Benedetto Croce

 

‘‘ L'ITALIA LIBERATA DAI GOTI ‘‘

 

Il Trissino si propose nel suo poema dell'Italia liberata dai Goti (o‘‘ dai Gotti ‘‘, come egli scriveva) di far tornare al mondo la poesia, come si suol chiamarla, di stile realistico contro l'idealistica ed esangue, la poesia tutta cose, contro la poesia sublime e sonora, vuota di cose. Ho voluto usare (diceva nell dedica del suo poema all'imperatore Carlo V) ‘‘ comparazioni, similitudini et immagini ‘‘ al modo di Omero, per le quali ai leggitori ‘‘ par quasi essere presenti alle azioni che egli descrive ‘‘, diversamente dalla maggior parte dei poeti latini che ‘‘ per fare altezza nei versi loro ‘‘, hanno ‘‘ schifato il dire diligentemente tutte le circostanze e le particularità de le azioni ‘‘, stimandole tali che ‘‘ nel verso fanno bassezza ‘‘.

 

Questa richiesta, che è tornata molte volte nel corso della storia letteraria, e della quale l'ultima manifestazione in Italia si è avuta col Pascoli, è priva di senso, perché la poesia non sta nella minutezza e abbondanza materiale delle rappresentazioni o immagini, ma nelle immagini in quanto esprimono il sentimento nostro della vita; e la sua concretezza è soltanto in questa virtù espressiva, sia che il verso appaia pieno di cose che si possono estrarre da esso e porre in fila, sia che nessuna cosa se ne possa in simil modo e con pari facilità estrarre. Tutt'al più, quella richiesta ha qualche efficacia ammonitrice nel respingere questa o quella falsa poesia di retorica schifiltosità e di vacua elevatezza, e nel raccomandare questa o quell'altra che sotto apparenza umile e semplice e prosaica ha forza e incanto.

 

Si può teorizzare male e tuttavia sentire in sé una legittima esigenza, mal formulata in quel teorizzare, che bene trova poi la sua forma nell'opera effettiva del verso. Ma il Trissino che non portava nel suo poema nessun impeto e nessuna virtù creativa, non pot‚ offrire se non un omerismo e un realismo da burla, e che quasi si direbbe fatto per burla, se pur troppo nol fosse sul serio. L'imperatore Giustiniano si veste o piuttosto si fa vestire:

 

Lc~ossi il cameriere, e tolse prima

la camisa di lin sottile e bianca

e la vestì sulle onorate membra.

Poi sopra quella ancor vestì il giuppone

ch'era di drappo d'oro, indi calciolli

le calze di rosato, e poi le scarpe

di velluto rosin gli cinse ai piedi...

D'indi gli pettinò la bionda chioma

ondosa e vaga, et adattò sovr'essa

l'imperial berretta e la corona

di mille gemme variata e d'oro.

Dappoi sopra il giuppon messe una vesta

di raso cremisin che intorno al collo

e intorno al lembo avea ricami eletti;

e quella cinse d'onorevol cinta.

Alrm vestigli il sontuoso manto

di drappo d'oro, altissimo e superbo,

di cui tre palmi si traea per terra...

 

Due capitani si consultano sul da fare, ma non dimenticano in quelI atto, come gli eroi dell'epopea latina dimenticavano, per le battaglie il pranzo che li attende:

 

Che vogliam fare, o mio onorato padre?

Volemo andare al nostro alloggiamento

a prender cibo, e poi dopo 'I mangiare

girsene al campo ad ordinar le schiere?--

A cui rispose il vecchio Paulo e disse:

--O buon figliuol del generoso Araspo,

il tempo ch'insta è sì fugace e corto

ch'a noi non ci bisogna perdern' oncia;

andiamo al campo, che sarem sul fatto,

e quivi eseguirem questi negozi

e poscia ciberemci; perché e meglio

senza cibi restar che senza onore.

 

A pranzo è invitato altresì un gruppo di cavalieri dal loro capitano Belisario, e, nel mangiare, fanno atti mirabili, cioè si lavano le mani, si seggono, prendono i cibi che loro si porgono, soddisfano l'appetito, e poi anche la sete col bere, nientemeno, nei bicchieri:

 

Poi tutti quanti si lavar le mani

e s'affrettaro all'onorata mensa

l'un presso l'altro; indi, pigliando i cibi,

che in quella posti fur di tempo in tempo,

rintuzzaron la fame; e poi la sete

scacciaro con i preziosi vini,

che gli fur posti in lucidi cristalli.

