La
letteratura italiana in volgare si rifà a quella dei
secoli XI e XII in Francia, poiché è lì dove sorge la
prima letteratura in volgare neolatino tesa a realizzare
precisi e raffinati propositi d’arte. In Italia e in
Spagna c’è un’attività culturale che va dal campo del
diritto a quello religioso, dalla medicina alla retorica,
ma si svolge nella lingua dei dotti: in latino. Bisogna
ricordare che in quel periodo si traducono in quell’idioma
numerose opere filosofiche e scientifiche dal greco e
dall’arabo.
Questa
cultura confluisce nella letteratura duecentesca italiana
inserendosi in una realtà storica profondamente rinnovata.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, manca in
Italia una unità politica e non c’è, dunque, come in
Francia una vita nazionale unitaria che favorisca il
costituirsi di una lingua comune. D’altronde, la
tradizione letteraria latina – tanto classica come
medioevale – continua ad avere una grande influenza,
favorita poi dalla cultura ecclesiastica, che fa capo al
Papa, unico personaggio che simboleggia un’autorità
accentratrice.
Ma, curiosamente, la Francia non è unitaria per quanto
riguarda la lingua letteraria. Nel Nord si parla la lingua
d’oïl (dal latino “hoc ille” = ciò, questa cosa egli fa,
dice) e nel Sud la lingua d’oc (dal latino “hoc” = ciò,
questa cosa, dice). Ambedue i nomi provengono
dall’espressione di risposta affermativa (perciò Dante
chiama l’Italia il “bel paese là dove ‘l sì sona”, If.
XXXIII 80) e danno origine alla letteratura oitanica (o
francese) e a quella occitanica (o provenzale).
Gli scritti in lingua d’oïl costituirono cicli di poemi
epici (il carolingio, il bretone e il classico), che
ebbero un’influenza grandissima sulle altre letterature
europee: in Spagna, nei paesi scandinavi e germanici, e in
Italia. In quest’ultima, si diffusero in lingua originale
ma – in un secondo momento – in numerosi volgarizzamenti e
rifacimenti in volgare italiano o in una lingua ibrida che
mescolava l’antico francese col veneto. Mentre il ciclo
carolingio narra le imprese leggendarie di Carlo Magno e
dei suoi paladini contro i Saraceni in difesa della
Francia e della fede, quello bretone si occupa del re Artú
e i cavalieri della tavola rotonda.
Dante Alighieri
Il ciclo
classico tratta delle vicende di grandi personaggi
dell’antichità, leggendari o storici, che derivano da
opere come l’ Eneide di Virgilio e la Tebaide di Stazio ma
si comportano secondo gli ideali cavallereschi e le usanze
del Medioevo. Più importanti sono gli altri due cicli:
l’uno esalta il valore guerriero, e l’altro mette insieme
l’avventura con l’amore e la magia. Una prova
dell’importanza di quest’ultimo si avverte precisamente in
Dante, quando fa dire a Francesca da Rimini:
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo
strinse;
soli eravamo e sanza alcun
sospetto.
Per più fiate li occhi ci
sospinse
quella lettura, e scolorocci il
viso;
ma solo un punto fu quel che ci
vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto
amante,
questi, che mai da me non fia
diviso,
la bocca mi basciò tutto
tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo
scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo
avante». (If. V, 127-138)
Lo
ricordano Tommaso Casini e Silvio Adrasto Barbi nel loro
commento alla Commedia: “I romanzi d’avventura, scritti
in lingua francese, in verso e in prosa, erano assai
diffusi fra noi nella seconda metà del secolo XIII, e si
leggevano volentieri anche nelle corti di Romagna; e
poiché i primi libri italiani dove sia distesamente
narrato il fatto di Lancillotto e di Ginevra, non possono
essere anteriori al Trecento, è quasi certo che il romanzo
letto da Paolo e Francesca era in lingua francese. Di
simili letture di “euvres d’amor” fatte da coppie
d’innamorati si hanno esempi anche in poemi francesi del
sec. XIII”. Il Sapegno, invece, crede che “questi romanzi
eran ben noti a Dante, o nell’originale ovvero nei
numerosi volgarizzamenti”. E fa riferimento all’accenno
alle “Arturi regis ambages pulcerrime” in De vulgari
eloquentia, I x 2.
Giuseppe
Giusti – per conto suo – aggiunge nell’800: “Con questo
verso di molteplice significato volle il poeta adombrare
d’un velo onesto una cosa inonesta in sé, inonestissima in
bocca di una donna. Quasi ultimo tócco, volle ripercuotere
tutte le corde sentimentali di quella lagrimevole istoria”
(Scritti vari, p.235)
Dante ricorda anche Lancillotto nel Convivio
quando, parlando del senio cioè la “quarta parte della
vita”, annota:
“7. Rendesi dunque a Dio la nobile anima in
questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto
desiderio e uscir le pare de l’albergo e ritornare ne la
propria mansione, uscir le pare di cammino e tornare in
cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto. O miseri
e vili che con le vele alte correte a questo porto, e là
ove dovereste riposare, per lo impeto del vento rompete, e
perdete voi medesimi là dove tanto camminato avete! 8.
Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare con le
vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido
montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele de le
mondane operazioni, che ne la loro lunga etade a religione
si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo.” (CV,
IV, xxviii). Cioè, segue la tradizione secondo cui il
cavaliere sarebbe diventato monaco alla stessa maniera di
Guido da Montefeltro (Cfr. If. XXVII).
D’altra parte, è ricordata anche Ginevra nel
Cielo di Marte, quando Beatrice, in disparte, vuol
richiamare l’attenzione del poeta sul suo atteggiamento
vanaglorioso:
onde Beatrice, ch'era un poco scevra,
ridendo, parve quella che
tossio
al primo fallo scritto di
Ginevra (Pd. XVI, 13-15)
L’episodio si riferisce alla dama di
Malehaut, che tossì per avvertire della sua presenza,
quando la regina si trovò alla soglia del peccato ("primo
fallo scritto "), nel suo primo incontro con Lancillotto.
Tutto quanto compare nel romanzo Lancelot du Lac, che di
sicuro Dante conosceva, molto probabilmente nella lingua
d’oil originaria. Nel De Vulgari Eloquentia (I x 2)
ricorda le "Arturi regis ambages pulcerrime" (le "bellissime
avventure di re Artù"), mentre Tristano chiude - con
Paride - la schiera delle anime dei lussuriosi in If. V,
67.
Eppure non è ancora possibile dimostrare che
Dante abbia conosciuto direttamente il Roman de Tristan,
malgrado sia stato il testo di materia arturiana in prosa
che ha avuto la maggiore divulgazione in Italia. Ad ogni
modo, risulta chiaro che – più importante della menzione
nel secondo cerchio dell’Inferno – è il “carattere
tristaniano” del racconto di Francesca. Già i primi
commentatori del poema – Lana, Benvenuto, Buti, Landino -
facevano riferimento alla condanna morale di questo tipo
di letture (Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse), ma
interpretazioni più recenti – Friedrich, Porena, Contini,
Montano, Marcazzan – sottolineano la distorsione
dell’amore degli adulteri in chiave cortese e
stilnovistica. Più evidente è la sua lettura della Mort
Artu, come può apprezzarsi nei versi che ricordano la
morte di Mordret:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artú;
(If. XXXII, 61-62)
Le tre lingue letterarie del tempo di Dante sono
identificate dal poeta nel De vulgari eloquentia col nome
della rispettiva particella affermativa. Chiama, quindi,
lingua d'oil (l'attuale oui) il francese, lingua d'oc il
provenzale e lingua di sì il volgare italiano. Il nome "lingua
d'oil" è impiegato attualmente per indicare la fase antica
della lingua francese (dalle prime attestazioni nel IX
secolo fino alla metà del Trecento). Nel medioevo questa
lingua veniva parlata in un territorio più ristretto
rispetto a quello attuale della Francia, poiché copriva
solo le regioni del centro e del nord (esclusa la Bretagna)
lungo una linea di demarcazione linguistica estesa da
Amiens a Lione. I linguisti moderni possono distinguere e
descrivere le varietà dialettali che compongono la lingua
d'oil, tutte documentate da una ricca letteratura. Sono
riconoscibili così, da ovest a est e da nord a sud:
normando, piccardo, vallone, angioino, franciano, dialetto
della Champagne, lorenese, dialetto della borgogna; mentre
il pittavino a occidente e soprattutto il francoprovenzale
a oriente presentano elementi linguistici di trapasso al
provenzale. Alle varietà della lingua d'oil occorre
aggiungere l'anglo-normanno, introdotto in Inghilterra
dalla conquista normanna (1066) come lingua letteraria e
dell'amministrazione.
