Machiavelli, Niccolò
Dedica
NICOLAUS MACLAVELLUS
AD MAGNIFICUM LAURENTIUM MEDICEM.
[Nicolò
Machiavelli al Magnifico Lorenzo de Medici]
Sogliono, el
più delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno
Principe, farseli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più
care, o delle quali vegghino lui più delettarsi; donde si vede molte
volte essere loro presentati cavalli, arme, drappi d'oro, prete preziose e
simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque,
offerirmi, alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù
mia verso di quella, non ho trovato intra la mia suppellettile cosa, quale io
abbia più cara o tanto esístimi quanto la cognizione delle azioni
delli uomini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne et
una continua lezione delle antique: le quali avendo io con gran diligenzia
lungamente escogitate et esaminate, et ora in uno piccolo volume ridotte, mando
alla Magnificenzia Vostra. E benché io iudichi questa opera indegna
della presenzia di quella, tamen confido assai che per sua umanità li
debba essere accetta, considerato come da me non li possa esser fatto maggiore
dono, che darle facultà di potere in brevissimo tempo intendere tutto
quello che io in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi ho conosciuto. La
quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole
ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco
con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io
ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della
materia e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio sia
reputata presunzione se uno uomo di basso et infimo stato ardisce discorrere e
regolare e' governi de' principi; perché, cosí come coloro che
disegnono e' paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de' monti
e de' luoghi alti, e per considerare quella de' bassi si pongano alto sopra
monti, similmente, a conoscere bene la natura de' populi, bisogna essere
principe, et a conoscere bene quella de' principi, bisogna essere populare.
Pigli, adunque,
Vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io lo mando; il
quale se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà
drento uno estremo mio desiderio, che Lei pervenga a quella grandezza che la
fortuna e le altre sue qualità li promettano. E, se Vostra Magnificenzia
dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi
luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e
continua malignità di fortuna.
Quot sint genera
principatuum et quibus modis acquirantur.
[Di quante ragioni
sieno e principati, e in che modo si acquistino]
Tutti li stati,
tutti e' dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e
sono o repubbliche o principati. E' principati sono o ereditarii, de' quali el
sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e' sono nuovi. E'
nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come
membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come
è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii cosí
acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe,o usi ad essere liberi; et
acquistonsi, o con le armi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per
virtù.
De principatibus
hereditariis.
[De principati
ereditarii]
Io lascerò
indrieto el ragionare delle repubbliche, perché altra volta ne ragionai
a lungo. Volterommi solo al principato, et andrò tessendo li orditi
soprascritti, e disputerò come questi principati si possino governare e
mantenere.
Dico, adunque, che
nelli stati ereditarii et assuefatti al sangue del loro principe sono assai
minori difficultà a mantenerli che ne' nuovi; perché basta solo
non preterire l'ordine de' sua antinati, e di poi temporeggiare con li
accidenti; in modo che, se tale principe è di ordinaria industria,
sempre si manterrà nel suo stato, se non è una estraordinaria et
eccessiva forza che ne lo privi, e privato che ne fia, quantunque di sinistro
abbi loccupatore, lo riacquista.
Noi abbiamo in
Italia, in exemplis, el duca di Ferrara, il quale non ha retto alli assalti de'
Viniziani nello 84, né a quelli di papa Iulio nel 10, per altre cagioni
che per essere antiquato in quello dominio. Perché el principe naturale
ha minori cagioni e minore necessità di offendere: donde conviene che
sia più amato; e se estraordinarii vizii non lo fanno odiare, è
ragionevole che naturalmente sia benevoluto da' sua. E nella antiquità e
continuazione del dominio sono spente le memorie e le cagioni delle
innovazioni: perché sempre una mutazione lascia lo addentellato per la
edificazione dell'altra.
De principatibus
mixtis.
[De principati
misti]
Ma nel principato
nuovo consistono le difficultà. E prima, se non è tutto nuovo, ma
come membro, che si può chiamare tutto insieme quasi misto, le
variazioni sua nascono in prima da una naturale difficultà, la quale
è in tutti e' principati nuovi: le quali sono che li uomini mutano
volentieri signore, credendo migliorare; e questa credenza gli fa pigliare
l'arme contro a quello; di che s'ingannono, perché veggono poi per esperienzia
avere peggiorato. Il che depende da unaltra necessità naturale et
ordinaria, quale fa che sempre bisogni offendere quelli di chi si diventa nuovo
principe, e con gente d'arme, e con infinite altre iniurie che si tira dietro
el nuovo acquisto; in modo che tu hai inimici tutti quelli che hai offesi in
occupare quello principato, e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti
hanno messo, per non li potere satisfare in quel modo che si erano presupposto
e per non potere tu usare contro di loro medicine forti, sendo loro obligato;
perché sempre, ancora che uno sia fortissimo in sulli eserciti, ha
bisogno del favore de' provinciali a intrare in una provincia. Per queste
ragioni Luigi XII re di Francia occupò subito Milano, e subito lo perdé;
e bastò a torgnene,la prima volta le forze proprie di Lodovico;
perché quelli populi che li aveano aperte le porte, trovandosi ingannati
della opinione loro e di quello futuro bene che si avevano presupposto, non
potevono sopportare e' fastidii del nuovo principe.
È ben vero
che, acquistandosi poi la seconda volta e' paesi rebellati, si perdono con
più difficultà; perché el signore, presa occasione dalla
rebellione, è meno respettivo ad assicurarsi con punire e' delinquenti,
chiarire e' sospetti, provvedersi nelle parti più deboli. In modo che,
se a fare perdere Milano a Francia bastò, la prima volta, uno duca
Lodovico che romoreggiassi in su' confini, a farlo di poi perdere la seconda li
bisognò avere, contro, el mondo tutto, e che li eserciti sua fussino
spenti o fugati di Italia: il che nacque dalle cagioni sopradette. Non di
manco, e la prima e la seconda volta, li fu tolto. Le cagioni universali della
prima si sono discorse: resta ora a dire quelle della seconda, e vedere che
remedii lui ci aveva, e quali ci può avere uno che fussi ne' termini
sua, per potersi mantenere meglio nello acquisto che non fece Francia. Dico,
per tanto che questi stati, quali acquistandosi si aggiungono a uno stato
antiquo di quello che acquista, o sono della medesima provincia e della medesima
lingua, o non sono. Quando e' sieno, è facilità grande a tenerli,
massime quando non sieno usi a vivere liberi; et a possederli securamente basta
avere spenta la linea del principe che li dominava, perché nelle altre
cose, mantenendosi loro le condizioni vecchie e non vi essendo
disformità di costumi, li uomini si vivono quietamente; come sè
visto che ha fatto la Borgogna, la Brettagna, la Guascogna e la Normandia, che
tanto tempo sono state con Francia; e benché vi sia qualche
disformità di lingua, non di manco e' costumi sono simili, e possonsi
fra loro facilmente comportare. E chi le acquista, volendole tenere, debbe
avere dua respetti: l'uno, che il sangue del loro principe antiquo si spenga;
l'altro, di non alterare né loro legge né loro dazii; talmente
che in brevissimo tempo diventa, con loro principato antiquo, tutto uno corpo.
Ma, quando si
acquista stati in una provincia disforme di lingua, di costumi e di ordini, qui
sono le difficultà; e qui bisogna avere gran fortuna e grande industria
a tenerli; et uno de' maggiori remedii e più vivi sarebbe che la persona
di chi acquista vi andassi ad abitare. Questo farebbe più secura e
più durabile quella possessione: come ha fatto el Turco, di Grecia; il
quale, con tutti li altri ordini osservati da lui per tenere quello stato, se
non vi fussi ito ad abitare, non era possibile che lo tenessi. Perché,
standovi, si veggono nascere e' disordini, e presto vi puoi rimediare; non vi
stando, s'intendono quando sono grandi e non vi è più remedio.
Non è, oltre a questo, la provincia spogliata da' tua officiali;
satisfannosi e' sudditi del ricorso propinquo al principe; donde hanno
più cagione di amarlo, volendo esser buoni, e, volendo essere
altrimenti, di temerlo. Chi delli esterni volessi assaltare quello stato, vi ha
più respetto; tanto che, abitandovi, lo può con grandissima
difficultà perdere.
L'altro migliore
remedio è mandare colonie in uno o in duo luoghi che sieno quasi compedi
di quello stato; perché è necessario o fare questo o tenervi
assai gente d'arme e fanti. Nelle colonie non si spende molto; e sanza sua
spesa, o poca, ve le manda e tiene; e solamente offende coloro a chi toglie e'
campi e le case, per darle a' nuovi abitatori, che sono una minima parte di
quello stato; e quelli ch'elli offende, rimanendo dispersi e poveri, non li
possono mai nuocere; e tutti li altri rimangono da uno canto inoffesi, e per
questo doverrebbono quietarsi, dall'altro paurosi di non errare, per timore che
non intervenissi a loro come a quelli che sono stati spogliati. Concludo che
queste colonie non costono, sono più fedeli, etoffendono meno; e li
offesi non possono nuocere sendo poveri e dispersi, come è detto. Per il
che si ha a notare che li uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere;
perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono:
sí che l'offesa che si fa all'uomo debbe essere in modo che la non tema
la vendetta. Ma tenendovi, in cambio di colonie, gente d'arme si spende
più assai, avendo a consumare nella guardia tutte le intrate di quello
stato; in modo che lo acquisto li torna perdita, et offende molto più,
perché nuoce a tutto quello stato, tramutando con li alloggiamenti el
suo esercito; del quale disagio ognuno ne sente, e ciascuno li diventa inimico;
e sono inimici che li possono nuocere rimanendo battuti in casa loro. Da ogni
parte dunque questa guardia è inutile, come quella delle colonie
è utile.
Debbe ancora chi
è in una provincia disforme come è detto, farsi capo e defensore
de' vicini minori potenti, et ingegnarsi di indebolire e' potenti di quella, e
guardarsi che per accidente alcuno non vi entri uno forestiere potente quanto
lui. E sempre interverrà che vi sarà messo da coloro che saranno
in quella malcontenti o per troppa ambizione o per paura: come si vidde già
che li Etoli missono e' Romani in Grecia; et in ogni altra provincia che li
entrorono, vi furono messi da' provinciali. E l'ordine delle cose è, che
subito che uno forestiere potente entra in una provincia, tutti quelli che sono
in essa meno potenti li aderiscano, mossi da invidia hanno contro a chi
è suto potente sopra di loro; tanto che, respetto a questi minori
potenti, lui non ha a durare fatica alcuna a guadagnarli, perché subito
tutti insieme fanno uno globo col suo stato che lui vi ha acquistato. Ha solamente
a pensare che non piglino troppe forze e troppa autorità; e facilmente
può, con le forze sua e col favore loro sbassare quelli che sono
potenti, per rimanere in tutto arbitro di quella provincia. E chi non
governerà bene questa parte, perderà presto quello che arà
acquistato; e, mentre che lo terrà, vi arà dentro infinite
difficultà e fastidii.
E' Romani, nelle
provincie che pigliorono, osservorono bene queste parti; e mandorono le
colonie, intratennono e' men potenti sanza crescere loro potenzia, abbassorono
e' potenti, e non vi lasciorono prendere reputazione a' potenti forestieri. E
voglio mi basti solo la provincia di Grecia per esemplo. Furono intrattenuti da
loro li Achei e li Etoli; fu abbassato el regno de' Macedoni; funne cacciato
Antioco; né mai e' meriti delli Achei o delli Etoli feciono che
permettessino loro accrescere alcuno stato; né le persuasioni di Filippo
lindussono mai ad esserli amici sanza sbassarlo; né la potenzia di
Antioco possé fare li consentissino che tenessi in quella provincia
alcuno stato. Perché e' Romani feciono, in questi casi, quello che tutti
e' principi savi debbono fare: li quali, non solamente hanno ad avere riguardo
alli scandoli presenti, ma a' futuri, et a quelli con ogni industria ovviare;
perché, prevedendosi discosto, facilmente vi si può rimediare;
ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo,
perché la malattia è diventata incurabile. Et interviene di
questa come dicono e' fisici dello etico, che nel principio del suo male è
facile a curare e difficile a conoscere, ma, nel progresso del tempo, non
l'avendo in principio conosciuta né medicata, diventa facile a conoscere
e difficile a curare. Cosí interviene nelle cose di stato;
perché, conoscendo discosto, il che non è dato se non a uno
prudente, e' mali che nascono in quello, si guariscono presto; ma quando, per
non li avere conosciuti si lasciono crescere in modo che ognuno li conosce, non
vi è più remedio.
Però e'
Romani, vedendo discosto linconvenienti, vi rimediorono sempre; e non li
lasciorono mai seguire per fuggire una guerra, perché sapevano che la
guerra non si lieva, ma si differisce a vantaggio daltri; però vollono
fare con Filippo et Antioco guerra in Grecia per non la avere a fare con loro
in Italia; e potevano per allora fuggire l'una e l'altra; il che non vollono.
Né piacque mai loro quello che tutto dí è in bocca de'
savî de' nostri tempi, di godere el benefizio del tempo, ma sí
bene quello della virtù e prudenza loro; perché el tempo si
caccia innanzi ogni cosa, e può condurre seco bene come male, e male
come bene.
Ma torniamo a
Francia, et esaminiamo se delle cose dette ne ha fatta alcuna; e parlerò
di Luigi, e non di Carlo come di colui che, per avere tenuta più lunga
possessione in Italia, si sono meglio visti e sua progressi: e vedrete come
elli ha fatto el contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno
stato disforme.
El re Luigi fu messo
in Italia dalla ambizione de' Viniziani, che volsono guadagnarsi mezzo lo stato
di Lombardia per quella venuta. Io non voglio biasimare questo partito preso
dal re; perché, volendo cominciare a mettere uno piè in Italia, e
non avendo in questa provincia amici, anzi sendoli, per li portamenti del re
Carlo, serrate tutte le porte, fu forzato prendere quelle amicizie che poteva: e
sarebbeli riuscito el partito ben preso, quando nelli altri maneggi non avessi
fatto errore alcuno. Acquistata, adunque, el re la Lombardia, si
riguadagnò subito quella reputazione che li aveva tolta Carlo: Genova
cedé; Fiorentini li diventorono amici; Marchese di Mantova, Duca di
Ferrara, Bentivogli, Madonna di Furlí, Signore di Faenza, di Pesaro, di
Rimino, di Camerino, di Piombino, Lucchesi, Pisani, Sanesi, ognuno se li fece
incontro per essere suo amico. Et allora posserno considerare Viniziani la
temerità del partito preso da loro; li quali, per acquistare dua terre
in Lombardia, feciono signore, el re, di dua terzi di Italia.
Consideri ora uno
con quanta poca difficultà posseva il re tenere in Italia la sua
reputazione, se elli avessi osservate le regole soprascritte, e tenuti securi e
difesi tutti quelli sua amici, li quali, per essere gran numero e deboli e
paurosi, chi della Chiesia, chi de' Viniziani, erano sempre necessitati a stare
seco; e per il mezzo loro poteva facilmente assicurarsi di chi ci restava grande.
Ma lui non prima fu in Milano, che fece il contrario, dando aiuto a papa
Alessandro, perché elli occupassi la Romagna. Né si accorse, con
questa deliberazione, che faceva sé debole, togliendosi li amici e
quelli che se li erano gittati in grembo, e la Chiesa grande, aggiugnendo allo
spirituale, che gli dà tanta autorità, tanto temporale. E, fatto
uno primo errore, fu costretto a seguitare; in tanto che, per porre fine alla
ambizione di Alessandro e perché non divenissi signore di Toscana, fu
forzato venire in Italia. Non li bastò avere fatto grande la Chiesia e
toltisi li amici, che, per volere il regno di Napoli, lo divise con il re di
Spagna; e, dove lui era prima arbitro d'Italia e' vi misse uno compagno, a
ciò che li ambiziosi di quella provincia e mal contenti di lui avessino
dove ricorrere; e, dove posseva lasciare in quello regno uno re suo
pensionario, e' ne lo trasse, per mettervi uno che potessi cacciarne lui.
È cosa
veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre,
quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma,
quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è lerrore et il
biasimo. Se Francia, adunque posseva con le forze sua assaltare Napoli, doveva
farlo; se non poteva, non doveva dividerlo. E se la divisione fece, co'
Viniziani, di Lombardia meritò scusa, per avere con quella messo el
piè in Italia, questa merita biasimo, per non essere escusata da quella
necessità.
Aveva, dunque, Luigi
fatto questi cinque errori: spenti e' minori potenti; accresciuto in Italia
potenzia a uno potente, messo in quella uno forestiere potentissimo, non venuto
ad abitarvi non vi messo colonie. E' quali errori ancora, vivendo lui,
possevano non lo offendere, se non avessi fatto el sesto, di tòrre lo
stato a' Viniziani: perché, quando non avessi fatto grande la Chiesia
né messo in Italia Spagna, era ben ragionevole e necessario abbassarli;
ma avendo preso quelli primi partiti, non doveva mai consentire alla ruina
loro: perché, sendo quelli potenti, arebbono sempre tenuti li altri
discosto dalla impresa di Lombardia, sí perché Viniziani non vi
arebbono consentito sanza diventarne signori loro, sí perché li
altri non arebbono voluto torla a Francia per darla a loro, et andare a urtarli
tutti e dua non arebbono avuto animo. E se alcuno dicesse: el re Luigi
cedé ad Alessandro la Romagna et a Spagna el Regno per fuggire una
guerra; respondo, con le ragioni dette di sopra, che non si debbe mai lasciare
seguire uno disordine per fuggire una guerra, perché la non si fugge, ma
si differisce a tuo disavvantaggio. E se alcuni altri allegassino la fede che
il re aveva data al papa, di fare per lui quella impresa, per la resoluzione
del suo matrimonio e il cappello di Roano, respondo con quello che per me di
sotto si dirà circa la fede de' principi e come la si debbe osservare.
