiero della figliuola. Né vi mancò chi fortemente biasimasse la madre, a la quale per cavarsi le sue disoneste voglie non era bastato con il suo cattivo esemplo aver dato cagione alla figliuola di far male, che la gliela die’ di perseverare; e fuvi chi disse che da lei deverieno imparare le altre madri e considerare a quello che le inducono le lor figliuole con le lor cattive scede; dove che, se le vivessero come a savie e oneste donne si apparterrebbe, né cagion di male oprare né ardimento prenderieno le picciole fanciulle; imperciò che egli è verisimile cosa che se la figliuola vedrà star la madre a festeggiar su per gli usci e su per le finestre, che la non voglia star per le camere in orazione. Or poi che ognun di loro dopo questo cotal discorso si taceva, Selvaggio a cui solo restava lo obligo del novellare, sanza aspettare altro comandamento della Rigina così diede principio alla sua.
NOVELLA SESTA
Fra’ Cherubino persuade ad una vedova che doti una cappella; e’ figlioli se ne accorgono e persuadonla al contrario, e danno ad intendere al frate che l’abbia fatto testamento e niegon di mostrargnelo. Il frate li fa citare innanzi al Vicario e compariscono e, producendo un testamento da beffe, fanno vergognare il frate.
— Era lecito a colui che nel Decamerone del Boccaccio si trovava l’ultimo a novellare, quando e’ volesse uscire al tutto del ragionato suggetto che fare il potesse; laonde io, che fra voi sono il sezo, intendo ora fare il simigliante, perché lasciando le cose d’amore, delle quali s’è parlato tutt’oggi, vi voglio far rider con una novella che intervenne ad un certo frate dentro da Novarra non sono a pena vent’anni.
Voi dovete sapere che in tutti gli stati de li uomini assai manco si ritrovano dei buoni che de’ cattivi; e perciò non vi doverrete gran fatto maravigliare se fra i frati abitano spesso di quegli che non sieno così perfetti come comandano le regole loro; e oltre di questo, che la avarizia così come si è fatta donna di tutte le corti di principi e temporali e spirituali, non voglia avere un po’ di luogo nei chiostri dei poveri fraticelli.
Fu adunque in Novarra, assai nobile città di Lombardia, una donna molto rica chiamata madonna Agnesa, la quale era rimasa vedova per la morte di un Gaudenzio de’ Piotti, il quale oltre a la dote che secondo quei paesi era grande le aveva lasciati alcuni beni che la ne potesse fare alto e basso come le piaceva ogni volta che sanza rimaritarsi si voleva stare al governo di quattro figliuoli che egli lasciava di lei. Né era a pena morto questo Gaudenzio che di cotale testamento ne volò la novella al guardiano del luogo de’ frati di San Nazaro, che è poco fuor de la porta di Sant’Agabio, il quale teneva le spie a queste così fatte faccende, acciò che niuna vedovella scapasse che non si cignesse il cordiglio del beato serafico san Francesco, ed essendo delle lor pinzochere e andando ogni giorno alle lor prediche e a far fare de l’orazione per l’anima de’ suo’ passati li mandasse di buone torte alla lombarda; e accesa poi col tempo del femore de le buone opere del beato fra’ Ginepro e degli altri lor santi, si disponesse a fare una capella nella lor chiesia (dove fusse dipinta quella bella storia quando san Francesco predicava agli uccelli nel diserto, e quando e’ fece quella santa zuppa, e che l’agnolo Gabriello gli portò i zocoli), e poi la dotassero di tante possessioni che rendesser in modo che e’ potesser fare ogni anno la festa di quelle sante Stìmate che hanno tanta virtù che domine pure assai, e ogni lunedì celebrare uno officio per l’anima di tutti i suoi attinenti che fussino ritenuti alle pene del purgatorio. Ma perciò che e’ non possono tener questi beni, secondo la professione della povertà, come appartenenti al luogo, eglino hanno trovato nuovamente questo sottil modo: di possedergli come dote delle capelle o come cosa appartenente alla sagrestia, credendosi forse ingannar così ben messer Domeneddio, come alcun di loro fa <a>gli uomini tutto ’l dì, e che Egli non conosca qual sia dentro la loro intenzione e che e’ l’han fatto, come quegli che crepavano d’astio e d’invidia delle larg<h>e cocolle dei paffuti monaci, i quali, sanza andarsi consumando la vita a piedi scalzi e in zocoli predicando qua e là, con cinque paia di calcetti, in belle pantufole di cordovano si stanno a grattar la pancia entro alle belle celle, tutte fornite d’arcipresso; a’ quali, se pure è di mestiero alcuna volta uscire di casa, in su le mule quartate e in su i grassi ronzini si vanno molto agiatamente diportando, né si curano affaticar troppo la mente a studiar molti libri, acciò che la scienza che da quelli apprendessero non gli facesse elevar in superbia come Lucifero e gli cavasse de la lor monastica simplicità.
Or per tornare a casa, quel devoto guardiano fu tanto dietro a quella vedova e tanto romor le fe’ intorno con quei zocoli, che la fu contenta di farsi del Terzo Ordine, dal quale i frati cavorno poscia di buone piatanze e di sfoggiate tonache. Ma parendo lor tutto questo o poco o niente, e’ gli erono intorno tutto ’l dì per ricordarle il fatto de la cappella. Ma la buona donna, tra che e’ le sapeva male tòrre a’ figliuoli per dare a’ frati, e che l’era, come è costume universale di voi altre donne, un po’ scarsa, tenendogli nondimeno contenti di parole stava pur soda al machione. E in mentre che eglino la sollecitavano ed ella gli empieva di vento, avenne che la si infermò a morte. Per la qual cosa la mandò per fra’ Serafino (che così aveva nome il guardiano di San Nazaro) che la venisse a confessare; il quale sùbbito venne, e come più presto l’ebbe confessata, come quello che gli pareva che e’ fusse venuto il tempo de la vendemmia, le disse in atto di carità che si ricordasse di far ben per l’anima sua in mentre che l’era viva e non aspettasse che i figliuoli, che non attendevono altro che la sua morte, gnele facessero; e che la si ricordasse molto bene di madonna Lionora Caccia che fu moglie di messer Cervagio, che era pur dottore, a la quale, poi che la si morì, non è stato mai alcuno de’ suoi figliuoli che e’ si sia ricordato d’accenderle una candela pur il dì de’ morti; e che questa era poca cosa a lei che era rica; e che la serebbe non solo in utilità dell’anima sua e di tutti i suoi discendenti, ma in onor di tutta la casa; e finalmente seppe tanto ben dir le suo ragioni, che la donna si volse quasi a dir di sì e risposegli che e’ tornasse da lei il dì di poi, che di tutto la lo risolverebbe.
In questo mezo un de’ suoi figliuoli, il mezano, chiamato Agabio, avendo avuto non so in che modo fumo di questa cosa, la disse agli altri frategli, i quali per chiarirsene meglio pensorno che e’ fusse bene il dì vegnente, se il frate vi ritornava, mettere un di loro sotto al letto a cagion che gli intendesse tutto il convenente. E così l’altro giorno essendo venuto fra’ Serafino per conchiudere il mercato, Agabio, aiutato da loro, se n’entrò sotto al letto della madre, donde sentì che ’l padre guardiano, non pensando d’essere udito, tanto le fu di nuovo intorno, tante ragioni addusse, tanti dottori allegò e tanta paura le fe’ de le pene del purgatorio, che la si dispose a voler lasciare dugento lire di contanti per l’edifizio e per gli ornamenti de la cappella e cento per fare i paramenti, i vasi e le altre cose necessarie da dir la messa, e per dotta di quella, a cagione che e’ vi si facesse ogni anno una festa e uno officio per i morti e ogni dì vi si dicesse una messa, la metà d’un podere pur non diviso che l’aveva a Camigliano a canto a la gogna, che valeva in tutto più de tremilia lire; e rimasti d’accordo del titolo e degli uficii e di tutto quello che faceva mestiero, il frate si dipartì. E partito che e’ fu, Agabio, senza che la madre di niente si accorgesse, si uscì di sotto il letto e referì tutto quello che aveva udito agli altri frategli, i quali senza alcuno indugio con certi altri lor parenti se n’andorno dalla madre e con destro modo la distolsero da così fatto pensiero. Comunche Agabio ebbe veduto che la madre era contenta di lasciare andar l’acqua a la ’ngiù, e’ pensò di voler um-po’ di baia del guardiano, e prestamente ebbe a sé un fante di casa e lo mandò da parte de la madre a dirgli che e’ non venisse più per niente a casa sua a solicitarla, né a ricordarle quella cosa che e’ si sapeva; imperò che i suoi figliuoli, che si erano accorti del tutto, avevano diliberato, se egli vi capitava, fargli dispiacere; con tutto ciò che egli stesse di buona voglia, perciò che la non restarebbe per questo di fare quanto e’ gli eron rimasti d’accordo; e però sùbito che e’ sapesse che messer Domeneddio avesse fatto altro di lei, che e’ se n’andasse da ser Tomeno Alzalendina, al quale la farebbe rogare il testamento, e faccendo d’averlo, mandasse la cosa ad esecuzione.