Ecco
quanto scrive e la relativa traduzione:
“2. Est igitur super quod gradimur
ydioma tractando tripharium, ut superius dictum est: nam
alii oc, alii sÏ, alii vero dicunt oil. Et quod unum
fuerit a principio confusionis (quod prius probandum est)
apparet, quia convenimus in vocabulis multis, velut
eloquentes doctores ostendunt: que quidem convenientia
ipsi confusioni repugnat, que ruit celitus in edificatione
Babel.
3. Trilingues ergo doctores in multis
conveniunt, et maxime in hoc vocabulo quod est ‘amor’.
Gerardus de Brunel:
Sim sentis
fezelz amics,
per ver
encusera amor.
Rex Navarre:
De fin’amor si
vient sen et bonté;
Dominus
Guido Guinizelli:
Né fe' amor prima che gentil core,
nè gentil [cor] prima che amor,
natura.
4. Quare
autem tripharie principali[ter] variatum sit, investigemus;
et quare quelibet istarum variationum in se ipsa variatur,
puta dextre Ytalie locutio ab ea que est sinistre (nam
aliter Paduani et aliter Pisani locuntur); et quare
vicinius habitantes adhuc discrepant in loquendo, ut
Mediolanenses et Veronenses, Romani et Florentini, nec non
convenientes in eodem genere gentis, ut Neapoletani et
Caetani, Ravennates et Faventini, et, quod mirabilius est,
sub eadem civilitate morantes, ut Bononienses Burgi Sancti
Felicis et Bononienses Strate Maioris.
5. Hee
omnes differentie atque sermonum varietates quid accidant,
una eademque ratione patebit.”
[2. Di
tre specie adunque è l’idioma, sul quale procede la
trattazione, come sopra s’è detto, poiché alcuni dicono oc,
altri sì, altri poi oil. E che uno solo fosse al principio
della confusione – ciò che è stato dimostrato dianzi –
appare dal fatto che ci accordiamo in molti vocaboli, come
mostrano i maestri eloquenti: ed appunto quest’accordo
contrasta con quella confusione che piombò dal cielo
durante l’edificazione babelica.
3. I
maestri nelle tre lingue s’accordano dunque in molti
vocaboli, e soprattutto in questo: amore.
Gerardo di Borneill cantando:
Se m’udisse fido amico, incolpar
dovrebbe amor.
Il re
di Navarra:
Da fino amor muove senno
e bontà
Messer
Guido Guinizelli:
Né fe' amor prima che
gentil core,
nè gentil [cor] prima che
amor, natura.
4. Ma
ricerchiamo perché principalmente si sia in triplice
maniera diversificato e perché ciascuna di queste varietà
si diversifichi entro se stessa, per esempio la parlata
della destra d’Italia da quella che è della sinistra (infatti
in un modo parlano i Padovani, in un altro i Pisani); e
perché quelli che abitano più vicino differiscano ancora
nel parlare come Milanesi e Veronesi, Romani e Fiorentini,
ed inoltre quelli che s’accomunano nella stessa stirpe di
popolo, come Napoletani e Gaetani, Ravennati e Faentini; e,
ciò che fa più maraviglia, quelli che dimorano sotto uno
stesso cittadino reggimento, come i Bolognesi del Borgo di
san Felice ed i Bolognesi di Strada Maggiore.
5. Perché
avvengano tutte queste differenze e mutamenti nelle
parlate, sarà manifesto in un’unica e medesima ragione.] (VE,
I, IX).
Mentre la
lingua dei poemi dei tre cicli è quella d’oïl, le poesie
liriche che fioriscono in Provenza si creano in lingua
d’oc. Sono le composizioni d’amore dei trovatori, che
ricostruiscono l’atmosfera raffinata delle corti ed
esaltano la nobiltà spirituale.
L’appellativo di trovatore – che venne dato anche ai poeti
italiani che scrissero in provenzale – viene da trobador,
caso obliquo da trobaire (= inventare in versi). L’ideale
di vita espresso da questa letteratura francese del sec.
XII è, allo stesso tempo, cavalleresco e cortese.
Prima di
spiegare entrambi i qualificativi, mi pare particolarmente
illuminante quanto scrive Antonio Viscardi nel suo saggio
La letteratura d’oc e d’oil: “Sono nella nuova Europa, i
trovatori i “primi” che abbian fatto della poesia per fare
della poesia; i primi che abbiano avuto il senso dell’arte
pura, dell’arte per l’arte; i primi, insomma, che siano
“letterati” nel senso moderno della parola: e abbiano
coscienza di esserlo; i primi che consapevolmente abbiano
escluso dall’attività artistica ogni intendimento o fine
pratico o utilitario. Appunto da questo senso rigoroso e
servero dell’arte pura nasce, nei trovatori, il tormento,
l’angosciosa preoccupazione della forma: e la compiacenza
e l’orgoglio della perfezione formale raggiunta”
(Sansoni, Firenze 1967).
“Corte” e
“cortesia” provengono dal latino tardo curtis, che il
dizionario Devoto-Oli definisce ottimamente: “Organismo
economico e giuridico (tipico dela società feudale) più o
meno rigorosamente chiuso, in cui si compiva il ciclo
della produzione e dello scambio e si svolgeva ogni
attività aministrativa, sotto la direzione di un campo
unico, di regola fornito di immunità tributaria e
giurisdizionale”.
Da questo
concetto di insediamento rurale dotato di autonomia
economica-giuridica (un fondo dominante con annessi altri
fondi dipendenti, coltivati da servi o da liberi o da
semiliberi) si passò a quello di “corte” come residenza
del re o del principe, estendendosi al complesso di
edifici che la compongono e all’insieme delle persone
addette al servizio del sovrano.
“Cortesia” sono, appunto, le qualità proprie di chi vive
nella corte del castello feudale: la raffinatezza e
gentilezza di modi, la nobiltà di sentire che attesta la
nobiltà di sangue, il valore guerriero, la lealtà, la
generosità, la munificenza.
La bella
poesia trovadorica provenzale doveva però tacere (come più
tardi accadrà con la poesia siciliana della corte di
Federico II) per un atroce episodio storico: la crociata
degli Albigesi.
Gli
“albigesi” costituiscono una diramazione provenzale
dell’eresia dei càtari (i “puri”) e il loro nome deriva da
Albi, città della Francia meridionale che insieme a Tolosa
fu il centro della loro attività. Nel 1167 eressero una
loro diocesi autonoma, sotto la protezione di Raimondo VI,
conte di Tolosa. Dopo i tentativi di ricondurli
all'ortodossia, Papa Innocenzo III (conosciuto anche per i
suoi contrasti con Federico II) bandì una “crociata”,
guidata da Arnaldo di Cîteaux e Simone di Montfort, che
durò fino al 1229 e si risolse con la sottomissione della
Provenza a Luigi VIII.
Il
termine “Albigesi” fu applicato per la prima volta nel
1209 dal monaco di Vaux de Cernay, storico e promotore
della Crociata contro la Linguadoca, e designava, in
realtà, una confederazione di eretici del XIII secolo:
Pietrobrusiani, Enriciani, Arnaldisti, Valdesi, Catari,
Manichei, eretici della Navarra, Baschi, Cottarelli e
Triaverdini.
Senza
protezione politica, fu uno dei tanti massacri commessi in
nome di Dio. La logica del citato Arnoldo di Citeaux (prima
abate e poi vescovo) fu spietata: «Accoppateli tutti, Dio
riconoscerà i suoi». Gli eserciti francesi, assoldati
dalla Chiesa di Roma, portarono a termine una delle tanti
“soluzioni finali”. Basti citare l’esempio della cittadina
di Béziers, che venne completamente distrutta, con tutti i
suoi 20.000 abitanti, uomini, donne, bambini, cattolici ed
eretici. I nemici non erano né musulmani né ebrei: solo
“deviazionisti” della “Tradizione cattolica”, già
impostata nei grandi Concilii: Nicea (325),
Costantinopolitano I (381), Efeso (431), Calcedonia (451),
Costantinopolitano II (553), Costantinopolitano III
(680-1), Nicea II (787), Costantipolitano IV (869-70) e –
soprattutto – nel Lateranense III (1179).
