Francesco De Sanctis
Storia della Letteratura Italiana
XIII
L' ORLANDO FURIOSO
Ludovico
nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il 1474. Machiavelli, Berni, Bembo,
Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di questa età
letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il
Machiavelli nel sessantanove, il Bembo nel settanta, il Guicciardini
nell'ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.
Nel
novantotto, proprio l'anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune
fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L'uno attendeva
alle gravi faccende dello Stato, e ne' suoi viaggi in Italia e in Europa
attingeva quella scienza dell'uomo e quella pratica del mondo, che dovea fare di
lui la coscienza e il pensiero del secolo; l'altro faceva il letterato in corte,
e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della
sua immaginazione.
Aveva allora
ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finchè, avuta dal
padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e tutto pieno il
capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò a far versi
latini e italiani, come tutti facevano, elegie, canzoni, odi, epigrammi,
madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.
Nel '94,
quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico scrive un'ode
oraziana a Filiroe, nome ch'egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia
. . .
. . . . asperi
Furore
militis tremendo,
Turribus
ausoniis ruinam.
[Ad
Philliroem, vv. 2-4]
E il giovane sdraiato sull'erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:
Rursus
quid hostis prospiciat sibi,
Me
nulla tangat cura, sub arbuto
Iacentem
aquae ad murmur cadentis...
[Ad Philliroem, vv. 5-7]
Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita: e che importa? sol che possa andar pe' campi, seguire Lida, Licori, Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:
Est
mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris
Lyda
modo meus est, est modo Phyllis amor...
Antra
mihi placeant potius montesque supini,
Vividaque
irriguis gramina semper aquis ...
Dum
vaga mens aliud poscat, procul este Catones ...
[De diversis amoribus, vv. 1-2, 55-56, e 59]
E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae, imitazione felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che importa,
...
... si furor, Alpibus
Saevo
flaminis irmpetu
Iam spretis, quatiat celticus ausones?
[Ad Pandulphum, vv. 40-42]
Che importa servire a re gallo o latino,
Si
sit idem hinc atque hinc non leve servitium?
Barbaricone
esse est peius sub nomine, quam sub
Moribus?
Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando: «Improba secli conditio!» e lamentando «clades et Latii interitum»,
Nuper
ab occiduis illatum gentibus, olim
Pressa
quibus nostro colla fuere iugo,
[Ad Herculem Strozzam, 27-28]
svolge l'occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L'anno appresso alla calata di Carlo ottavo l'Ariosto recita l'orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre a diciannove anni, scrive un'elegia per la morte di Leonora d'Aragona, moglie del duca di Ferrara. Nell'introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:
Rime disposte a lamentarvi sempre,
Accompagnate il miserabil core
In altro stil che in amorose tempre:
Che or giustamente da mostrar dolore
Abbiamo causa, ed è sì grave il
danno
Che appena so s'esser potria
maggiore.
[Elegia XVII, vv. 1-6]
I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, all'oraziana. In latino tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a' suoi occhi, e dice:
An
haec vera Megilla
Cuius
detineor sinu?
Haec,
haec vera mea est; nil modo fallimur,
Mi
anceps anime: en sume cupita iam
Mellita
oscula, sume
Expectata
diu bona.
[De Megilla, vv. 43-48]
Ma in italiano Megilla è «l'alta beltade», che «col suo beato lume illustra e imbianca l'occaso», e l'amante e «nel dir lento e restio» e non descrive, perchè «chi descriver puote a pieno il sole?».
Non è valore uman che tanto ascenda.
Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell'immaginazione un'altra fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:
Che 'l saper nella lingua degli Achei
Non mi reputo onor, s'io non intendo
Prima il parlar de li latini miei.
Mentre l'uno acquistando, e
differendo
Vo l'altro, l'occasion fuggì
sdegnata,
Poi che mi porge il crine ed io nol
prendo.
[Satira VI, A Pietro Bembo, vv.178-183]
Morì il padre, ch'egli aveva soli ventott'anni, e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare Omero nel libro de' conti:
Mi more il padre, e da Maria il
pensiero
Dietro a Marta bisogna ch'io rivolga;
Ch'io muti in squarci ed in vacchette
Omero.
[Satira VI, A Pietro Bembo, vv.198-200]
Nè potè avere più agio e modo d'intendere «nella propria lingua dell'autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e sì faconde»; perchè venuto in corte fu mandato qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d'Este:
E di poeta cavallar mi feo:
Vedi se per le balze e per le fosse
Io potevo imparar greco o caldeo.
[Satira VI, A Pietro Bembo, vv.237-239]
Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell'arte poetica e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s'imitava quel meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane, padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di Plauto, e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la società in mezzo a cui si trova. La sua commedia è una ricostruzione, non è una creazione, e intento al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s'era sviluppato a Firenze, e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena. Ma l'Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano. Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta a disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne' viluppi, negl'intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico, che spesso stanca l'attenzione. Ma l'intrigo non basta a sostenere l'interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l'intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall'intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l'interesse. Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l'imitazione latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da' gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt'i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall'astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l'ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone, rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l'intende e la studia su' libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de' birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de' servi e degli avventurieri. Concetto profondo, se l'Ariosto l'avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui, che è il protagonista, non è proprio un astrologo, com'è nel Lasca, e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l'astrologo senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall'astrologia messa in burla: qui l'astrologia ci sta per comparsa, nè da essa escono i mezzi d'azione. Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre vuol farla a' padroni è burlato da' servitori, il concetto sarebbe così spiritoso, com'è nell'astrologo del Lando, di cui si mostra più sapiente un contadino, anzi l'asina del contadino. Ma qui l'astrologo è un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:
E sa di queste e dell'altre scienzie
Che sa l'asino e il bue di sonar gli
organi.