Andò il fante e con diligenza fece la imbasciata in modo che fra’ Serafino non vi ritornò altrimenti; ma avendo in capo di pochi dì inteso che madonna Agnesa, sopravenuta da non so che accidente, aveva renduto lo spirito a messer Domeneddio, sùbito se n’andò a trovar ser Tomeno e gli chiese questo testamento. Ser Tomeno, che di già era stato avisato da Agabio di quanto avesse da fare, prestamente gli rispose che egli andasse a trovare Agabio, il quale il dì davanti lo aveva avuto in pubrico; onde il frate senza repricar parola se n’andò da lui, e poi che e’ gli ebbe fatto il dovuto cordoglio, gli chiese di veder questo testamento. Alla quale dimanda Agabio non diede altra risposta se non che e’ disse che si maravigliava molto del fatto suo, che gli andasse cercando quello che non si gli apparteneva; e volendo il frate repricar non so che, e’ gli disse che e’ se gli levassi dinanzi e andasse a fare i fatti suoi. Per la qual cosa il buon fraticello, non sbigottito mica per questo, anzi credendosi che ’l testamento dovesse esser molto al proposito suo, sanza repricare altro se n’andò a trovare un certo messer Nicola, che era procurator del convento, e fattogli por cinque soldi in mano da un suo fattore gli raccomandò molto strettamente questa faccenda. Messer Nicola sanza pensar più oltre fece sùbito citare ser Tomeno inanzi al Vicario del Vescovo a dover dare la copia di questo testamento; il quale, come più presto ebbe avuta la citazione, se n’andò da Agabio e gli narrò come passavono le cose. Per che Agabio, che non cercava altro che questo, insieme con ser Tomeno andò a trovare il Vicario del Vescovo, il quale era molto suo amico, e gli narrò tutto quello che era stato insino a qui e quanto aveva disegnato di fare ogni volta che e’ se ne contentasse. Il Vicario, che naturalmente come prete non era troppo amico dei frati, gli disse che era molto contento; sì che il dì da poi, venuta l’ora delle comparigioni, eccoti venir fra’ Serafino e il suo procuratore, i quali con grande instanzia chiedevono questo testamento. Alla cui domanda faccendosi inanzi Agabio disse:
— Messer lo Vicario, io son molto ben contento di produrlo dinanzi a la Vostra Signoria, con patto che tutto quello che vi si contiene dentro sia osservato in piena forma da tutti coloro che vi si trovano nominati, tochi a chi vuole e abbi nome come e’ vuole.
— Questa cosa va per i piedi suoi — rispose il Vicario —; imperciò che le nostre leggi dispongono che quello che sente i commodi debba eziandio sentire gl’incommodi. Producilo adunque, che così è il debito de la ragione —.
Per le quali parole Agabio, trattosi di seno un certo scartafaccio, lo dette al notaio del banco dicendogli che lo leggesse, ed egli così fece; il quale poi la instituzion degli eredi e certi altri legati messivi per dar più fede a l’oste, ei lesse quella parte che era appartenente al frate, la quale cominciava in questo modo:
«Item per rimedio della roba de’ miei figliuoli e per salute di tutte le vedove di Novarra, voglio che con quel de’ medesimi mie’ figliuoli e con le lor proprie mani sia dato a fra’ Serafino, al presente guardiano del convento di San Nazaro, cinquanta scoreggiate, le migliori e nel miglior modo che e’ sapranno e potranno, acciò che egli con tutti gli altri suo’ pari si ricordino che e’ non è sempre bene persuadere le semplici donnicciuole e i poveri omicciatti a diseredare e impoverire i figliuoli per fare riche le cappelle» —.
Non poté il notaio per le gran risa che si levarono ad un tratto per tutta la Corte finir di leggere quanto era ordinato; e non domandate la baia che tutti quei ch’eron dattorno cominciarono a dare al povero guardiano, il quale, veggendosi rimaner col danno e con le beffi, voleva pigliar la via verso il convento con pensiero di farne un grande sti<a>mazo appresso la Siede Apostolica. Se non che Agabio, avendol preso per la cappa e tenendol forte, gridava:
— Aspettate, padre; or dove andate voi così presto? Ec<c>o che io son contento per la parte mia adempiere tutto quello che si contiene nel testamento —.
E voltosi verso il Vicario, tenendo pure il frate stretto per la tonaca, seguitava:
— Messer lo Giudice, fatelo levare a cavallo, che io intendo sadisfare allo obligo mio, altrimente io mi dorrò de la Signoria Vostra e dirò che voi non mi avete fatto ragione —.
Ma parendo oggimai al Vicario pur troppo di quello che s’era fatto insino allora, avendo anche perciò, e meritatamente, um-po’ di riguardo al grado che teneva e a lo Ordine dei fra’ Minori, voltosi verso Agabio mezo ridendo gli disse:
— Agabio, e’ basta la tua buona voluntà; ma il padre fra’ Serafino, considerando che questa eredità o vero legato sarebbe dannoso al convento, non lo vuole accettare, e non volendo tu non lo puoi forzare; sì che lascialo andare —.
E con le miglior parole che e’ puoté gli dette commiato. Il quale, come più presto ne ebbe agio, pien di mal talento se ne tornò a casa, dove stette parechi dì che e’ non si lasciò rivedere per la vergogna, né mai più confortò donne vedove a lasciare alle cappelle e quelle massimamente che avevono i figliuoli grandi, per la paura e per le braverie de’ quali e’ gli fu forza sopportarsi in pace così gran beffe; abenché, secondo che mi disse già un de’ lor frati, quel Vicario ne fu per avere il malanno e costògli più di cinqu<e>cento fiorini —.
Fatto che ebbe fine Selvaggio a le sue parole, furon tante le risa che abbondorno a tutta la brigata che niuno ebbe agio di parlare una parola; se non che Bianca, a la quale primieramente elle cessarono, pur gli disse:
— Qualche mala penitenza ti debbono aver dato questi frati poiché tu gli hai trattati così male con questa tua novella; ma sai quello che io ti voglio dire? Se tu capiti loro a le mani da qui inanzi, se e’ non se ne vendicano, come si dice, a misura di carboni, di’ che io non sia la Bianca; e ricòrdati che tristi o buoni che e’ si sieno, e’ non istà bene a voi a dirne male —.
— Detto è, se danar ne va — rispose il Plozio allora —; ma lasciando per or questo parlare, tempo è, se io riguardo bene al sole, il quale ha tuffati già la metà de’ capegli nel mar di Spagna, dove e’ piaccia a la Reina che noi ce ne ritorniamo a la nostra magione, ché, come voi sapete, l’aria de la sera, e massimamente ne’ luoghi bassi, non suole essere gran fatto sana —.
A le cui parole la Reina, insieme con tutti gli altri obedendo, senza altro dire verso il poggio prese il cammino; e mentre che con lenti passi e’ seguitavano il lor viaggio, Fioretta domandò Selvaggio qual potesse esser la cagione che l’aria de la sera non fusse sana (come che esser doverebbe sanissima), con ciò sia cosa che i raggi del sole abbino il giorno avanti possuto per lungo spazio diseccare la umidità, la quale suole esser potissima cagion che ella così buona non sia; e inoltre perché più ne’ luoghi bassi che negli alti la dimostrasse la sua malvagia natura, avenga che negli alti la sia più sottile e conseguentemente più penetrativa che ella non è ne’ bassi, dove ella è più grossa e in conseguenza manco penetrativa. A la cui domanda Selvaggio, così mezo affannato per lo salir del poggio, rispondendo disse:
— Fioretta, tu medesima ti risolvi la tua questione dicendo che la umidità de l’aria soglia esser cagione de la sua malvagità, la quale umidità, violentata il giorno davanti dal sole, è stata forzata nascondersi entro a la massa de la terra per fuggire il suo calore come a lei contrario e inimico; ma il sole non si è più presto da noi fatto lontano che ella, sentendo essersi partito il suo aversario, senza pensare che e’ gli abbi lasciato munizione in alcuno luogo, si sforza di rientrare nel suo stato e con una presta scorreria lo ripiglia. E perciò vedrete sempre mai al tramontar del sole e specialmente ne’ luoghi umidi, dove ella si fa più forte, l’aria empiersi di nebbia e di mille altri vapori grossi e umidi, li quali poscia, ritrovando lo aere riscaldato esser pien di soldati lasciati dal sole del passato giorno, bene spesso si vengono risolvendo. E perché i nimici si son messi in fuga, perciò aviene che lo aere de la meza notte è manco nocivo che non è quello della sera. E se tu mi domandassi per che cagione la mattina in sullo apparir del giorno la ritorna in quel medesimo essere che la sera, io ti risponderei che questo aviene per rispetto de’ nuovi soldati, che dai vapori dell’acqua e della terra levandosi insieme con quella schiera che manda in aiuto la umidità che vien da la spera de la luna, vengono per occupare questa nostra regione; i quali sempre che il sole con suo valore non gli discaccia, discorrendo per queste regioni come in cosa lor propria rendono lo aere nebuloso, freddo, umido e nocivo come era quel de la sera. La cagione per che più ne’ luoghi bassi che negli alti lo aere maggiormente ne offende è la medesima umidità, con ciò sia cosa che i vapori sien più grossi e più umidi ne le valli e ne’ piani che in sulle cime de le montagne; e questo aviene per duo rispetti: il primo è per le acque, che sogliono essere abbundanti per le pianure, le quali per lo più generono i detti vapori; e però vicino a la marina, ai lag<h>i e a li stagni suole rare volte accadere che la stanza vi sia molto salutifera; il secondo è che i detti vapori son manco purgati dai venti; dove ne la sommità de’ poggi, se ben lo aere vi è più sottile e per tal cagione più penetrativo, con tutto ciò per esser più lontano da la frigidità de l’acqua e più purgato da’ venti e più vicino a la region del sole, è necessario confessare che egli sia più secco e però contenga in sé molto minor nocumento —.