Ho già
segnalato i risultati politici (la fine della libertà
dell’Occitania). Ma è molto più importante quella
culturale: costituisce la fine della prima grande cultura
volgare della civiltà occidentale. Carmelo Cappuccio,
nella sua Storia della letteratura italiana, precisa che
la crociata “passò come bufera sulle terre di Provenza,
distrusse quel mondo gentile e spense la voce dei suoi
poeti” (Sansoni, Firenze 1971).
Ci fu un
nuovo tentativo di sollevazione nel 1240-45. Questa volta
furono perseguitati dall'Inquisizione, affidata ai
domenicani. Forse alcuni riuscino a fuggire nella penisola
italiana portando con sé la severità catara, la civiltà
cortese e la lingua occitana. Intanto, in Francia si
affermava la lingua d’oil che, quasi 200 anni dopo, con
l’editto di Villers-Cotterets (1539), sarebbe diventata la
lingua nazionale.
Alcuni
trovatori provenzali erano già presenti in Italia del Nord.
Si ricordano i nomi di Peire Vidal, Ramon de Tolosa e
Folquet de Romans. Ma – senza dubbio – il più importante è
Raimbaut (Rambaldo) de Vaqueiras, che arrivò alla corte di
Obizzo Malaspina, dopo il 1180, per passare poi a quella
di Bonifacio del Monferrato. Con quest’ultimo combatté in
Sicilia (1194) e partecipò alla IV crociata e alla
conquista di Costantinopoli. Fra le sue opere si conserva
un “contrasto” con una popolana genovese. Mentre lui
dichiara il suo amore in provenzale, la donna risponde in
“dialetto” (fra virgolette, perché in realtà si tratta di
una lingua manipolata in forma letteraria). Ugualmente
interessante è un “discordo” scritto in cinque strofe: la
prima in provenzale, la seconda in italiano, la terza in
francese, la quarta in guascone, e la quinta in
galaico-portoghese.
I
trovatori possedevano una cultura raffinata, perché
appartenevano a famiglie nobili e hanno lasciato diversi
tipi di componimenti (canzoni, ballate, sirventesi,
contrasti, albe, pastorelle) di vario argomento (politico,
morale, satirico e – soprattutto – amoroso), secondo le
concezioni della fin' amor, ossia dell'amore cortese.
L’amore
cortese è un omaggio devoto del cavaliere alla dama,
rappresentata come l’ideale di ogni perfezione fisica e
morale. Lo schema è uniforme (art de trobar) e s’ispira
alla consuetudine del vassallaggio feudale usando, dal
1170 in poi, una fraseologia difficile conosciuta come
trobar clus. Questa creazione “chiusa” – iniziata da
Marcabruno - si serve di espressioni complicate ed
ellittiche. La migliore definizione è quella che offre
Raimbaut d’Aurenga della propria attività poetica: "Cars,
bruns et teinz motz entrebesc, / pensius pensanz" (Parole
preziose, scure e cupe, io intreccio, pensosamente pensoso).
Gli altri due stili sono il trobar leu (il cui massimo
rappresentante è Guiraut de Bornelh) e il trobar ric, che
cerca la sontuosità della lingua e il virtuosismo della
versificazione.
L’influsso esercitato dai trovatori sulla poesia in
volgare siciliano e toscano è stato notevole. Tra i
maggiori: Peire Vidal, Bernard de Ventadorn, Folchetto da
Marsiglia, Jaufré Rudel, Giraut de Borneill, e in
particolare Bertram dal Bornio e Arnaldo Daniello, questi
due ultimi ricordati da Dante rispettivamente nel canto
XXVIII dell'Inferno e nel XXVI del Purgatorio. Poetarono
in provenzale anche alcuni italiani come i genovesi
Lanfranco Cigala e Bonifacio Calvo, il veneziano
Bartolomeo Zorzi, il bolognese Rambertino Buvalelli,
Alberto Malaspina e Sordello da Goito, che Dante colloca
come personaggio nell’Antipurgatorio, facendolo rivolgersi
a Virgilio con le accese parole:
"O Mantoano, io son Sordello
/ de la tua terra!" (Pg. VI, 74-75)
e che loda pure nel De vulgari
eloquentia:
“2.
Dicimus ergo quod forte non male opinantur qui Bononienses
asserunt pulcriori locutione loquentes, cum ab Ymolensibus,
Ferrarensibus et Mutinensibus circunstantibus aliquid
proprio vulgari asciscunt, sicut facere quoslibet a
finitimis suis conicimus, ut Sordellus de Mantua sua
ostendit, Cremone, Brixie atque Verone confini: qui,
tantus eloquentie vir existens, non solum in poetando sed
quomodocunque loquendo patrium vulgare descruit.”
[2. Dico
adunque che forse non pensano male coloro che affermano
parlare i Bolognesi la più bella parlata, poiché dagli
Imolesi, dai Ferraresi e dai Modenesi che abitano
all’intorno accolgono qualche cosa per il proprio volgare,
ciò che congetturo faccia ciascuno dai suoi vicini,
come ha mostrato Sordello rispetto alla sua Mantova,
confinante con Cremona, Brescia e Verona: il quale essendo
uomo sì grande nell’arte della parola, non soltanto nel
poetare in qualche modo abbandonò il patrio volgare.] (VE,
I, xv).
Per
quanto riguarda Bertram dal Bornio, viene ricordato da
Dante nel De vulgari eloquentia come “poeta delle armi”,
considerando che la “armorum probitas” è uno dei tre
“magnalia” che possono essere oggetto dell’alta lirica
d’arte in volgare illustre. Gli altri due sono l’ “amoris
accensio” (la fiamma d’amore) di Arnaldo Daniello e la
“directio voluntatis” (la drittura della volontà) di
Giraut di Bornelh. In Italia, alla poesia d’amore fa
riscontro Cino da Pistoia, e a Giraut la poesia morale
dell’ “amico di Cino”, cioè il Dante delle canzoni del
Convivio. Non ci sono, invece, equipollenti per la poesia
guerriera.
Ecco il
testo completo, con la relativa traduzione:
“9. Circa que sola, si bene recolimus,
illustres viros invenimus vulgariter poetasse, scilicet
Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem,
Gerardum de Bornello rectitudinem; Cynum Pistoriensem
amorem, amicum eius rectitudinem. Bertramus etenim ait
:
Non posc mudar c'un cantar non exparja.
Arnaldus:
L'aura amara fa•l bruol brancuz
clarzir.
Gerardus:
Per solaz reveillar
che s'es trop endormitz.
Cynus:
Digno sono eo de morte.
Amicus
eius:
Doglia mi reca ne lo core ardire.
Arma
vero nullum latium adhuc invenio poetasse. Hiis proinde
visis, que canenda sint vulgari altissimo innotescunt.”
[9. E intorno a queste sole, se ricordiamo
bene, abbiamo trovato che uomini famosi hanno poetato,
cioè Bertrando del Bornio intorno all’armi, Arnaldo
Daniello intorno all’amore, Giraldo di Borneill intorno
alla rettitudine; Cino da Pistoia intorno all’amore,
l’amico suo intorno alla rettitudine.
Dice
infatti Bertrando:
Lasciar non posso d’effondere un canto.
Arnaldo:
L' aria amara fa i broli fronzuti
schiarire.
Giraldo:
Per risvegliar sollazzo
che s' è troppo addormito.
Cino:
Digno sono eo de morte.
L’amico suo:
Doglia mi reca ne lo core ardire.
Di
armi nessun Italiano trovo che finora abbia poetato.
Pertanto
dopo quel che s’è visto, è palese quali argomenti si
debban cantare nel più eccelso volgare. ] (VE, II, II).