Ha perduto, adunque, el re Luigi la Lombardia per non avere osservato alcuno di
quelli termini osservati da altri che hanno preso provincie e volutole tenere.
Né è miraculo alcuno questo, ma molto ordinario e ragionevole. E
di questa materia parlai a Nantes con Roano, quando il Valentino, che
cosí era chiamato popularmente Cesare Borgia, figliuolo di papa
Alessandro, occupava la Romagna; perché, dicendomi el cardinale di Roano
che li Italiani non si intendevano della guerra, io li risposi che e' Franzesi
non si intendevano dello stato; perché, se se n'intendessino, non
lascerebbono venire la Chiesia in tanta grandezza. E per esperienzia sè
visto che la grandezza, in Italia, di quella e di Spagna è stata causata
da Francia, e la ruina sua causata da loro. Di che si cava una regola generale,
la quale mai o raro falla: che chi è cagione che uno diventi potente,
ruina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria
o con forza; e l'una e l'altra di queste dua è sospetta a chi è
diventato potente.
Cur Darii regnum
quod Alexander occupaverat a successoribus suis post Alexandri mortem non
defecit.
[Per qual cagione il
regno di Dario, il quale da Alessandro fu occupato, non si ribellò da
sua successori dopo la morte di Alessandro]
Considerate le
difficultà le quali si hanno a tenere uno stato di nuovo acquistato,
potrebbe alcuno maravigliarsi donde nacque che Alessandro Magno diventò
signore della Asia in pochi anni, e, non l'avendo appena occupata, morí;
donde pareva ragionevole che tutto quello stato si rebellassi; non di meno e'
successori di Alessandro se lo mantennono, e non ebbono a tenerlo altra
difficultà che quella che infra loro medesimi, per ambizione propria, nacque.
Respondo come e' principati de' quali si ha memoria, si truovano governati in
dua modi diversi: o per uno principe, e tutti li altri servi, e' quali come
ministri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno; o per
uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per
antiquità di sangue tengano quel grado. Questi tali baroni hanno stati e
sudditi proprii, li quali ricognoscono per signori et hanno in loro naturale
affezione. Quelli stati che si governono per uno principe e per servi hanno el
loro principe con più autorità; perché in tutta la sua
provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e se
obediscano alcuno altro, lo fanno come ministro et offiziale, e non li portano
particulare amore.
Li esempli di queste
dua diversità di governi sono, ne' nostri tempi, el Turco et il re di
Francia. Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore, li
altri sono sua servi; e, distinguendo el suo regno in Sangiachi, vi manda
diversi amministratori, e li muta e varia come pare a lui. Ma el re di Francia
è posto in mezzo d'una moltitudine antiquata di signori, in quello stato
riconosciuti da' loro sudditi et amati da quelli: hanno le loro preeminenzie:
non le può il re tòrre loro sanza suo periculo. Chi considera
adunque l'uno e l'altro di questi stati, troverrà difficultà
nello acquistare lo stato del Turco, ma, vinto che sia, facilità grande
a tenerlo. Le cagioni della difficultà in potere occupare el regno del
Turco sono per non potere essere chiamato da' principi di quello regno,
né sperare, con la rebellione di quelli ch'egli ha d'intorno, potere
facilitare la sua impresa: il che nasce dalle ragioni sopradette. Perché
sendoli tutti stiavi et obbligati, si possono con più difficultà
corrompere; e, quando bene si corrompessino, se ne può sperare poco
utile, non possendo quelli tirarsi drieto e' populi per le ragioni assignate.
Onde, chi assalta il Turco, è necessario pensare di averlo a trovare
unito; e li conviene sperare più nelle forze proprie che ne' disordini
d'altri. Ma, vinto che fussi e rotto alla campagna in modo che non possa rifare
eserciti, non si ha a dubitare daltro che del sangue del principe; il quale
spento, non resta alcuno di chi si abbia a temere, non avendo li altri credito
con li populi: e come el vincitore, avanti la vittoria, non poteva sperare in
loro, cosí non debbe, dopo quella, temere di loro.
El contrario
interviene ne' regni governati come quello di Francia, perché con
facilità tu puoi intrarvi, guadagnandoti alcuno barone del regno;
perché sempre si truova de' malicontenti e di quelli che desiderano
innovare. Costoro, per le ragioni dette, ti possono aprire la via a quello
stato e facilitarti la vittoria; la quale di poi, a volerti mantenere, si tira
drieto infinite difficultà, e con quelli che ti hanno aiutato e con
quelli che tu hai oppressi. Né ti basta spegnere el sangue del principe;
perché vi rimangono quelli signori che si fanno capi delle nuove
alterazioni; e, non li potendo né contentare né spegnere, perdi quello
stato qualunque volta venga la occasione.
Ora, se voi
considerrete di qual natura di governi era quello di Dario, lo troverrete
simile al regno del Turco; e però ad Alessandro fu necessario prima
urtarlo tutto e tòrli la campagna: dopo la quale vittoria, sendo Dario
morto, rimase ad Alessandro quello stato sicuro, per le ragioni di sopra
discorse. E li sua successori, se fussino suti uniti, se lo potevano godere
oziosi; né in quello regno nacquono altri tumulti, che quelli che loro
proprii suscitorono. Ma li stati ordinati come quello di Francia è
impossibile possederli con tanta quiete. Di qui nacquono le spesse rebellioni
di Spagna, di Francia e di Grecia da' Romani, per li spessi principati che
erano in quelli stati: de' quali mentre durò la memoria, sempre ne furono
e' Romani incerti di quella possessione; ma, spenta la memoria di quelli, con
la potenzia e diuturnità dello imperio ne diventorono securi possessori.
E posserno anche quelli, combattendo di poi infra loro, ciascuno tirarsi drieto
parte di quelle provincie, secondo l'autorità vi aveva presa drento; e
quelle, per essere el sangue del loro antiquo signore spento, non riconoscevano
se non e' Romani. Considerato adunque tutte queste cose, non si
maraviglierà alcuno della facilità ebbe Alessandro a tenere lo
stato di Asia e delle difficultà che hanno avuto li altri a conservare
lo acquistato, come Pirro e molti. Il che non è nato dalla molta o poca
virtù del vincitore, ma dalla disformità del subietto.
Quomodo
administrandae sunt civitates vel principatus, qui, antequam occuparentur suis
legibus vivebant.
[In che modo si
debbino governare le città o principati li quali, innanzi fussino
occupati, si vivevano con le loro legge.]
Quando quelli stati
che sacquistano, come è detto, sono consueti a vivere con le loro legge
et in libertà, a volerli tenere, ci sono tre modi: el primo, ruinarle;
l'altro, andarvi ad abitare personalmente; el terzo, lasciarle vivere con le
sua legge, traendone una pensione e creandovi drento uno stato di pochi che te
le conservino amiche. Perché, sendo quello stato creato da quello
principe, sa che non può stare sanza l'amicizia e potenzia sua, et ha a
fare tutto per mantenerlo. E più facilmente si tiene una città
usa a vivere libera con il mezzo de' sua cittadini, che in alcuno altro modo,
volendola preservare.
In exemplis ci sono
li Spartani e li Romani. Li Spartani tennono Atene e Tebe creandovi uno stato
di pochi; tamen le riperderono. Romani, per tenere Capua Cartagine e Numanzia,
le disfeciono, e non le perderono. Vollono tenere la Grecia quasi come tennono
li Spartani, faccendola libera e lasciandoli le sua legge; e non successe loro:
in modo che furono costretti disfare molte città di quella provincia,
per tenerla. Perché, in verità, non ci è modo sicuro a possederle,
altro che la ruina. E chi diviene patrone di una città consueta a vivere
libera, e non la disfaccia, aspetti di esser disfatto da quella; perché
sempre ha per refugio, nella rebellione, el nome della libertà e li
ordini antichi sua; li quali né per la lunghezza de' tempi né per
benefizii mai si dimenticano. E per cosa che si faccia o si provegga, se non si
disuniscano o si dissipano li abitatori, non sdimenticano quel nome né
quelli ordini, e subito in ogni accidente vi ricorrono; come fe' Pisa dopo
cento anni che ella era posta in servitù da' Fiorentini. Ma, quando le
città o le provincie sono use a vivere sotto uno principe, e quel sangue
sia spento, sendo da uno canto usi ad obedire, dall'altro non avendo el
principe vecchio, farne uno infra loro non si accordano, vivere liberi non
sanno; di modo che sono più tardi a pigliare larme, e con più
facilità se li può uno principe guadagnare et assicurarsi di
loro. Ma nelle repubbliche è maggiore vita, maggiore odio, più
desiderio di vendetta; né li lascia, né può lasciare
riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura
via è spegnerle o abitarvi.
De principatibus
novis qui armis propriis et virtute acquiruntur.
[De Principati
nuovi che sacquistano con larme proprie e virtuosamente]
Non si maravigli alcuno
se, nel parlare che io farò de' principati al tutto nuovi e di principe
e di stato, io addurrò grandissimi esempli; perché, camminando li
uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro
con le imitazioni, né si potendo le vie daltri al tutto tenere,
né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo
prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono
stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi
arriva, almeno ne renda qualche odore: e fare come li arcieri prudenti, a'
quali parendo el loco dove disegnono ferire troppo lontano, e conoscendo fino a
quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta
che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza,
ma per potere, con lo aiuto di sí alta mira, pervenire al disegno loro.
Dico adunque, che ne' principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si
trova a mantenerli più o meno difficultà, secondo che più
o meno è virtuoso colui che li acquista. E perché questo evento
di diventare di privato principe, presuppone o virtù o fortuna, pare che
l'una o l'altra di queste dua cose mitighi in parte di molte difficultà:
non di manco, colui che è stato meno sulla fortuna, si è
mantenuto più. Genera ancora facilità essere el principe
constretto, per non avere altri stati, venire personaliter ad abitarvi. Ma, per
venire a quelli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati
principi, dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo,
Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo
suto uno mero esecutore delle cose che li erano ordinate da Dio, tamen debbe
essere ammirato solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio.
Ma consideriamo Ciro e li altri che hanno acquistato o fondato regni: li
troverrete tutti mirabili; e se si considerranno le azioni et ordini loro
particulari, parranno non discrepanti da quelli di Moisè, che ebbe
sí gran precettore. Et esaminando le azioni e vita loro, non si vede che
quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro
materia a potere introdurvi drento quella forma parse loro; e sanza quella
occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella
virtù la occasione sarebbe venuta invano. Era dunque necessario a
Moisè trovare el populo d'Isdrael, in Egitto, stiavo et oppresso dalli
Egizii, acciò che quelli, per uscire di servitù, si disponessino
a seguirlo. Conveniva che Romulo non capissi in Alba, fussi stato esposto al
nascere, a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria.
Bisognava che Ciro trovassi e' Persi malcontenti dello imperio de' Medi, e li
Medi molli et effeminati per la lunga pace. Non posseva Teseo dimonstrare la
sua virtù, se non trovava li Ateniesi dispersi. Queste occasioni, per
tanto, feciono questi uomini felici, e la eccellente virtù loro fece
quella occasione esser conosciuta; donde la loro patria ne fu nobilitata e
diventò felicissima.
Quelli li quali per
vie virtuose, simili a costoro, diventono principi, acquistono el principato
con difficultà, ma con facilità lo tengano; e le
difficultà che hanno nellacquistare el principato, in parte nascono da'
nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e la
loro securtà. E debbasi considerare come non è cosa più
difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né
più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini.
Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini
vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi
farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che
hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li
quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una
ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono nimici hanno
occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri defendano
tepidamente; in modo che insieme con loro si periclita. È necessario per
tanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori
stiano per loro medesimi, o se dependano da altri; ciò è, se per
condurre l'opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo
caso capitano sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma, quando dependono da
loro proprii e possano forzare, allora è che rare volte periclitano. Di
qui nacque che tutti profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono.
Perché, oltre alle cose dette, la natura de' populi è varia; et è
facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella
persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non
credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro,
Teseo e Romulo non arebbono possuto fare osservare loro lungamente le loro
constituzioni, se fussino stati disarmati; come ne' nostri tempi intervenne a
fra' Girolamo Savonerola; il quale ruinò ne' sua ordini nuovi, come la
moltitudine cominciò a non crederli; e lui non aveva modo a tenere fermi
quelli che avevano creduto, né a far credere e' discredenti. Però
questi tali hanno nel condursi gran difficultà, e tutti e' loro periculi
sono fra via, e conviene che con la virtù li superino; ma, superati che
li hanno, e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti quelli che di
sua qualità li avevano invidia, rimangono potenti, securi, onorati,
felici.
A sí alti
esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene arà qualche
proporzione con quelli; e voglio mi basti per tutti li altri simili; e questo
è Ierone Siracusano. Costui, di privato diventò principe di
Siracusa: né ancora lui conobbe altro dalla fortuna che la occasione;
perché, sendo Siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano; donde
meritò d'essere fatto loro principe. E fu di tanta virtù, etiam
in privata fortuna, che chi ne scrive, dice: quod nihil illi deerat ad
regnandum praeter regnum. Costui spense la milizia vecchia, ordinò
della nuova; lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e, come ebbe
amicizie e soldati che fussino sua, possé in su tale fondamento
edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare,
e poca in mantenere.
De principatibus
novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur.
[De principati
nuovi che sacquistano con le armi e fortuna di altri]
Coloro e' quali
solamente per fortuna diventano, di privati principi, con poca fatica
diventano, ma con assai si mantengano; e non hanno alcuna difficultà fra
via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando sono
posti. E questi tali sono, quando è concesso ad alcuno uno stato o per
danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia, nelle
città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario,
acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria; come erano fatti
ancora quelli imperatori che, di privati, per corruzione de' soldati,
pervenivano allo imperio. Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e
fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et
instabili; e non sanno e non possano tenere quel grado: non sanno,
perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non
è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi
comandare; non possano, perché non hanno forze che li possino essere
amiche e fedeli. Di poi, li stati che vengano subito, come tutte laltre cose
della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e
correspondenzie loro in modo, che l primo tempo avverso le spenga; se
già quelli tali, come è detto, che sí de repente sono
diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha
messo loro in grembo, e' sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli
fondamenti che li altri hanno fatto avanti che diventino principi, li faccino
poi.
Io voglio all'uno et
all'altro di questi modi detti, circa el diventare principe per virtù o
per fortuna, addurre dua esempli stati ne' dí della memoria nostra: e
questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e
con una gran virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello
che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall'altra
parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo
stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; non ostante che
per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e
virtuoso uomo si doveva fare, per mettere le barbe sua in quelli stati che
l'arme e fortuna di altri li aveva concessi. Perché, come di sopra si
disse, chi non fa e' fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù
farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo
dello edifizio. Se adunque, si considerrà tutti e' progressi del duca,
si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali
non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi
dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se li
ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una
estraordinaria et estrema malignità di fortuna.
Aveva Alessandro
sesto, nel volere fare grande el duca suo figliuolo, assai difficultà
presenti e future. Prima, non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno
stato che non fussi stato di Chiesia; e, volgendosi a tòrre quello della
Chiesia, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gnene consentirebbano;
perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de'
Viniziani. Vedeva, oltre a questo, l'arme di Italia, e quelle in spezie di chi
si fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano temere la
grandezza del papa; e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli
Orsini e Colonnesi e loro complici. Era adunque necessario si turbassino quelli
ordini, e disordinare li stati di coloro, per potersi insignorire securamente
di parte di quelli. Il che li fu facile; perché trovò Viniziani
che, mossi da altre cagioni, si eron volti a fare ripassare Franzesi in Italia:
il che non solamente non contradisse, ma lo fe' più facile con la
resoluzione del matrimonio antiquo del re Luigi. Passò, adunque, il re
in Italia con lo aiuto de' Viniziani e consenso di Alessandro; né prima
fu in Milano, che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la quale
li fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque el duca la
Romagna, e sbattuti e' Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere
più avanti, lo mpedivano dua cose: l'una, l'arme sua che non li
parevano fedeli, l'altra, la voluntà di Francia: ciò è che
l'arme Orsine, delle quali s'era valuto, li mancassino sotto, e non solamente
li mpedissino lo acquistare ma gli togliessino lacquistato, e che il re
ancora non li facessi el simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando dopo
la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, ché li vidde andare
freddi in quello assalto; e circa el re, conobbe l'animo suo quando, preso el
ducato di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa el re lo fece
desistere. Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme
e fortuna di altri. E, la prima cosa, indebolí le parti Orsine e
Colonnese in Roma; perché tutti li aderenti loro che fussino gentili
uomini, se li guadagnò, facendoli sua gentili uomini e dando loro grandi
provisioni; et onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di
governi: in modo che in pochi mesi nelli animi loro l'affezione delle parti si
spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò la occasione di
spegnere li Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne
bene, e lui la usò meglio; perché, avvedutisi li Orsini, tardi,
che la grandezza del duca e della Chiesia era la loro ruina, feciono una dieta
alla Magione, nel Perugino. Da quella nacque la rebellione di Urbino e li
tumulti di Romagna et infiniti periculi del duca, li quali tutti superò
con lo aiuto de' Franzesi. E, ritornatoli la reputazione, né si fidando
di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si
volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l'animo suo, che li Orsini,
mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale el duca non
mancò d'ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari, veste e
cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigallia nelle sua
mani. Spenti adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua,
aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la
Romagna con il ducato di Urbino, parendoli, massime, aversi acquistata amica la
Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el
bene essere loro.
E, perché
questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio
lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta
comandata da signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e'
loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione,
tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni
altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre
pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi
prepose messer Remirro de Orco uomo crudele et espedito, al quale dette
pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica et unita,
con grandissima reputazione. Di poi iudicò el duca non essere necessario
sí eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi
odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno
presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E
perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche
odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle
monstrare che, se crudeltà alcuna era seguíta, non era nata da
lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr'a questo occasione, lo
fece mettere una mattina, a Cesena, in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo
di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale
spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.