[Negromante, atto II, sc. I, vv. 7-8]
Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i servi, dall'altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell'autore un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che l'accocca a tutti. Cinzio l'assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:
Si vede far tutto il dì, nè
miracolo
È cotesto . .
Non vedete voi che subito
Un divien potestade, commissario,
Provveditore, gabelliere, giudice,
Notaio, pagator degli stipendii,
Che li costumi umani lascia, e
prendeli
O di lupo o di volpe o di alcun
nibbio?
[Negromante, atto I, sc. III, vv. 39-40 e vv. 43-48]
- Capisco - dice Cinzio. La poca esperienza che hai del mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e' possa scongiurare gli spiriti? - E Temolo risponde:
Di questi spirti, a dirvi il ver,
pochissimo
nè meno crederei; ma li grandi
uomini,
e principi e prelati, che vi credono,
fanno col loro esempio ch'io,
vilissimo
fante, vi credo ancora.
[Negromante, atto I, sc. III, vv. 78-82]
Questo tratto è stupendo d'ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de' grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:
Delle tre starne che in piè avete,
ditemi, Qual mangerete? |
|
ASTROLOGO |
Vedraimi ir beccandole |
NIBBIO | Eccoven'una, e la miglior: mettetevi, Se avete fame, a piacer vostro a tavola. |
ASTROLOGO | Chi è? Camillo? |
NIBBIO |
Sì. |
ASTROLOGO |
Sì ben; mangiarmelo Voglio, che l'ossa non credo ci restino. [Negromante, atto III, sc. II, vv. 21-28] |
E questo
Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell'astrologo, egli, suo servo,
confidente e mezzano, gli dà il calcio dell'asino, e lo ruba e lo pianta lì.
Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale, e poco
studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti. L'autore vi mostra
un'attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare. Che
uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma
quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al
di sotto dell'aspettazione.
Ludovico era
di coltura al di sotto de' tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della
corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i
suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta, ne fece
un «cavallaro», mandandolo qua e là in suo servigio. Ludovico, ricordandosi
la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da
Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che
belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la
profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in
quell'occasione:
A veder pien di tante ville i colli
par che 'l terren ve le germogli,
come vermène germogliar suole e
rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo
nome,
fosser raccolti i tuoi palazzi
sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome.
[Elegia, XIV,
vv. 19-24]
Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè il cardinale lo abbia tolto a' dolci studi e a' cari amici e spintolo in quel «rincrescevole laberinto». Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:
Io stando qui, farò con chiara
tromba
Il suo nome sonar forse tanto alto,
Che tanto mai non si levò colomba.
[Satire, II, A Alessandro Ariosto e a
Ludovico da Bagno, vv. 229-31]
E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in latino:
Quis
patre invicto gerit Hercule fortius arma?
Mystica
quis casto castius Hyppolito?
[Ode, In Hyppolitum Estensem episcopum Ferrariae, vv. 97-99 e 106-8]
Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non poeta:
Non vuol che laude sua da me composta
Pper opra degna di mercè si pona:
Di mercè degno è l'ir correndo in
posta...
S'io l'ho con laude ne' miei versi
messo,
Dice ch'io l'ho fatto a piacere e in
ozio:
Più grato fòra essergli stato
appresso.
[Satire,
II, A Alessandro Ariosto e a Ludovico da Bagno, vv 229-31]
Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere de' più comici, e se, rappresentando un mondo convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice, è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al naturale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitù, rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; «gli sapeva meglio una rapa» in casa sua che t«ordo o starna o porco selvaggio »all'altrui mensa:
E così sotto una vil coltre,
Come di seta o d 'oro ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre
Membra, che di vantarle che agli
sciti
Sien state, agl'indi, agli etiopi, e
oltre.
Degli uomini son vari gli appetiti;
A chi piace la chierca, a chi la
spada,
A chi la patria, a chi li strani
liti.
Chi vuole andare attorno, attorno
vada;
Vegga Inghilterra, Ongheria, Francia
e Spagna:
A me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
Quel monte che divide e quel che
serra
L'Italia, e un mare e l'altro che la
bagna.
Questo mi basta: il resto della
terra,
Senza mai pagar l'oste, andrò
cercando
Con Tolomeo, sia il mondo in pace o
in guerra.
[Satire, III, Ad Annibale Maleguccio, vv. 47-63]
Ma non è lasciato vivere, e ha tra' piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:
Apollo, tua merce, tua mercè, santo
collegio delle muse, io non possiedo
tanto per voi, ch'io possa farmi un
manto......
Or, conchiudendo, dico che, se 'l
sacro
cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo ed
acro
renderli, e tôr la libertà mia prima. ..........
Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, nè sì fermi
che molte volte non mi sien contesi,
mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi ch'io sudi e tremi, senza
rispetto alcun ch'io muoia o ch'io
m'infermi;
non gli lasciate aver questa
credenza:
ditegli che più tosto ch'esser
servo,
torrò la povertade in pazienza.
[Satire, II, A Alessandro Ariosto e a
Ludovico da Bagno, vv. 88-90, 262-265 e 238-246]
Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d'animo o cupido d'onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero, che rompa la catena una buona volta, e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de' Sancio Panza e de' don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell'amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all'insegna del Montone:
Piegossi a me dalla beata sede:
La mano e poi le gote ambe mi prese,
E il santo bacio in amendue mi diede.