Come
personaggio, Bertran rappresenta uno degli episodi più
terrifici della Commedia:
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa, ch'io avrei paura,
sanza più prova, di contarla
solo;
se non che coscienza
m'assicura,
la buona compagnia che l'uom
francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi
pura.
Io vidi certo, e ancor par
ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar sì
come
andavan li altri de la trista
greggia;
e 'l capo tronco tenea per le
chiome,
pesol con mano a guisa di
lanterna;
e quel mirava noi e dicea: «Oh
me!».
Di sé facea a sé stesso
lucerna,
ed eran due in uno e uno in
due:
com'esser può, quei sa che sì
governa.
Quando diritto al piè del
ponte fue,
levò 'l braccio alto con tutta
la testa,
per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or vedi la pena
molesta
tu che, spirando, vai veggendo
i morti:
vedi s'alcuna è grande come
questa.
E perché tu di me novella
porti,
sappi ch'i' son Bertram dal
Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma'
conforti.
Io feci il padre e 'l figlio
in sé ribelli:
Achitofèl non fé più
d'Absalone
e di Davìd coi malvagi
punzelli.
Perch'io parti' così giunte
persone,
partito porto il mio cerebro,
lasso!,
dal suo principio ch'è in
questo troncone.
Così s'osserva in me lo
contrapasso». (If. XXVIII, 112-142)
In questo
vuol dire che Dante segue la leggenda secondo cui questo
feudatario del Perigord e signore del castello di
Hautefort, nella seconda metà del sec. XII, avrebbe
aizzato Enrico III (detto “il giovane”) contro suo padre
Enrico II d’Inghilterra. Ciò non toglie, però, che nel
Convivio ne abbia celebrato la liberalità dei costumi:
“12. Per
che è manifesto in ciascuno modo quelle ricchezze
iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore inique le
chiamò, quando disse: "Fatevi amici de la pecunia de la
iniquitade", invitando e confortando li uomini a
liberalitade di benefici, che sono generatori d’amici. 13.
E quanto fa bello cambio chi di queste imperfettissime
cose dà, per avere e per acquistare cose perfette, sì come
li cuori de’ valenti uomini! Lo cambio ogni die si può
fare. Certo nuova mercatantia è questa de l’altre, che,
credendo comperare uno uomo per lo beneficio, mille e
mille ne sono comperati. 14. E cui non è ancora nel cuore
Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è ancora lo
buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese
di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal
Bornio, o Galasso di Montefeltro? Quando de le loro
messioni si fa menzione, certo non solamente quelli che
ciò farebbero volentieri, ma quelli prima morire
vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la memoria di
costoro.” (CV, IV, xi).
Dante
incontra fra i lussuriosi del Purgatorio anche Arnaut
Daniel, del quale fa dire a Guido Guinizelli:
"O frate", disse, "questi ch’io
ti cerno
col dito", e additò un spirto
innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar
materno".
Versi d’amore e prose di
romanzi
soverchiò tutti: e lascia dir
li stolti
che quel di Lemosì credon
ch’avanzi. (Pg XXVI, 115-120)
Cioè,
Dante – per bocca dell’iniziatore del “dolce stil novo” -
colloca Arnaut al di sopra del famoso Giraut de Bornelh (quel
di Lemosì) e lo fa anche parlare:
El
comiciò liberamente a dire:
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a
vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau
cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper,
denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de
l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!"
(Pg XXVI, 140-148)
[Tanto mi
piace la vostra cortese domanda, che io non mi posso né
voglio a voi celare. Io sono Arnaldo, che piango e vado
cantando; pensoso vedo la passata follia, e vedo giocondo
il gaudio che spero in futuro. Ora vi prego, per quel
valore che vi guida al sommo di questa scala, ricordatevi
a tempo opportuno del mio dolore.]
Arnaut Daniel è nato in Dordogna (Francia),
nel vescovado di Périgord, e la sua opera è databile tra
il 1180 e il 1210. Fu tra i maggiori seguaci del trobar
clus e il riferimento a “prose di romanzi” ha fatto
pensare che avesse scritto anche alcuni romanzi, ma si
tratta di un’ipotesi che è stata ormai messa accantonata.
Dante ne fa un omaggio esplicito nel De
vulgari eloquentia, quando dichiara:
“2. Dicimus ergo quod omnis stantia quod omnis
stantia ad quandam odam recipiendam armonizata est. Sed in
modis diversificari videntur; quia quedam sunt sub una oda
continua usque ad ultimum progressive, hoc est sine
iteratione modulationis cuiusquam et sine diesi – diesim
dicimus deductionem vergentem de una oda in aliam; hanc
voltam vocamus, cum vulgus alloquimur -; et huiusmodi
stantia usus et fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus
Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus:
"Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra.”
[2.Dico adunque che ogni stanza è armonizzata
per ricevere una certa melodia. Ma le stanze mostrano
differenziarsi nelle modulazioni, poiché alcune restano
sotto un’ unica melodia fino alla fine, cioè senza
ripetizione di alcuna frase musicale e senza “diesis” (dico
“diesis” un passaggio che volga da una ad altra melodia,
chiamato “volta” quando si parla ai noi letterati); ed una
tale stanza usò in quasi tutte le canzoni Arnaldo Daniello,
le cui orme io seguii, quando cantai:
Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra.] (VE,
II, X).
Si tratta della canzone-sestina, alla quale il
Barbi ha dato il nº CI delle Rime, che costituisce un
esempio – appunto – di canzone indivisa, cioè senza
ripetizione e senza diesis. Essa è priva di rime al suo
interno (cobla dissoluta) e ogni verso rima con il suo
corrispettivo della strofa successiva (coblas unissonans).
Più avanti, Dante ci torna per segnalarcela
come esempio di stanza senza consonanza di rime
all’interno di essa:
“2. Unum est stantia sine rithimo, in qua
nulla ritjimorum habitudo actenditur; et huiusmodi
stantiis usus est Arnaldus Danielis frequentissime, velut
ibi,
‘Sem fos Amor de
joi donar’;
et nos
dicimus,
‘Al poco giorno’.
[2. Una è la stanza senza rima, nella quale
non si mira ad alcuna disposizione di rime; e stanza di
tale specie usò Arnaldo Dianello molto di frequente, come
là dove canta:
Se Amor mi fosse in donar gioia < largo >;
ed io
pure:
Al poco giorno.] (VE, II, XIII).
Non è dimostrato che Dante abbia conosciuto
il provenzale, ma è probabilissimo che abbia consultato
l’attuale codice Laurenziano Pl. XLI.42, copiato da
“Petrus Berzoli” di Gubbio.
Giraldo da Borneill (Giraut de Bornelh): è
quel di Lemosí (Pg. XXVI, 120), che era considerato come
il più grande dei trovatori dai suoi biografi provenzali e,
anche in Italia, da Terramagnino da Pisa, autore della
Doctrina d’acort, che è un rifacimento in versi provenzali
delle Razos de trobat del trovatore provenzale Raimond
Vidal di Besalù. Dante ne cita ben quattro canzoni nel De
vulgari eloquentia.
La prima è Sim sentis fezelz amics, / per ver
encusera amor, già presentata come esempio di una delle
tre specie dell’idioma (VE, I, IX, 3). Segue Per solaz
reveillar / che s'es trop endormitz, pure ricordata più
sopra come poesia morale (VE, II, II, 9).
Più avanti si trova Ara ausirez encabalitz
cantarz come esemplare inizio endecasillabico:
« 4. Et hoc omnes doctores
perpendisse videntur, cantiones illustres principiantes ab
illo; ut Gerardus de Bornello:
Ara ausirez encabalitz cantarz
(quod carmen, licet decasillabum
videatur, secundum rei veritatem endecasillabum est: nam
due consonantes extreme non sunt de sillaba precedente, et
licet propriam vocalem non habeant, virtutem sillabe non
tamen ammictunt; signum autem est quod rithimus ibi una
vocali perficitur, quod esse non posset nisi virtute
alterius ibi subintellecte).
Rex
Navarre:
De
fin'amor si vient sen et bonté,
(ubi, si
consideretur accentus et eius causa, endecasillabum esse
constabit).
Guido
Guinizelli:
Al cor
gentil repara sempre amore.
Iudex
de Columpnis de Messana:
Amor, che
lungiamente m'ài menato.