Ma torniamo donde
noi partimmo. Dico che, trovandosi el duca assai potente et in parte assicurato
de' presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte
spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, li restava, volendo
procedere con lo acquisto, el respetto del re di Francia; perché
conosceva come dal re, il quale tardi si era accorto dello errore suo, non li
sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e
vacillare con Francia, nella venuta che feciono Franzesi verso el regno di
Napoli contro alli Spagnuoli che assediavono Gaeta. E l'animo suo era
assicurarsi di loro; il che li sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva.
E questi furono e'
governi sua quanto alle cose presenti. Ma, quanto alle future, lui aveva a
dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesia non li fussi amico e
cercassi torli quello che Alessandro li aveva dato: e pensò farlo in
quattro modi: prima, di spegnere tutti e' sangui di quelli signori che lui
aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di
guadagnarsi tutti e' gentili uomini di Roma, come è detto, per potere
con quelli tenere el papa in freno; terzio, ridurre el Collegio più suo
che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che
potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro
cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per
condotta: perché de' signori spogliati ne ammazzò quanti ne
possé aggiugnere, e pochissimi si salvarono; e' gentili uomini romani si
aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e, quanto al nuovo
acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva di
già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E, come non
avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gnene aveva ad avere
più, per essere di già Franzesi spogliati del Regno dalli
Spagnoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare
l'amicizia sua), e' saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito,
parte per invidia de' Fiorentini, parte per paura; Fiorentini non avevano
remedio: il che se li fusse riuscito (ché li riusciva l'anno medesimo
che Alessandro morí), si acquistava tante forze e tanta reputazione, che
per sé stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla
fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro
morí dopo cinque anni che elli aveva cominciato a trarre fuora la spada.
Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in
aria, infra dua potentissimi eserciti inimici, e malato a morte. Et era nel
duca tanta ferocia e tanta virtù e sí bene conosceva come li
uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e' fondamenti che
in sí poco tempo si aveva fatti, che, se non avessi avuto quelli
eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni
difficultà. E ch'e' fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché
la Romagna laspettò più duno mese; in Roma, ancora che mezzo
vivo, stette sicuro; e benché Ballioni, Vitelli et Orsini venissino in
Roma, non ebbono séguito contro di lui: possé fare, se non chi e'
volle papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma, se nella morte di
Alessandro fussi stato sano, ogni cosa li era facile. E lui mi disse, ne'
dí che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi
nascere, morendo el padre, et a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non
pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.
Raccolte io adunque
tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto,
di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono
ascesi allo imperio. Perché lui avendo l'animo grande e la sua
intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua
disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi,
adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de' nimici,
guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere
da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere quelli che ti possono o
debbono offendere, innovare con nuovi modi li ordini antichi, essere severo e
grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infidele, creare della nuova,
mantenere lamicizie de' re e de' principi in modo che ti abbino o a beneficare
con grazia o offendere con respetto, non può trovare e' più
freschi esempli che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo
nella creazione di Iulio pontefice, nella quale lui ebbe mala elezione;
perché, come è detto, non possendo fare uno papa a suo modo,
poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di
quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino ad
avere paura di lui. Perché li uomini offendono o per paura o per odio.
Quelli che lui aveva offesi erano, infra li altri, San Piero ad Vincula,
Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri, divenuti papi, aveano a temerlo,
eccetto Roano e li Spagnuoli: questi per coniunzione et obligo; quello per
potenzia, avendo coniunto seco el regno di Francia. Per tanto el duca, innanzi
ad ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva
consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede che ne'
personaggi grandi e' benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie,
s'inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione
dell'ultima ruina sua.
De his qui per
scelera ad principatum pervenere.
[Di quelli che per
scelleratezze sono venuti al principato]
Ma perché di
privato si diventa principe ancora in dua modi, il che non si può al
tutto o alla fortuna o alla virtù attribuire, non mi pare da lasciarli
indrieto, ancora che dell'uno si possa più diffusamente ragionare dove
si trattassi delle repubbliche. Questi sono quando, o per qualche via
scellerata e nefaria si ascende al principato, o quando uno privato cittadino
con il favore delli altri sua cittadini diventa principe della sua patria. E,
parlando del primo modo, si monstrerrà con dua esempli, l'uno antiquo
l'altro moderno, sanza intrare altrimenti ne' meriti di questa parte,
perché io iudico che basti, a chi fussi necessitato, imitargli.
Agatocle siciliano,
non solo di privata fortuna, ma di infima et abietta, divenne re di Siracusa.
Costui, nato duno figulo, tenne sempre, per li gradi della sua età,
vita scellerata; non di manco accompagnò le sua scelleratezze con tanta
virtù di animo e di corpo, che, voltosi alla milizia, per li gradi di
quella pervenne ad essere pretore di Siracusa. Nel quale grado sendo
constituito, e avendo deliberato diventare principe e tenere con violenzia e
sanza obligo d'altri quello che d'accordo li era suto concesso, et avuto di
questo suo disegno intelligenzia con Amilcare cartaginese, il quale con li
eserciti militava in Sicilia, raunò una mattina el populo et il senato
di Siracusa, come se elli avessi avuto a deliberare cose pertinenti alla
repubblica; et ad uno cenno ordinato, fece da' sua soldati uccidere tutti li
senatori e li più ricchi del popolo. Li quali morti, occupò e
tenne el principato di quella città sanza alcuna controversia civile. E,
benché da' Cartaginesi fussi dua volte rotto e demum assediato, non
solum possé defendere la sua città, ma, lasciato parte delle sue
genti alla difesa della ossidione, con le altre assaltò l'Affrica, et in
breve tempo liberò Siracusa dallo assedio e condusse Cartagine in
estrema necessità: e furono necessitati accordarsi con quello, esser
contenti della possessione di Affrica, et ad Agatocle lasciare la Sicilia. Chi
considerassi adunque le azioni e virtù di costui, non vedrà cose,
o poche, le quali possa attribuire alla fortuna; con ciò sia cosa, come
di sopra è detto, che non per favore d'alcuno, ma per li gradi della milizia,
li quali con mille disagi e periculi si aveva guadagnati, pervenissi al
principato, e quello di poi con tanti partiti animosi e periculosi mantenessi.
Non si può ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadini,
tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza relligione; li
quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si
considerassi la virtù di Agatocle nello intrare e nello uscire de'
periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose
avverse, non si vede perché elli abbia ad essere iudicato inferiore a
qualunque eccellentissimo capitano. Non di manco, la sua efferata
crudelità e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono
che sia infra li eccellentissimi uomini celebrato. Non si può, adunque,
attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l'una e l'altra fu
da lui conseguito.
Ne' tempi nostri,
regnante Alessandro VI, Oliverotto Firmiano, sendo più anni innanzi
rimaso piccolo, fu da uno suo zio materno, chiamato Giovanni Fogliani,
allevato, e ne' primi tempi della sua gioventù dato a militare sotto
Paulo Vitelli, acciò che, ripieno di quella disciplina, pervenissi a
qualche eccellente grado di milizia. Morto di poi Paulo, militò sotto
Vitellozzo suo fratello; et in brevissimo tempo, per essere ingegnoso, e della
persona e dello animo gagliardo, diventò el primo uomo della sua
milizia. Ma, parendoli cosa servile lo stare con altri, pensò, con lo
aiuto di alcuni cittadini di Fermo a' quali era più cara la servitù
che la libertà della loro patria, e con il favore vitellesco, di
occupare Fermo. E scrisse a Giovanni Fogliani come, sendo stato più anni
fuora di casa, voleva venire a vedere lui e la sua città, et in qualche
parte riconoscere el suo patrimonio: e perché non sera affaticato per
altro che per acquistare onore, acciò che sua cittadini vedessino come
non aveva speso el tempo in vano, voleva venire onorevole et accompagnato da
cento cavalli di sua amici e servidori; e pregavalo fussi contento ordinare che
da' Firmiani fussi ricevuto onoratamente; il che non solamente tornava onore a
lui, ma a sé proprio, sendo suo allievo. Non mancò, per tanto
Giovanni di alcuno offizio debito verso el nipote; e fattolo ricevere da'
Firmiani onoratamente, si alloggiò nelle case sua: dove, passato alcuno
giorno, et atteso ad ordinare quello che alla sua futura scelleratezza era
necessario, fece uno convito solennissimo, dove invitò Giovanni Fogliani
e tutti li primi uomini di Fermo. E, consumate che furono le vivande, e tutti
li altri intrattenimenti che in simili conviti si usano, Oliverotto, ad arte,
mosse certi ragionamenti gravi, parlando della grandezza di papa Alessandro e
di Cesare suo figliuolo, e delle imprese loro. A' quali ragionamenti
respondendo Giovanni e li altri, lui a un tratto si rizzò, dicendo
quelle essere cose da parlarne in loco più secreto; e ritirossi in una
camera, dove Giovanni e tutti li altri cittadini li andorono drieto. Né
prima furono posti a sedere, che de' luoghi secreti di quella uscirono soldati,
che ammazzorono Giovanni e tutti li altri. Dopo il quale omicidio, montò
Oliverotto a cavallo, e corse la terra, et assediò nel palazzo el
supremo magistrato; tanto che per paura furono constretti obbedirlo e fermare
uno governo, del quale si fece principe. E, morti tutti quelli che, per essere
malcontenti, lo potevono offendere, si corroborò con nuovi ordini civili
e militari; in modo che, in spazio d'uno anno che tenne el principato, lui non
solamente era sicuro nella città di Fermo, ma era diventato pauroso a
tutti li sua vicini. E sarebbe suta la sua espugnazione difficile come quella
di Agatocle, se non si fussi suto lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando a
Sinigallia, come di sopra si disse, prese li Orsini e Vitelli; dove, preso
ancora lui, uno anno dopo el commisso parricidio, fu, insieme con Vitellozzo,
il quale aveva avuto maestro delle virtù e scelleratezze sua,
strangolato.
Potrebbe alcuno
dubitare donde nascessi che Agatocle et alcuno simile, dopo infiniti tradimenti
e crudeltà, possé vivere lungamente sicuro nella sua patria e
defendersi dalli inimici esterni, e da' sua cittadini non li fu mai conspirato
contro; con ciò sia che molti altri, mediante la crudeltà non
abbino, etiam ne' tempi pacifici, possuto mantenere lo stato, non che ne' tempi
dubbiosi di guerra. Credo che questo avvenga dalle crudeltà male usate o
bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è licito
dire bene) che si fanno ad uno tratto, per necessità dello assicurarsi,
e di poi non vi si insiste drento ma si convertiscono in più
utilità de' sudditi che si può. Male usate sono quelle le quali,
ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che
le si spenghino. Coloro che osservano el primo modo, possono con Dio e con li
uomini avere allo stato loro qualche remedio, come ebbe Agatocle; quelli altri
è impossibile si mantenghino. Onde è da notare che, nel pigliare
uno stato, debbe l'occupatore di esso discorrere tutte quelle offese che li
è necessario fare; e tutte farle a un tratto, per non le avere a rinnovare
ogni dí, e potere, non le innovando, assicurare li uomini e
guadagnarseli con beneficarli. Chi fa altrimenti, o per timidità o per
mal consiglio, è sempre necessitato tenere el coltello in mano;
né mai può fondarsi sopra li sua sudditi non si potendo quelli
per le fresche e continue iniurie assicurare di lui. Perché le iniurie
si debbono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino
meno: e' benefizii si debbono fare a poco a poco, acciò che si
assaporino meglio. E debbe, sopra tutto, uno principe vivere con li suoi
sudditi in modo che veruno accidente o di male o di bene lo abbi a far variare:
perché, venendo per li tempi avversi le necessità, tu non se' a
tempo al male, et il bene che tu fai non ti giova, perché è
iudicato forzato, e non te n'è saputo grado alcuno.
De principatu
civili.
[Del Principato
Civile]
Ma venendo all'altra
parte, quando uno privato cittadino, non per scelleratezza o altra
intollerabile violenzia, ma con il favore delli altri sua cittadini diventa
principe della sua patria, il quale si può chiamare principato civile
(né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta
fortuna, ma più presto una astuzia fortunata), dico che si ascende a
questo principato o con il favore del populo o con il favore de' grandi.
Perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi; e
nasce da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso
da' grandi, e li grandi desiderano comandare et opprimere el populo; e da
questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de' tre effetti, o
principato o libertà o licenzia.
El principato
è causato o dal populo o da' grandi, secondo che l'una o l'altra di
queste parti ne ha occasione; perché, vedendo e' grandi non potere
resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione ad uno di loro, e
fannolo principe per potere sotto la sua ombra sfogare lappetito loro. El
populo ancora, vedendo non potere resistere a' grandi, volta la reputazione ad
uno, e lo fa principe, per essere con la autorità sua difeso. Colui che
viene al principato con lo aiuto de' grandi, si mantiene con più
difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo; perché
si trova principe con di molti intorno che li paiano essere sua eguali, e per
questo non li può né comandare né maneggiare a suo modo.
Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e
ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a
questo, non si può con onestà satisfare a' grandi e sanza iniuria
d'altri, ma sí bene al populo: perché quello del populo è
più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e
quello non essere oppresso. Preterea, del populo inimico uno principe non si
può mai assicurare, per essere troppi; de' grandi si può
assicurare, per essere pochi. El peggio che possa aspettare uno principe dal
populo inimico, è lo essere abbandonato da lui; ma da' grandi, inimici,
non solo debbe temere di essere abbandonato, ma etiam che loro li venghino
contro; perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia,
avanzono sempre tempo per salvarsi, e cercono gradi con quelli che sperano che
vinca. È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello
medesimo populo; ma può ben fare sanza quelli medesimi grandi, potendo
farne e disfarne ogni dí, e tòrre e dare, a sua posta,
reputazione loro.
E per chiarire
meglio questa parte, dico come e' grandi si debbono considerare in dua modi
principalmente. O si governano in modo, col procedere loro, che si obbligano in
tutto alla tua fortuna, o no. Quelli che si obbligano, e non sieno rapaci, si
debbono onorare et amare; quelli che non si obbligano, si hanno ad esaminare in
dua modi: o fanno questo per pusillanimità e defetto naturale danimo:
allora tu ti debbi servire di quelli massime che sono di buono consiglio,
perché nelle prosperità te ne onori, e nelle avversità non
hai da temerne. Ma, quando non si obbligano ad arte e per cagione ambiziosa,
è segno come pensano più a sé che a te; e da quelli si
debbe el principe guardare, e temerli come se fussino scoperti inimici,
perché sempre, nelle avversità, aiuteranno ruinarlo.
Debbe, per tanto,
uno che diventi principe mediante el favore del populo, mantenerselo amico; il
che li fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che
contro al populo diventi principe con il favore de' grandi, debbe innanzi a
ogni altra cosa cercare di guadagnarsi el populo: il che li fia facile, quando
pigli la protezione sua. E perché li uomini, quando hanno bene da chi
credevano avere male, si obbligano più al beneficatore loro, diventa el
populo subito più suo benivolo, che se si fussi condotto al principato
con favori sua: e puosselo el principe guadagnare in molti modi, li quali,
perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa
regola, e però si lasceranno indrieto. Concluderò solo che a uno
principe è necessario avere el populo amico: altrimenti non ha, nelle
avversità, remedio.
Nabide, principe
delli Spartani, sostenne la ossidione di tutta Grecia e di uno esercito romano
vittoriosissimo, e difese contro a quelli la patria sua et il suo stato: e li
bastò solo, sopravvenente il periculo, assicurarsi di pochi: ché
se elli avessi avuto el populo inimico, questo non li bastava. E non sia alcuno
che repugni a questa mia opinione con quello proverbio trito, che chi fonda
in sul populo, fonda in sul fango: perché quello è vero,
quando uno cittadino privato vi fa su fondamento, e dassi ad intendere che il
populo lo liberi, quando fussi oppresso da' nimici o da' magistrati. In questo
caso si potrebbe trovare spesso ingannato, come a Roma e' Gracchi et a Firenze
messer Giorgio Scali. Ma, sendo uno principe che vi fondi su, che possa
comandare e sia uomo di core, né si sbigottisca nelle avversità,
e non manchi delle altre preparazioni, e tenga con lanimo et ordini sua
animato luniversale, mai si troverrà ingannato da lui, e li
parrà avere fatto li sua fondamenti buoni.
Sogliono questi
principati periclitare quando sono per salire dallordine civile allo assoluto;
perché questi principi, o comandano per loro medesimi, o per mezzo de'
magistrati. Nell'ultimo caso, è più debole e più
periculoso lo stare loro; perché gli stanno al tutto con la
voluntà di quelli cittadini che sono preposti a' magistrati: li quali,
massime ne' tempi avversi, li possono tòrre con facilità grande
lo stato, o con farli contro, o con non lo obedire. Et el principe non è
a tempo, ne' periculi, a pigliare lautorità assoluta; perché li
cittadini e sudditi, che sogliono avere e' comandamenti da' magistrati, non
sono, in quelli frangenti, per obedire a' sua; et arà sempre, ne' tempi
dubii, penuria di chi si possa fidare. Perché simile principe non
può fondarsi sopra a quello che vede ne' tempi quieti, quando e'
cittadini hanno bisogno dello stato; perché allora ognuno corre, ognuno
promette, e ciascuno vuole morire per lui, quando la morte è discosto;
ma ne' tempi avversi, quando lo stato ha bisogno de' cittadini, allora se ne
truova pochi. E tanto più è questa esperienzia periculosa, quanto
la non si può fare se non una volta. E però uno principe savio
debba pensare uno modo per il quale li sua cittadini, sempre et in ogni
qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui: e sempre poi li
saranno fedeli.
Quomodo omnium
principatuum vires perpendi debeant.