Voleva Fioretta, non contenta forse delle già dette risposte, domandarlo perché essendo l’aria de le alpi maggiormente vicina al sole che non è quella de le più basse campagne, la sia più fredda, come che esser doverebbe il contrario, essendo il giogo di quelle più propinquo al caldo del sole che non sono le già nominate campagne; se non che e’ le mancò il tempo, ché prima erono arrivati a casa che il Plozio fusse pervenuto al fine de le sue parole; dove essendo in punto la cena, fu immantenente data l’acqua a le mani, e messisi a tavola allegramente cenarono.
Essendo già venuto l’ultimo de la cena e mostrando Bianca che e’ le dolesse lo stomaco, disse che la insalata le aveva fatto male, e dettene la cagione al bassilico del quale l’era piena, e soggiunse:
— Deh, come mi è poco cara la sanità, poscia che veggendo io ogni volta che io mangio di questa maladetta erba che e’ mi si conturba tutto lo stomaco, io non mi so tener di mangiarne; ché non solo egli è nimico de lo stomaco, ma al fegato, al cervello e alla vista. Io mi ricordo aver già letto che gli è tanta la sua malvagità che, tritandone alquante foglie e mettendole sotto a qualche sasso, che e’ se ne ’nge<ne>ran gli scorpioni; e che chi altretante ne masticasse e poscia le mettesse al sole, che e’ le vedrebbe, con reverenza de la tavola, divenir quegli animali che si criano entro ai capelli; e più: scrivono alcuni che se un fusse morso da uno scorpione in quel giorno che egli ne avesse mangiato, che gli è impossibile che e’ guarisca. Vedete adunque quanta pazia fanno gli uomini non voglio dir solo ad usarlo, ma a sopportar che entro alli orti ne apparisca pure una foglia —.
Già si taceva Bianca, quando la Reina, accorgendosi che il dolor de lo stomaco le era passato in parte, per appiccar seco un poco di disputa le disse:
— Bianca, se tu avessi biasimato il modo che noi teniamo a mangiare il bassilico non il bassilico in sé, il quale è erba ottima e salutifera, io te ne averei lodato; ma ora io non so che mi ti dire, parendomi che questo tuo parlare non sia stato ad altra fine che per biasimare i doni de la natura, la quale così lo ha creato a nostra salute come la si abbi fatto la malva e la brettonica e le altre erbe medicinali. Biasimerai tu, dimmi (e non mi riprendere se io te allego uno esempio usato già mille volte), un coltello che è stato fabricato per tagliar il pane, quando con quello qualche malvagio uomo averà ucciso un altro uomo? Non, se tu sarai di sana mente; anzi biasimerai colui che niquitosamente lo ha tratto fuor de lo uso suo. Or così interviene nel caso nostro, ché noi non doviamo biasimare il bassilico quando e’ ci fa male, ma noi medesimi che lo caviamo fuor di quello uso per lo quale lo ha creato essa natura. Quale è quella erba così virtuosa che non possa alcuna volta farci male, se troppo o poco pigliandone o in non conveniente modo usandola noi ci discostiamo da le regole che vi ha posto su l’arte de la medicina, o per dir meglio essa natura?
— E quali sono le virtuti che ha questa erba? — disse Bianca udendo il parlar de la Reina —. Ché io averò tanto più caro saperle quanto io non udii mai uomo alcuno, salvo che voi, che la lodasse o che l’avesse per erba medicinale; e io per esperienza ho veduto molte volte, a mio malgrado, che egli mi ha fatto di tristi scherzi.
— Io mi ricordo — soggiunse alor la Reina — quando io era picciola fanciulla venirmi una frigidità di stomaco sì grande che io non digestiva cosa che io mangiassi, e fummi insegnato o, per dir meglio, fu insegnato a mia madre da un valente medico che la prendesse una gran menata di questa erba e la cocesse dentro al vino (avenga che il mosto sia migliore possendosene avere), e poscia prendendo quella decozzione e mescolandola con il vin bianco me la desse a bevere; la qual cosa mi fece in breve tempo tanto giovamento che io non ve lo potrei mai dire. Io vi prometto che e’ mi si acconciò in modo lo stomaco che io avrei smaltito i diamanti; de la qual medesima decozzione una mia vicina che sentiva difetto di matrice facendosene fomentazioni se la trovò tanto buona che fu una maraviglia. Son molte altre infirmità a le quali ora il seme, ora i gambi e ora le foglie fanno perfettissima operazione, le quali, per non voler far del medico affatto affatto, lascerò andare per ora, bastandomi averti mostrato che e’ non sono da riprendere coloro che ne’ loro orti il veggiono volentieri —.
Tacevasi la Reina per non voler più sopra il bassilico ritornare, quando ’l Corfinio ridendo volse anch’egli mostrare una ottima pruova e disse:
— Avanti che io prendessi moglie aveva una certa innamorata, assai più utile che pomposa, la quale dopo che questo amorazo fu durato un pezo cominciò avere alcuna fiata quel travaglio di stomaco che sogliono aver coloro che con debile natura mangiono troppo avidamente le radici, in modo che e’ gli era una compassione a sentirla; e fra le altre virtù che avevono quelli così fatti romori era uno odor si gentile che e’ pareva a punto che gl<i> uscissero d’una sepultura.
— Grande piacer dunque ti doveva essere il ritrovartela a presso, poi che ell’era così odorifera — disse Bianca udendo il suo parlare —; ma séguita quello che fusse di questa tua lieta spesa e guarda che volendo lodar il bassilico tu non facci peggio che non ho fatto io.
— Dico — seguitò il Corfinio allora — che durandole questa infirmità parechi settimane, io ne ebbi il parer di più persone e finalmente mi fu insegnato che io le facessi pigliar del bassilico cotto col vino una volta il giorno, imperciò che e’ le levarebbe certe materie grosse e indigestibili che l’aveva in su lo stomaco, le quali le generavono quelli cotali accidenti, e inoltre le farebbono il fiato tanto odorifero che altri non averebbe per male esserle a presso. Io le ’nsegnai questa medicina ed ella, disiderosa di guarire, la fece; e fu propriamente la man d’Iddio, però che in men d’un mese quegli accidenti andaron via e il fiato acquistò uno odor com’un moscado; e vogliomi ricordar che e’ mi fusse detto che io pigliasse di quel minuto e non di quello che ha le foglie larg<h>e.
— Non ti maravigliar, Corfinio — rispose la Reina a questo —, che i medici per salvar questa tua buona derrata ti facessero prendere di quello che ha le foglie minori; imperciò che questi erbolari dividono il bassilico in due specie: de la una è cotesto di che hai parlato tu, il quale e’ chiamano cherofanato, per quanto io m’immagino, da lo odor che gli ha simile ai g<h>erofani, e questo è quello che è medicinale; lo altro perciò che egl<i> ha le foglie larg<h>e e simili al cedro è addimandato cedrario: e questo sì che, secondo la openione di Bianca, sarebbe da sbandirlo degli orti, però che i medici non se ne servono in medicina veruna, anzi dicono che gli è stato fatto venire a questa grandeza non da la natura ma da l’arte degli ortolani. Sono alcuni eziandio che ci aggiungon la terza specie e dicono essere quello il quale non è in tutto con le foglie minute né anco l’ha co<s>ì larg<h>e come il cedrario; e perciò che ogni mezo participa, come voi sapete, degli estremi, egli è da credere che questo che è di questa specie participi del cedrario e consequentemente del nocivo e perciò non vogliono che noi lo usiamo ne le medicine. Ma pigliando quello di che avemo ragionato, cioè il minuto, e usandolo come vogliano i medici or col vino, or con l’olio, or con l’acqua rosata, or in decozzione, or in lattovare secondo che ricercano le qualità de le malattie, è da tener per cosa fuor d’ogni dubbio che ’l sia salutifero e medicinale. Che dirai tu, Bianca, adesso del bassilico, poi che tu hai veduto che gli ha guarito la innamorata del Corfinio? — E poi si tacque.
— Dico — rispos’ella ridendo — che se non avesse mai fatto altro ben che cotesto, che io non ne voglio più dir male alcuno —.