Renaldus de Aquino:
Per fino
amore vo sì letamente.
Cynus
Pistoriensis:
Non spero
che già mai per mia salute.
amicus
eius:
Amor, che
movi tua vertù da cielo.
[4. Es è evidente che ciò hanno ben
considerato i maestri tutti, con quello cominciando le
canzoni illustri, come Giraldo di Borneill:
Ora udirete de’ canti perfetti.
(Il quale
verso, benché sembri decasillabo, in realtà è
endecasillabo, poiché le ultime due consonanti non
appartengono alla sillaba precedente; e benché non abbiamo
una propria vocale, non perdono tuttavia il valore di
sillaba: e segno ne è che la rima ivi si compie con una
sola vocale, ciò che non potrebbe essere se non in forza
di un’altra ivi sottintesa).
Il Re
di Navarra:
Da
fino amore move senno e bontà,
(dove,
se si consideri l’accento e la sua ragione, si vedrà un
endecasillabo);
Guido
Guinizelli:
Al cor
gentil repara sempre amore;
il
giudice Delle Colonne di Messina:
Amor,
che lungiamente m' ài menato;
Rinaldo d’ Aquino:
Per
fino amore vo sì letamente;
Cino
da Pistoia:
Non
spero che già mai per mia salute.
l’
amico suo:
Amor,
che movi tua vertù da cielo.”] (VE, II, V).
Finalmente, per quanto riguarda i gradi dello
stile – escludendo quello insipidus, quello sapidus, e
quello sapidus et venustus – Dante si sofferma su quello
sapidus et venustus etiam et excelsus, qui est dictatorum
illustrium offrendo undici esempi di canzoni illustres (cinque
di trovatori provenzali e sei di poeti italiani), la prima
delle quali è proprio di Giraldo:
“6. Hunc gradum
constructionis excellentissimum nominamus, et hic est quem
querimus cum suprema venemur, ut dictum est.
Hoc solum illustres cantiones
inveniuntur contexte, ut Gerardus:
Si per mon
Sobretots non fos.
Folquetus de Marsilia:
Tan m'abellis l'amoros pensamen.
Arnaldus Danielis:
Sols sui che sai lo sobraffan chem sorz.
Namericus de Belnui:
Nuls hom non pot complir
addrechamen.
Namericus de Peculiano:
Si com l'arbres che per sobrecarcar.
Rex
Navarre:
Ire d'amor que en mon cor repaire.
Iudex
de Messana:
Anchor che l'aigua per lo foco lassi.
Guido
GuinizeIli:
Tegno de folle 'mpresa a lo ver dire.
Guido
Cavalcanti:
Poi che de doglia cor conven ch'io porti.
Cynus
de Pistorio:
Avegna che io aggia più per tempo.
Amicus
eius:
Amor che ne la mente mi ragiona.
[6. E questo grado di costruzione che
chiamiamo il più eccellente, ed è quello che cerchiamo,
essendoci messi, como s’ è detto, di ciò che è sommo.
Di questo
soltanto si trovano essere intessute le splendide canzoni,
come Giraldo:
Se per
l’Unico moi non fosse;.
Folchetto di Marsiglia:
Piacemi
tanto il pensiero d’amore.
Arnaldo Daniello:
Conosco
io sol il grave affan che m’esce;
Amerigo di Belenoi:
Dar non
può alcuno giusto compimento;.
Amerigo da Peculiano:
Siccome
l’alber che per troppo incarco;.
il Re
di Navarra:
Sdegno
d’amor che nel mio cor dimora;
il
Giudice di Messina:
Anchor
che l'aigua per lo foco lassi;
Guido
GuinizeIli:
Tegno de
folle 'mpresa a lo ver dire;
Guido
Cavalcanti:
Poi che
de doglia cor conven ch'io porti.
Cino
da Pistoia:
Avegna
che io aggia più per tempo;
l’amico suo:
Amor che
ne la mente mi ragiona.”] (VE, II, VI).
Nell’ultima citazione compaiono altri tre nomi
importanti.
Aimeric de Belenoi (Namericus de Belnui) è
nato in un castello chiamato l’Esparra, nel territorio di
Bordeaux, anche se Dante lo colloca fra gli Yspani. Io
credo che abbia letto male nella sua fonte e confuso
Esparra con España. Ebbe rapporti con le corti del conte
di Provenza, Raimon Berenguer (che Dante ricorda in Pd. VI,
134) del quale celebra il ritorno in patria (1217). La
canzone Nuls hom non pot complir addrechamen ricompare
dopo un componimento di Guido Cavalcanti e un altro di
Dante quale esempio di canzone provenzale in endecasillabi
per la sua rigorosa costruzione metrica (cinque strofe di
otto endecasillabi rimati ABBA, CCDD con due tornate di
quattro o di due versi):
“2. In usu nostro maxime tria carmina
frequentando prerogativam habere videntur, endecasillabum
scilicet, eptasillabum et pentasillabum; que trisillabum
ante alia sequi astruximus.
3. Horum prorsus, cum tragice poetari conamur,
endecasillabum propter quandam excellentiam in contextu
vincendi privilegium promeretur. Nam quedam stantia est
que solis endecasillabis gaudet esse contexta, ut illa
Guidonis de Florentia
Donna me prega, perch'io
volgl[i]o dire;
et etiam nos dicimus
Donne ch'avete intelletto
d'amore.
Hoc etiam Yspani usi sunt -
et dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari oc: Namericus
de Belnui,
Nuls hom
non pot complir adrechamen. »
[2. È evidente che
nell’uso nostro tre versi hanno soprattutto il privilegio
di ricorrere frequenti, vale a dirte l’endecasillabo, il
settenario e il quinario; e ad essi ho dimostrato che tien
dietro prima degli altri il trisillabo.
3. Fra questi l’endecasillabo, quando vogliamo
poetare nello stile tragico, merita assolutamente il
privilegio di prevalere nella testura, per certa sua
eccellenza. V’è stanza infatti che gode d’essere intessuta
di soli endecasillabi, come quella di Guido da Firenze:
Donna me
prega, perch'io volgl[i]o dire;
E anch’io
canto:
Donne ch'avete intelletto
d'amore.
Gli
Spagnoli pure l’hanno usato, gli Spagnoli dico, che hanno
poetato nel volgare d’ oc: Messer Amerigo di Belenoi
Dar non può alcuno giusto
compimento.”] (VE, II, XII).
Aimeric de Pegulhan (Namericus de Peculiano)
era tolosano ed ebbe probabilmente una vita errabonda,
fermandosi forse a lungo nella corte di Alfonso IX di
Castiglia. Lo si trova in Italia presso Azzo d’Este (mortonel
1212) e Guglielmo Malaspina (morto nel 1220), la morte dei
quali cantò in due planhs. Lasciò circa cinquanta
componimenti di vario genere. La canzone citata da Dante (Si
com l'arbres che per sobrecarcar) è dedicata al re di
Castiglia.
Per quanto riguarda Folchetto di Marsiglia,
riappare addirittura nel Cielo Venere, fra gli spiriti
amanti, anche se – o forse proprio per quello – aveva
partecipato alla crociata contro gli albigesi. È Cunizza
da Romano che lo presenta con queste parole:
Di questa luculenta e
cara gioia
del nostro cielo che più m'è
propinqua,
grande fama rimase; e pria che
moia,
questo centesimo anno ancor
s'incinqua:
vedi se far si dee l'omo
eccellente,
sì ch'altra vita la prima
relinqua. (Pd. IX, 37-42)
“La luce che risplende vicina a me ha
lasciato grande fama nel mondo, destinata a durare ancora
cinque secoli.” Giudizio un po’ limitativo se si considera
che ancora adesso questo trovatore è ricordato dagli
storici della letteratura; ma è anche vero che la sua fama
è dovuta più che altro alla sua presenza nella Commedia.
Richiamata da Dante, l’anima beata descrive il
suo luogo di origine con una lunga perifrasi geografica:
<<La maggior valle in che l'acqua
si spanda>>,
incominciaro allor le sue
parole,
<<fuor di quel mar che la terra
inghirlanda,
tra' discordanti liti contra 'l
sole
tanto sen va, che fa meridiano
là dove l'orizzonte pria far
suole.