[In che modo si
debbino misurare le forze di tutti i principati]
Conviene avere,
nello esaminare le qualità di questi principati, un'altra
considerazione: cioè, se uno principe ha tanto stato che possa,
bisognando, per sé medesimo reggersi, o vero se ha sempre
necessità della defensione di altri. E, per chiarire meglio questa
parte, dico come io iudico coloro potersi reggere per sé medesimi, che
possono, o per abundanzia di uomini, o di denari, mettere insieme un esercito
iusto, e fare una giornata con qualunque li viene ad assaltare; e cosí
iudico coloro avere sempre necessità di altri, che non possono comparire
contro al nimico in campagna, ma sono necessitati rifuggirsi drento alle mura e
guardare quelle. Nel primo caso, si è discorso; e per lo avvenire diremo
quello ne occorre. Nel secondo caso non si può dire altro, salvo che
confortare tali principi a fortificare e munire la terra propria, e del paese
non tenere alcuno conto. E qualunque arà bene fortificata la sua terra,
e circa li altri governi con li sudditi si fia maneggiato come di sopra
è detto e di sotto si dirà, sarà sempre con grande
respetto assaltato; perché li uomini sono sempre nimici delle imprese
dove si vegga difficultà, né si può vedere facilità
assaltando uno che abbi la sua terra gagliarda e non sia odiato dal populo.
Le città di
Alamagna sono liberissime, hanno poco contado, et obediscano allo imperatore
quando le vogliono, e non temono né quello né altro potente che e
abbino intorno; perché le sono in modo fortificate, che ciascuno pensa
la espugnazione di esse dovere essere tediosa e difficile. Perché tutte
hanno fossi e mura conveniente; hanno artiglierie a sufficienzia; tengono
sempre nelle cànove publiche da bere e da mangiare e da ardere per uno
anno; et oltre a questo, per potere tenere la plebe pasciuta e sanza perdita
del pubblico, hanno sempre in comune per uno anno da potere dare loro da
lavorare in quelli esercizii che sieno el nervo e la vita di quella
città e delle industrie de' quali la plebe pasca. Tengono ancora li
esercizii militari in reputazione, e sopra questo hanno molti ordini a
mantenerli.
Uno principe,
adunque, che abbi una città forte e non si facci odiare, non può
essere assaltato; e, se pure fussi chi lo assaltassi, se ne partirà con
vergogna; perché le cose del mondo sono sí varie, che elli
è quasi impossibile che uno potessi con li eserciti stare uno anno
ozioso a campeggiarlo. E chi replicasse: se il populo arà le sue
possessioni fuora, e veggale ardere, non ci arà pazienza, et il lungo
assedio e la carità propria li farà sdimenticare el principe;
respondo che uno principe potente et animoso supererà sempre tutte
quelle difficultà, dando ora speranza a' sudditi che el male non fia
lungo, ora timore della crudeltà del nimico, ora assicurandosi con destrezza
di quelli che li paressino troppo arditi. Oltre a questo, el nimico,
ragionevolmente, debba ardere e ruinare el paese in sulla sua giunta e ne'
tempi, quando li animi delli uomini sono ancora caldi e volenterosi alla
difesa; e però tanto meno el principe debbe dubitare, perché,
dopo qualche giorno, che li animi sono raffreddi, sono di già fatti e'
danni, sono ricevuti e' mali, e non vi è più remedio; et allora
tanto più si vengono a unire con il loro principe, parendo che lui abbia
con loro obbligo sendo loro sute arse le case, ruinate le possessioni, per la
difesa sua. E la natura delli uomini è, cosí obbligarsi per li
benefizii che si fanno, come per quelli che si ricevano. Onde, se si
considerrà bene tutto, non fia difficile a uno principe prudente tenere
prima e poi fermi li animi de' sua cittadini nella ossidione, quando non li
manchi da vivere né da difendersi.
De principatibus
ecclesiasticis.
[De principati
ecclesiastici]
Restaci solamente,
al presente, a ragionare de' principati ecclesiastici: circa quali tutte le
difficultà sono avanti che si possegghino: perché si acquistano o
per virtù o per fortuna, e sanza l'una e l'altra si mantengano;
perché sono sustentati dalli ordini antiquati nella religione, quali
sono suti tanto potenti e di qualità che tengono e' loro principi in
stato, in qualunque modo si procedino e vivino. Costoro soli hanno stati, e non
li defendano; sudditi, e non li governano: e li stati, per essere indifesi, non
sono loro tolti; e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano,
né pensano né possono alienarsi da loro. Solo, adunque, questi
principati sono sicuri e felici. Ma, sendo quelli retti da cagioni superiore,
alla quale mente umana non aggiugne, lascerò el parlarne; perché,
sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo prosuntuoso e
temerario discorrerne. Non di manco, se alcuno mi ricercassi donde viene che la
Chiesia, nel temporale, sia venuta a tanta grandezza, con ciò sia che da
Alessandro indrieto, e' potentati italiani, et non solum quelli che si
chiamavono e' potentati, ma ogni barone e signore, benché minimo, quanto
al temporale, la estimava poco, et ora uno re di Francia ne trema, e lo ha
possuto cavare di Italia e ruinare Viniziani: la qual cosa, ancora che sia
nota, non mi pare superfluo ridurla in buona parte alla memoria.
Avanti che Carlo re
di Francia passassi in Italia, era questa provincia sotto lo imperio del papa,
Viniziani, re di Napoli, duca di Milano e Fiorentini. Questi potentati avevano
ad avere dua cure principali: l'una, che uno forestiero non entrassi in Italia
con le arme; l'altra, che veruno di loro occupassi più stato. Quelli a
chi si aveva più cura erano Papa e Viniziani. Et a tenere indrieto
Viniziani, bisognava la unione di tutti li altri, come fu nella difesa di
Ferrara; et a tenere basso el Papa, si servivano de' baroni di Roma: li quali,
sendo divisi in due fazioni, Orsini e Colonnesi, sempre vi era cagione di
scandolo fra loro; e, stando con le arme in mano in su li occhi al pontefice,
tenevano el pontificato debole et infermo. E, benché surgessi qualche
volta uno papa animoso, come fu Sisto, tamen la fortuna o il sapere non lo
possé mai disobbligare da queste incomodità. E la brevità
della vita loro nera cagione; perché in dieci anni che, ragguagliato,
viveva uno papa, a fatica che potessi sbassare una delle fazioni; e se,
verbigrazia, l'uno aveva quasi spenti Colonnesi, surgeva un altro inimico alli
Orsini, che li faceva resurgere, e li Orsini non era a tempo a spegnere. Questo
faceva che le forze temporali del papa erano poco stimate in Italia. Surse di
poi Alessandro VI, il quale, di tutti pontefici che sono stati mai,
monstrò quanto uno papa, e con il danaio e con le forze, si poteva
prevalere, e fece, con lo instrumento del duca Valentino e con la occasione
della passata de' Franzesi, tutte quelle cose che io discorro di sopra nelle
azioni del duca. E, benché lo intento suo non fussi fare grande la
Chiesia, ma il duca, nondimeno ciò che fece tornò a grandezza
della Chiesia; la quale, dopo la sua morte, spento el duca, fu erede delle sue
fatiche. Venne di poi papa Iulio; e trovò la Chiesia grande, avendo
tutta la Romagna e sendo spenti e' baroni di Roma e, per le battiture di
Alessandro, annullate quelle fazioni; e trovò ancora la via aperta al
modo dello accumulare danari, non mai più usitato da Alessandro
indrieto.
Le quali cose Iulio
non solum seguitò, ma accrebbe; e pensò a guadagnarsi Bologna e
spegnere e' Viniziani et a cacciare Franzesi di Italia; e tutte queste imprese
li riuscirono, e con tanta più sua laude, quanto fece ogni cosa per
accrescere la Chiesia e non alcuno privato. Mantenne ancora le parti Orsine e
Colonnese in quelli termini che le trovò; e benché tra loro fussi
qualche capo da fare alterazione, tamen dua cose li ha tenuti fermi: l'una, la
grandezza della Chiesia, che li sbigottisce; l'altra, el non avere loro
cardinali, li quali sono origine de' tumulti infra loro. Né mai staranno
quiete queste parti, qualunque volta abbino cardinali, perché questi
nutriscono, in Roma e fuora, le parti, e quelli baroni sono forzati a
defenderle: e cosí dalla ambizione de' prelati nascono le discordie e li
tumulti infra e' baroni. Ha trovato adunque la Santità di papa Leone
questo pontificato potentissimo: il quale si spera, se quelli lo feciono grande
con le arme, questo, con la bontà e infinite altre sue virtù, lo
farà grandissimo e venerando.
Quot sint genera
militiae et de mercennariis militibus.
[Di quante ragioni
sia la milizia, e de soldati mercennarii]
Avendo discorso
particularmente tutte le qualità di quelli principati de' quali nel
principio proposi di ragionare, e considerato in qualche parte le cagioni del
bene e del male essere loro, e monstro e' modi con li quali molti hanno cerco
di acquistarli e tenerli, mi resta ora a discorrere generalmente le offese e
difese che in ciascuno de' prenominati possono accadere. Noi abbiamo detto di
sopra, come a uno principe è necessario avere e' sua fondamenti buoni;
altrimenti, conviene che rovini. E' principali fondamenti che abbino tutti li
stati, cosí nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone
arme. E perché non può essere buone legge dove non sono buone
arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò
indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme.
Dico, adunque, che
l'arme con le quali uno principe defende el suo stato, o le sono proprie o le
sono mercennarie, o ausiliarie o miste. Le mercennarie et ausiliarie sono
inutile e periculose; e, se uno tiene lo stato suo fondato in sulle arme
mercennarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono
disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra li amici; fra
nimici, vile; non timore di Dio, non fede con li uomini, e tanto si differisce
la ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se' spogliato da loro,
nella guerra da' nimici. La cagione di questo è, che le non hanno altro
amore né altra cagione che le tenga in campo, che uno poco di stipendio,
il quale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono
bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra
viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa doverrei durare poca fatica a
persuadere, perché ora la ruina di Italia non è causata da altro
che per essere in spazio di molti anni riposatasi in sulle arme mercennarie. Le
quali feciono già per qualcuno qualche progresso, e parevano gagliarde
infra loro; ma, come venne el forestiero, le mostrorono quello che elle erano.
Onde che a Carlo re di Francia fu licito pigliare la Italia col gesso; e chi
diceva come e' n'erano cagione e' peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi che io ho narrati: e perché
elli erano peccati di principi, ne hanno patito la pena ancora loro.
Io voglio dimonstrare
meglio la infelicità di queste arme. E' capitani mercennarii, o sono
uomini eccellenti, o no: se sono, non te ne puoi fidare, perché sempre
aspireranno alla grandezza propria, o con lo opprimere te che li se' patrone, o
con opprimere altri fuora della tua intenzione; ma, se non è il capitano
virtuoso, ti rovina per l'ordinario. E se si responde che qualunque arà
le arme in mano farà questo, o mercennario o no, replicherei come larme
hanno ad essere operate o da uno principe o da una repubblica. El principe
debbe andare in persona, e fare lui l'offizio del capitano; la repubblica ha a
mandare sua cittadini; e quando ne manda uno che non riesca valente uomo, debbe
cambiarlo; e quando sia, tenerlo con le leggi che non passi el segno. E per
esperienzia si vede a' principi soli e repubbliche armate fare progressi
grandissimi, et alle arme mercennarie non fare mai se non danno. E con
più difficultà viene alla obedienza di uno suo cittadino una
repubblica armata di arme proprie, che una armata di armi esterne.
Stettono Roma e
Sparta molti secoli armate e libere. Svizzeri sono armatissimi e liberissimi.
Delle arme mercennarie antiche in exemplis sono Cartaginesi; li quali furono
per essere oppressi da' loro soldati mercennarii, finita la prima guerra con li
Romani, ancora che Cartaginesi avessino per capi loro proprii cittadini.
Filippo Macedone fu fatto da' Tebani, dopo la morte di Epaminunda, capitano
delle loro gente; e tolse loro, dopo la vittoria, la libertà. Milanesi,
morto il duca Filippo, soldorono Francesco Sforza contro a' Viniziani; il
quale, superati li inimici a Caravaggio, si congiunse con loro per opprimere e'
Milanesi suoi patroni. Sforza suo padre, sendo soldato della regina Giovanna di
Napoli, la lasciò in un tratto disarmata; onde lei, per non perdere el
regno, fu constretta gittarsi in grembo al re di Aragonia. E, se Viniziani e
Fiorentini hanno per lo adrieto cresciuto lo imperio loro con queste arme, e li
loro capitani non se ne sono però fatti principi ma li hanno difesi,
respondo che Fiorentini in questo caso sono suti favoriti dalla sorte;
perché de' capitani virtuosi, de' quali potevano temere, alcuni non
hanno vinto, alcuni hanno avuto opposizione, altri hanno volto la ambizione
loro altrove. Quello che non vinse fu Giovanni Aucut, del quale, non vincendo,
non si poteva conoscere la fede; ma ognuno confesserà che, vincendo,
stavano Fiorentini a sua discrezione. Sforza ebbe sempre e' Bracceschi
contrarii, che guardorono l'uno l'altro. Francesco volse l'ambizione sua in
Lombardia; Braccio contro alla Chiesia et il regno di Napoli. Ma vegniamo a
quello che è seguito poco tempo fa. Feciono Fiorentini Paulo Vitelli
loro capitano, uomo prudentissimo, e che di privata fortuna aveva presa
grandissima reputazione. Se costui espugnava Pisa, veruno fia che nieghi come
conveniva a' Fiorentini stare seco; perché, se fussi diventato soldato
di loro nemici, non avevano remedio; e se lo tenevano, aveano ad obedirlo.
Viniziani, se si considerrà e' progressi loro, si vedrà quelli
avere securamente e gloriosamente operato mentre ferono la guerra loro proprii:
che fu avanti che si volgessino con le loro imprese in terra: dove co' gentili
uomini e con la plebe armata operorono virtuosissimamente; ma, come
cominciorono a combattere in terra, lasciorono questa virtù, e
seguitorono e' costumi delle guerre di Italia. E nel principio dello augumento
loro in terra, per non vi avere molto stato e per essere in grande reputazione,
non aveano da temere molto de' loro capitani; ma, come ellino ampliorono, che
fu sotto el Carmignola, ebbono uno saggio di questo errore. Perché,
vedutolo virtuosissimo, battuto che ebbono sotto il suo governo el duca di
Milano, e conoscendo da altra parte come elli era raffreddo nella guerra,
iudicorono con lui non potere più vincere, perché non voleva,
né potere licenziarlo, per non riperdere ciò che aveano
acquistato; onde che furono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo. Hanno
di poi avuto per loro capitani Bartolomeo da Bergamo, Ruberto da San Severino,
Conte di Pitigliano, e simili; con li quali aveano a temere della perdita, non
del guadagno loro: come intervenne di poi a Vailà, dove, in una
giornata, perderono quello che in ottocento anni, con tanta fatica, avevano
acquistato. Perché da queste armi nascono solo e' lenti, tardi e deboli
acquisti, e le subite e miraculose perdite. E, perché io sono venuto con
questi esempli in Italia, la quale è stata governata molti anni dalle
arme mercennarie, le voglio discorrere, e più da alto, acciò che,
veduto lorigine e progressi di esse, si possa meglio correggerle.
Avete dunque a
intendere come, tosto che in questi ultimi tempi lo imperio cominciò a
essere ributtato di Italia, e che il papa nel temporale vi prese più
reputazione, si divise la Italia in più stati; perché molte delle
città grosse presono larme contra a' loro nobili, li quali, prima
favoriti dallo imperatore, le tennono oppresse; e la Chiesia le favoriva per
darsi reputazione nel temporale; di molte altre e' loro cittadini ne
diventorono principi. Onde che, essendo venuta l'Italia quasi che nelle mani
della Chiesia e di qualche Repubblica, et essendo quelli preti e quelli altri
cittadini usi a non conoscere arme, cominciorono a soldare forestieri. El primo
che dette reputazione a questa milizia fu Alberigo da Conio, romagnolo. Dalla disciplina
di costui discese, intra li altri, Braccio e Sforza, che ne' loro tempi furono
arbitri di Italia. Dopo questi, vennono tutti li altri che fino a' nostri tempi
hanno governato queste arme. Et il fine della loro virtù è stato,
che Italia è suta corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando
e vituperata da' Svizzeri. L'ordine che ellino hanno tenuto, è stato,
prima, per dare reputazione a loro proprii, avere tolto reputazione alle
fanterie. Feciono questo, perché, sendo sanza stato et in sulla
industria, e' pochi fanti non davano loro reputazione, e li assai non potevano
nutrire; e però si ridussono a' cavalli, dove con numero sopportabile
erano nutriti et onorati. Et erono ridotte le cose in termine, che in uno
esercito di ventimila soldati non si trovava dumila fanti. Avevano, oltre a
questo, usato ogni industria per levare a sé et a' soldati la fatica e
la paura, non si ammazzando nelle zuffe, ma pigliandosi prigioni e sanza
taglia. Non traevano la notte alle terre; quelli delle terre non traevano alle
tende; non facevano intorno al campo né steccato né fossa; non
campeggiavano el verno. E tutte queste cose erano permesse ne' loro ordini
militari, e trovate da loro per fuggire, come è detto, e la fatica e li
pericoli: tanto che li hanno condotta Italia stiava e vituperata.
De militibus
auxiliariis, mixtis et propriis.