Indi, col seno e con la falda piena
Di speme, ma di pioggia molle e
brutto,
La notte andai sin al Montone a cena.
[Satire,
III, Ad Annibale Maleguccio, vv. 178-180 e 184-186]
Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupidità ingorda de' cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: - E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? -
Sia ver che d'oro m'empia la
scarsella
E le maniche e il grembo, e se non
basta,
M'empia la gola e il ventre e le
budella;
In che util mi risulta essermi stanco
In salir tanti gradi? Meglio fora
Starmi in riposo, o affaticarmi
manco.
[Satire, III, Ad Annibale Maleguccio, vv. 193-195 e 205-207]
Ora ha aria di scusare il papa. - Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero «il più bel di tutt'i manti,» amici che lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se fin che tutti beano, aspetto a
trarme
La volontà di bere, o me di sete,
O secco il pozzo d 'acqua veder
parme,
Meglio è star nella solita quiete.
[Satire, III, Ad Annibale Maleguccio, vv. 166-169]
Questa
magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con
una perfetta varietà di caratteri, e con un'ironia tanto più pungente, quanto
appare più ingenua e più bonaria. Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto
governatore, che fa un ritratto stizzoso de' suoi amministrati, e deplora il
tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o
che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue
contrarietà, i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di
rassegnazione delle anime fiacche, che significa: - Ma che ci è a fare?
Pazienza! - E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt'i suoi
difetti, come fossero perle. Anche il Berni è così, e si fa bello della sua
poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove Ludovico
si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno cerca
l'effetto e più l'ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po' a sue
spese, e senza ch'egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo così
artificiato, dove per soverchio studio d'imitazione o per conseguire certi
effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico, che
scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo
convenzionale, qui in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un
carattere comico de' più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma
del borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo. Ha visto
Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si è
ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi
umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni
letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora
appunto che l'Italia era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il
borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le
allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo «fuge rumores». Ci è in questo ritratto
un po' di Orazio, ma l'imitazione è qui natura, è somiglianza di anima e di
genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perchè senti che l'uomo di
cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualità
amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e non la satira, perchè
quell'uomo non si propone di berteggiare nè di censurare, ma unicamente di
sfogare il suo umore col fratello o l'amico. E perciò la sua narrazione è
mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi
d'immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi
graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico
del medio evo, il linguaggio della Divina
Commedia e de' Trionfi, in questa
profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il
metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che
arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell'Ariosto, dove
la terzina è profondamente modificata, e prende forma pedestre, aguzzata e
sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La terzina,
come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e tradizionale. L'ottava,
la cui immagine si vede già abbozzata ne' rispetti e ne' canti popolari, era il
linguaggio de' romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni, recata a
perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e popolare. E la terzina
sarebbe rimasta, come il sonetto e la canzone, stazionaria e convenzionale, se
il Berni e l'Ariosto non le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e
dandole abito conforme al tempo. L'ottava rima cantava; la terzina discorreva,
berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.
Fra tanti
fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l'Orlando furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva
sciupato in quelle «corbellerie» il tempo destinato al suo «servizio».
Il
Boiardo interruppe il suo Orlando
innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per andar «non so
in che loco». Morì qualche anno dopo, quando Ludovico traduceva Plauto e
Terenzio e scriveva commedie, rappresentate magnificamente nel teatro di corte.
La gloria dell'Omero ferrarese spronò l'Ariosto a tentar qualche cosa di
simile. Cominciò in terza rima una storia epica de' fasti estensi, ma smise
subito, disacconcio il metro alla sua larga vena. E si risolse senz'altro di
continuar la storia di Orlando, ripigliandola là dove l'avea lasciata il
Boiardo. Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in
latino. L'Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l'Orlando innamorato. Ma lo capiva l'Ariosto, che di quella lettura
facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le stesse
forme. Così cansò l'imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo
ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellì
per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta
che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della
via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c'era dunque nella
sua testa? C'era l'Orlando furioso.
Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.
E ciò che la
rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui
non era più alcun vestigio nell'arte, ma il puro sentimento dell'arte, il
bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne' suoi fini il desiderio un po'
di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde che gli erano
gradite, un po' di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d'Este.
Ma sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella vasta tela.
Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui
fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta
ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia dato alle
sue creazioni l'ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di
lavoro uscì l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità
riverita ancora in Italia, l'Arte.
Ludovico e
Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l'uno e l'altro tra
due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e
si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il
Rinascimento.
Ritratto tutti
e due della loro età. Dante fu più poeta che artista: all'artista nocquero la
scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa grandezza ed energia
dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato
e resistente, perchè l'arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo
reale era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non
potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.
Tutto questo
mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue forme.
È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato. Già nel
Petrarca spunta l'artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone
e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e
le gioie. Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di quella realtà e di
quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso
beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova
divinità annunziata da Orfeo, tra' profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non
ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già sgombro, e
senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente. Il mondo
in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza
religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse molto
mediocre. Buona pasta d'uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e
ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla
sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza
partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una
distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l'arte. Andate a vedere
quest'uomo mezzano e borghese come quasi tutt'i letterati di quel tempo, nella
sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la
libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue
contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e
le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e compone. Il suo
sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio. Là, su quella
fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l'artista.
Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell'ideale di bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l'idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c'era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto «cortesia», e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que' costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de' sentimenti; un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice, ma dall'essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: «in fè di gentiluomo». Ci era il codice dell'onore e dell'amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltà nell'amore, la devozione al suo signore, l'osservanza della parola, la difesa de' deboli, la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il così detto punto d'onore. Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un barlume, e più nell'apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l'eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell'onore non era dunque parte intima del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini di onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l'onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell'esclamazione del poeta:
O gran bontà de' cavalieri antichi!
[Orlando furioso, I, 22, v. 1]
Non ci era
dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche
cosa come il Cid; e scaduto ogni
sentimento religioso, morale e politico, l'onore rimaneva senza base, e non avea
serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più brillanti che solide,
di cui si vede il codice nel Cortigiano
del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo
religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo
d'immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novità, la
varietà e la straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato era
serio, e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt'i
limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si
proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare
l'immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le
favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa
l'attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo,
intramettendo, ripigliando co' passaggi più bruschi, e portando l'incoerenza
fino nell'esterna orditura del racconto.
Già
cominciava a spuntare una scienza dell'uomo e della natura. L'invenzione della
stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli
scritti del Pomponazzi, i Discorsi del
Machiavelli, la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna,
la Francia, l'Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del
mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il
mondo dell'uomo e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era
ancora come un sole inviluppato di vapori, che non danno via a' suoi raggi. E i
vapori erano il mondo popolare dell'immaginazione, che suppliva alla scienza,
riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata e
ammessa, il miracolo de' cristiani, il prodigio de' pagani, gl'incanti de' maghi
e delle fate, le imposture degli astrologi. L'uomo stesso in mezzo a questa
natura fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora
primitivo, credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni,
determinato all'azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione, e
che non si ripiega mai in sè, non si studia, non si conosce, è tutto
superficie, tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è
piuttosto anch'esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza
tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di «carattere» e di
«autonomia».
Nondimeno
l'Italia era il paese, dove l'uomo, come intelligenza, era più adulto, più
formato dall'educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte le
sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un gioco d'immaginazione.
Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo
cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la
cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.
Ludovico era
tutt'altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico. E quando prese a voler
continuare la storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la stessa
indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla bene. Molti
chiedono: - Quale fu lo scopo dell'Ariosto? - Non altro che rappresentare e
dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l'ira di Achille; Virgilio
canta Enea; Dante canta la redenzione dell'anima; l'Ariosto non canta l'impresa
di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e
Bradamante: l'impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al
quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo e il luogo
nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri, le cortesie e
le audaci imprese che furono «a quel tempo» che Agramante venne in Francia. Le
furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto perchè non
ci è un'azione unica e centrale, ma parti importanti di quell'immensa totalità
che dicesi mondo cavalleresco. L'unità è dunque non questa o quella azione e
non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo
sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo. Se l'impresa di Agramante fosse non il
semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria
azione, lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in
quest'azione, il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a volerla giudicare con
lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l'azione e la soperchiano!
Bella quest'azione che ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema nella
storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale
se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in
un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica, e finita essa,
continua senza di essa! Unità d'azione ed episodi sono un linguaggio
convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a
volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perchè l'essenza di quel mondo è
appunto la libera iniziativa dell'individuo, la mancanza di serietà, di ordine,
e di persistenza in un'azione unica e principale, sì che le azioni si chiamano
avventure, e i cavalieri si dicono erranti. Staccarsi dal centro, andare
vagando, e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che ripugna così alla
unità come alla disciplina. Volere organizzare questo mondo co' precetti di
Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e
la varietà è unità. Come l'unità del mondo nella sua infinita varietà è
nel suo spirito o nelle sue leggi, così l'unità di questa vasta
rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.
La forza
centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell'iniziativa
individuale; e ci vuole l'angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri
erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par di volte, e
appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a' fantasmi
delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di
avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto
religioso o politico, ma anch'essa una grande avventura, cagionata dal desiderio
della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e difesa con gli
eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e
signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di
convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di cui si
vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli. Perchè
al di sopra di quest'anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico,
che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e sa stuzzicare la
curiosità e non affaticare l'attenzione, cansare in tanta varietà e spontaneità
di movimenti il cumulo e l'imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi e
avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella maggiore apparenza del
disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al
tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal nodo dell'ordito, è
come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno. La scena si
apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta.
E allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte
vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica, e
Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in pieno mondo
cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi corrono, Agramante
mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore.
Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa spenge l'incendio, e Rinaldo
guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà i pagani. Agramante
che assediava, è assediato. I cavalieri pagani sono anche erranti. Ferraù
cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l'elmo; Gradasso cerca Rinaldo, a cui
vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero,
Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al demonio di farli correre
appresso al ronzino di Doralice, che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno
i cristiani. Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani.
Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il
campo; e chi rimane? Rinaldo tra' cristiani, Ruggiero tra' pagani. Un duello tra
Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma Agramante rompe i patti, è
disfatto, la sua flotta è dispersa da' nemici e da' venti, e vede di lungi la
sua patria arsa da' cristiani. Il poema cominciato a Parigi si termina a Parigi,
con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte. Parigi è il legame esteriore
del racconto, ma non ne è l'anima o il motivo interiore. Il motivo è lo
spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti, l'amore, o il punto
d'onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso il cavaliere, quando non sia
sviato e impedito da forze soprannaturali. Il soprannaturale è qui come
semplice macchina o forza, senza personalità; e forze sono e non persone
Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È un soprannaturale
privo di ogni aureola e prestigio, e tali sono pure le spade e gli scudi
incantati, e gli anelli fatati, e gl'ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il
corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda
l'immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale, che ci
si sta dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide
se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non è in
quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come sono gli
effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive una
forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue gradazioni, dal
mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui modello è
nel codice di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso nella comune
barbarie.