Di quella valle fu' io litorano
tra Ebro e Macra, che per
cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond'io
fui,
che fé del sangue suo già caldo
il porto.
Folco mi disse quellla gente a
cui
fu noto il nome mio; e questo
cielo
di me s'imprenta, com'io fe' di
lui;
ché più non arse la figlia di
Belo.
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al
pelo;
né quella Rodopea che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel cuore ebbe
rinchiusa.
Non però qui si pente, ma si
ride,
non della colpa, ch'a mente non
torna,
ma del valor ch'ordinò e
provide.
Qui si rimira ne l'arte
ch'addorna
cotanto affetto, e discernesi 'l
bene
per che 'l mondo di sù quel di
giù torna.
Ma perché tutte le tue voglie
piene
ten porti che son nate in
questa spera,
procedere ancor oltre mi
convene.
Tu vuo' saper chi è in questa
lumera
che qui appresso me così
scintilla
come raggio di sole in acqua
mera.
Or sappi che là entro si
tranquilla
Raab; e a nostr'ordine
congiunta
di lei nel sommo grado si
sigilla.
Da questo cielo, in cui l'ombra
s'appunta
che 'l vostro mondo face, pria
ch'alt'alma
del triunfo di Cristo fu
assunta.
Ben si convenne lei lasciar per
palma
in alcun cielo de l'alta
vittoria
che s'acquistò con l'una e
l'altra palma,
perch'ella favorò la prima
gloria
di Iosuè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la
memoria.
La tua città, che di colui è
pianta,
che pria volse le spalle al suo
fattore
e di cui è la 'nvidia tanto
pianta,
produce e spande il maladetto
fiore
c'ha disviate le pecore e li
agni,
però che fatto ha lupo del
pastore.
Per questo l'Evangelio e i
dottori magni
son derelitti, e solo ai
Decretali
si studia, sì che pare a' lor
vivagni.
A questo intende il papa e 'cardinali;
non vanno i lor pensieri a
Nazarette,
là dove Gabriello aperse l'ali.
Ma Vaticano e l'altre parti
elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro
seguette,
tosto libere fien de l'avoltero>>.
(Pd. IX, 82-142)
Il maggiore avvallamento – dice l’altra
anima beata – in cui si versa l’acqua che esce dall’Oceano
(il Mediterraneo), si estende tanto verso oriente da
occidente, che da una parte ha per meridiano il cerchio
stesso (Palestina) che rispetto all’altra faceva da
orizzonte (Gibilterra). Io sono nato sulle rive di quel
mare comprese fra la foce dell’Ebro (Spagna) e quella
della Magra (che per un breve tratto divide la Liguria
dalla Toscana). La mia città (Marsiglia) e Bùgia (in
Algeria) si trovano quasi sullo stesso meridiano (il sole
si leva e tramonta quasi nello stesso momento).
Poi si presenta: “Mi chiamo Folco: questo
cielo di Venere riceve la mia luce come io sulla terra
ricevetti il suo influsso: arsi d’amore, non meno di
Didone, di Fillide, di Ercole. Qui in Paradiso però non ci
si addolora per pentimento, poiché il ricordo della colpa
non ritorna alla mente, ma proviamo gioia della virtù
divina che ordinò provvidenzialmente le influenze celesti.
Qui si contempla l’arte divina che rende bella l’opera
della creazione e si comprende il fine buono per cui i
cieli esercitano i loro influssi sul mondo umano”.
Fa poi la presentazione di Raab, la meretrice
di Gerico, che rese possibile l’espugnazione della città
quando nascose a casa sua e aiutò gli esploratori inviati
da Giosuè. E, finalmente, pronuncia avanti un’altra
condanna del temporalismo della Chiesa corrotta ed esprime
la fede in una prossima rigenerazione. Alcuni vedono
nell’annuncio che il Vaticano e le altre parte elette
tosto libere fien de l'avoltero una diretta allusione alla
morte di Bonifacio VIII, avvenuta il 12 ottobre 1303.
Risulta evidente che quello che parla è il
vescovo intransigente e inquisitore e non il trovatore il
cui ricordo – secondo le sue parole – il fiume Letè ha
cancellato per sempre. Dal Trionfo d’Amore del Petrarca (“Folco,
que’ ch’a Marsiglia il nome ha dato / ed a Genova tolto”,
IV 49-50), si sa che era nato a Marsiglia, poco dopo la
metà del secolo XII, da un mercante genovese. Ha lasciato
un buon numero di poesie composte all’incirca fra il 1180
e il 1195. Frequentò le corti di Raimondo Berengario di
Tolosa (cui figlio, il conte Raimondo VI non risparmiò
quando divenne giudice spietato), di Alfonso II
d’Aquitania, di Riccardo Cuordileone e – soprattutto – di
Barral du Baux, visconte di Marsiglia, dalla cui corte
Folco dovette andarsene, per aver celebrato troppo
ardentemente la moglie Alasia.
Adesso – come è accaduto con Raab, che è stata
assunta prima di tutte le anime redente dal trionfo di
Cristo – Folchetto viene rivendicato come crociato
sanguinaro dell’ortodossia contro la minaccia ereticale. È
stato lo Zingarelli a ravvicinare le due imprese
sterminatrici: il canto degli ecclesiastici, guidati dal
vescovo di Tolosa, fece cadere la fortezza albigese di
Lavaur il 3 maggio 1211 come le trombe sacerdotali fecero
altrettanto a Gerico.
Secondo alcuni, la prima canzone scritta in
siciliano è Madonna, dir vo voglio, di Giacomo (Jacopo) da
Lentini e sarebbe un rifacimento della canzone A vos,
midontç voill retrair’ en cantan di Folchetto. Tale
affermazione prende lo spunto dalla sua presenza in primo
luogo nel Cod. Vaticano Vaticano Latino 3793, ma è
discutibile.
Dante non menziona né Bernat De Ventadorn né
Jaufré Raudel, ma cita brevemente Peire d’Alvernia:
“3. Pro se vero argumentatur alia, scilicet oc,
quod vulgares eloquentes in ea primitus poetati sunt
tanquam in perfectiori dulciorique loquela, ut puta Petrus
de Alvernia et alii antiquiores doctores.”
[In favor suo adduce l’altra, cioè quella d’oc,
che i dicitori in volgare primieramente in essa poetarono
come nella lingua più perfetta e più dolce, per esempio
Pietro d’Alvernia e gli altri più antichi maestri.] (VE, I,
X).
Chiarita la situazione provenzale, è possibile
passare adesso sulla scena della nascente letteratura
italiana.
I principali movimenti letterari del Duecento
sono la poesia religiosa in Umbria (San Francesco d’Assisi,
Iacopone da Todi), la scuola poetica siciliana, la
letteratura didascalica e moralistica nell’Italia
settentrionale (l’aretino Guittone Del Viva, il fiorentino
Chiaro Davanzati, il pistoiese Meo Abbracciavacca, il
pisano Pannuccio Dal Bagno, il probabilmente fiorentino
Andrea Monte, e il lucchese Bonagiunta Orbicciani), e la
scuola stilnovistica.
Per quanto riguarda Francesco (Assisi 1181
circa - 1226), ci sono rimasti il Cantico delle creature (Canticus
creaturarum o Cantico di frate Sole), in volgare umbro, le
Regole, il Testamento, le Admonitiones ai fratelli. Dante
ricorda Francesco come santo e gli dedica l’intero Canto
XI del Paradiso. Non si fa cenno alla sua poesia e neanche
a quella di Iacopone da Todi, malgrado sia stato un’ altra
vittima di Bonifacio VIII.
Degli altri autori, ricorda polemicamente
soprattutto i Toscani:
“1. Post hec veniamus ad Tuscos, qui propter
amentiam suam infroniti titulum sibi vulgaris illustris
arrogare videntur. Et in hoc non solum plebeia dementat
intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse
comperimus: puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad
curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum
Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum,
quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed
municipalia tantum invenientur. Et quoniam Tusci pre aliis
in hac ebrietate baccantur, dignum utileque videtur
municipalia vulgaria Tuscanorum sigillatim in aliquo
depompare.