Onde la Reina, veggendo che la ’nsalata del bassilico era fornita, voltasi verso Bianca, perciò che e’ non mancasse vivande per fornir la cena la pregò che fusse contenta d’esser quella che mettesse in campo il soggetto sopra del quale si avessero a compire le fatiche di questa lor prima giornata, e inoltre dicesse sopra che materia s’avessero il dì di poi a recitare le già ordinate canzoni. Fece gran resistenza Bianca, anzi non voleva per modo alcuno accettar questo carico: se non che ella, più presto turbata che no, le disse queste parole:
— Troppo bene avrei saputo io ricusare il peso di reggervi sei dì interi se io avessi creduto poterlo fare senza che voi lo prendeste in dispiacere, da che altri non si reca a vergogna schifare quello d’una minima particella d’un giorno. Ma questo lo fa Bianca per mostrarmi quanto follemente io presi ardire a pigliarmi questo imperio —.
— Ah! — disse Bianca, alora venuta nel viso per gentil vergogna com’un fuoco —, madonna, voi avete il torto a dir così fatte parole verso di me che mai non ebbi un minimo pensier di voi che non fusse volto ad onorarvi; e quando voi consideraste che più fatica sarà a me questo poco che voi m’imponete che io faccia che non sarebbe a voi il governarci sempre che noi vivessimo, mi giudichereste degna di perdono. Pur sia quello che a voi piace, ché io son sempre apparechiata a li vostri comandamenti. Leviamoci adunque da tavola e andiamo in camera vostra, dove io voglio che ciascun di noi sia obligato recitar brevemente una risposta con la quale alcuna donna abbi saputo dimostrare e pronteza d’ingegno e arguzia nel rispondere. Il suggetto de li versi di domani sarà questo: che voi uomini direte tre sestine, le quali parlino della belleza di qualche leggiadra donna, e noi altre reciteremo tre ballate in onor de le virtuti e bellezze d’alcuno amoroso giovane —.
E a pena aveva queste ultime parole fornite che, levatasi da sedere, la fece scorta a tutti li altri; i quali ridotti in camera de la Regina, domandarono Bianca chi avesse a dar principio a così fatte risposte; a’ quali ella disse che a colei toccava (e così poi seguissero gli altri di mano in mano) che era stata la prima a novellare.
— A me dunque toca — disse la Reina — d’esser la prima, se io so ben fare di conto, e io adunque comincerò —. E con lieto sembiante così disse:
— Trovandosi un giorno fra una brigata di gentil donne un giovane chiamato Cesare Pierleone, uomo di più parole che fatti, a ragionar come si fa, e’ cominciò molto avilir la condizione di noi altre e a lodar quella di voi uomini fino al cielo; e quando egli ebbe fatto sopra di ciò una lunga diceria, voltosi ad una madonna Paloza Arcione che era fra coloro disse: «Ditemi il vero, madonna Paloza, non vorreste voi più presto essere un povero uomo che una rica donna?» «Alla fede no — rispose sùbito madonna Paloza —, se tutti gli uomini fussero fatti come sete voi». Fu di tanta possanza questa risposta, che al povero giovane non parse mai d’esser uomo da vero fin che e’ non si levò del cospetto di quelle donne, da le quali egli imparò quel proverbio per esperienza che dice che e’ non si debba mai mordere niuno che abbia da renderti con i denti il contraccambio —.
Poiché la Reina spedita de la sua risposta si taceva, Folchetto così principiò:
— Non fu gran fatto che una gentil donna facesse amutolire un cotal sempliciotto come doveva esser quel Cesare Pierlioni, perciò che egli è usanza di questi giovanastri di esser molto timidi con voi altre; ma miracolo mi pare che una povera fante facesse star cheto un cavalier napolitano, come io voglio fare udire al presente. Aveva un cavalier napoletano chiamato messer Cola Siripanni una fante fra l’altre, la quale, benché parlasse male, non aveva questo per il suo principal difetto, perciò che ella udiva peggio; e avendole detto messer Cola un dì non so che parole ed ella dicendo non l’avere inteso, egli era sul disperarsi; ed entrato in collera le disse: «Tu non m’intendi mai; e che diavol vuol dir che io intendo te, quando tu parli tu?» A cui la donna rispondendo, detto fatto disse: «Dee voler dire che io parlo meglio di voi; che volete voi che e’ voglia dire altro?». «Tu hai ragione» disse il cavaliere; e non sappiendo altro che si li dire, per lo migliore si tacque. E così farò io, che voglio dar luogo a Bianca, che sta apparechiata per dircene una bella come è ella.
— Veramente fu arguta la risposta de la tua fante, Folchetto — seguitò Bianca —; ma se egli fusse stato a me, io l’averei detta in cucina, perché e’ mi par che la ne sappia un poco. Ma perché questo odore non ci facesse venire appetito di mangiare or che noi abbiam cenato, io ve ne voglio dire una d’una villanella che non parrà mica che esca di contado, anzi vi parrà che getti odore de le più famose scuole degli Ateniesi; e udite quale. Arriguccio Gualterotti, nostro fiorentino nobile e ricco molto, s’innamorò fieramente d’una figliuola d’un suo lavoratore, la quale il più dei suoi dì con animo da reggere ogni imperio soleva scalza e quasi ignuda guardare un picciol branco di pecorelle. E fu tanto lo amor che e’ le pose che, conoscendo la ascosta virtù di costei, a dispetto di quanti parenti e amici ch’egli aveva e’ la si prese per moglie. Né prima fur fatte le noze che la madre d’Arriguccio come una buona donna che e’ l’era avendole cominciato a voler ben da figliuola, un dì ragionando seco, come interviene, cadde in queste parole: «O figliuola mia, come domin potevi tu mai sopportar così misera vita com’era quella che tu sopportavi a casa di tuo padre?» A cui la fanciulla tutta umile rispose: «Con quella allegreza e con quel cuore piaccia a Dio, la mia madonna, che io il presente stato trapassi come lietamente il preterito mi sopportava!» Risposta veramente conveniente a le felicità di questo mondo. Parvi che questa fusse parola degna d’uscir de la boca d’una guardiana di pecore? Ma come spesso sotto a soza cenere diace fuoco che farebbe lume ad una città se e’ si suscitasse, così, come ben disse oggi ’l Corfinio nel fine de la sua canzone,
ben spesso roza gonna
cuopre leggiadra donna.
Ma di’ ormai, Celso, la parte tua, che e’ non è tempo di allungare i nostri ragionamenti in così alte considerazioni —.
Onde egli così prese il suo parlare:
— Troppo fu quel che noi filosofa<m>mo questa mattina senza voler anche testé riandar così sassosa strada; entriamo adunque per quella donde ci eravamo partiti e riserbiamo ad un’altra volta la considerazione di questo mondo, il quale, benché abbi molti che lo disprezino, non ha imperciò molti che lo fugghino. Quando io era a Siena per apparar leggi, una mattina fra l’altre tornava da San Dominico di Camporeggi una madonna Ginevra de’ Forteguerri maritata in casa e’ Tolommei, donna veramente aveduta e gentile; e quando la fu a l’uscio de la chiesa de la Sapienza, veggendo venire un porco legato per un piè verso di lei disse ad una fante ch’era seco: «Tirianci un poco qua in questa chiesa, finché questo animalaccio passi, che io per me ho paura de le bestie che non parlano». Io che a punto mi trovava quivi presso, volendo far del saccente vòltomile dissi: «Ditemi un poco, madonna: e qual son le bestie che parlano?» Non ebbi così presto finita la parola, che la accorta giovane mi rispose: «Siete una voi, messere». Quale io rimanessi voglio che voi lo giudichiate da per voi, ché so che sentenzierete che per un pezo e’ mi paresse essere una bestia da dovero.
— Così si fa a chi va stuzicando il formicaio — disse Fioretta, veggendo che veniva il luogo suo —. Se voi lasciaste andare le povere donne pe’ fatti loro e non deste lor tutto ’l dì tanti bottoni, egli non v’interverrebbono simil cose. Ma perciò che e’ mi pure incresce di te che mi se’ fratello, io voglio veder se io posso far le tue vendette col dirne una che fece una nostra fiorentina ad un giovane sanese più tempo fa. L’anno del Giubileo andava a Roma a la perdonanza una mona Selvaggia di Neri Foraboschi, e fra gli altri che l’aveva con lei era un suo famiglio che era in su ’n un caval vetturino, il quale oltre agli altri difetti era cieco da un ochio. Or passando costor per Siena, quando e’ furon vicini a le case di quei Piccoluomini, un giovanetto della terra che era in sull’uscio veggendolo disse ad un che gli era da canto: «Mira, quel cavallo è fiorentino». La Selvaggia, udendo costui così parlare, gli domandò de la cagione; a cui egli senza pensar più oltre rispose perciò che gli era cieco. A cui la donna, come a chi parve esser trafitta sul vivo, disse: «Giovane, tu erri, imperò che questo cavallo è sanese, né puote per modo alcuno essere fiorentino». «Come sanese?» rispose il giovane ridendo, come se di lei si facesse beffe, «e perché?» Ed ella: «Perciò che e’ gli è una bestia». E senza dire altro, dato di sproni al cavallo lasciò il povero giovane peggio che un caval vetturino; e così imparò ne la sua terra a beffare i forestieri e specialmente le donne, contro al costume in verità di tutti i Sanesi, i quali, come gentili che e’ sono, han sempre avuto per costume di accarezare ognun che capiti a casa loro —.
