Francesco De Sanctis
Storia della Letteratura Italiana
XV
Parte
seconda
Francesco Guicciardini
In letteratura, l'effetto immediato del
machiavellismo è la storia e la politica emancipate da
elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma
razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e
della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e
ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria
scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e
naturale della conversazione e del discorso. È l'ultimo e più
maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
Francesco Guicciardini con tutti gli scrittori politici della scuola
fiorentina e veneta, poi Galileo Galilei con la sua illustre coorte
di naturalisti.
Francesco Guicciardini,
ancorch di pochi anni più
giovane di Machiavelli e di Michelangiolo, già non sembra
della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una
generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli
ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse
aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole
l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo,
con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina a'
presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri,
e non metterebbe un dito a realizzarli.
«Tre cose, - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutt'i barbari, e liberato il mondo della tirannide di questi scelerati preti.»
Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e
l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato, ecco il
programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e
che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte liberale e
civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri
anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso
nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è
il Guicciardini, che scrive: «Conoscere non è mettere in
atto». Altro è desiderare, altro è fare. La
teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fa come ti torna.
La regola della vita è «l'interesse proprio», «il
tuo particolare».
Il Guicciardini biasima «l'ambizione,
l'avarizia e la mollizie de' preti» e il dominio temporale
ecclesiastico; ama Martino Lutero, «per vedere ridurre questa
caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o senza
vizi o senza autorità»; ma «per il suo
particolare» è necessitato «amare la grandezza de'
pontefici» e servire a' preti e al dominio temporale. Vuole
emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, «non
combatte con la religione, nè con le cose, che pare che
dependono da Dio; perchè questo obbietto ha troppa forza nella
mente delli sciocchi». Ama la gloria e desidera di fare «cose
grandi ed eccelse», ma a patto che non sia «con suo danno
o incomodità». Ama la patria, e, se perisce, glie ne
duole, non per lei, perchè «così ha a essere»,
ma per sè, «nato in tempi di tanta infelicità».
È zelante del ben pubblico, ma «non s'ingolfa tanto
nello Stato» da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole
la libertà, ma quando la sia perduta, non è bene fare
mutazioni, perchè «mutano i visi delle persone, non le
cose, e non puoi fare fondamento sul populo», e quando la vada
male, ti tocca «la vita spregiata del fuoruscita».
Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che «governano
non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti».
Quelli che altrimenti fanno, sono uomini «leggieri».
Molti, è vero, gridano libertà, ma «in quasi
tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo». Essendo il
mondo fatto così, hai a pigliare il mondo com'è, e
condurti di guisa che non te ne venga danno, anzi la maggiore
comodità possibile. Così fanno gli uomini «savi».
La corruttela italiana era appunto in questo, che la
coscienza era vuota, e mancava ogni degno scopo alla vita.
Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la
patria, la nazione, la libertà. Non ci è più il
cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini
ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e
desiderabili, ma li ammette sub conditione, a patto che sieno
conciliabili col tuo «particulare», come dice, cioè
col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla
generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse.
Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette se francamente
tra questi più, che sono i savi: gli altri li chiama «pazzi»,
come furono i fiorentini, che «vollero contro ogni ragione
opporsi», quando «i savi di Firenze avrebbono ceduto alla
tempesta», e intende dell'assedio di Firenze, illustrato
dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e
Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana, e non dispera
del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a
quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina
cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia
con la loro caduta. Nel Guicciardini comparisce una generazione già
rassegnata. Non ha illusioni. E perchè non vede rimedio a
quella corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saviezza e
la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita.
Il dio del Guicciardini è il suo particolare.
Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o
lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompariscono. Ogni vincolo
religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è
spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno
per sè, verso e contro tutti. Questo non è più
corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è
dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita.
Il Guicciardini si crede più savio del
Machiavelli, perchè non ha le sue illusioni. Quel venir fuori
sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto
sanguinoso:
«Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.»
In questo concetto della vita il Guicciardini è
di così buona fede, che non sente rimorso, e non mostra la
menoma esitazione, e guarda con un'aria di superiorità
sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo
avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma «per
debolezza di cervello», avendo offuscato lo spirito dalle
apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle
passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito
italiano, già adulto e progredito, che caccia via
l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo
cervello, o, come dice il Guicciardini, «ingegno positivo».
Perchè l'ingegno sia positivo si richiede la
«prudenza naturale», la «dottrina» che dà
le regole, l'«esperienza» che dà gli esempli, e il
«naturale buono», tale cioè che stia al reale, e
non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la «discrezione»
o il discernimento, perchè è «grande errore
parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e per
dire così per regola, perchè quasi tutte hanno
distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la discrezione».
Il vero libro della vita è dunque «il libro della
discrezione», a leggere il quale si richiede da natura «buono
e perspicace occhio». La dottrina sola non basta, e non è
bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa «volere
vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a
mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza
d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a
una fatica di facchini che di dotti».
L'uomo positivo vede il mondo altro da quello che
«a' volgari» pare. Non crede agli astrologi, ai teologi,
a' filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura, o che
non si veggono, «e dicono mille pazzie: perchè in
effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha
servito e serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare la
verità».