[Passiamo
dopo questo ai Toscani, i quali, fatti stolti per loro
dissennattezza, mostrano di arrogarsi l’onore del volgar
illustre. Ed in ciò non solo folleggia la pretesa della
plebe, ma ben so che parecchi uomini famosi hanno ciò
sostenuto, per esempio Guittone d’Arezzo che mai non
s’indirizzò verso il volgare curiale, Bonagiunta da Lucca,
Gallo Pisano, Mino Mocato, Brunetto Fiorentino; le rime
dei quali, se si avrà agio di esaminarle diligentemente,
si troveranno non curiali, ma soltanto municipali.] (VE, I,
XIII).
Dante non
menziona più né Gallo Pisano (forse un giudice che è stato
legato al concilio di Lione del 1275) né Mino Mocato (forse
Bartolomero Mocati da Siena) e Brunetto (Latini)
costituisce un episodio a parte nel terzo girone del
settimo cerchio dell’ Inferno.
Così adocchiato da cotal
famiglia,
fui conosciuto da un, che mi
prese
per lo lembo e gridò: «Qual
maraviglia!».
E io, quando 'l suo braccio
a me distese,
ficcai li occhi per lo cotto
aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato
non difese
la conoscenza sua al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua
faccia,
rispuosi: «Siete voi qui,
ser Brunetto?».
E quelli: «O figliuol mio,
non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco
teco
ce lascia andar la traccia».
I' dissi lui: «Quanto posso,
ven preco;
e se volete che con voi
m'asseggia,
faròl, se piace a costui che
vo seco».
«O figliuol», disse, «qual
di questa greggia
s'arresta punto, giace poi
cent'anni
sanz'arrostarsi quando 'l
foco il feggia.
Però va oltre: i' ti verrò a'
panni;
e poi rigiugnerò la mia
masnada,
che va piangendo i suoi
etterni danni».
I' non osava scender de la
strada
per andar par di lui; ma 'l
capo chino
tenea com'uom che reverente
vada.
El cominciò: «Qual fortuna o
destino
anzi l'ultimo dì qua giù ti
mena?
e chi è questi che mostra 'l
cammino?».
«Là sù di sopra, in la vita
serena»,
rispuos'io lui, «mi smarri'
in una valle,
avanti che l'età mia fosse
piena.
Pur ier mattina le volsi le
spalle:
questi m'apparve, tornand'io
in quella,
e reducemi a ca per questo
calle».
Ed elli a me: «Se tu segui
tua stella,
non puoi fallire a glorioso
porto,
se ben m'accorsi ne la vita
bella;
e s'io non fossi sì per
tempo morto,
veggendo il cielo a te così
benigno,
dato t'avrei a l'opera
conforto.
Ma quello ingrato popolo
maligno
che discese di Fiesole *ab*
antico,
e tiene ancor del monte e
del macigno,
ti si farà, per tuo ben far,
nimico:
ed è ragion, ché tra li
lazzi sorbi
si disconvien fruttare al
dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li
chiama orbi;
gent'è avara, invidiosa e
superba:
dai lor costumi fa che tu ti
forbi.
La tua fortuna tanto onor ti
serba,
che l'una parte e l'altra
avranno fame
di te; ma lungi fia dal
becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane
strame
di lor medesme, e non
tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor
letame,
in cui riviva la sementa
santa
di que' Roman che vi rimaser
quando
fu fatto il nido di malizia
tanta».
«Se fosse tutto pieno il mio
dimando»,
rispuos'io lui, «voi non
sareste ancora
de l'umana natura posto in
bando;
ché 'n la mente m'è fitta, e
or m'accora,
la cara e buona imagine
paterna
di voi quando nel mondo ad
ora ad ora
m'insegnavate come l'uom
s'etterna:
e quant'io l'abbia in grado,
mentr'io vivo
convien che ne la mia lingua
si scerna.
Ciò che narrate di mio corso
scrivo,
e serbolo a chiosar con
altro testo
a donna che saprà, s'a lei
arrivo.
Tanto vogl'io che vi sia
manifesto,
pur che mia coscienza non mi
garra,
che a la Fortuna, come vuol,
son presto.
Non è nuova a li orecchi
miei tal arra:
però giri Fortuna la sua
rota
come le piace, e 'l villan
la sua marra».
Lo mio maestro allora in su
la gota
destra si volse in dietro, e
riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi
la nota».
Né per tanto di men parlando
vommi
con ser Brunetto, e dimando
chi sono
li suoi compagni più noti e
più sommi.
Ed elli a me: «Saper
d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile
tacerci,
ché 'l tempo sarìa corto a
tanto suono.
In somma sappi che tutti fur
cherci
e litterati grandi e di gran
fama,
d'un peccato medesmo al
mondo lerci.
Priscian sen va con quella
turba grama,
e Francesco d'Accorso anche;
e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna
brama,
colui potei che dal servo de'
servi
fu trasmutato d'Arno in
Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi
nervi.
Di più direi; ma 'l venire e
'l sermone
più lungo esser non può,
però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del
sabbione.
Gente vien con la quale
esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio
Tesoro
nel qual io vivo ancora, e
più non cheggio».
Poi si rivolse, e parve di
coloro
che corrono a Verona il
drappo verde
per la campagna; e parve di
costoro
quelli che vince, non colui
che perde. (If. XV, 22-124)
Vissuto
fra gli anni 1220c. – 1294c., Brunetto Latini fu
ambasciatore presso Alfonso X di Castiglia e non poté
tornare a Firenze per la sconfitta dei guelfi a Montaperti
(1260). Si stabilì per sei anni in Francia e tornò in
Italia probabilmente dopo la battaglia di Benevento
(1266), diventando – come ricorda Giovanni Villani - "cominciatore
e maestro in digrossare i Fiorentini". Scrisse in prosa
francese Li livres du Trésor dove raccolse nozioni di
scienza, storia, filosofia, morale, retorica e politica.
Tradusse alcune orazioni di Cicerone (Pro Marcello, Pro
Ligario, Pro Deiotaro) e i primi diciassette capitoli del
De inventione, che commentò col titolo di Rettorica. Sono
redatti anche in volgare il Tesoretto (il più antico poema
didattico-allegorico della letteratura italiana, esemplato
sul Roman de la Rose) e il Favolello, una lettera in versi
dedicata a Rustico Filippi. Il riferimento dantesco è a
queste opere e alla canzonetta S’eo son distretto
inamoratamente, trasmessa dal canzoniere Vaticano 3793.
Sarebbe pure un riferimento implicito quello del Convivio,
quando Dante difende il parlare italico “a perpetuale
infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che
commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano”
(CV, I, XI).
Sull’omosessualità del maestro si è scritto molto,
soprattutto per tentare di scagionarlo. Io condivido,
invece, l’opinione di coloro che pensano con criteri
postridentini. La posizione sociale sulla sodomia nel XIII
secolo era diversa da quanto non lo sarebbe stato pochi
decenni dopo, addirittura con condanne a morte. Dante non
si scandalizza (lo fa quando incontra Farinata o
Cavalcanti dei Cavalcanti?). Il fatto di essere un
peccatore non toglie niente alla cara e buona immagine
paterna, che in chiusura del canto è quelli che vince, non
colui che perde. E poi, se il suo aspro giudizio nel
Convivio fosse da prendre alla lettera, non si capirebbe
perché Brunetto gli raccomandi proprio il suo Tesoro
scritto in francese.
Dante
aveva già toccato il tema del volgare illustre nella Vita
Nova, quando affermava che “è da intendere che anticamente
non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano
dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi
dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e
addivegna ancora, sì come in Grecia, non volgari ma
litterati poete queste cose trattavano. E non è molto
numero d'anni passati, che appariro prima questi poete
volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire
per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno
che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare in lingua
d'oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi
lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione
per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che
quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo
primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse
però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la
quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo
è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa,
con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal
principio trovato per dire d'amore. Onde, con ciò sia cosa
che a li poete sia conceduta maggiore licenza di parlare
che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima
non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è
che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a
li altri parlatori volgari: onde, se alcuna figura o
colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li
rimatori” (VN, XXV).
Bonagiunta Orbicciani degli Overardi, notaio,
visse intorno alla metà del XIII secolo e sostenne una
polemica in rima con Guido Guinizelli per aver inaugurato
un nuovo stile, distaccandosi dai canoni siciliani.