I motivi
spirituali di questo mondo, l'amore, l'onore e il maraviglioso o lo spirito di
avventura, sono dal poeta portati a quell'ultimo punto che confina col ridicolo:
l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d'onore
degenera in puntiglio e produce i più strani effetti, la cui immagine tragica
è Mandricardo, e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul
ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell'inferno e nel paradiso
terrestre e nel regno della Luna. Il mondo cavalleresco ne' suoi motivi interni
è spinto all'ultima punta. Se l'elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa
Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace persona
poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da
forze naturali e umane, che abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue
varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche,
serie e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un povero fante, la
pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella Luna, la discordia nel
campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che,
guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando le ha
ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando. Reminiscenza di Achille è
Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di Alcina, e
riuscito il più perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi
combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito e il contorno a
questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come è la morte di Zerbino e il
lamento d'Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte,
le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di
Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori
dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e dal sentire del suo tempo, pure
Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa l'immaginazione,
che te lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una vita presente e reale. E qui
è il maraviglioso del genio ariostesco, rappresentare un mondo così
straordinario con semplicità e naturalezza. Le condizioni di esistenza sono
veramente fantastiche sino all'assurdo; ma una volta ammesse quelle basi, il
movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si vegga con che fine
gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno, con che
scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la discordia de'
pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi
vivi, e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici
proverbiali, come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non
s'intromette niente nella sua storia, e più che attore, è spettatore che gode
alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della sua
immaginazione. Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo
ariostesco, che è stata detta chiarezza omerica. L'arte italiana in questa
semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due
qualità che l'Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico «artisti» e
non «poeti». Non dà valore alle cose, slegate dalla realtà e puro gioco
d'immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si
travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo particolare, che non
tiri la sua attenzione, e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto perchè
l'interesse è non nella cosa, ma nella sua forma, la maniera sobria e
comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti.
Ciò
che nel Decamerone ti dà il periodo,
qui te lo dà l'ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo di un
quadro col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti
dà una serie, di cui lascia il legame all'immaginazione: l'Ariosto ti dà un
vero periodo, così distribuito e proporzionato che pare una persona. E
l'effetto è non solo in quella ossatura materiale così solida e bene ordinata,
ma in quell'onda musicale, in quella superficie scorrevole e facile, che ti fa
giungere all'anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo
de' grandi pittori, quando l'immaginazione italiana mirava a dare all'immagine
tutta la sua finitezza, l'Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia
l'oggetto finchè non ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di
luce o di armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii: non ci è
ombra di affettazione, o di pretensione; ci è l'oggetto per se stesso, che si
spiega naturalmente. Il poeta fissa l'esteriorità nel punto che è viva, quando
cioè è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori, e non
osserva, non riflette, non la scruta, non l'interroga, non cerca al di dentro,
non la palpa, non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento
subbiettivo viene a turbare l'obbiettività del suo quadro; nessun movimento
intenzionale. Non ci è il poeta, ci è la cosa che vive, e si move, e non vedi
chi la move, e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena
chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la «divinità»
dell'Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista
rimane tranquilla e chiara ne' più bruschi e complicati movimenti d'insieme.
Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli, paesaggi,
castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose
minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma
ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata e si vede l'intenzione
dell'eleganza. Qui la superficie è così naturalmente piana, che ti par nata a
quel modo e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:
Questa di verdi gemme s'incappella;
Quella si mostra allo sportel
vezzosa;
L'altra, che in dolce foco ardea pur
ora,
Languida cade e il bel pratello
infiora.
[Stanze per la giostra, I, 78, vv. 5-8]
Qui la rosa m'ha aria di una fanciulla civettuola, che prende questa o quell'attitudine per parer vezzosa. L'«incappellarsi», lo «sportello», quell'«ardere in dolce foco», sono immagini appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all'uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che l'orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell'Ariosto, la rosa,
Che in bel giardin su la nativa spina
Mentre sola e sicura si riposa,
Nè gregge nè pastor se le avvicina;
L'aura soave e l'alba rugiadosa,
L'acqua, la terra al suo favor
s'inchina:
Gioveni vaghi e donne innamorate
Amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
Rimossa viene e dal suo ceppo verde,
Che quanto avea dagli uomini e dal
cielo
Favor, grazia e bellezza, tutto
perde.
[Orlando furioso, I, st. 42- 43]
Questa è la
storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di descrivere, ma di
raccontare, e ti pone innanzi la cosa nella sua verità naturale, sì che niente
paia oltrepassato, esagerato, o trasformato. L'«alba rugiadosa», il «ceppo
verde», la «nativa spina», i «gioveni vaghi», le «donne innamorate», i «seni
e le tempie», il «gregge e il pastore» sono tutte immagini naturali,
distinte, plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale,
assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell'ottava, con tanta
semplicità che l'ultimo verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel
modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui
eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma
sono la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la
loro chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con la
stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi
non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è come un
individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande che
sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però
ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli ultimi
particolari.