Taceva Fioretta, e ognuno pareva che dicesse al Plozio che seguitasse, quando egli così disse:
— Quel privilegio che io usai ne le novelle, quel voglio eziandio usare ne le risposte, e di quella medesima materia parlare; séguamene poi secondo Bianca quella penitenza che seguir ne vuole. Voi avete dunque asapere che mentre una madonna Castora degli Alamanni, come è usanza di voi altre Fiorentine la state, si stava a cucire in sull’uscio, venne un frate di Santa Croce a chieder del pane, e in quel mentre che la fante andò per esso il frate cominciò a raccontarle come il dì davanti era rovinato il tetto della lor chiesa e soggiunse: «Oh, come fu gran miracolo che niuno de’ nostri frati vi si ritrovasse, che veramente Iddio e il beato Santo Francesco ci aiutarono!»; a cui la donna, come a chi incresceva troppo la sua ipocresia, rispose senza altro pensare: «Gran mercé che non rovinò il tetto di cucina, che e’ n’arebbe colti sotto più d’un paio». Tacquesi il buon frate poscia che egli s’avide che la sua ipocresia non aveva aùto luogo con la valente donna, e mill’anni gli parve di aver preso il pane per andare da una più semplice che prestasse fede a le sue filastroccole —.
Rise ognuno de la risposta di madonna Castora e fu avvertito ’l Plozio che non dovesse così apertamente riprendere i religiosi; e sarebbesi sopra di ciò fatto un lungo ragionare, se non che essendo già passata l’ora d’andarsi a riposare, per ordine de la Reina ognun ebbe agio d’entrarsene a la suo camera. E così diedero fine ai ragionamenti e a le oneste fatiche de la lor prima giornata.
FRAMMENTI DEI RAGIONAMENTI
(GIORNATA SECONDA)
NOVELLA QUINTA
Suor Appellagia, riducendosi in cella quando l’altre facevano orazione, trova un rimedio singolare alle tentazioni della carne; il quale non piacendo all’abbadessa, ella n’è perciò licenziata del monistero.
Era a Perugia, ed è ancora oggi, un munistero assai ricco e di nobili donne perugine ripieno, il quale assai si era allontanato dalla regola del lor padre san Benedetto, imperò che la maggior parte delle suore, e forse tutte, essendone non di meno d’accordo con la badessa, attendevano a procacciarsi di quei piaceri de’ quali o l’ingordigia delle dote o l’avarizia de’ padri o ’l prendere parte delle madri o dispetti delle matrigne o altri simili accidenti ne le avean private; ed eran venute a tale che pareva che in ogni altro luogo più convenevolmente si dovesse ritrovar la onestà che in questo munistero; in modo che ’l Vescovo fu costretto, più per il romor che più e più volte ne gli fecer quei della terra che per alcuna particolar sua cura o diligenzia, trovar qualche rimedio a questa loro così lorda vita. Per che e’ diede ordine che una parte di loro fusse cacciata via, e quelle massime che invecchiate nel male eran poco atte a rientrar nella buona strada; un’altra parte ne ristrinse, e parecchi così secolari come di altri munisteri di più provata vita ve ne mise di nuovo; fra le quali fu una veneranda vecchiona che più di quaranta anni era stata nel munistero di Monte Luci con grandissimo odore de santità, la quale egli prepose al governo di tutte e fecela lor badessa; la quale e con nuovi ordini e con fare osservare i vecchi, con lo essempio e con le buone ammonizioni fece in modo che la ridusse quel munistero ad una convenevole osservanza. Aveva fra le altre constituzioni fatto questa badessa che là fra la nona e ’l vespro, al tocco d’una certa campana che ella a sommo studio faceva sonare, ciascuna monaca ogni dì fusse obligata andarsene in chiesa o in cella o dove meglio in acconcio le veniva, e quivi almeno per una mezza ora stando in orazione pregar Messer Domenedio che levasse lor ogni mala tentazione che potesse lor far sentir la carne; e colei che ella più fervente a così fatta opera vedeva, ella la giudicava di volontà di viver meglio che alcuna altra persona, come quella che pensava (e nel vero non pensava male) che, tolto via questo stimolo, le altre cose sarebbono passate di là da bene.
Ma come poco durano le cose violenti e come è facil cosa alla mal’acqua ritornare allo antico corso, avvenne adunque che fra le altre di prima che vi eran restate fu una suora Appellagia, la quale, essendo giovane e bella, non poté durar molto a pascer l’appetito suo già corrotto con campane e con orazioni. Imperò che, essendo stata inamorata fino innanzi le riformagioni d’un giovane Perugino nobile e ricco molto e favorito grandemente di Giovan Paolo Baglione ed egli di lei, e’ gli avevan tanto saputo fare che assai sovente si ritrovavano insieme in cella della monacella i bei tre e quattro dì per volta che voi mai vedeste, e così segretamente che impossibile era quasi che niuna se ne accorgesse. E perché la non poteva star tutto quanto il dì serrata in camera con lui come ella arebbe voluto, e per non far dimostrazione e accadendole eziandio per le bisogne del munistero star pel convento con l’altre suore, come la udiva quella benedetta campana ella se ne correva alla cella con la scusa dell’orazione, che pareva che ella andasse a gloria; in modo che la badessa, che mai non si era accorta di cosa veruna, veggendola così pronta a questa intenzione ne aveva la migliore openione del mondo. In modo che accadendo un giorno tra gli altri che una delle monache di prima essendo andata nell’orto a cogliere un poco d’insalata per mandare ad una sua parente e cominciando a sonar la campana della tentazione, la buona monaca per paura che ’l fattor non se n’andasse senz’essa lasciò stare l’orazione e attese a fornir d’empiere una sua sportellina; della qual cosa ne fur subito portate le novelle alla Badessa, la quale, aùtala a sé, gnene fece un romor che pur domine; e fra l’altre cose che la le disse e che più le cosse fu che la ’mparasse dalla Appellagia, la quale non si trovava mai in faccenda alcuna così importante che la non la lasciasse sùbito che la sentiva dare in quella campana. Quando costei, che conosceva i polli del convento forse meglio che la badessa, si sentì rimproverar suor Appellagia, non ne volse e tutta adirata disse tra sé: «Per certo che egli mi convien vedere donde nasce questo tanto fervore e questa tanta divozione; qualche gatta ci cova; che sì ch’io scoprirò qualche tegolo, se io mi ci metto! In fine io mi son deliberata di vedere quello che ella va a fare in cella. Lascia, lascia venir domani, e che sì che io do da ridere a tutto questo convento!» E così dicendo, tutta piena di mal talento aspettava che il dì seguente venisse l’ora della campana della tentazione. La quale venuta, la mala monaca come più tosto vidde correr suor Appellagia alla sua cella a fuggire la tentazione, accostatasi all’uscio pian piano e fatto con una punta d’un coltello un pertugio in una certa fessura che di dentro era riturata con la carta, s’accorse che la savia giovane aveva trovato il vero modo per fuggire la tentazione; per che tutta allegra, senza far romore alcuno, se ne venne dalla badessa, e raccontole come passavan le cose la menò a vedere tutto il convenente.
Io non vi potrei mai dire il dolor grande e la perturbazione che prese la povera badessa quando intese così soze cose; e ben le parve aver perduto il tempo e la fatica che ella aveva speso in tante riformagioni; per che montata in sulle furie e andatasene alla cella dell’Appellagia e fattosi aprir l’uscio per forza, entrò dentro; e veduto con gli occhi quello che forse non aveva per lo adietro fatto col pensiero, quasi per il dolore volse cader per terra. Poi rivoltasi alla monicella, le disse una delle più rilevate villanie che mai a simil donne in così fatti casi ritrovate si dicessero.
— Dunque questa era la cagione, pessima femina, figliuola del diavolo, della tua divozione? E per questo così volontarosa correvi a rinchiuderti nella tua cella, femina di mondo, carnalaccia vituperata? Dunque gli amaestramenti dàtiti, le prediche fàtteti, le nuove riforme hanno fatto così bel frutto? Dunque mi sono uscita di Monte Luci per veder tanto vituperio, per veder con gl<i> occhi miei quello in due mesi che colà mai non compresi col pensiero in quaranta anni? Cessi Iddio che io ci voglia più stare e che mi basti mai l’animo di dimorare in luogo dove il nimico d’Iddio abbia tante forze e tanto ardire! —
E avendo detto queste e altre simili parole alla giovane, non volse dire altro a quello che era con lei, come quella che molto bene lo conosceva e sapeva che egli non era uomo che temesse grattatic<c>i; se non che e’ si ricordasse di quanti giovani erano capitati male a’ dì suoi per aver voluto fare così brutto oltraggio a Messer Domenedio; e che stesse di buona voglia, che egli aveva offeso tale che arebbe troppo bene il modo a vendicarsi. Poi, voltasi un’altra volta alla suora, soggiunse:
— Ma di questa trista ne piglierò ben io quella vendetta che sarà conveniente a così fatto peccato —.