[De soldati
ausiliarii, misti e proprii]
L'armi ausiliarie,
che sono l'altre armi inutili, sono quando si chiama uno potente che con le
arme sue ti venga ad aiutare e defendere: come fece ne' prossimi tempi papa
Iulio; il quale, avendo visto nella impresa di Ferrara la trista pruova delle
sue armi mercennarie, si volse alle ausiliarie, e convenne con Ferrando re di
Spagna che con le sua gente et eserciti dovesse aiutarlo. Queste arme possono
essere utile e buone per loro medesime, ma sono, per chi le chiama, quasi
sempre dannose: perché, perdendo rimani disfatto, vincendo, resti loro
prigione. Et ancora che di questi esempli ne siano piene le antiche istorie,
non di manco io non mi voglio partire da questo esemplo fresco di papa Iulio
II; el partito del quale non possé essere manco considerato, per volere
Ferrara, cacciarsi tutto nelle mani d'uno forestiere. Ma la sua buona fortuna
fece nascere una terza cosa, acciò non cogliessi el frutto della sua
mala elezione: perché, sendo li ausiliari sua rotti a Ravenna, e
surgendo e' Svizzeri che cacciorono e' vincitori, fuora dogni opinione e sua e
d'altri, venne a non rimanere prigione delli inimici, sendo fugati, né
delli ausiliarii sua, avendo vinto con altre arme che con le loro. Fiorentini,
sendo al tutto disarmati, condussono diecimila Franzesi a Pisa per espugnarla:
per il quale partito portorono più pericolo che in qualunque tempo de'
travagli loro. Lo imperatore di Costantinopoli, per opporsi alli sua vicini,
misse in Grecia diecimila Turchi; li quali, finita la guerra, non se ne volsono
partire: il che fu principio della servitù di Grecia con li infedeli.
Colui, adunque, che
vuole non potere vincere, si vaglia di queste arme, perché sono molto
più pericolose che le mercennarie: perché in queste è la
ruina fatta: sono tutte unite, tutte volte alla obedienza di altri; ma nelle
mercennarie, ad offenderti, vinto che le hanno, bisogna più tempo e
maggiore occasione, non sendo tutto uno corpo, et essendo trovate e pagate da
te; nelle quali uno terzo che tu facci capo, non può pigliare subito
tanta autorità che ti offenda. In somma, nelle mercennarie è
più pericolosa la ignavia, nelle ausiliarie, la virtù.
Uno principe, per
tanto, savio, sempre ha fuggito queste arme, e voltosi alle proprie; et ha
volsuto più tosto perdere con li sua che vincere con li altri, iudicando
non vera vittoria quella che con le armi aliene si acquistassi. Io non
dubiterò mai di allegare Cesare Borgia e le sue azioni. Questo duca
intrò in Romagna con le armi ausiliarie, conducendovi tutte gente
franzese, e con quelle prese Imola e Furlí, ma non li parendo poi tale
arme sicure, si volse alle mercennarie, iudicando in quelle manco periculo; e soldò
li Orsini e Vitelli. Le quali poi nel maneggiare trovando dubie et infideli e
periculose, le spense, e volsesi alle proprie. E puossi facilmente vedere che
differenzia è infra l'una e l'altra di queste arme, considerato che
differenzia fu dalla reputazione del duca, quando aveva Franzesi soli e quando
aveva li Orsini e Vitelli, a quando rimase con li soldati sua e sopra
sé stesso e sempre si troverrà accresciuta; né mai fu
stimato assai, se non quando ciascuno vidde che lui era intero possessore delle
sue arme.
Io non mi volevo
partire dalli esempli italiani e freschi; tamen non voglio lasciare indrieto
Ierone Siracusano, sendo uno de' soprannominati da me. Costui, come io dissi,
fatto da' Siracusani capo delli eserciti, conobbe subito quella milizia
mercennaria non essere utile, per essere conduttieri fatti come li nostri
italiani; e, parendoli non li possere tenere né lasciare, li fece tutti
tagliare a pezzi: e di poi fece guerra con le arme sua e non con le aliene.
Voglio ancora ridurre a memoria una figura del Testamento Vecchio fatta a
questo proposito. Offerendosi David a Saul di andare a combattere con Golia,
provocatore filisteo, Saul, per dargli animo, l'armò dellarme sua, le
quali, come David ebbe indosso, recusò, dicendo con quelle non si potere
bene valere di sé stesso, e però voleva trovare el nimico con la
sua fromba e con il suo coltello.
In fine, l'arme
d'altri, o le ti caggiono di dosso o le ti pesano o le ti stringano. Carlo VII,
padre del re Luigi XI, avendo, con la sua fortuna e virtù, libera
Francia dalli Inghilesi, conobbe questa necessità di armarsi di arme
proprie, e ordinò nel suo regno l'ordinanza delle gente d'arme e delle
fanterie. Di poi el re Luigi suo figliuolo spense quella de' fanti, e
cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore, seguitato dalli altri,
è, come si vede ora in fatto, cagione de' pericoli di quello regno.
Perché, avendo dato reputazione a' Svizzeri, ha invilito tutte larme
sua; perché le fanterie ha spento e le sua gente d'arme ha obligato alle
arme d'altri; perché, sendo assuefatte a militare con Svizzeri, non par
loro di potere vincere sanza essi. Di qui nasce che Franzesi contro a Svizzeri
non bastano, e sanza Svizzeri, contro ad altri non pruovano. Sono dunque stati
li eserciti di Francia misti, parte mercennarii e parte proprii: le quali arme
tutte insieme sono molto migliori che le semplici ausiliarie o le semplici
mercennarie, e molto inferiore alle proprie. E basti lo esemplo detto;
perché el regno di Francia sarebbe insuperabile, se l'ordine di Carlo
era accresciuto o preservato. Ma la poca prudenzia delli uomini comincia una
cosa, che, per sapere allora di buono, non si accorge del veleno che vi
è sotto: come io dissi, di sopra delle febbre etiche.
Per tanto colui che
in uno principato non conosce e' mali quando nascono, non è veramente
savio; e questo è dato a pochi. E, se si considerassi la prima ruina
dello Imperio romano, si troverrà essere suto solo cominciare a soldare
e' Goti; perché da quello principio cominciorono a enervare le forze
dello Imperio romano; e tutta quella virtù che si levava da lui si dava
a loro. Concludo, adunque, che, sanza avere arme proprie, nessuno principato
è sicuro; anzi è tutto obligato alla fortuna, non avendo
virtù che nelle avversità lo difenda. E fu sempre opinione e
sentenzia delli uomini savi, quod nihil sit tam infirmum aut instabile quam
fama potentiae non sua vi nixa. E l'arme proprie son quelle che sono
composte o di sudditi o di cittadini o di creati tua: tutte l'altre sono o
mercennarie o ausiliarie. Et il modo ad ordinare l'arme proprie sarà
facile a trovare, se si discorrerà li ordini de' quattro sopra nominati
da me, e se si vedrà come Filippo, padre di Alessandro Magno, e come
molte repubbliche e principi si sono armati et ordinati: a' quali ordini io al
tutto mi rimetto.
Quod principem
deceat circa militiam.
[Quello che
sappartenga a uno principe circa la milizia]
Debbe adunque uno
principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere
cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa;
perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda. Et
è di tanta virtù, che non solamente mantiene quelli che sono nati
principi, ma molte volte fa li uomini di privata fortuna salire a quel grado; e
per avverso si vede che, quando e' principi hanno pensato più alle
delicatezze che alle arme, hanno perso lo stato loro. E la prima cagione che ti
fa perdere quello, è negligere questa arte; e la cagione che te lo fa
acquistare, è lo essere professo di questa arte.
Francesco Sforza,
per essere armato, di privato diventò duca di Milano; e' figliuoli, per
fuggire e' disagi delle arme, di duchi diventorono privati. Perché,
intra le altre cagioni che ti arreca di male lo essere disarmato, ti fa
contennendo: la quale è una di quelle infamie dalle quali el principe si
debbe guardare, come di sotto si dirà. Perché da uno armato a uno
disarmato non è proporzione alcuna; e non è ragionevole che chi
è armato obedisca volentieri a chi è disarmato, e che il
disarmato stia sicuro intra servitori armati. Perché, sendo nell'uno
sdegno e nell'altro sospetto, non è possibile operino bene insieme. E
però uno principe che della milizia non si intenda, oltre alle altre
infelicità, come è detto, non può essere stimato da' sua
soldati né fidarsi di loro.
Debbe per tanto mai
levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe
più esercitare che nella guerra: il che può fare in dua modi;
l'uno con le opere, l'altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre al tenere
bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare sempre in sulle caccie, e
mediante quelle assuefare el corpo a' disagi; e parte imparare la natura de'
siti, e conoscere come surgono e' monti, come imboccano le valle, come iacciono
e' piani, et intendere la natura de' fiumi e de' paduli, et in questo porre
grandissima cura. La quale cognizione è utile in dua modi. Prima,
simpara a conoscere el suo paese, e può meglio intendere le difese di
esso; di poi, mediante la cognizione e pratica di quelli siti, con
facilità comprendere ogni altro sito che di nuovo li sia necessario
speculare: perché li poggi, le valli, e' piani, e' fiumi, e' paduli che
sono, verbigrazia, in Toscana, hanno con quelli dellaltre provincie certa
similitudine: tal che dalla cognizione del sito di una provincia si può
facilmente venire alla cognizione dell'altre. E quel principe che manca di
questa perizie, manca della prima parte che vuole avere uno capitano;
perché questa insegna trovare el nimico, pigliare li alloggiamenti,
condurre li eserciti, ordinare le giornate, campeggiare le terre con tuo
vantaggio.
Filopemene, principe
delli Achei, intra le altre laude che dalli scrittori li sono date, è
che ne' tempi della pace non pensava mai se non a' modi della guerra; e, quando
era in campagna con li amici, spesso si fermava e ragionava con quelli. - Se li
nimici fussino in su quel colle, e noi ci trovassimo qui col nostro esercito,
chi di noi arebbe vantaggio? come si potrebbe ire, servando li ordini, a
trovarli? se noi volessimo ritirarci, come aremmo a fare? se loro si ritirassino,
come aremmo a seguirli? - E proponeva loro, andando, tutti e' casi che in uno
esercito possono occorrere; intendeva la opinione loro, diceva la sua,
corroboravala con le ragioni: tal che, per queste continue cogitazioni, non
posseva mai, guidando li eserciti, nascere accidente alcuno, che lui non avessi
el remedio.
Ma quanto allo
esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie, et in quelle
considerare le azioni delli uomini eccellenti, vedere come si sono governati
nelle guerre, esaminare le cagioni della vittoria e perdite loro, per potere
queste fuggire, e quelle imitare; e sopra tutto fare come ha fatto per
ladrieto qualche uomo eccellente, che ha preso ad imitare se alcuno innanzi a
lui è stato laudato e gloriato, e di quello ha tenuto sempre e' gesti et
azioni appresso di sé: come si dice che Alessandro Magno imitava
Achille; Cesare Alessandro; Scipione Ciro. E qualunque legge la vita di Ciro
scritta da Senofonte, riconosce di poi nella vita di Scipione quanto quella imitazione
li fu di gloria, e quanto, nella castità, affabilità,
umanità, liberalità Scipione si conformassi con quelle cose che
di Ciro da Senofonte sono sute scritte. Questi simili modi debbe osservare uno
principe savio, e mai ne' tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne
capitale, per potersene valere nelle avversità, acciò che, quando
si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle.
De his rebus quibus
homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur.
[Di quelle cose per
le quali li uomini, e specialmente i principi, sono laudati o vituperati]
Resta ora a vedere
quali debbano essere e' modi e governi di uno principe con sudditi o con li
amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone
ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare
questa materia, dalli ordini delli altri. Ma, sendo l'intento mio scrivere cosa
utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E
molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti
né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto
da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si
fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la
perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte
professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde
è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere
essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.
Lasciando adunque
indrieto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono
vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e' principi, per
essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità
che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è
tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro
in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero
chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è
tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno
fedifrago, l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillanime, l'altro feroce et
animoso; l'uno umano, l'altro superbo; l'uno lascivo, l'altro casto; l'uno
intero, l'altro astuto; l'uno duro, l'altro facile; l'uno grave l'altro
leggieri; l'uno relligioso, l'altro incredulo, e simili. Et io so che ciascuno
confesserà che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi di
tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone: ma,
perché non si possono avere né interamente osservare, per le
condizioni umane che non lo consentono, li è necessario essere tanto
prudente che sappia fuggire l'infamia di quelle che li torrebbano lo stato, e
da quelle che non gnene tolgano guardarsi, se elli è possibile; ma, non
possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si
curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali possa difficilmente
salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si
troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola
sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne
riesce la securtà et il bene essere suo.
De liberalitate et
parsimonia.
[Della
liberalità e della parsimonia]
Cominciandomi,
adunque alle prime soprascritte qualità dico come sarebbe bene essere
tenuto liberale: non di manco, la liberalità, usata in modo che tu sia
tenuto, ti offende; perché se ella si usa virtuosamente e come la si
debbe usare, la non fia conosciuta, e non ti cascherà linfamia del suo
contrario. E però, a volersi mantenere infra li uomini el nome del
liberale, è necessario non lasciare indrieto alcuna qualità di
suntuosità; talmente che, sempre uno principe cosí fatto
consumerà in simili opere tutte le sue facultà; e sarà
necessitato alla fine, se si vorrà mantenere el nome del liberale,
gravare e' populi estraordinariamente et essere fiscale, e fare tutte quelle
cose che si possono fare per avere danari. Il che comincerà a farlo
odioso con sudditi, e poco stimare da nessuno, diventando povero; in modo che,
con questa sua liberalità avendo offeso li assai e premiato e' pochi,
sente ogni primo disagio, e periclita in qualunque primo periculo: il che
conoscendo lui, e volendosene ritrarre, incorre subito nella infamia del
misero.
Uno principe,
adunque, non potendo usare questa virtù del liberale sanza suo danno, in
modo che la sia conosciuta, debbe, s'elli è prudente, non si curare del
nome del misero: perché col tempo sarà tenuto sempre più
liberale, veggendo che con la sua parsimonia le sua intrate li bastano,
può defendersi da chi li fa guerra, può fare imprese sanza
gravare e' populi; talmente che viene a usare liberalità a tutti quelli
a chi non toglie, che sono infiniti, e miseria a tutti coloro a chi non
dà, che sono pochi. Ne' nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran
cose se non a quelli che sono stati tenuti miseri; li altri essere spenti. Papa
Iulio II, come si fu servito del nome del liberale per aggiugnere al papato,
non pensò poi a mantenerselo, per potere fare guerra. El re di Francia
presente ha fatto tante guerre sanza porre uno dazio estraordinario a' sua,
solum perché alle superflue spese ha sumministrato la lunga parsimonia sua.
El re di Spagna presente, se fussi tenuto liberale, non arebbe fatto né
vinto tante imprese.
Per tanto, uno
principe debbe esistimare poco, per non avere a rubare e' sudditi, per potere
defendersi, per non diventare povero e contennendo, per non essere forzato di
diventare rapace, di incorrere nel nome del misero; perché questo
è uno di quelli vizii che lo fanno regnare. E se alcuno dicessi: Cesare
con la liberalità pervenne allo imperio, e molti altri, per essere stati
et essere tenuti liberali, sono venuti a gradi grandissimi; rispondo: o tu se'
principe fatto, o tu se' in via di acquistarlo: nel primo caso, questa
liberalità è dannosa; nel secondo, è bene necessario
essere tenuto liberale. E Cesare era uno di quelli che voleva pervenire al
principato di Roma; ma, se, poi che vi fu venuto, fussi sopravvissuto, e non si
fussi temperato da quelle spese, arebbe destrutto quello imperio. E se alcuno
replicassi: molti sono stati principi, e con li eserciti hanno fatto gran cose,
che sono stati tenuti liberalissimi; ti respondo: o el principe spende del suo
e de' sua sudditi, o di quello d'altri; nel primo caso, debbe essere parco;
nell'altro, non debbe lasciare indrieto parte alcuna di liberalità. E
quel principe che va con li eserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di
taglie, maneggia quel di altri, li è necessaria questa
liberalità; altrimenti non sarebbe seguíto da' soldati. E di
quello che non è tuo, o di sudditi tua, si può essere più
largo donatore: come fu Ciro, Cesare et Alessandro; perché lo spendere
quello daltri non ti toglie reputazione, ma te ne aggiugne; solamente lo
spendere el tuo è quello che ti nuoce. E non ci è cosa che
consumi sé stessa quanto la liberalità: la quale mentre che tu
usi, perdi la facultà di usarla; e diventi, o povero e contennendo, o,
per fuggire la povertà, rapace et odioso. Et intra tutte le cose di che
uno principe si debbe guardare, è lo essere contennendo et odioso; e la
liberalità all'una e l'altra cosa ti conduce. Per tanto è più
sapienzia tenersi el nome del misero, che partorisce una infamia sanza odio,
che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di
rapace, che partorisce una infamia con odio.
De crudelitate et
pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra.
[Della
crudeltà e pietà e selli è meglio esser amato che temuto,
o più tosto temuto che amato]
Scendendo appresso
alle altre preallegate qualità, dico che ciascuno principe debbe
desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire
di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele; non di
manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola
in pace et in fede. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello
essere stato molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, per
fuggire el nome del crudele, lasciò destruggere Pistoia. Debbe, per
tanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e
sudditi sua uniti et in fede; perché, con pochissimi esempli sarà
più pietoso che quelli e' quali, per troppa pietà, lasciono
seguire e' disordini, di che ne nasca occisioni o rapine: perché queste
sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che
vengono dal principe offendono uno particulare. Et intra tutti e' principi, al
principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li
stati nuovi pieni di pericoli. E Virgilio, nella bocca di Didone, dice:
Res dura, et regni
novitas me talia cogunt
Moliri, et late
fines custode tueri.
Non di manco debbe
essere grave al credere et al muoversi, né si fare paura da sé
stesso, e procedere in modo temperato con prudenza et umanità, che la
troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda
intollerabile.
Nasce da questo una
disputa: s'elli è meglio essere amato che temuto, o e converso.
Rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché elli
è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere
temuto che amato, quando si abbia a mancare dell'uno de' dua. Perché
delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati,
volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di
guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue,
la roba, la vita e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è
discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano. E quel principe che si
è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre
preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e
non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma elle non si hanno,
et a' tempi non si possano spendere. E li uomini hanno meno respetto a
offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché
l'amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li
uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma
il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non
di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che
fugga l'odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e
non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de' sua
cittadini e de' sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognasse
procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione
conveniente e causa manifesta; ma, sopra tutto, astenersi dalla roba d'altri;
perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che
la perdita del patrimonio. Di poi, le cagioni del tòrre la roba non
mancono mai; e, sempre, colui che comincia a vivere con rapina, truova cagione
di occupare quel d'altri; e, per avverso, contro al sangue sono più rare
e mancono più presto.