Lo spirito ne' suoi preconcetti è limitato, e produce la «maniera»,
che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla, la visione: e
perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne' quali prevale la
maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino, e simili. Al contrario
inimitabile è l'Ariosto che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e calato
nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una
perfetta bonomia, un'aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose
gli si presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso, che
riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità,
senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è
trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo la varia
natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien fuori l'eroico, il
tragico, il comico, l'idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle
cose, anzi che del suo spirito. Di che viene l'evidenza miracolosa di questo
mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la sua serietà artistica nel
suo insieme e nelle minime parti. L'evidenza è in quel coglier gli oggetti
vivi, cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali,
anch'essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che
Dante fa indovinare, e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava. E
perchè gli oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono
rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l'uomo e la
natura nel loro stato d'immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture
e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati
brevemente, e l'azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi
con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d'impaludare o di
deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo,
così nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e
corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto
è relativo e intenzionale, e concorre all'effetto, ora serio ora comico.
L'effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il
poeta non prende altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione
con le sue passioni e i suoi sentimenti. L'effetto è una viva curiosità sempre
nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di
sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella
contemplazione. Il sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua
mente: è un dolce ozio dell'immaginazione. È un flutto d'immagini così vive e
limpide, così naturali e così espressive, che ti tengono a sè e non ti
concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori e
tra mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell'orecchio.
Quel mondo è il tuo rêve, o per
dirla con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo
sogno dorato. L'impressione non è così profonda che oltrepassi l'immaginazione
e colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il
sentimento. La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione,
nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di queste
nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti
subitanei che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e
trasformati. Eccone qualche esempio:
- Nè men ti raccomando la mia
Fiordi... -
Ma dir non potè: - ...ligi -, e qui finìo...
[Orlando furioso, XLII, 14, vv. 3-4]
Stese la mano in quella chioma d'oro,
E strascinollo a se' con violenza;
Ma come gli occhi in quel bel volto
mise,
Gli ne venne pietade e non l'uccise.
[Orlando furioso, XIX, 10, 5-8]
Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare ancora «sentimento», quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell'Ariosto è Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela d'argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova pallidetta come rosa:
Rosa non còlta in sua stagion, sì
ch'ella
Impallidisca in su la siepe ombrosa.
[Orlando furioso, XXIV, 80, vv. 5-6]
Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all'amata:
Per queste bocca e per questi occhi
giuro,
Per queste chiome onde allacciato
fui...
[Orlando furioso, XXIV, 79, vv. 3-4]
Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal sentimentale ti gitta nell'immagine:
E straccia a torto l'auree crespe
chiome.
[Orlando furioso, XXIV, 86, v. 7]
A quest'ufficio adempiono specialmente i paragoni, che nel più vivo dell'emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:
Ad ogni sterpo che passando tocca,
Esser si crede all'empia fera in
bocca.
[Orlando furioso, I, st. 34, vv- 7-8]
L'«impasto
leone», l'«uscito di tenebre serpente», l'«orsa assalita nella petrosa tana»,
il «vase a bocca stretta e a lungo collo, onde l'acqua esce a goccia a goccia»,
e simili spettacoli, non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di
apparenze e movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che
riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione.
Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera
canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell'occhio vagante, che cerca se
stesso nella natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono generale
del sentimento più vicino all'elegiaco e all'idillico che all'eroico e al
tragico; ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del
poeta, ma alla stessa tendenza dell'arte, dal Petrarca in qua.
Anche la natura
rimane tutta al di fuori e non ti cerca l'anima, com'è il giardino di Alcina e
il paradiso terrestre. Ci è l'immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
E diamanti e crisoliti e iacinti
Potriano i fiori assimigliar che per
le
Liete piagge v'avea l'aura dipinti...
[Orlando furioso, XXXIV, 49, vv. 1-4]
Cantan fra i rami gli augelletti
vaghi
Azzurri e bianchi e verdi e rossi e
gialli,
Murmuranti ruscelli e cheti laghi
Di limpidezza vincono i cristalli.
[Orlando
furioso, XXXIV, 50, vv. 1-4]
Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma
Più che carbonchio lucida e
vermiglia.
O stupenda opra! O dedalo architetto!
[Orlando
furioso, XXXIV, 53, vv. 4-5]
Non hai dunque il sentimento della natura, come non hai il sentimento della patria, della famiglia, dell'umanità, e neppure dell'amore, dell'onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:
il miser suole
Dar facile credenza a quel che vuole.
[Orlando furioso, I, 56, vv. 7-8]
Ecco magnifiche sentenze intorno all'amore:
Quel che l'uom vede, Amor gli fa
invisibile,
E l'invisibil fa vedere Amore.
[Orlando furioso, I, 56, vv. 5-6]
Che non può far d'un cor ch'abbia
suggetto
Questo crudele e traditore Amore?...
[Orlando furioso, IX, 1, vv. 1-2]
Che lietamente in sul principio
applaude,
E tesse di nascosto inganno e fraude.
[Orlando furioso, XIII, 4, vv. 7-8]
Amor che sempre
D'ogni promessa sua fu disleale,
E sempre guarda come involva e
stempre
Ogni nostro disegno razionale
[Orlando furioso, XIII, 20, vv. 1-4]
Io dico e dissi e dirò finch'io viva
Che chi si trova in degno laccio
preso
Pur che altamente abbia locato il
core
Pianger non dee, se ben languisce e
muore.
[Orlando furioso, XVI, 2, vv. 1-2 e 7-8]
Chi mette il piè sull'amorosa pania,
Cerchi ritrarlo e non v'inveschi
l'ale:
Chè non è in somma amor se non
insania,
A giudizio de' savi universale.