 

L’imperatrice Teodora, invece, si spoglia per poi rivestirsi in modo più adatto ai suoi fini, porgendo un bel riscontro alla descritta vestizione del marito:

 

E si spogliò dei consunti panni,

da poi lavò le dclicata membra

 

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tutte con acqua d'angelo e di mirto,

e come fur ben nette, poscia l'unse

d'olio di zederbeno e d'altri odori.

Da poi si pose una camicia bianca

lavorata di seta e sopra quella

vestì la ricca sua sottana d'oro-

poscia le calce di rosato in gamba

si mosse e le legò sopra il ginocchio

con bei legami, onde le coscie bianche

pareano avorio tra vermiglie rose...

 

L'episodio degli amori di Sofia e di Giustino è tutto cosparso di consimili descrizioni particolareggiate. Giustino si accommiata dall'imperatrice, partendo per la guerra:

 

Poi vòlto per partir, volse ancor gli occhi

verso la sua bellissima Sofia,

la quale a caso in lui volgea la vista,

onde si rincontrar le belle luci

di che la giovinetta ebbe vergogna,

e i suoi ripinse sorridendo a terra.

Poi, mentre ch'egli andò verso la porta,

ella, postosi avanti il suo ventaglio,

con la coda dell'occhio il rimirava;

e la mente di lei, sì come in sogno,

seguì le poste dell'amate piante;

ma, come uscì di corte, ad un balcone

si trasse e lo guardò finch‚ disparve...

 

Un po' più oltre, quando crede che Giustino sia morto, Sofia disperata

 

e pur disposta di morire al tutto

in qualche modo, volse gli occhi, e vide

acqua con soblimato in un fiaschetto,

che la donzella sua, per esser bruna,

l'adoperava a far la faccia bianca.

Questa, perché sapeva esser veleno,

tutta quanta bevea senza paura.

 

Senonché la sua damigella, quando risà l'accaduto, si affretta a fare ricerca del medico:

 

Il medico gentil vi venne, e tolse

olio con acqua ticpida, e gliel porse,

ed ella il bevve e vomitò il veleno...

 

<L'Italia liberata dai Goti ‘‘

 

Le dié, dunque, un pronto emetico, che, se fosse occorso invece un purgante, il Trissino, sollecito di fare poesia realistica, non avrebbe mancato di descriverne la qualità, il modo d'ingerirlo e gli effetti.

 

Si dice che questo suo poema sia terribilmente noioso e riesca illeggibile; e, in verità, non lo lessero i contemporanei, che pur lo avevano a Iungo e con fiducia atteso; fu ristampato nel sette e nell'ottocento per dovere di collezionismo librario e non perciò letto, o solo da qualcuno che si è visto nell'obbligo di trarne, chi sa perché, un minuto riassunto per comporne un suo lavoro da scuola. Ma il lettore, che voglia farsi qualche animo, pensi che v'incontrerà a ogni passo questi ridenda che l'allieteranno, o piuttosto che l'allieterebbero se il giuoco non fosse tirato troppo in lungo.

 

Oltre questo giuoco che certamente non il Trissino fece per noi ma noi possiamo fare con lui, nel poema non c'è nulla di nulla: non vi si coglie alcun tratto felice, alcun moto di affetto, alcun pensicro notevole, come invece accade nellc rime dcllo stesso autore, che era tutt'altro che privo di finezza e gentilezza, e nella Sofonisba, e persino in qualche tratto della commedia dei Simillimi. Perché, dunque, rimane e rimase ricordevole? Perché non può tralasciarscne la menzione nelle storie letterarie?