Ma, quando el
principe è con li eserciti et ha in governo multitudine di soldati,
allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele;
perché sanza questo nome non si tenne mai esercito unito né
disposto ad alcuna fazione. Intra le mirabili azioni di Annibale si connumera
questa, che, avendo uno esercito grossissimo, misto di infinite generazioni di
uomini, condotto a militare in terre aliene, non vi surgessi mai alcuna
dissensione, né infra loro né contro al principe, cosí
nella cattiva come nella sua buona fortuna. Il che non poté nascere da
altro che da quella sua inumana crudeltà, la quale, insieme con infinite
sua virtù, lo fece sempre nel cospetto de' suoi soldati venerando e
terribile; e sanza quella, a fare quello effetto le altre sua virtù non
li bastavano. E li scrittori poco considerati, dall'una parte ammirano questa
sua azione, dall'altra dannono la principale cagione di essa. E che sia vero
che l'altre sua virtù non sarebbano bastate, si può considerare
in Scipione, rarissimo non solamente ne' tempi sua, ma in tutta la memoria
delle cose che si sanno, dal quale li eserciti sua in Ispagna si rebellorono.
Il che non nacque da altro che dalla troppa sua pietà, la quale aveva
data a' sua soldati più licenzia che alla disciplina militare non si
conveniva. La qual cosa li fu da Fabio Massimo in Senato rimproverata, e
chiamato da lui corruttore della romana milizia. E' Locrensi, sendo stati da
uno legato di Scipione destrutti, non furono da lui vendicati, né la
insolenzia di quello legato corretta, nascendo tutto da quella sua natura
facile; talmente che, volendolo alcuno in Senato escusare, disse come elli
erano di molti uomini che sapevano meglio non errare, che correggere li errori.
La qual natura arebbe col tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se
elli avessi con essa perseverato nello imperio; ma, vivendo sotto el governo
del Senato, questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma li fu a
gloria.
Concludo adunque,
tornando allo essere temuto et amato, che, amando li uomini a posta loro, e
temendo a posta del principe, debbe uno principe savio fondarsi in su quello
che è suo, non in su quello che è d'altri: debbe solamente
ingegnarsi di fuggire lo odio, come è detto.
Quomodo fides a
principibus sit servanda.
[In che modo e
principi abbino a mantenere la fede]
Quanto sia laudabile
in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con
astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne' nostri
tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco
conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e' cervelli delli uomini; et
alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
Dovete adunque
sapere come sono dua generazione di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con
la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie:
ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al
secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la
bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a' principi copertamente
dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di
quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la
sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore
uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare
l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile.
Sendo adunque, uno
principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la
golpe e il lione; perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non
si difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e
lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non
se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né
debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono
spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti
buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non
la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Né mai a
uno principe mancorono cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di
questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e monstrare quante pace,
quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedelità de'
principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio
capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere
gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto
obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna
troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio, delli
esempli freschi, tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non
pensò mai ad altro, che ad ingannare uomini: e sempre trovò
subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in
asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che losservassi
meno; non di meno sempre li succederono li inganni ad votum, perché
conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe,
adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte
qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi
ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono
dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano,
intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l'animo, che,
bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad
intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non
può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti
buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla
fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla
religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi
secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di
sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male,
necessitato.
Debbe, adunque,
avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia
piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo,
tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non
è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima
qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che
alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno
vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non
ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello
stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de'
principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci
dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre
iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso
con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non
vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno
principe de' presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai
altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra è inimicissimo; e l'una e
l'altra, quando e' l'avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la
reputazione o lo stato.
De contemptu et odio
fugiendo.
[In che modo si
abbia a fuggire lo essere sprezzato e odiato]
Ma perché,
circa le qualità di che di sopra si fa menzione io ho parlato delle
più importanti, l'altre voglio discorrere brevemente sotto queste
generalità, che il principe pensi, come di sopra in parte è
detto, di fuggire quelle cose che lo faccino odioso e contennendo; e qualunque
volta fuggirà questo, arà adempiuto le parti sua, e non
troverrà nelle altre infamie periculo alcuno. Odioso lo fa, sopra
tutto, come io dissi, lo essere rapace et usurpatore della roba e delle donne
de' sudditi: di che si debbe astenere; e qualunque volta alle
universalità delli uomini non si toglie né roba né onore,
vivono contenti, e solo si ha a combattere con la ambizione di pochi, la quale
in molti modi, e con facilità si raffrena. Contennendo lo fa esser
tenuto vario, leggieri, effeminato, pusillanime, irresoluto: da che uno
principe si debbe guardare come da uno scoglio, et ingegnarsi che nelle azioni
sua si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza, e,
circa maneggi privati de' sudditi, volere che la sua sentenzia sia
irrevocabile; e si mantenga in tale opinione, che alcuno non pensi né a
ingannarlo né ad aggirarlo.
Quel principe che
dà di sé questa opinione, è reputato assai; e contro a chi
è reputato, con difficultà si congiura, con difficultà
è assaltato, purché sintenda che sia eccellente e reverito da'
sua. Perché uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto
de' sudditi; l'altra di fuora, per conto de' potentati esterni. Da questa si
difende con le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone
arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando
stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una
congiura; e quando pure quelle di fuora movessino, s'elli è ordinato e
vissuto come ho detto, quando non si abbandoni, sempre sosterrà ogni
impeto, come io dissi che fece Nabide spartano. Ma, circa sudditi, quando le
cose di fuora non muovino, si ha a temere che non coniurino secretamente: di
che el principe si assicura assai, fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e
tenendosi el populo satisfatto di lui; il che è necessario conseguire,
come di sopra a lungo si disse. Et uno de' più potenti rimedii che abbi
uno principe contro alle coniure, è non essere odiato dallo universale:
perché sempre chi congiura crede con la morte del principe satisfare al
populo; ma, quando creda offenderlo, non piglia animo a prendere simile
partito, perché le difficultà che sono dalla parte de' congiuranti
sono infinite. E per esperienzia si vede molte essere state le coniure, e poche
avere avuto buon fine. Perché chi coniura non può essere solo, ne
può prendere compagnia se non di quelli che creda esser malcontenti; e
subito che a uno mal contento tu hai scoperto l'animo tuo, li dài
materia a contentarsi, perché manifestamente lui ne può sperare
ogni commodità: talmente che, veggendo el guadagno fermo da questa
parte, e dall'altra veggendolo dubio e pieno di periculo, conviene bene o che
sia raro amico, o che sia al tutto ostinato inimico del principe, ad osservarti
la fede. E, per ridurre la cosa in brevi termini, dico che dalla parte del
coniurante, non è se non paura, gelosia, sospetto di pena che lo
sbigottisce; ma, dalla parte del principe, è la maestà del
principato, le leggi, le difese delli amici e dello stato che lo difendano:
talmente che, aggiunto a tutte queste cose la benivolenzia populare, è
impossibile che alcuno sia sí temerario che congiuri. Perché, per
lo ordinario, dove uno coniurante ha a temere innanzi alla esecuzione del male,
in questo caso debbe temere ancora poi, avendo per inimico el populo,
seguíto lo eccesso, né potendo per questo sperare refugio alcuno.
Di questa materia se
ne potria dare infiniti esempli; ma voglio solo esser contento di uno, seguito
alla memoria de' padri nostri. Messer Annibale Bentivogli, avolo del presente
messer Annibale, che era principe in Bologna, sendo da' Canneschi, che li
coniurorono contro suto ammazzato, né rimanendo di lui altri che messer Giovanni,
che era in fasce, subito dopo tale omicidio, si levò el populo et
ammazzò tutti e' Canneschi. Il che nacque dalla benivolenzia populare
che la casa de' Bentivogli aveva in quelli tempi: la quale fu tanta, che, non
restando di quella alcuno in Bologna che potessi, morto Annibale, reggere lo
stato, et avendo indizio come in Firenze era uno nato de' Bentivogli che si
teneva fino allora figliuolo di uno fabbro, vennono e' Bolognesi per quello in
Firenze, e li dettono el governo di quella città: la quale fu governata
da lui fino a tanto che messer Giovanni pervenissi in età conveniente al
governo.
Concludo, per tanto,
che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, quando el popolo li
sia benivolo; ma, quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d'ogni
cosa e d'ognuno. E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni
diligenzia pensato di non desperare e' grandi e di satisfare al populo e
tenerlo contento; perché questa è una delle più importanti
materie che abbia uno principe.
Intra regni bene
ordinati e governati, a' tempi nostri, è quello di Francia: et in esso
si truovano infinite constituzione buone, donde depende la libertà e
sicurtà del re; delle quali la prima è il parlamento e la sua
autorità. Perché quello che ordinò quel regno, conoscendo
lambizione de' potenti e la insolenzia loro, e iudicando esser loro necessario
uno freno in bocca che li correggessi e, da altra parte, conoscendo l'odio
dello universale contro a' grandi fondato in sulla paura, e volendo assicurarli,
non volse che questa fussi particulare cura del re, per tòrli quel
carico che potessi avere co' grandi favorendo li populari, e co populari
favorendo e' grandi; e però constituí uno iudice terzo, che fussi
quello che, sanza carico del re battessi e' grandi e favorissi e' minori.
Né poté essere questo ordine migliore né più
prudente, né che sia maggiore cagione della securtà del re e del
regno. Di che si può trarre un altro notabile: che li principi debbono
le cose di carico fare sumministrare ad altri, quelle di grazia a loro
medesimi. Di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e' grandi, ma non si
fare odiare dal populo.
Parrebbe forse a
molti, considerato la vita e morte di alcuno imperatore romano, che fussino
esempli contrarii a questa mia opinione, trovando alcuno essere vissuto sempre
egregiamente e monstro grande virtù d'animo, non di meno avere perso lo
imperio, ovvero essere stato morto da' sua, che li hanno coniurato contro.
Volendo per tanto rispondere a queste obiezioni, discorrerò le qualità
di alcuni imperatori, monstrando le cagioni della loro ruina, non disforme da
quello che da me si è addutto; e parte metterò in considerazione
quelle cose che sono notabili a chi legge le azioni di quelli tempi. E voglio
mi basti pigliare tutti quelli imperatori che succederono allo imperio da Marco
filosofo a Massimino: li quali furono Marco, Commodo suo figliuolo, Pertinace,
Iuliano, Severo, Antonino Caracalla suo figliuolo, Macrino, Eliogabalo,
Alessandro e Massimino. Et è prima da notare che dove nelli altri
principati si ha solo a contendere con la ambizione de' grandi et insolenzia
de' populi, limperatori romani avevano una terza difficultà, di avere a
sopportare la crudeltà et avarizia de' soldati. La qual cosa era
sí difficile che la fu cagione della ruina di molti; sendo difficile
satisfare a' soldati et a' populi; perché e' populi amavono la quiete, e
per questo amavono e' principi modesti, e li soldati amavono el principe
danimo militare, e che fussi insolente, crudele e rapace. Le quali cose
volevano che lui esercitassi ne' populi, per potere avere duplicato stipendio e
sfogare la loro avarizia e crudeltà. Le quali cose feciono che quelli
imperatori che, per natura o per arte, non aveano una grande reputazione, tale
che con quella tenessino l'uno e l'altro in freno, sempre ruinavono; e li
più di loro, massime quelli che come uomini nuovi venivano al
principato, conosciuta la difficultà di questi dua diversi umori, si
volgevano a satisfare a' soldati, stimando poco lo iniuriare el populo. Il
quale partito era necessario: perché, non potendo e' principi mancare di
non essere odiati da qualcuno, si debbano prima forzare di non essere odiati
dalla università; e, quando non possono conseguire questo, si debbono
ingegnare con ogni industria fuggire l'odio di quelle università che
sono più potenti. E però quelli imperatori che per novità
avevano bisogno di favori estraordinarii, si aderivano a' soldati più
tosto che a' populi: il che tornava loro, non di meno, utile o no, secondo che
quel principe si sapeva mantenere reputato con loro. Da queste cagioni
sopradette nacque che Marco, Pertinace et Alessandro, sendo tutti di modesta
vita, amatori della iustizia, nimici della crudeltà, umani e benigni,
ebbono tutti, da Marco in fuora, tristo fine. Marco solo visse e morí
onoratissimo, perché lui succedé allo imperio iure hereditario, e
non aveva a riconoscere quello né da' soldati né da' populi; di
poi, sendo accompagnato da molte virtù che lo facevano venerando, tenne
sempre, mentre che visse. l'uno ordine e l'altro intra termini sua, e non fu
mai né odiato né disprezzato. Ma Pertinace fu creato imperatore
contro alla voglia de' soldati, li quali, sendo usi a vivere licenziosamente
sotto Commodo, non poterono sopportare quella vita onesta alla quale Pertinace
li voleva ridurre; onde, avendosi creato odio, et a questo odio aggiunto el
disprezzo sendo vecchio ruinò ne' primi principii della sua
amministrazione.
E qui si debbe
notare che l'odio s'acquista cosí mediante le buone opere, come le
triste: e però, come io dissi di sopra, uno principe, volendo mantenere
lo stato, è spesso forzato a non essere buono; perché, quando
quella università, o populo o soldati o grandi che sieno, della quale tu
iudichi avere per mantenerti bisogno, è corrotta, ti conviene seguire
l'umore suo per satisfarlo, et allora le buone opere ti sono nimiche. Ma
vegniamo ad Alessandro: il quale fu di tanta bontà, che intra le altre
laude che li sono attribuite, è questa, che in quattordici anni che
tenne limperio, non fu mai morto da lui alcuno iniudicato; non di manco, sendo
tenuto effeminato et uomo che si lasciassi governare alla madre, e per questo
venuto in disprezzo, conspirò in lui lesercito, et ammazzollo.
Discorrendo ora, per
opposito, le qualità di Commodo, di Severo, Antonino Caracalla e
Massimino, li troverrete crudelissimi e rapacissimi; li quali, per satisfare a'
soldati, non perdonorono ad alcuna qualità di iniuria che ne' populi si
potessi commettere; e tutti, eccetto Severo, ebbono triste fine. Perché
in Severo fu tanta virtù, che, mantenendosi soldati amici, ancora che
populi fussino da lui gravati, possé sempre regnare felicemente;
perché quelle sua virtù lo facevano nel conspetto de' soldati e
de' populi sí mirabile, che questi rimanevano quodammodo attoniti e
stupidi, e quelli altri reverenti e satisfatti. E perché le azioni di
costui furono grandi in un principe nuovo, io voglio monstrare brevemente
quanto bene seppe usare la persona della golpe e del lione: le quali nature io
dico di sopra essere necessario imitare a uno principe. Conosciuto Severo la
ignavia di Iuliano imperatore, persuase al suo esercito, del quale era in
Stiavonia capitano, che elli era bene andare a Roma a vendicare la morte di
Pertinace, il quale da' soldati pretoriani era suto morto; e sotto questo
colore, sanza monstrare di aspirare allo imperio, mosse lo esercito contro a
Roma; e fu prima in Italia che si sapessi la sua partita. Arrivato, a Roma, fu
dal Senato, per timore, eletto imperatore e morto Iuliano. Restava, dopo questo
principio, a Severo dua difficultà, volendosi insignorire di tutto lo
stato: l'una in Asia, dove Nigro, capo delli eserciti asiatici, sera fatto
chiamare imperatore; e l'altra in ponente, dove era Albino, quale ancora lui
aspirava allo imperio. E, perché iudicava periculoso scoprirsi inimico a
tutti e dua, deliberò di assaltare Nigro et ingannare Albino. Al quale
scrisse come, sendo dal Senato eletto imperatore, voleva partecipare quella
dignità con lui; e mandolli el titulo di Cesare, e per deliberazione del
Senato, se lo aggiunse collega: le quali cose da Albino furono accettate per
vere. Ma, poiché Severo ebbe vinto e morto Nigro, e pacate le cose
orientali, ritornatosi a Roma, si querelò in Senato, come Albino, poco
conoscente de' benefizii ricevuti da lui, aveva dolosamente cerco di
ammazzarlo, e per questo lui era necessitato andare a punire la sua
ingratitudine. Di poi andò a trovarlo in Francia, e li tolse lo stato e
la vita.
Chi esaminerà
adunque tritamente le azioni di costui, lo troverrà uno ferocissimo
lione et una astutissima golpe; e vedrà quello temuto e reverito da
ciascuno, e dalli eserciti non odiato; e non si maraviglierà se lui,
uomo nuovo, arà possuto tenere tanto imperio: perché la sua
grandissima reputazione lo difese sempre da quello odio ch'e' populi per le sue
rapine avevano potuto concipere. Ma Antonino suo figliuolo fu ancora lui uomo
che aveva parte eccellentissime e che lo facevano maraviglioso nel conspetto
de' populi e grato a' soldati; perché era uomo militare,
sopportantissimo d'ogni fatica, disprezzatore d'ogni cibo delicato e d'ogni
altra mollizie: la qual cosa lo faceva amare da tutti li eserciti. Non di manco
la sua ferocia e crudeltà fu tanta e sí inaudita, per avere, dopo
infinite occisioni particulari, morto gran parte del populo di Roma, e tutto
quello di Alessandria, che diventò odiosissimo a tutto il mondo; e
cominciò ad essere temuto etiam da quelli che elli aveva intorno: in
modo che fu ammazzato da uno centurione in mezzo del suo esercito. Dove
è da notare che queste simili morti, le quali seguano per deliberazione
duno animo ostinato, sono da' principi inevitabili, perché ciascuno che
non si curi di morire lo può offendere; ma debbe bene el principe
temerne meno, perché le sono rarissime. Debbe solo guardarsi di non fare
grave iniuria ad alcuno di coloro de' quali si serve, e che elli ha d'intorno
al servizio del suo principato: come aveva fatto Antonino, il quale aveva morto
contumeliosamente uno fratello di quel centurione, e lui ogni giorno
minacciava; tamen lo teneva a guardia del corpo suo: il che era partito
temerario e da ruinarvi, come li intervenne.