-
[Orlando furioso, XXIV, 1, vv. 1-4]
Oh gran contrasto in giovenil
pensiero
Desir di lauda ed impeto d'amore!
Né, chi più vaglia, ancor si trova
il vero,
Chè resta or questo, or guel
superiore.
[Orlando furioso, XXV, 1, vv. 1-4]
Amor sempre rio non si ritrova:
Se spesso nuoce, anche talvolta
giova.
[Orlando furioso, II, 2, vv. 7-8]
La lunga absenzia, il veder vari
luoghi,
Praticare altre femmine di fuore,
Par che sovente disacerbi e sfogli
Dell'amorose passïoni il core.
[Orlando furioso, XXVIII, 47, vv. 1-4]
Amor dee far gentile un cor villano,
E non far d'un gentil contrario
effetto.
[Orlando furioso, XXII, 93, vv. 1-2]
Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio di sè. Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati sotto a quei flutti d'immagini. Sono voci d'angoscia e di passione, che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo e chiamando Angelica la paragona ad un'agnella smarrita, e ci fa intorno de' ricami.
In una società
così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca
d'immaginazione, come povera di coscienza, si può concepire quale viva
ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura
iniziata in quei giri musicali del Decamerone
si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella sua
rapida vicenda è così palpabile e così limpida «Procul este, profani.» Nessuna ombra del reale, nessuno spettro del
presente, nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa
danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a' miracoli
dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle all'Italia, al secolo, al reale e
al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e quando dalla lunga via
ritorna, si circonda, come d'una corona, di poeti e di artisti, vera immagine di
quella Italia, madre della coltura e dell'arte, a cui egli presentava l'Orlando. Ma Dante si traeva appresso
nell'altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co' suoi
fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un
pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano,
ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: «Quello che mi sta
nella testa, quello che io vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?».
E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto: perchè non è
tranquillo, chi ha qualche cosa a realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha
a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà. Il
mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua
immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la pura forma, la
pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del
Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilità più che
sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più
che profonda; ha l'anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di
fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata al di fuori nei suoi
fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si
espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo riflette puro con brio
giovanile. Così è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione
spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza
eterna, tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio evo, e illuminato
sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla
fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il
Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo
mondo.
E che cosa
volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto. Era
scettica e cinica, e credeva solo all'arte. E l'Ariosto le dava questo mondo
dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.
Ma non ci
accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo sopra la mano, la
ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando
leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della natura, che
trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima.
Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu, è
vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto è un giuoco
della immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè
hai il sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la lacrima, quando
ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
Pare, ma non
è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non ci è nulla. Al di
sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
L'elemento
dell'arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto il suo ciclo a
Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il
Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura,
hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico.
L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il
Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e
anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s'incontrano
episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è
neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come
fece poi il Berni nel suo Orlando. Il
suo riso è più serio e più profondo.
È il riso
dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non
ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già sviluppato del
reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.
Ludovico è
innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se
ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a
lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse
semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una
piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza,
come materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a suo
genio. La materia, in Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e
le sue punte, e come cera, riceve tutte le impressioni. L'immaginazione le si
accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si
obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso
nella creatura. L'obbiettività è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla
faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l'ha creata,
e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano.
Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni modo ci mette
una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella
maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in
un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso, che non ti
abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente
equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente
scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento
metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività
omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo e
negativo.
Cosa è dunque
questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il
medio evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato, rifatto dall'immaginazione
e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel sentimento dell'arte, quel culto
della forma e della bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane,
ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera
i miracoli della pittura e dell'architettura, e che lì giunge alla sua
perfezione, congiunta con lo splendore e con l'armonia la massima semplicità e
naturalezza di disegno. E c'è insieme quell'intimo senso dell'uomo e della
natura, o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando
ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell'uomo, generato
dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le configuri; tu formi i
magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che quel mondo sei tu che lo
componi, e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua
immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo, senti bisogno
di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e castelli e ci fantastichi
intorno; ma ecco sopraggiungere l'uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol
dire: - Sono soldati e castelli di carta. - La cultura è nel suo fiore,
l'immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i più
grandi miracoli dell'arte; ma lo spirito è già adulto, materialista e
realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione.
Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà,
ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d'immaginazione o arte pura, lo
perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il
suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni,
ed avrai accentuati gli estremi, tra' quali erra questa unità superiore, dove
sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell'uno e ciò che è troppo
grossolano nell'altro. La quale fusione è fatta con gradazioni così
intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore fin dal principio vi è
così ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti urta, perchè
il poeta opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo
naturalmente, ed è lui medesimo l'unità che comunica al suo mondo.
Vedi come
concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso.
Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione ironica.
Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è
rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è perfetta. Ci
si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più fine
gradazioni. È un «crescendo» di particolari e di colori, che ti rendono
naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta
te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più
schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il
modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le
tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo.
È la base della Divina Commedia. Il
poeta materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra
concezione che ciò che si perde in terra, si ritrova nell'altro mondo. Di qui
il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo nell'altro mondo, che è una vera parodia
del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gl'impedisce di entrare nell'inferno;
ma all'ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia
crudeltà verso gli amanti. È il concetto della Francesca da Rimini preso a
rovescio, e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio
di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli danno alloggio
in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo, e a lui danno frutti
di tal sapore,
che a suo giudicio sanza
Scusa non sono i due primi parenti
Se per quei fur sì poco ubbidienti.