Ma la Appellagia, alla quale oramai erano venute a noia tante rampogne, non poté aver più sofferenza; ma vòltasele con un viso che pareva che la buona e la bella fusse ella, le disse:
— Madonna, voi fate un gran romore senza bisogno alcuno, e secondo me voi avete mille torti. Ditemi un poco: perché avete voi ordinato che ogni dì al tocco della campana si faccia particolare orazione, se non perché ciascuna di noi fugga la tentazione della carne? Qual modo adunque sapreste voi ritrovare o qual via che così buona fusse e così sicura a fare che la non vi desse noia quanto questa che ho ritrovata io al presente? Paternostri e avemarie a modo vostro a me mi par che la facciano crescere e non scemare; dove che, se io fo qualche volta il dì fra dì a questo modo, io me ne vo poscia la sera al letto così scarica e così libera di queste così fatte fantasie quanto si faccia qual vi vogliate monaca che sia qua entro. E però, per conchiudervi le mille in uno, o voi mi lasciate fuggire la tentazione a modo mio, o voi mi date licenza che me ne vada fuori dove meglio mi viene; ché io per me non intendo ogni dì romper gli orecchi a Messer Domenedio per trovarmi poi la notte con maggior tentazione che mai —.
La badessa udendo così baldanzosa risposta considerò che e’ le metteva più conto e più utile era al munistero mandarnela che ritenerla a suo dispetto; pregata e comandata da quel giovane che era in quel tempo più uso a comandare che a pregare, e le parve mill’anni levarsela dinanzi e diedele licenza che a suo piacere se ne andasse dove voleva; la quale la sera medesima se n’andò a casa del giovane a riposare, dove poscia molti e molti mesi ella fuggì la tentazion della carne senza campana —.
Risero assai della bella risposta della monaca i giovani e le donne e del buon rimedio che ella aveva trovato alla tentazione; e volevano attac<c>are una disputa che sarebbe durata un pezo se la Reina non vi avesse posto su piede; e la disputa era questa: chi fusse più da biasimare o quelle donne che avendo marito e possendosi con lui passar la tentazione se la vanno spassando con altrui, o le povere monache, le quali non avendo lecito modo di poter trar frutto dei lor abbandonati orticelli talvolte ne cavano così di nascosto qualche insalatuccia. Ma ella, che dubitava forse che egli non si dicessero di quelle cose che non ne tengon gli speziali, presa occasione di romper loro i ragionamenti voltossi a Folchetto e li comandò che facesse il corso suo; il quale, allegramente cintosi gli speroni e montato a destriere, così gli diede la briglia:
— Se il trovar rimedio alla tentazione della carne è stato opera di misericordia, che sarà dunque cavare un amico di povertà e di manifesto pericolo della vita?...
NOVELLA SESTA
Di due amici uno s’inamora d’una vedova, che l’invola ciò che egli ha, poi lo discaccia; il quale, aiutato dallo amico, racquista la di lei grazia; la quale, mentre con nuovo amante si sollaza, egli ambodue gli uccide; e condannato alla morte, è per mezo dell’amico liberato.
Già son molt’anni furono in Firenze due giovani di alto legnaggio e di gran riccheze, chiamato l’uno Lapo Tornaquinci e l’altro Nicolò degl’Albizi; i quali sin da piccioli fanciulli avevano contratto una amicizia sì stretta, che e’ non pareva che e’ potesser viver se non insieme. E avendo durato in così stretto nodo di là da dieci anni, il padre di Nicolò passò di questa vita lasciandogli roba per più di trentamila ducati. E accadendo di quei dì a Lapo aver bisogno per un suo fatto di alcune centinaia di ducati, Nicolò senza aspettare d’esserne richiesto non solamente ne lo sovenne, ma gli mostrò con fatti e con parole che egli aveva ad esser padron della roba sua come egli medesimo.
Segni veramente di animo nobile e virtuoso e da averne ogni speranza, se la troppo libera gioventù e naturalmente inclinata al male, la roba acquistata senza fatica e le non molto lodevoli compagnie non l’avessero messo per la mala via. Imperò che, seguitando le pedate di coloro che la sera se ne vanno al letto poveri e la mattina si levan ricchi e sono stati a disagio un pezo, e’ gli furono intorno un numero di giovani di così sconcia vita che e’ gli arebbon levata la diadema ad ogni gran santo; e ora in cene e ora in disinari accompagnandolo, e quando a questa festa e quando a quell’altra menandolo, e da questa trista femina e da quell’altra conducendolo, e’ gli facevano spendere tanti danari che era una compassione. Della qual cosa accorgendosi lo amico, il quale era un giovane molto riposato e molto discreto, come quello che gnene rincresceva insino al cuore tutto il dì gl<i> era dietro a ricordargli il ben suo e riprenderlo delle cose mal fatte, e finalmente a fare tutti quei buoni offici a’ quali lo obligava la stretta amicizia che era tra loro. Ma tutto veniva a dir niente, ché i nuovi amici potevano più coi lor disonesti piaceri e con le male persuasioni che non poteva Lapo coi suoi boni ammaestramenti. I quali, accorgendosi de’ modi suoi, tanto mal ne dissero a Nicolò e tanto glielo biasimarono, che e’ cominciò a discostarsi da lui e finalmente a fuggirlo, mostrando di voler vivere a modo suo; della qual cosa accorgendosi Lapo, per stracco si gli levò da torno e, non potendo altro fare, lo lassava vivere a modo suo.
Laonde occorse che attendendo il povero giovane a seguitar la vita che egli non doveva, tosto gli avvenne quello che egli non si pensava. Imperciò che e’ gli era a punto in quel tempo dentro da Firenze una vedova giovane, bella e vaga e di piacevolissima maniera la quale, essendo usa sino al tempo del marito a far più conto della roba che dell’onore, senza guardar di che parentado nata fusse e in quale maritata (che l’uno e l’altro era nobilissimo), facilmente donava l’amor suo a quei giovani i quali non solo erano begli della persona ma ricchi della borsa; e così, poi che era rimasa vedova, e innanzi ne aveva segretamente tose l’ale a più d’un paio, mostrandosi però a chi non la conosceva molto per lo minuto una santa Brigida novella. Alla cui notizia come prima venne lo stato di Nicolò e la vita che egli teneva, sùbito vi fece su grandissimo disegno; e trovato modo d’avere un poco di domesticheza con lui, ella cominciò così tacitamente a mostrar d’esser di lui innamorata. Di poi allargando le cose a poco a poco, mostrando di non si poter più tener celata, ella cominciò con lettere e con ambasciate a sollecitarlo il dì e la notte. Or non vi dico se Nicolò, al quale i suoi amici davano ad intendere che egli era un Gerbin novello, se ne teneva buono con loro; e beato a chi poteva dir la sua in suo favore e in lodarli questo nuovo amore e metter colei in paradiso! Del che se ne traeva spesso di grasse cene e ricchissimi disinari; e lo miser tanto su che e’ non aveva mai bene se non quando era dove lei o ragionava di lei con quei suoi briganti. La quale seppe tanto fare che, mostrando di distruggersi, ella si trovò con lui a solo a solo a far quello che già aveva fatto con molti altri; e perché ell’era bella e manierosa, come vi s’è detto, e sapeva meglio l’arte da fare impazare un uomo che qual si voglia trista femina che stata fusse su per le fiere venti anni, or con le miglior parole del mondo, or con le più aspre, or fingendo di non poter più vivere per amor suo, or dandoli gelosia di novello amante, astringendolo che la pigliasse per moglie e poco poi non volendo, or cacciandolo or richiamandolo, or mostrando d’esser di lui gravida, in modo tirò su il cattivello che egli stesso non sapeva più in qual mondo e’ si fusse; e ogni altra cosa gli era uscita di mente, le faccende intralasciate, i nuovi amici insieme co’ vecchi abbandonati; i piaceri, i giuochi, le cene tutte s’erano ridotte in lei quanto voleva ella e come ella comandava. La quale come più tosto si fu accorta che l’uccello non aveva più bisogno di concia, lasciando tutte le altre faccende solo attendeva a tarparli l’ale acciò che egli non potesse fuggire; e in breve tempo in modo gnene tosò, che non solo a Lapo ne rincresceva che gli era amico da vero, ma ne doleva fino al cuore a quelli amici da buon tempo che lo avevano condotto in queste forbici, come quelli che consideravano che tutto quello che la giovane gl’involava fusse a lor cavato della propria scarsella. E ne avevano mille ragioni, imperò che la mala femina con sue astuzie e con sue arti lo condusse finalmente a termine che non che dar loro disinare o cena, e’ non gl<i> era restato tanto che egli potesse vivere da par suo.
E condotto che egli si vidde a tal termine, egli si accorse allora quanto gli sarebbe stato migliore l’avere prestato l’orecchie a le ruvide ammonizioni del buono amico che alle dolci adulazioni di quei suoi nuovi cagnotti; e inoltre conobbe che dolente fine abbia lo amore di quelle donne le quali non per amoroso zelo ma per ingordigia de’ danari fanno copia altrui del corpo loro: imperò che Lucrezia, che così mi voglio ricordar che fusse il nome della vedova, veggendole mancar la roba e ridurlo allo estremo, aveva ancor ella condotto al fine il simulato amore; e cominciossi a portar in modo del fatto suo che egli ben si poteva accorgere quanto poco oramai cocesse il fuoco suo. E quel che gli cosse sopra ogni cosa fu lo avedersi d’un nuovo amorazo di questa sua druda; la quale, avendo inteso di quei dì che un certo Simon Davizi per la morte di Neri suo padre era rimaso ricchissimo, in cotal guisa si era cominciata ad invaghir del fatto suo ch’ella ne menava smanie, essendosi già del tutto dimenticata di Nicolò. Savia, accorta e aventurata giovane veramente, poscia che ella aveva così bene saputo acconciar gl<i> occhi suoi e ammaestrare il cuore, che tanto scorgeva la belleza in altrui quanto vi mirava splendore d’oro o di argento, e tanto sentiva amore quanto il suono dei danari!