Ma vegniamo a
Commodo, al quale era facilità grande tenere limperio, per averlo iure
hereditario, sendo figliuolo di Marco; e solo li bastava seguire le vestigie
del padre, et a' soldati et a' populi arebbe satisfatto; ma, sendo d'animo
crudele e bestiale, per potere usare la sua rapacità ne' populi, si
volse ad intrattenere li eserciti e farli licenziosi; dall'altra parte, non
tenendo la sua dignità, discendendo spesso ne' teatri a combattere co'
gladiatori, e facendo altre cose vilissime e poco degne della maestà
imperiale, diventò contennendo nel conspetto de' soldati. Et essendo
odiato dall'una parte e disprezzato dall'altra, fu conspirato in lui, e morto.
Restaci a narrare le
qualità di Massimino. Costui fu uomo bellicosissimo; et essendo li
eserciti infastiditi della mollizie di Alessandro, del quale ho di sopra
discorso, morto lui, lo elessono allo imperio. Il quale non molto tempo
possedé; perché dua cose lo feciono odioso e contennendo: l'una,
essere vilissimo per avere già guardato le pecore in Tracia (la qual
cosa era per tutto notissima e li faceva una grande dedignazione nel conspetto
di qualunque); l'altra, perché, avendo nello ingresso del suo principato,
differito lo andare a Roma et intrare nella possessione della sedia imperiale,
aveva dato di sé opinione di crudelissimo, avendo per li sua prefetti,
in Roma e in qualunque luogo dello Imperio, esercitato molte crudeltà.
Tal che, commosso tutto el mondo dallo sdegno per la viltà del suo
sangue, e dallo odio per la paura della sua ferocia, si rebellò prima
Affrica, di poi el Senato con tutto el populo di Roma, e tutta Italia li
conspirò contro. A che si aggiunse el suo proprio esercito; quale, campeggiando
Aquileia e trovando difficultà nella espugnazione, infastidito della
crudeltà sua, e per vederli tanti inimici temendolo meno, lo
ammazzò.
Io non voglio
ragionare né di Eliogabalo né di Macrino né di Iuliano, li
quali, per essere al tutto contennendi, si spensono subito; ma verrò
alla conclusione di questo discorso. E dico, che li principi de' nostri tempi
hanno meno questa difficultà di satisfare estraordinariamente a' soldati
ne' governi loro; perché, non ostante che si abbi ad avere a quelli
qualche considerazione, tamen si resolve presto, per non avere alcuno di questi
principi eserciti insieme, che sieno inveterati con li governi e
amministrazione delle provincie, come erano li eserciti dello imperio romano. E
però, se allora era necessario satisfare più a' soldati che a'
populi, era perché soldati potevano più che e populi; ora
è più necessario a tutti e' principi, eccetto che al Turco et al
Soldano, satisfare a' populi che a' soldati, perché e' populi possono
più di quelli. Di che io ne eccettuo el Turco, tenendo sempre quello
intorno a sé dodici mila fanti e quindici mila cavalli, da' quali
depende la securtà e la fortezza del suo regno; et è necessario
che, posposto ogni altro respetto, quel signore se li mantenga amici.
Similmente el regno del Soldano sendo tutto in mano de' soldati, conviene che
ancora lui, sanza respetto de' populi, se li mantenga amici. Et avete a notare
che questo stato del Soldano è disforme da tutti li altri principati;
perché elli è simile al pontificato cristiano, il quale non si
può chiamare né principato ereditario né principato nuovo;
perché non e' figliuoli del principe vecchio sono eredi e rimangono
signori, ma colui che è eletto a quel grado da coloro che ne hanno
autorità. Et essendo questo ordine antiquato, non si può chiamare
principato nuovo, perché in quello non sono alcune di quelle
difficultà che sono ne' nuovi; perché, se bene el principe
è nuovo, li ordini di quello stato sono vecchi et ordinati a riceverlo
come se fussi loro signore ereditario.
Ma torniamo alla
materia nostra. Dico che qualunque considerrà el soprascritto discorso,
vedrà o l'odio o il disprezzo esser suto cagione della ruina di quelli
imperatori prenominati, e conoscerà ancora donde nacque che, parte di
loro procedendo in uno modo e parte al contrario, in qualunque di quelli, uno
di loro ebbe felice e li altri infelice fine. Perché a Pertinace et
Alessandro, per essere principi nuovi, fu inutile e dannoso volere imitare
Marco, che era nel principato iure hereditario; e similmente a Caracalla, Commodo
e Massimino essere stata cosa perniziosa imitare Severo, per non avere avuta
tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigie sua. Per tanto uno
principe nuovo in uno principato nuovo non può imitare le azioni di
Marco, né ancora è necessario seguitare quelle di Severo; ma
debbe pigliare da Severo quelle parti che per fondare el suo stato sono
necessarie, e da Marco quelle che sono convenienti e gloriose a conservare uno
stato che sia già stabilito e fermo.
An arces et multa
alia quae cotidie a principibus fiunt utilia an inutilia sint.
[Se le fortezze e
molte altre cose, che ogni giorno si fanno da principi, sono utili o no]
Alcuni principi, per
tenere securamente lo stato, hanno disarmato e' loro sudditi; alcuni altri
hanno tenuto divise le terre subiette; alcuni hanno nutrito inimicizie contro a
sé medesimi; alcuni altri si sono volti a guadagnarsi quelli che li
erano suspetti nel principio del suo stato; alcuni hanno edificato fortezze;
alcuni le hanno ruinate e destrutte. E benché di tutte queste cose non
vi possa dare determinata sentenzia, se non si viene a' particulari di quelli
stati dove si avessi a pigliare alcuna simile deliberazione, non di manco io
parlerò in quel modo largo che la materia per sé medesima
sopporta.
Non fu mai, adunque,
che uno principe nuovo disarmassi e' sua sudditi; anzi, quando li ha trovati
disarmati, li ha sempre armati; perché, armandosi, quelle arme diventono
tua, diventono fedeli quelli che ti sono sospetti, e quelli che erano fedeli si
mantengono e di sudditi si fanno tua partigiani. E perché tutti sudditi
non si possono armare, quando si benefichino quelli che tu armi, con li altri
si può fare più a sicurtà: e quella diversità del
procedere che conoscono in loro, li fa tua obbligati; quelli altri ti scusano,
iudicando essere necessario, quelli avere più merito che hanno
più periculo e più obligo. Ma, quando tu li disarmi, tu cominci
ad offenderli, monstri che tu abbi in loro diffidenzia o per viltà o per
poca fede: e l'una e l'altra di queste opinioni concepe odio contro di te. E
perché tu non puoi stare disarmato, conviene ti volti alla milizia
mercennaria, la quale è di quella qualità che di sopra è
detto; e, quando la fussi buona, non può essere tanta, che ti difenda
da' nimici potenti e da' sudditi sospetti. Però, come io ho detto, uno
principe nuovo in uno principato nuovo sempre vi ha ordinato larme. Di questi
esempli sono piene le istorie. Ma, quando uno principe acquista uno stato
nuovo, che come membro si aggiunga al suo vecchio, allora è necessario disarmare
quello stato, eccetto quelli che nello acquistarlo sono suti tua partigiani; e
quelli ancora, col tempo e con le occasioni, è necessario renderli molli
et effeminati, et ordinarsi in modo che tutte larme del tuo stato sieno in
quelli soldati tua proprii, che nello stato tuo antiquo vivono appresso di te.
Solevano li antiqui
nostri, e quelli che erano stimati savi, dire come era necessario tenere
Pistoia con le parti e Pisa con le fortezze; e per questo nutrivano in qualche
terra loro suddita le differenzie, per possederle più facilmente.
Questo, in quelli tempi che Italia era in uno certo modo bilanciata, doveva
essere ben fatto; ma non credo che si possa dare oggi per precetto:
perché io non credo che le divisioni facessino mai bene alcuno; anzi
è necessario, quando il nimico si accosta che le città divise si
perdino subito; perché sempre la parte più debole si
aderirà alle forze esterne, e l'altra non potrà reggere.
E' Viniziani, mossi,
come io credo, dalle ragioni soprascritte, nutrivano le sètte guelfe e
ghibelline nelle città loro suddite; e benché non li lasciassino
mai venire al sangue, tamen nutrivano fra loro questi dispareri, acciò
che, occupati quelli cittadini in quelle loro differenzie, non si unissino
contro di loro. Il che, come si vide, non tornò loro poi a proposito;
perché sendo rotti a Vailà, subito una parte di quelle prese
ardire, e tolsono loro tutto lo stato. Arguiscano, per tanto, simili modi
debolezza del principe, perché in uno principato gagliardo mai si
permetteranno simili divisioni; perché le fanno solo profitto a tempo di
pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare e' sudditi;
ma, venendo la guerra, monstra simile ordine la fallacia sua.
Sanza dubbio e'
principi diventano grandi, quando superano le difficultà e le opposizioni
che sono fatte loro; e però la fortuna, massime quando vuol fare grande
uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare
reputazione che uno ereditario, gli fa nascere de' nemici, e li fa fare delle
imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle, e su per
quella scala che li hanno pòrta e' nimici sua, salire più alto.
Però molti iudicano che uno principe savio debbe, quando ne abbi la
occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso
quella, ne seguiti maggiore sua grandezza.
Hanno e' principi,
et praesertim quelli che sono nuovi, trovato più fede e più
utilità in quelli uomini che nel principio del loro stato sono suti
tenuti sospetti, che in quelli che nel principio erano confidenti. Pandolfo Petrucci,
principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che li furono
sospetti che con li altri. Ma di questa cosa non si può parlare
largamente, perché la varia secondo el subietto. Solo dirò
questo, che quelli uomini che nel principio di uno principato erono stati
inimici, che sono di qualità che a mantenersi abbino bisogno di
appoggiarsi, sempre el principe con facilità grandissima se li
potrà guadagnare; e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede,
quanto conoscano esser loro più necessario cancellare con le opere
quella opinione sinistra che si aveva di loro. E cosí el principe ne
trae sempre più utilità, che di coloro che, servendolo con troppa
sicurtà, straccurono le cose sua.
E poiché la
materia lo ricerca, non voglio lasciare indrieto ricordare a' principi, che
hanno preso uno stato di nuovo mediante e' favori intrinseci di quello, che
considerino bene qual cagione abbi mosso quelli che lo hanno favorito, a
favorirlo; e, se ella non è affezione naturale verso di loro, ma fussi
solo perché quelli non si contentavano di quello stato, con fatica e
difficultà grande se li potrà mantenere amici, perché e'
fia impossibile che lui possa contentarli. E discorrendo bene, con quelli
esempli che dalle cose antiche e moderne si traggono, la cagione di questo,
vedrà esserli molto più facile guadagnarsi amici quelli uomini
che dello stato innanzi si contentavono, e però erano sua inimici, che
quelli che, per non se ne contentare li diventorono amici e favorironlo a
occuparlo.
È suta
consuetudine de' principi, per potere tenere più securamente lo stato
loro, edificare fortezze, che sieno la briglia e il freno di quelli che
disegnassino fare loro contro, et avere uno refugio securo da uno subito
impeto. Io laudo questo modo, perché elli è usitato ab antiquo:
non di manco messer Niccolò Vitelli, ne' tempi nostri, si è visto
disfare dua fortezze in Città di Castello, per tenere quello stato.
Guido Ubaldo, duca di Urbino, ritornato nella sua dominazione, donde da Cesare
Borgia era suto cacciato, ruinò funditus tutte le fortezze di quella
provincia, e iudicò sanza quelle più difficilmente riperdere
quello stato. Bentivogli, ritornati in Bologna, usorono simili termini. Sono,
dunque, le fortezze utili o no, secondo e' tempi: e se le ti fanno bene in una
parte, ti offendano in unaltra. E puossi discorrere questa parte cosí:
quel principe che ha più paura de' populi che de' forestieri, debbe fare
le fortezze; ma quello che ha più paura de' forestieri che de' populi,
debbe lasciarle indrieto. Alla casa Sforzesca ha fatto e farà più
guerra el castello di Milano, che vi edificò Francesco Sforza, che
alcuno altro disordine di quello stato. Però la migliore fortezza che
sia, è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi
le fortezze, et il populo ti abbi in odio, le non ti salvono; perché non
mancano mai a' populi, preso che li hanno l'armie forestieri che li soccorrino.
Ne' tempi nostri non si vede che quelle abbino profittato ad alcuno principe,
se non alla contessa di Furlí, quando fu morto el conte Girolamo suo
consorte; perché mediante quella possé fuggire limpeto populare,
et aspettare el soccorso da Milano, e recuperare lo stato. E li tempi stavano
allora in modo, che il forestiere non posseva soccorrere el populo; ma di poi,
valsono ancora a poco lei le fortezze, quando Cesare Borgia l'assaltò, e
che il populo suo inimico si coniunse co forestieri. Per tanto allora e prima
sarebbe suto più sicuro a lei non essere odiata dal populo, che avere le
fortezze. Considerato, adunque, tutte queste cose, io lauderò chi
farà le fortezze e chi non le farà, e biasimerò qualunque,
fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da populi.
Quod principem
deceat ut egregius habeatur.
[Che si conviene a
un principe perché sia stimato]
Nessuna cosa fa
tanto stimare uno principe, quanto fanno le grandi imprese e dare di sé
rari esempli. Noi abbiamo ne' nostri tempi Ferrando di Aragonia, presente re di
Spagna. Costui si può chiamare quasi principe nuovo, perché, duno
re debole, è diventato per fama e per gloria el primo re de' Cristiani;
e, se considerrete le azioni sua, le troverrete tutte grandissime e qualcuna
estraordinaria. Lui nel principio del suo regno assaltò la Granata; e
quella impresa fu il fondamento dello stato suo. Prima, e' la fece ozioso, e
sanza sospetto di essere impedito: tenne occupati in quella li animi di quelli
baroni di Castiglia, li quali, pensando a quella guerra, non pensavano a
innovare; e lui acquistava in quel mezzo reputazione et imperio sopra di loro,
che non se ne accorgevano. Possé nutrire con danari della Chiesia e de'
populi eserciti, e fare uno fondamento, con quella guerra lunga, alla milizia
sua, la quale lo ha di poi onorato. Oltre a questo, per possere intraprendere
maggiori imprese, servendosi sempre della relligione, si volse ad una pietosa
crudeltà, cacciando e spogliando, el suo regno, de' Marrani; né
può essere questo esemplo più miserabile né più
raro. Assaltò, sotto questo medesimo mantello, l'Affrica; fece l'impresa
di Italia; ha ultimamente assaltato la Francia: e cosí sempre ha fatte
et ordite cose grandi, le quali sempre hanno tenuto sospesi et ammirati li
animi de' sudditi e occupati nello evento di esse. E sono nate queste sua
azioni in modo l'una dall'altra, che non ha dato mai, infra l'una e l'altra,
spazio alli uomini di potere quietamente operarli contro.
Giova ancora assai a
uno principe dare di sé esempli rari circa governi di dentro, simili a
quelli che si narrano di messer Bernabò da Milano, quando si ha
l'occasione di qualcuno che operi qualche cosa estraordinaria, o in bene o in
male, nella vita civile, e pigliare uno modo, circa premiarlo o punirlo, di che
s'abbia a parlare assai. E sopra tutto uno principe si debbe ingegnare dare di
sé in ogni sua azione fama di uomo grande e di uomo eccellente.
È ancora
stimato uno principe, quando elli è vero amico e vero inimico,
cioè quando sanza alcuno respetto si scuopre in favore di alcuno contro
ad un altro. Il quale partito fia sempre più utile che stare neutrale:
perché, se dua potenti tua vicini vengono alle mani, o sono di
qualità che, vincendo uno di quelli, tu abbia a temere del vincitore, o
no. In qualunque di questi dua casi, ti sarà sempre più utile lo
scoprirti e fare buona guerra; perché nel primo caso, se non ti scuopri,
sarai sempre preda di chi vince, con piacere e satisfazione di colui che
è stato vinto, e non hai ragione né cosa alcuna che ti defenda
né che ti riceva. Perché, chi vince, non vuole amici sospetti e
che non lo aiutino nelle avversità; chi perde, non ti riceve, per non
avere tu voluto con le arme in mano correre la fortuna sua.
Era passato in
Grecia Antioco, messovi dalli Etoli per cacciarne Romani. Mandò Antioco
ambasciatori alli Achei, che erano amici de' Romani, a confortarli a stare di
mezzo; e da altra parte Romani li
persuadevano a pigliare le arme per loro. Venne questa materia a deliberarsi
nel concilio delli Achei, dove el legato di Antioco li persuadeva a stare
neutrali: a che el legato romano respose: Quod autem isti dicunt non
interponendi vos bello, nihil magis alienum rebus vestris est; sine gratia,
sine dignitate, praemium victoris eritis.
E sempre
interverrà che colui che non è amico ti ricercherà della
neutralità, e quello che ti è amico ti richiederà che ti
scuopra con le arme. E li principi mal resoluti per fuggire e' presenti
periculi, seguono el più delle volte quella via neutrale, e il
più delle volte rovinano. Ma, quando el principe si scuopre
gagliardamente in favore d'una parte, se colui con chi tu ti aderisci vince,
ancora che sia potente e che tu rimanga a sua discrezione, elli ha teco obligo,
e vi è contratto l'amore; e li uomini non sono mai sí disonesti,
che con tanto esemplo di ingratitudine ti opprimessino. Di poi, le vittorie non
sono mai sí stiette, che il vincitore non abbi ad avere qualche
respetto, e massime alla giustizia. Ma, se quello con il quale tu ti aderisci
perde, tu se' ricevuto da lui; e mentre che può ti aiuta, e diventi
compagno d'una fortuna che può resurgere. Nel secondo caso, quando
quelli che combattono insieme sono di qualità che tu non abbia a temere,
tanto è maggiore prudenzia lo aderirsi; perché tu vai alla ruina
duno con lo aiuto di chi lo doverrebbe salvare, se fussi savio; e, vincendo,
rimane a tua discrezione, et è impossibile, con lo aiuto tuo, che non vinca.