[Orlando furioso, XXXIV, 60, vv. 6-8]
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e «tutt'i comodi». È il paradiso terrestre materializzato. Di là, «uscito del letto», con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
L'inutil tempo che si perde a giuoco,
E l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
Vani disegni che non han mai loco,
I vani desidèri sono tanti,
Che la più parte ingombran di quel
loco:
Cò che in somma qua giù perdesti
mai,
Là su salendo ritrovar potrai.
[Orlando furioso, XXXIV, 75]
Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che «sta nel regno della luna». Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.
Di sofisti e di astrologhi raccolto
E di poeti ancor ve n'era molto.
[Orlando furioso, XXXIV, 85, vv.7-8]
Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta allegria:
E vi son tutte l'occorrenze nostre;
Sol la pazzia non v'è poca, nè
assai,
Chè sta qua giù, nè se ne parte
mai.
[Orlando furioso, XXXIV, 81, vvv. 6-8]
L'ironia
colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del Levante, l'amata di
Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie di un «povero
fante». La scena comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della
cavalleria, giostre, tornei, duelli, con Carlomagno circondato de' suoi
paladini, tra il fiore de' cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna,
d'Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e
va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel
Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di
Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una concezione
ironica.
Anche nella
guerra tra Carlo e Agramante, unità esteriore e meccanica del poema, la
cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è
l'individualità, quella forza d'iniziativa che fa di ogni cavaliere l'uomo
libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi
dell'amore e dell'onore, a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite, e
l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l'eroico divien comico.
Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi istinti e passioni; si sviluppa in
lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto
comico. Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia,
capitata da san Michele in un convento di frati, «tra santi ufficii e messe»:
Avea dietro e dinanzi e d'ambi i lati
Notai, procuratori ed avvocati.
[Orlando furioso, XIV, 84, vvv. 7-8]
Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalità di concezione e fusione di colori:
Dovunque drizza Michelangel le ale,
Fuggon le nubi e torna il ciel
sereno,
gli gira intorno un aureo cerchio,
quale
veggiam di notte lampeggiar baleno.
[Orlando furioso, XIV, 78, vvv. 1-4]
Versi
stupendamente epici, che vanno digradando fin nel satirico con naturali
mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora più efficace, perchè non ci è
apparenza d'intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un'aria senza
malizia, dov'è la finezza dell'ironia ariostesca. La Discordia fa il suo
mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante rimasta proverbiale
dov'è il vero scioglimento dell'azione, il motivo interno della dissoluzione e
della sconfitta dell'esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono più
nelle cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto delle
impressioni e degl'istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge i
cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il più spiccato carattere di
questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e di coraggio e di
bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità e
sciocchezza nel fatto d'Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua
scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che
mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia
gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero,
«di virtù fonte», nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria
ed eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci
entra un po' l'Achille omerico, un po' Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio,
collisioni tra l'onore e l'amore, tra l'amore e l'amicizia, da cui escono molti
effetti drammatici. Ma chi ha studiato un po' Ludovico, come si dipinge egli
medesimo, vede che l'uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa,
da cui escono le grandi figure eroiche, ne ci è nel suo tempo. Manca al suo
eroe prediletto semplicità e naturalezza: l'eroico va digradando nel fantastico
e nell'idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a
Orlando e Rinaldo, gli eroi dell'antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie
pel fondatore di casa d'Este, l'interesse è assai più per Orlando e Rodomonte,
creazioni geniali e originali.
L'ironia è
non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli accessorii
cavallereschi. L'amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente
cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non le ha tolto
l'onore, «almeno» secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale dal
canto suo non vuole essere «così sciocco». Doralice piange la morte di
Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe «forse» a stringer la mano a
Ruggiero:
Io dico «forse», non ch'io ve
l'accerti,
ma potrebbe esser stato di
leggiero...
[Orlando furioso, XXX, 72, vvv. 1-2]
Per lei buono era vivo Mandricardo;
ma che ne volea far dopo la morte?
[Orlando furioso, XXX, 73, vvv. 1-2]
Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui grandi colpi de' cavalieri, quei gran colpi «ch'essi soli sanno fare». Una frase, un motto scopre l'ironia sotto le più serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà della fisonomia.
Questo
risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla
faccia, e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata, questa
magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l'apparenza e l'illusione della
realtà nelle cose più strane e assurde, tutto questo, fuso insieme senz'aria
d'intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione
come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e definire, più
simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti
piace, perchè, mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso
non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli
infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.
Questo mondo,
dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non
famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo mondo
della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si
trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e
seppellita sotto la serietà di un'alta ispirazione artistica. Il poeta
considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne'
mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a' trastulli
della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così
serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante,
e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò
dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito,
una «corbelleria». E sarebbe stato una corbelleria, se l'autore avesse voluto
dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la
corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perchè il poeta è il
primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di beffarsi lui de' suoi uditori.
Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare
a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione, è ciò
che dicesi «capriccio» e «umore». Se non che il poeta è zimbello spesso
della sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima
finitezza. Di che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu
ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso
confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri,
mezzi e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza
di esposizione, che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una
frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate
in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione, dove si
rivela un così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo
adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E
perchè questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e
naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra
loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno nell'altro,
sono la rappresentazione artistica dell'un mondo con sópravi l'impronta
dell'altro. In questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell'autore e
della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la
verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza
come opera di pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana, e per
il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello
spirito umano.
© 2001 - by prof. Giuseppe Bonghi
Biblio Italia