Or veggendo Nicolò che le cose sue andavano ogni dì di male in peggio ed esser trattato così stranamente da colei che egli amava più che la propria vita, né mancandoli per così fatte straneze, anzi ogni dì crescendo lo amore (o furore, per meglio dire), e desiderando d’esser con lei come per il passato né ci trovando verso, pieno d’ira e di sdegno solo soletto di lei e di sé rammaricandosi, non sapeva che farsi, ed era una compassione il fatto suo. Gli amici da buon tempo, che con la roba eran venuti, con la roba se ne erano andati; i parenti non lo volevan vedere, i vicini se ne pigliavan giuoco, gli strani dicevan: «Ben gli sta!»; i creditori lo perseguitavano, Lucrezia nol conosceva più. Le quali tutte cose egli da se stesso più fiate considerando, lo fecer cadere in tanta disperazione, che per ultimo rimedio e’ pensò con qualche strana morte por fine a tanti affanni; e forse averebbe messo ad effetto il suo pensiero, se non che pensando alla amicizia che tra lui e Lapo era stata sì stretta e tenendo per fermo che in lui non dovesse essere perduta la ricordanza di tanto amore, e’ pensò che, posposta ogni altra cagione, e’ fusse bene andare a ritrovarlo, e raccontatoli le sue sciagure chiederli merzé per Dio; e così, senza altro dire, andatolo a ritrovare fece quanto aveva divisato.
Lapo, che se ben per non poter più aveva lasciato andare, come si dice, tre pan per coppia, non aveva mancato d’averli compassione; veggendolo per le sue parole eziandio in maggior rovina che egli non pensava, ne ebbe grandissimo dolore; e conoscendo che egli aveva bisogno di aiuto e non di consiglio, con benigne parole gli disse:
— Nicolò mio, io non voglio far come coloro i quali quando hanno ammonito lo amico loro senza aver fatto profitto alcuno gli sogliono rimproverare i loro consigli, perciò che egli non mi pare che questi cotali cerchino altro che lodare se medesimi e biasimar coloro che non hanno voluto dar fede a’ lor ricordi. Sai che quando io ti viddi entrar per quella via che ti ha condotto là là dove io non vorrei, io usai teco con le parole lo offizio di buono amico; ora che la cosa è in termine che le parole non bastano, io non voglio co’ fatti mancare del medesimo offizio; anzi facendo conto di aver teco errato, teco ne voglio patire la penitenza, avvenga che assai dolce penitenza mi sarà il vedermisi dare occasione di dimostrare lo animo mio ad uno amico. Il quale uffizio quanto lodevole e degno di comendazione sempre e in ogni luogo stato sia, il poco numero di quegli uomini che l’hanno fatto ne rende chiarissima testimonianza; fra i quali amando anco io d’esser posto, lasciando le parole me ne verrò teco agli effetti. Vieni adunque meco —.
E senza altro dire, presolo per mano il menò in camera sua; e aperta una cassetta dove egli teneva i suoi danari, gne ne diede una tal quantità che egli poté ben conoscere quanto egli lo amasse; di poi lo confortò con dolcissime parole a stare di buona voglia, facendo intendere che, spesi quelli, e’ non mancherebbe di sovenirlo tante volte quante gli bisognasse. E poi che egli gli ebbe fatto così liberale presente e datoli così buona speranza per lo avvenire, e’ cominciò con amorevoli parole a mordere un poco la sua passata vita e con destreza biasimargli la pratica della donna; e di tal peso furono dette quelle sue parole, che, avvenga che non gliela levassero così del pensiero ad un tratto, niente di meno gli misero nel cuore un certo tedio del fatto suo, e vi riaccesero una certa vergogna, che già l’amava contro a sua voglia e già desiderava occasione di estinguer tanto furore.
Ma la buona donna, che tosto seppe come e’ gli era stato rinferrato così in grosso, stimando che tutto fusse accaduto per sua ventura, né se la volendo perdere, cominciò un’altra volta con lettere e con ambasciate sì spesso a visitarlo, ch’egli fu forzato a lassarsi di nuovo ristrigner nelle sue braccia. La quale, dandoli ad intendere che gl<i> era più bel che mai e che la gli voleva meglio che mai e che tutto quello che era accaduto infra di loro non era stato per colpa sua ma de’ parenti e di non so che fante di casa e che il troppo amor che egli le portava, che spesso fa travedere occhio ben sano, lo aveva fatto divenir geloso di quello che non era né vero né per essere vero, seppe così ben menar piedi e mani che la le cavò delle mani buona somma di quei danari. E averebbegnene cavati tutti, se non che, come volse la sua sciagura, egli accadde che una notte tra l’altre trovandosi egli in casa di lei ed essendosi dopo gli amorosi diletti addormentato, ella, che ancor non dormiva, sentì il novello amante a certi contrasegni passar da casa sua. Laonde stimolata dalla mala fortuna sua che la chiamava a dar conto de’ suoi falli, parendole che Nicolò avesse, come si dice, legato l’asino a buona caviglia, e’ le venne voglia di andar fino alla porta e sollazarsi un poco con esso lui; per che levatasi e messasi una sua vesticciuola ad armacollo, pian piano se n’andò ad una porticella secreta della sua casa e apertala senza molto contrasto si mise l’amante in casa; e l’una parola tira l’altra e le parole e’ fatti, e’ preser tanta sicurtà del dormir di Nicolò che e’ dimorarono assai più che non faceva lor di bisogno. Imperò che Nicolò in quel mezo si risvegliò, e non si trovando Lucrezia a canto forte si maravigliò; e chiamandola più volte ed ella non rispondendo, e’ dubitò di quello che era. Per che prestamente in piè levatosi e così al buio il meglio che puoté rivestitosi e messasi a canto una sua spada, chetamente se ne venne a dove e’ gli erano; e prima che alcun di loro si accorgesse di nulla, e’ gli fu loro in capo; e vedutoli distesi sopra di certe sacca di farina, fu ad un tratto sopragiunto da tanta ira e da tanto furore che, senza considerare quello che egli si facesse, messa mano per la spada menò così piacevol colpo sopra tramenduni, che a Simone tagliò il capo quasi di netto e la donna ferì s’un braccio malamente; e accrescendo la stiza e raddoppiando i colpi, mai non restò fin che e’ gli vidde giacer morti a canto l’un all’altro.
Trasse tutta la famiglia di casa a così fatto romore e gran pianto fecero sopra la innamorata giovane, e ognuno ebbe che dire; ma Nicolò, che ancora non si era accorto dell’error suo, uscitosi di casa e parendoli aver fatto un bel colpo, tutto infuriato correndo con la spada sanguinosa in mano se ne era inviato verso la casa di Lapo, desideroso di rallegrarsi seco di questo fatto; quando eccoti riscontrarlo nella famiglia del bargello, la quale veggendolo correre in quella guisa e pensando, sì come era, che egli avesse commesso qualche misfatto, messoli le mani adosso nel menò sùbito in prigione, dove senza fatica o tormento alcuno e’ confessò come era passata la cosa; per che come micidiale egli fu condannato alla morte. Ma il valente amico, considerando che ora era il tempo di dimostrar la grandeza delle forze della amicizia, tanto fece con parenti, con amici, con punti di giudici e con danari, che e’ gli campò la vita commutandognele in perpetuo exilio dentro di Barletta in Puglia. Né li bastò aver fatto sin qui: ché egli facendosi voluntario sbandito, lasciando la sua dolce e dilettevol patria se n’andò a star con lui in una roza e strana, dove con le robe sue lo sovenne di tutte le cose che bisognavano; dove rivocando lo smarrito animo alli abbandonati studi delle lettere e a mille altri lodevoli esercizii, ambodui si fecero apo i principi di quel paese e del Re massimamente tener carissimi; i quali tanto operarono poscia co’ Signori fiorentini, che Nicolò poté abitare a Napoli a suo piacere, dove tutto quel tempo che egli visse stettero assai onorevolmente. Il quale subito che fu morto fu fatto da Lapo portare a Firenze e sepolto in San Pier Maggiore in una orrevol sepoltura e con pompose esequie appresso degl<i> altri suoi parenti, ordinando d’esservi ancor egli dopo la sua morte sotterrato, a cagione che neanche la morte separasse quei corpi, gli animi de’ quali per tanti aspri accidenti mai non si erano potuti separare —.