E qui è da
notare, che uno principe debbe avvertire di non fare mai compagnia con uno
più potente di sé per offendere altri, se non quando la
necessità lo stringe, come di sopra si dice; perché, vincendo,
rimani suo prigione: e li principi debbono fuggire, quanto possono, lo stare a
discrezione di altri. Viniziani si accompagnorono con Francia contro al duca di
Milano, e potevono fuggire di non fare quella compagnia; di che ne
resultò la ruina loro. Ma, quando non si può fuggirla, come intervenne
a' Fiorentini, quando el papa e Spagna andorono con li eserciti ad assaltare la
Lombardia, allora si debba el principe aderire per le ragioni sopradette.
Né creda mai alcuno stato potere pigliare partiti securi, anzi pensi di
avere a prenderli tutti dubii; perché si truova questo nell'ordine delle
cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno
altro; ma la prudenzia consiste in sapere conoscere le qualità delli
inconvenienti, e pigliare il men tristo per buono.
Debbe ancora uno principe
monstrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte.
Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li
esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni altro
esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per
timore che le li sieno tolte, e quell'altro di aprire uno traffico per paura
delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a
qualunque pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo stato.
Debbe, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell'anno, tenere occupati e'
populi con le feste e spettaculi. E, perché ogni città è
divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle
università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli
di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma non di manco la
maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai
mancare in cosa alcuna.
De his quos a
secretis principes habent.
[De secretarii
che principi hanno appresso di loro]
Non è di poca
importanzia a uno principe la elezione de' ministri: li quali sono buoni o no,
secondo la prudenzia del principe. E la prima coniettura che si fa del cervello
duno signore, è vedere li uomini che lui ha d'intorno; e quando sono
sufficienti e fedeli, sempre si può reputarlo savio, perché ha
saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fideli. Ma, quando sieno altrimenti,
sempre si può fare non buono iudizio di lui; perché el primo
errore che fa, lo fa in questa elezione.
Non era alcuno che
conoscessi messer Antonio da Venafro per ministro di Pandolfo Petrucci,
principe di Siena che non iudicasse Pandolfo essere valentissimo uomo, avendo
quello per suo ministro. E perché sono di tre generazione cervelli,
l'uno intende da sé, l'altro discerne quello che altri intende, el terzo
non intende né sé né altri, quel primo è
eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo inutile, conveniva per tanto
di necessità, che, se Pandolfo non era nel primo grado, che fussi nel
secondo: perché, ogni volta che uno ha iudicio di conoscere el bene o il
male che uno fa e dice, ancora che da sé non abbia invenzione, conosce
lopere triste e le buone del ministro, e quelle esalta e le altre corregge; et
il ministro non può sperare di ingannarlo, e mantiensi buono.
Ma come uno principe
possa conoscere el ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando
tu vedi el ministro pensare più a sé che a te, e che in tutte le
azioni vi ricerca dentro l'utile suo, questo tale cosí fatto mai fia
buono ministro, mai te ne potrai fidare: perché quello che ha lo stato
duno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma sempre al principe, e non
li ricordare mai cosa che non appartenga a lui. E dall'altro canto, el
principe, per mantenerlo buono, debba pensare al ministro, onorandolo, facendolo
ricco, obligandoselo, participandoli li onori e carichi; acciò che vegga
che non può stare sanza lui, e che li assai onori non li faccino
desiderare più onori, le assai ricchezze non li faccino desiderare
più ricchezze, li assai carichi li faccino temere le mutazioni. Quando
dunque, e' ministri e li principi circa ministri sono cosí fatti,
possono confidare l'uno dell'altro; e quando altrimenti, il fine sempre fia
dannoso o per l'uno o per l'altro.
Quomodo adulatores
sint fugiendi.
[In che modo si
abbino a fuggire li adulatori]
Non voglio lasciare
indrieto uno capo importante et uno errore dal quale e' principi con
difficultà si difendano, se non sono prudentissimi, o se non hanno buona
elezione. E questi sono li adulatori, delli quali le corti sono piene;
perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie et in
modo vi si ingannono, che con difficultà si difendano da questa peste;
et a volersene defendere, si porta periculo di non diventare contennendo. Perché
non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che li uomini
intendino che non ti offendino a dirti el vero; ma, quando ciascuno può
dirti el vero, ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe
tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli
debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole
che lui domanda, e non d'altro; ma debbe domandarli d'ogni cosa, e le opinioni
loro udire; di poi deliberare da sé, a suo modo; e con questi consigli e
con ciascuno di loro portarsi in modo, che ognuno cognosca che quanto
più liberamente si parlerà, tanto più li fia accetto:
fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare drieto alla cosa deliberata,
et essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e' precipita
per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de' pareri: di che ne
nasce la poca estimazione sua.
Io voglio a questo
proposito addurre uno esemplo moderno. Pre' Luca, uomo di Massimiliano presente
imperatore, parlando di sua maestà disse come non si consigliava con
persona, e non faceva mai di alcuna cosa a suo modo: il che nasceva dal tenere
contrario termine al sopradetto. Perché limperatore è uomo
secreto, non comunica li sua disegni con persona, non ne piglia parere: ma,
come nel metterli ad effetto si cominciono a conoscere e scoprire, li
cominciono ad essere contradetti da coloro che elli ha d'intorno; e quello,
come facile, se ne stoglie. Di qui nasce che quelle cose che fa uno giorno,
destrugge l'altro; e che non si intenda mai quello si voglia o disegni fare, e
che non si può sopra le sua deliberazioni fondarsi.
Uno principe, per
tanto, debbe consigliarsi sempre, ma quando lui vuole, e non quando vuole
altri; anzi debbe tòrre animo a ciascuno di consigliarlo d'alcuna cosa,
se non gnene domanda; ma lui debbe bene esser largo domandatore, e di poi circa
le cose domandate paziente auditore del vero; anzi, intendendo che alcuno per
alcuno respetto non gnene dica, turbarsene. E perché molti esistimano
che alcuno principe, il quale dà di sé opinione di prudente, sia
cosí tenuto non per sua natura, ma per li buoni consigli che lui ha
d'intorno, sanza dubio s'inganna. Perché questa è una regola
generale che non falla mai: che uno principe, il quale non sia savio per
sé stesso, non può essere consigliato bene, se già a sorte
non si rimettessi in uno solo che al tutto lo governassi, che fussi uomo
prudentissimo. In questo caso, potria bene essere, ma durerebbe poco,
perché quello governatore in breve tempo li torrebbe lo stato; ma,
consigliandosi con più d'uno, uno principe che non sia savio non
arà mai e' consigli uniti, non saprà per sé stesso unirli:
de' consiglieri, ciascuno penserà alla proprietà sua; lui non li
saprà correggere, né conoscere. E non si possono trovare
altrimenti; perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una
necessità non sono fatti buoni. Però si conclude che li buoni
consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del
principe, e non la prudenza del principe da' buoni consigli.
Cur
Italiae principes regnum amiserunt.
[Per quale cagione
li principi di Italia hanno perso li stati loro]
Le cose
soprascritte, osservate prudentemente, fanno parere, uno principe nuovo antico,
e lo rendono subito più sicuro e più fermo nello stato, che se vi
fussi antiquato dentro. Perché uno principe nuovo è molto
più osservato nelle sue azioni che uno ereditario; e, quando le sono
conosciute virtuose, pigliono molto più li uomini e molto più li
obligano che il sangue antico. Perché li uomini sono molto più
presi dalle cose presenti che dalle passate, e quando nelle presenti truovono
il bene, vi si godono e non cercano altro; anzi, piglieranno ogni difesa per
lui, quando non manchi nellaltre cose a sé medesimo. E cosí
arà duplicata gloria, di avere dato principio a uno principato nuovo, e
ornatolo e corroboratolo di buone legge di buone arme, di buoni amici e di
buoni esempli; come quello ha duplicata vergogna, che, nato principe, lo ha per
sua poca prudenzia perduto.
E, se si
considerrà quelli signori che in Italia hanno perduto lo stato a' nostri
tempi, come il re di Napoli, duca di Milano et altri, si troverrà in
loro, prima, uno comune defetto quanto alle arme, per le cagioni che di sopra
si sono discorse; di poi, si vedrà alcuno di loro o che arà avuto
inimici e' populi, o, se arà avuto el popolo amico, non si sarà
saputo assicurare de' grandi: perché, sanza questi difetti, non si
perdono li stati che abbino tanto nervo che possino tenere uno esercito alla
campagna. Filippo Macedone, non il padre di Alessandro, ma quello che fu vinto
da Tito Quinto, aveva non molto stato, respetto alla grandezza de' Romani e di
Grecia che lo assaltò: non di manco, per esser uomo militare e che
sapeva intrattenere el populo et assicurarsi de' grandi, sostenne più
anni la guerra contro a quelli: e, se alla fine perdé il dominio di
qualche città, li rimase non di manco el regno.
Per tanto, questi
nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo di
poi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non
avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, (il che è
comune defetto delli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta),
quando poi vennono i tempi avversi, pensorono a fuggirsi e non a defendersi; e
sperorono che' populi, infastiditi dalla insolenzia de' vincitori, li
richiamassino. Il quale partito, quando mancano li altri, è buono; ma
è bene male avere lasciati li altri remedii per quello: perché
non si vorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti ricolga. Il che, o
non avviene, o, s'elli avviene non è con tua sicurtà, per essere
quella difesa suta vile e non dependere da te. E quelle difese solamente sono
buone, sono certe, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla
virtù tua.
Quantum fortuna in
rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum.
[Quanto possa la
Fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere]
E' non mi è
incognito come molti hanno avuto et hanno opinione che le cose del mondo sieno
in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro
non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo,
potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi
governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne'
nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi
ogni dí, fuora dogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta,
mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Non di manco, perché
el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la
fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne
lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a
uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano
li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da
quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza
potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti, non resta
però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare
provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono
per uno canale, o limpeto loro non sarebbe né si licenzioso né
si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li
sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se
voi considerrete l'Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella
che ha dato loro el moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza
alcuno riparo: ché, s'ella fussi reparata da conveniente virtù,
come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le
variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti
avere detto quanto allo avere detto allo opporsi alla fortuna, in universali.
Ma, restringendomi
più a' particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare, e
domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il
che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto
discorse, cioè che quel principe che sappoggia tutto in sulla fortuna,
rovina, come quella varia. Credo, ancora, che sia felice quello che riscontra
el modo del procedere suo con le qualità de' tempi; e similmente sia
infelice quello che con il procedere suo si discordano e' tempi. Perché
si vede li uomini, nelle cose che li nducano al fine, quale ciascuno ha
innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l'uno con respetto,
l'altro con impeto; l'uno per violenzia, l'altro con arte; l'uno per pazienzia,
l'altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può
pervenire. Vedesi ancora dua respettivi, l'uno pervenire al suo disegno,
l'altro no; e similmente dua egualmente felicitare con dua diversi studii,
sendo l'uno respettivo e l'altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non
dalla qualità de' tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di
qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscano el
medesimo effetto; e dua egualmente operando, l'uno si conduce al suo fine, e
l'altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene: perché, se
uno che si governa con respetti e pazienzia, e' tempi e le cose girono in modo
che il governo suo sia buono, e' viene felicitando; ma, se e tempi e le cose
si mutano, rovina, perché non muta modo di procedere. Né si
truova uomo sí prudente che si sappi accomodare a questo; sí
perché non si può deviare da quello a che la natura linclina;
sí etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una
via, non si può persuadere partirsi da quella. E però lo uomo
respettivo, quando elli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare;
donde rovina: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose,
non si muterebbe fortuna.
Papa Iulio II
procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e' tempi e
le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempre sortí felice
fine. Considerate la prima impresa che fe' di Bologna, vivendo ancora messer
Giovanni Bentivogli. Viniziani non se ne contentavono; el re di Spagna, quel
medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale impresa; e non di manco, con
la sua ferocia et impeto, si mosse personalmente a quella espedizione. La quale
mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani, quelli per paura, e
quell'altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno di Napoli; e
dall'altro canto si tirò drieto el re di Francia, perché,
vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare Viniziani,
iudicò non poterli negare le sua gente sanza iniuriarlo manifestamente.
Condusse, adunque, Iulio, con la sua mossa impetuosa, quello che mai altro
pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto; perché, se elli
aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme e tutte le cose
ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai li riusciva;
perché el re di Francia arebbe avuto mille scuse, e li altri messo mille
paure. Io voglio lasciare stare laltre sue azioni, che tutte sono state
simili, e tutte li sono successe bene; e la brevità della vita non li ha
lasciato sentire el contrario; perché, se fussino venuti tempi che fussi
bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina; né mai arebbe
deviato da quelli modi, a' quali la natura lo inclinava.
Concludo, adunque,
che, variando la fortuna, e stando li uomini ne' loro modi ostinati, sono
felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene
questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la
fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto,
batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi,
che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è
amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con
più audacia la comandano.
Exhortatio ad
capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam.
[Esortazione a
pigliare la Italia e liberarla dalle mani de barbari]
Considerato,
adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se, in
Italia al presente, correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era
materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che
facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi
pare corrino tante cose in benefizio duno principe nuovo, che io non so qual
mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario,
volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi
stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi
fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino
dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù duno
spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che
ellè di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei,
più serva ch'e' Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo,
sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni
sorte ruina. E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in
qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione,
tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni
sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita,
espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a' sacchi
di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue
piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le
mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare.
Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia
uno che la pigli. Né ci si vede, al presente in quale lei possa
più sperare che nella illustre casa vostra, quale con la sua fortuna e
virtù, favorita da Dio e dalla Chiesia, della quale è ora
principe, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia molto
difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita dei soprannominati. E
benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, non di manco furono
uomini, et ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente:
perché limpresa loro non fu più iusta di questa, né
più facile, né fu a loro Dio più amico che a voi. Qui
è iustizia grande: iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia
arma ubi nulla nisi in armis spes est. Qui è disposizione
grandissima; né può essere, dove è grande disposizione,
grande difficultà, pur che quella pigli delli ordini di coloro che io ho
proposti per mira. Oltre a questo, qui si veggano estraordinarii sanza esemplo
condotti da Dio: el mare sè aperto; una nube vi ha scòrto el
cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuto la manna; ogni cosa
è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi. Dio non
vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di
quella gloria che tocca a noi.
E non è
maraviglia se alcuno de' prenominati Italiani non ha possuto fare quello che si
può sperare facci la illustre casa vostra, e se, in tante revoluzioni di
Italia e in tanti maneggi di guerra, e' pare sempre che in quella la
virtù militare sia spenta. Questo nasce, che li ordini antichi di essa
non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de'
nuovi: e veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le
nuove legge e li nuovi ordini trovati da lui. Queste cose, quando sono bene
fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile: et in Italia
non manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande
nelle membra, quando non la mancassi ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne'
congressi de' pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la
destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono. E
tutto procede dalla debolezza de' capi; perché quelli che sanno non sono
obediti, et a ciascuno pare di sapere, non ci sendo fino a qui alcuno che si
sia saputo rilevare, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino. Di
qui nasce che, in tanto tempo, in tante guerre fatte ne' passati venti anni,
quando elli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala
pruova. Di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua,
Genova, Vailà, Bologna, Mestri.
Volendo dunque la
illustre casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che redimirno le
provincie loro, è necessario, innanzi a tutte le altre cose, come vero
fondamento d'ogni impresa, provvedersi d'arme proprie; perché non si
può avere né più fidi, né più veri,
né migliori soldati. E, benché ciascuno di essi sia buono, tutti
insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare dal loro principe e
da quello onorare et intrattenere. È necessario, per tanto, prepararsi a
queste arme, per potere con la virtù italica defendersi dalli esterni.
E, benché la fanteria svizzera e spagnola sia esistimata terribile, non
di meno in ambo dua è difetto, per il quale uno ordine terzo potrebbe
non solamente opporsi loro ma confidare di superarli. Perché li Spagnoli
non possono sostenere e' cavalli, e li Svizzeri hanno ad avere paura de' fanti,
quando li riscontrino nel combattere ostinati come loro. Donde si è
veduto e vedrassi per esperienzia, li Spagnoli non potere sostenere una
cavalleria franzese, e li Svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola. E,
benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienzia, tamen se
ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie
spagnole si affrontorono con le battaglie todesche le quali servono el medesimo
ordine che le svizzere: dove li Spagnoli, con la agilità del corpo et
aiuto de' loro brocchieri, erano intrati, tra le picche loro sotto, e stavano
securi ad offenderli sanza che Todeschi vi avessino remedio; e, se non fussi la
cavalleria che li urtò, li arebbano consumati tutti. Puossi, adunque,
conosciuto el defetto dell'una e dell'altra di queste fanterie, ordinarne una
di nuovo, la quale resista a' cavalli e non abbia paura de' fanti: il che
farà la generazione delle armi e la variazione delli ordini. E queste
sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, dànno reputazione e
grandezza a uno principe nuovo.
Non si debba,
adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che lItalia, dopo
tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amore
e' fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste
illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che
pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano? quali populi li
negherebbano la obedienza? quale invidia se li opporrebbe? quale Italiano li
negherebbe l'ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque,
la illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza
che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la sua insegna, e
questa patria ne sia nobilitata, e, sotto li sua auspizi, si verifichi quel
detto del Petrarca:
Virtù contro
a furore
Prenderà
l'arme, e fia el combatter corto;
Ché l'antico
valore
Nell'italici cor non
è ancor morto.