Questa base intellettuale è quella medesima
del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo
«speculare» o l'osservare. Nè altro è il
sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e
in forma anche più recisa, e ammette quello che il Machiavelli
ammette. Ma è più logico e più conseguente.
Poichè la base è il mondo com'è, crede
un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di
cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si
acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è
mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua
coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è
conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti,
perchè «gli uomini si riscontrano». Stai con chi
vince, perchè «te ne viene parte di lode e di premio».
«Abbi appetito della roba», perchè la ti dà
riputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto,
perchè, «quando sia il caso di simulare, più
facilmente acquisti fede». Sii stretto nello spendere, perchè
«più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che
dieci che tu ne hai spesi». Studia di «parere buono»,
perchè «il buon nome vale più che molte
ricchezze». Non meritarti nome di sospettoso, ma, perchè
più sono i cattivi che i buoni, «credi poco e fidati
poco», Questo è il succo dell'arte della vita seguita
da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne
vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul
divorzio tra l'uomo e la coscienza, e sull'interesse individuale. È
il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica,
intelligente e positiva, succeduta a' codici d'amore e alle regole
della cavalleria.
Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò
un altro più savio di lui, e volendo usare Cosimo a benefizio
suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì
la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe
anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno
degni della posterità, perchè si riferivano al suo
particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, usò gli ozi a
scrivere la Storia d'Italia.
Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il
lavoro più importante che sia uscito da mente italiana. Ciò
che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica,
sulla quale facevano i loro esercizii rettorici il Giovio, il Varchi,
il Giambullari e gli altri storici. I fatti più maravigliosi o
commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di
uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove più
di nulla. Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e
indignazioni, e neppure ha programmi e preconcetti intorno a'
risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo
intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi
entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. È
l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate,
e che in lui sono egregie, la prudenza naturale, la dottrina,
l'esperienza, il naturale buono e la discrezione. Maravigliosa è
soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere princìpi,
nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in
ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di
circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro:
dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno.
Con queste disposizioni è naturale che lo interessa meno la
scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio
perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie,
di ciò che si vede e si dice il parere, e lo studio
dell'essere, di ciò che è al di sotto, e che non si
vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro
genesi e la loro preparazione, li vedi nascere e svilupparsi. I
motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa
calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che
l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la
loro azione su' fatti. Il motivo determinante è l'interesse,
ed è sagacissimo nell'indagazione non meno degl'interessi
privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e
di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la
libertà, l'indipendenza, fini che escono in mezzo, quando si
vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle
concioni, una specie di rettorica, ad usum delphini, voglio
dire ad uso de' volgari, che non guardano nel fondo, e si lasciano
trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li
movono con la violenza e con l'astuzia, e li usano a' fini loro.
Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa,
massime ne' Ricordi, ha la precisione lapidaria di
Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e
perfetta evidenza, che l'avvicina agli esempli più finiti
della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la
lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un
grado di perfezione che non è stato più avanzato. Ma il
Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de'
fatti umani, avea de' preconcetti in letteratura, opinioni ammesse
senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è
per lui, come per i letterati di quel tempo, la traduzione del
parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima
volta le sue prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa, o il
Castiglione, o il Salviati, o lo Speroni, vi riescono con minore
difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La
sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in
visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo
periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in
quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse
manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici
puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue
circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze
morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa
solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto
organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che
non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi
seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto
superiore.
La Storia d'Italia è in venti libri e si
stende dal 1494 al 1532 Comincia con la calata di Carlo ottavo,
finisce con la caduta di Firenze. Apparisce in ultimo, come un
funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della
Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo storico si può
chiamare la «tragedia italiana», perchè in questo
spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi cesse in potestà
dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e
del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e
sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui, le
arsioni, le prede, gli stupri, tutt'i mali della guerra. Avvolto fra
tanti «atrocissimi accidenti», sagacissimo a indagarne i
più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro
forze, l'insieme gli fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta
tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la
caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta
un'Italia definitivamente smembrata e soggetta, questi fatti generali
preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più
oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e
classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura
interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.
L'uomo vi apparisce come un essere naturale, che operi così
fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni,
opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa
necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti
e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando
l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma
dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella
spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano
lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante,
perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più
la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto
della storia, che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero,
è determinato da motivi interni, o dal suo carattere, e si può
calcolare quello che farà e come riuscirà quasi con
quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi
perde, ha sempre torto, dovendo recarne la cagione a se stesso, che
ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di
fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui
come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla
plebe, a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto,
conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro
interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.
Il Machiavelli va più in là. Egli
intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un
complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la società
e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione,
umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno
interessanti che le passioni, gl'interessi, le opinioni, le forze che
movono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il
significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue
opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti
elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo
delle sue dottrine, e come forza intellettuale, unisce alla profonda
analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di
vista, che manca in quello. Lui, è un punto di partenza nella
storia, destinato a svilupparsi; l'altro è un bel quadro,
finito e chiuso in sè.
2001 - by prof. Giuseppe Bonghi
Biblio Italia