 

Mettiamo da parte la profonda riverenza e la schietta ammirazione che per il Trissino, per il dotto poema del ‘‘ saggio Trissino ‘‘, sentiva Gian Vincenzo Gravina, il quale, rivendicando questo ‘‘ poeta sì dotto e prudente ‘‘, lamentava che incontrasse ‘‘ tanto poco applauso appo i nostri ‘‘, e si rassegnava alla sorte che nessuno gli avrebbe invidiato sì grande opinione che aveva di lui, e che anzi sarebbe ‘‘ universalmente compatito di vivere in questo inganno ‘‘. Il Gravina, che pur intravide taluni concetti della poetica moderna e che aveva gusto severo, teneva fitto in mente che l'opera di poesia debba fabbricarsi secondo ragione, cioè secondo i preconcetti e le escogitazioni delle poetiche vecchie e nuove; e quando qualcuno come il Trissino ciò adoprava, non poteva, per coerenza, non tributargli ammirazione, e anzi par quasi che si studiasse e a forza di sforzi su sé medesimo riuscisse a sentire ammirazione. Con lo stesso metodo egli componeva le sue cinque tragedie, le quali, per altro, e per esser giusti, stanno alquanto più su dell'Italia trissiniana, perché vi si mostra qua e là l'anima e la mente del Gravina, la sua elevatezza morale, il suo spirito d'indipendenza e il suo anticlericalismo.

Nel Trissino, per es., non si troveranno sentenze come questa dal Gravina verseggiava in versi fiacchi ma meno fiacchi dei trissiniani, che si legge nei seguenti versi:

 

Oh‚ quando a me togliessero la vita

mi scioglierian dalla continua morte

ch'io soìfro ad abitar sempre co' rci.

E poi, chi sa se questa vita umana

che le notizie sue dai sensi accoglie,

non impedisca a noi vita maggiore,

 

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Poesia eroica e didascalica

 

che l'alma acquista, se, dai sensi sciolta,

trae la cognizion dell'infinito

e nell'eterno Dio vede col guardo;

onde chi più di tutti ha conosciuto,

più di tutti disteso ha la sua vita,

se pur si riducesse a un punto solo.

 

Il perché del posto che il Trissino ha preso e mantiene nelle storie letterarie, la ragione di questa sua ‘‘ sterile celebrità ‘‘, come il Manzoni ebbe a chiamarla con felicissimo epiteto,l è bene enunciata in una lettera di Torquato Tasso, nella quale, dopo aver dichiarato che il titolo della sua Gerusalemme liberata somigliava a quello dell'ltalia liberata del Trissino, di esso (soggiungeva) io fo molta stima, perch鑑 egli fu il primo che ci diede alcuna luce del modo di poetare tenuto dai Greci, e arricchì questa lingua di nobilissimi componimenti ‘‘.2

 

‘‘ Modo di poetare tenuto dai Greci ‘‘: che cosa è da intendere con ciò? Non certo la poesia stessa, la quale non fa scuola e non genera poesia, ma gli schemi e le strutture della poesia, gli schemi della tragedia, della commedia e dell'epica. Di ciò si sentiva bisogno nel Rinascimento, dell'appoggio a una grande tradizione poetica, al che andava unita sovente l'illusione che, attenendosi superstiziosamente e materialmente alle opere degli antichi si potesse riavere la loro poesia, illusione partecipata dai maggiori e dai minori, dagli uomini d'ingegno non meno che dagli inetti. Anche un poeta di genio come Torquato Tasso ebbe bisogno di quel punto di appoggio, cioè di quegli schemi; le controversie intorno alla Gerusalemme si aggiravano in buona parte sull'osservanza o inosservanza di essi. Dopo il Tasso innumerevoli furono le ripetizioni, presso gli epigoni della Gerusalemme, dello schema omerico, italianizzato per il primo dal Trissino; e lo schema medesimo fu seguito fuori d'Italia. Ma poi lo spirito che diremo epico lo scosse via, sentì l'impaccio dei vecchi puntelli e li abbatté, adottando altri schemi o creando nuove forme; e anche noi nel leggere il Tasso, come nel leggere Virgilio e lo stesso Omero, prescindiamo dallo schema e c'indirizziamo unicamente alla poesia, lasciando che continuino a guardare superstiziosamente quello e a studiarlo pedantescamente i critici scolastici. Ciò non toglie che un tempo esso fu necessario, che soddisfece un bisogno, di‚ agevolezze e rese servigi; e da ciò la ‘‘ sterile celebrità ‘‘ di Giovan Giorgio Trissino e della sua Italia liberata dai Goti o dai Gotti.

 

Benedetto Croce

(Da Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, I, Bari, Laterza, 1945, pp. 302-309.)

 

/tratto da: Lanfranco CARETTI,  Giorgio LUTI. La letteratura italiana per saggi storicamente disposti. Ed. Mursia/.

 



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