Fu da tutti lodata la novella di Folchetto e sarebbevisi fatto su un lungo ragionamento, se non che la Reina, che era stracca per lo lungo sedere, im-piè levatasi e aviatasi così passo passo lungo l’acqua del bel rio, ne tolse lor la occasione; la qual, poi che fu andata oltre forse cinquanta passi, voltasi a Bianca che per avventura le era a punto a canto le disse:
— Grande è per certo il piacere che io mi prendo, essendo alla foresta, quando io veggio l’acqua; e or considero come sia vera l’openion di coloro i quali dicono che poca stima si deve fare di quelle ville che ne han carestia.
— Di cotesta fatta a punto sono io — disse allor Bianca rispondendo alle sue parole —, e non credo che alcuno si trovi che non sia del medesimo parere; ma quale può essere la cagione che ciò non aviene, quando noi la vediamo dentro alle città o dentro alle nostre case, salvo già se non la vedessimo in qualche giardino, che allora mi pare ch’ella faccia quasi quel medesimo effetto che in questi così fatti luoghi e, come voi diceste, alla foresta?
— Evidentissima è la cagione e naturale — soggiunse la Reina —, imperò che, come tu sai molto bene senza ch’io tel dica, ognun di noi è composto di quattro elementi; laonde egli accade che ogni volta che noi ne vediamo uno nella sua più vera essenzia e simplicità noi ne riceviamo piacere grandissimo, come quelli che vediamo parte del nostro principio e della materia della quale siamo formati; e però nasce che bene spesso senza aver freddo volentieri ci accostiamo al fuoco, né ci par mai poter ben prenderne calore se noi non lo veggiamo attualmente, avvenga imperciò che questo nostro fuoco sia più tosto una imagine dello elemento datoci da la natura per li nostri bisogni che esso elemento. Se adunque noi ci rallegriamo veggendone un solo, egli si può credere che veggendone due il piacere diverrà altrettanto; e però lo andare alla campagna, dove si vede sempre e la terra e l’aria, è ai corpi nostri grandissimo ricriamento. Diverrà adunque due tanti maggiore il piacere se egli vi si acozerà il terzo, come sarà se alla terra e all’aria si aggiugnerà l’acqua, come a noi interviene al presente; e così è da dire che egli crescerebbe tre cotanti ogni volta che e’ gli si arrogesse il fuoco, come si può vedere talora in sulla sera quando i villani per nettare i campi abbruciano le stoppie lungo i fiumi od intorno ad una fonte.
Questa è adunque la cagione per la quale noi corriamo così volentieri a veder le acque nello arrivar d’un villaggio e ne prendiamo tanto diletto. Ma già ci bisogna lasciarle ché Fioretta ci accenna che la via nostra è di là su —.
E così dicendo, lasciando il rio sulla man sinistra, presero la via verso Campettoli e d’indi verso il Poggio della Scala, donde con mille sollazevoli ragionamenti arrivati non stetter guari che e’ furon messi a tavola; e in sul pratello sotto a certi melaranci che porgevano uno odor maraviglioso lietamente cenarono. E già quasi era venuto il fin della cena, quando fra i famigli e quelle fanti alle quali era commessa la cura della cucina fu udito non so che romore; e mentre che e’ domandavan che ne fusse cagione, una delle fanti venne alla tavola a dolersi agramente d’uno di loro. Alla quale Celso, per levarsela dinanzi, dicendo villania le venne detto spigolistra; per che sùbito che la fu tornata alla cucina, disse la Reina a Celso:
— Io ti ho udito dire una parola, la quale più volte avendo desiderato saper quello che ella importa propriamente mai non mi è potuto venir fatto; dimmi adunque quello che vuol dire spigolistra, acciò che io non pigli errore come io sono stata per fare adesso; la quale, se non mi fussi ricordata che il Boccaccio usa questa parola in quella epistoletta che egli fa dietro al Decamerone, io dubito che egli non fusse intervenuto a me come a quel servidore di messer Bernardo da Bibiena, che fu poi cardinale di Santa Maria in Portico; ché mi sarei data ad intendere che quello fusse stato il nome proprio di quella donna; ma io so ora che io saprò, se gran fatto non è, quello che egli significa; che, avendognelo tu detto per dirle villania, egli è da credere che ella e voi tutti sappiate quello che egli importa; e pero dica chi dir vuole: voi altri Toscani avete troppo gran vantaggio nelle cose di questa lingua. Dimmi adunque la sua significazione, acciò che io possa meglio intendere quel passo del Boccaccio un’altra volta.
— Io ve lo dico molto volentieri — disse allor Celso — e credo di ciò potervi sodisfare meglio che alcun altro; ma una grazia voglio da voi: che mi diciate prima quello che intervenne a quello uomo di Santa Maria in Portico.
— Messer Bernardo — disse sùbito la Reina — si trovava per alcune faccende d’importanza inanzi al Viceré di Napoli, allora che e’ gl<i> erano col campo a Prato per rimettere i Medici in casa loro; e per non so che accidente egli accadde che uno Spagnolo del campo, uomo di non picciola importanza, venne in disparer col Viceré per la faccenda attenente a messer Bernardo, e si partì a rotta della stanza sua e con gran furia se ne tornava al suo alloggiamento, quando il Viceré, mutato di proposito, non senza collera disse al servidore di messer Bernardo che corresse dietro a quel magiadero e lo facesse ritornar da lui. Quel buono uomo, credendosi che quel magiadero fusse il nome proprio di quello Spagnolo, correndoli dietro chiamavalo dicendo: «Signor Magiadero, signor Magiadero, tornate dal Viceré, che vi domanda». Onde egli sentendosi così sconciamente ingiuriare, tornato a dietro voleva pur tagliare a pezi quel povero uomo; e fu la maggior fatica del mondo a cavarglielo delle mani. Sì che dimmi quello che vuol dir spigolistra, acciò che egli non mi venisse fallato come costui alcuna volta.
— Ragionevol è — disse Celso —, poi che mi avete narrato il pericolo di quel servitore; e però avete da sapere che essendo stati tutti i Toscani in ogni tempo non solamente dediti alla religione ma superstiziosi, i Fiorentini hanno ecceduto in questo tutti li altri, e le donne massimamente; fra le quali persino nel 1305 fu una certa sorte di buone femine che facendo una setta per loro e passando i termini della vera cristiana religione, volevano quasi ristrignere i comandamenti dello Evangelio; le quali erano aiutate dai frati di Santa Maria Novella; e queste tali insieme con quei frati o altri uomini che fussero di questa openione li chiamavano spigolistri. Laonde egli si trova in Spagna nella città di Siviglia che l’anno 1340 si fece in San Domenico un Capitolo generale, e fra l’altre costituzioni celebrate in detto Capitolo una ne fu che proibiva a tutti i frati di quell’Ordine che non chiamassero più alcun frate o altro uom o donna spigolistri. Laonde egli si vede chiaramente per questa proibizione e per la sua narrativa che spigolistro non importa altro nella sua propria significazione che una sorte di brigate superstiziose, alle quali non bastano i Vangeli, ma par lor poco la regola di San Benedetto; ed è come a dire oggi pinzochere o altri simili nomi, dimostranti con gl<i> atti esteriori più che con la verità una professione di santa vita; e però disse il Boccaccio nel luogo per voi allegato «spigolistre», a cui più pesano i fatti che le parole e più di parer s’ingegnano che d’esser buone. Ma perciò che queste cotali per simular meglio il sanctificetur vanno disprezate della persona e cercan d’apparir magre e pallide in faccia acciò che, come dice lo Evangelio, la brigata creda che elle digiunino, e queste magre che non son se non la pelle e l’osso, come è la fante nostra, da quel tempo in qua furono chiamate spigolistre —.
E finito questo ragionamento, levatasi la Reina insieme con gl<i> altri da tavola, se ne vennero dentro alla loggia, dove mentre che Bianca sonava il suo liuto Fioretta e il Corfinio ballaron una danza. Alla quale disse la Reina, poi che la si fu riposata:
— Fioretta, a te tocca a trovar questa sera la materia sopra della quale si ha domani a versificare e con qual cosa si ha da por fine alla presente giornata —.
E Fioretta sùbito disse:
— A cagione che egli non intervenga a me come a Bianca, che per ricusare questo peso se ben non mutò nome mutò colore, io lo voglio prender presto e dipor presto. Noi adunque ci apparechieremo a dir domani un sonetto per uno, voi uomini e noi donne; con questo: che Celso dica una sestina per penitenza dell’errore che egli ha fatto a non ce la dire oggi; e perciò che e’ si veda se egli si può una volta mutar la forma, io voglio che ella sia tutta di verbi nella fine di ciascun verso di tre sillabe per uno; e, pur che la ragioni d’amore, sia il suggetto qual meglio ti parerà.
— Ahi, buona sorella — disse allora Celso udendo sì fatto comandamento —, e che ti pensi di fare? Parti egli però che un picciolo peccato come è stato il mio meriti così gran penitenza? Alla fede, che egli è buono aver de’ suoi per tutto! Ma chi la fa l’aspetti.
— E con chi ho io a fare a sicurtà — disse Fioretta —, se io non fo con un fratello, massime per far palese il più ch’io posso il valor dell’ingegno suo? Abbi adunque pacienza e apparéchiati insieme con questi altri a dire una risposta arguta con quella brevità e con quel modo che si fece iersera; ché, seguendo la openion di Bianca, io intendo che questo sia il compimento delle lodevoli fatiche di questo giorno —.