Riconosce subito Dante nel cerchio dei golosi del
Purgatorio e gli fa la profezia della Gentucca, donna (figlia?)
che lo consolerà durante l’esilio. Anche se Dante, nel De
Vulgari Eloquentia, biasima Bonagiunta per aver usato il
volgare municipale, fa pronunciare proprio a lui nel canto
XXIV del Purgatorio, la celebre definizione della nuova
poesia:
Ma dì s'i' veggio qui colui che
fore
trasse le nove rime,
cominciando
"Donne ch'avete intelletto
d'amore"».
E io a lui: «I' mi son un che,
quando
Amor mi spira, noto, e a quel
modo
ch'e' ditta dentro vo
significando».
«O frate, issa vegg'io»,
diss'elli, «il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me
ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i'
odo!
Io veggio ben come le vostre
penne
di retro al dittator sen vanno
strette,
che de le nostre certo non
avvenne;
e qual più a gradire oltre si
mette,
non vede più da l'uno a l'altro
stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
(Pg. XXIV, 49-63)
Bonagiunta è stato definito da Gianfranco Contini come "l’autentico
trapiantatore dei modi siciliani in Toscana". Autore di
sonetti, ballate e canzonette, è – infatti – debitore allo
stile del Notaro Giacomo da Lentini.
Per Dante, il superamento di entrambe le
scuole sono “le nove rime”, cioè il gruppo fiorentino del
“dolce stil novo”, che sviluppa la teoria guinizelliana
dell’amore. In sintesi, questo è un sentimento proprio
delle anime virtuose, è uno stimolo morale, un fatto
spirituale, un oggetto di meditazione interiore.
L’analisi della poesia ricordata da Bonagiunta,
che è la prima della Vita Nova (XIX 4-14, vv. 1-70),
risulta emblematica. Un ottimo riassunto viene offerto da
Tommaso Casini nel suo Commento alla Commedia:
“Il poeta canta della sua donna per isfogo
dell’animo commosso, rivolgendo le sue parole alle donne
innamorate (1-14): le nature angeliche pregano il Signore
di accordar loro la compagnia di Beatrice, ma la
misericordia divina vuol ch’ella rimanga ancora sulla
terra (15-28). Il poeta vuol dire le virtù della sua donna,
la quale ove appare spegne ogni malvagio pensiero,
nobilita chi le parla (29-42): amore stesso non sa come
ella possa essere mortale e la giudica opera divina, ché
il suo corpo è diffuso d’un soave colore di perla, gli
occhi feriscono il cuore a chi la riguarda e tutto il suo
aspetto è sorridente d’amore (43-56). Da ultimo il poeta
manda fuori la sua canzone perché trovi la via a Beatrice,
fermandosi a chieder di lei solo a donne gentili e a
uomini cortesi che l’accompagnino là ove potrà raccomandar
lui ad Amore (55-70).”
Le “nove rime” non sono altro che il canto
della lode della sua gentilissima Beatrice ripigliando
così “matera nuova e più nobile che la passata” (Vita Nova
XVII 1).
Di fronte all’elogio di Bonagiunta, Dante
espone brevemente il principio fondamentale della poesia
con la sua tradizionale vera o falsa modestia:
E io a lui: «I' mi
son un che, quando
Amor mi spira, noto,
e a quel modo
ch'e' ditta dentro
vo significando».
Gli antichi commentatori, ricorda il
Sapegno, parafrasavano questa terzina così: “Amore è mio
dittatore, e io sono suo scrivano”. E, infatti, il
contenuto esclusivo della nuova poesia è l’amore inteso in
senso spìrituale come oggetto della meditazione interiore.
In essa si mette da parte la vicenda erotica e si cerca la
perfezione della forma, perché questa deve corrispondere a
quel nuovo stile.
Il “dolce stil novo” è un fenomeno letterario
estremamente aristocratico, tanto per concezione
intellettuale come per modi espressivi. Non è un caso se
nasce e si sviluppa a Bologna, centro di cultura dove si
trovava e si trova la più vecchia università d’Italia.
Lo stile è “dolce” perché esprime appunto un
sentimento di complessa e aristocratica interiorità, cioè
l’amore inteso nella sua assolutezza spirituale, morale e
religiosa: Annota Giorgio Petrocchi: “Naturalmente la
concezione amorosa degli stilnovisti è per se stessa ‘dolce’,
in quanto ritrova nella coesistenza di amore e di
gentilezza la natura medesima del sentire e del poetare.
La purezza dei sentimenti, la delicatezza degli ideali, la
leggiadria delle immagini della donna amata, presupponendo
una raffinata aristocrazia dello spirito esigono una
soavità d’espressione che dia a quei sentimenti, ideali,
immagini un timbro poetico particolare” (Storia della
letteratura italiana, Garzanti, Milano 1965).
Lo stile è “novo” perché è diverso rispetto al
poetare dei rimatori della scuola siciliana (“il Notaro”)
e dei rimatori toscani (Guittone e lo stesso Bonagiunta),
che non scrivono ascoltando l’ispirazione dell’amore e nei
modi richiesti da una simile ispirazione come gli
stilnovisti.
Dante (per bocca di Bonagiunta) accosta al
principale rappresentante della poesia di corte (Jacopo de
Lentini) il principale poeta della “transizione” toscana
(Guittone d’Arezzo), che sarebbero stati superati dal
“dolce stil novo”.
Per quanto riguarda l’aretino, che io
identifico – seguendo Guido Di Pino – col “primo Guido” di
Pg. XI, 95 (“Nunquam Florentiam introibo” y otros ensayos
sobre Dante, Ediciones Video Carta, Santiago de Chile,
pp.77-83), Dante è particolarmente severo. In Pg. XXVI,
124-126 fa dire a Guido Guinizelli che la fama di costui è
artificiosa:
Così fer
molti antichi di Guittone,
di grido in grido
pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto
il ver con più persone.
Cioè, non si è fatto altro che ripetere
di bocca in bocca una formula consuetudinaria che ha dato
a Giuttone una fama priva di giudizio critico. Oltre al
già citato I, XIII, 1 del De vulgari eloquentia, dice in
un altro luogo:
“8. suibsistant ...
ignorantie sectatores Guittonem aretinum et quosdam alios
extollentes, nunquam in vocabulis atque constructione
plebescere desuetos”
[I seguaci
dell’ignoranza, perciò, la smettano di esaltare Guittone
d’Arezzo ed alcuni altri, gente che non ha mai abbandonato
l’uso di vocaboli e costrutti popolareggianti.] (VE, II,
VI).
Quando Dante incominciò a scrivere poesia
verso il 1283, le “scuole” di poesia lirica in Italia
erano due e sono quelle che ricorda Bonagiunta facendo
riferimento ai loro principali rappresentanti.
La scuola siciliana, formatasi nel Mezzogiorno,
si diffuse poi in Toscana, trovando un grande seguace in
Bonagiunta Orbicciani. La scuola dottrinale, invece, venne
frequentata in Toscana da Guittone d’Arezzo e a Bologna da
Guido Guinizelli. Mentre i “siciliani” diedero veste
italiana alla lirica provenzale, i “dottrinali”
teorizzarono sull’amore.
Risulta
chiaro che l’Alighieri si considera al di sopra dei suoi
predecessori.
La forma metrica dei “siciliani” è stata la
canzone. I “dottrinali” accolsero il sonetto e si
accostarono al periodo latino, tentando di nobilitare lo
stile poetico e andando al di là dei temi amorosi. Infatti,
i loro argomenti furono anche filosofici, religiosi e
politici.
Un tema rimane comune, però, alle due scuole:
quello dell’amore cortese.
In origine, questo rappresenta la concezione
di una cortesia e di una nobiltà ereditate col sangue. A
poco a poco, s’impone il concetto di amore cortese come
complesso di dati dovute al merito individuale,
trasmissibili. Ciò non è altro – da un punto di vista
letterario – che il passaggio dalla società feudale (ruolo
ascritto) a quella comunale (ruolo acquisito).
Dante fa
dire a Bonagiunta di aver ormai compreso qual è stato
l’impedimento (nodo) per cui che Guittone, Giacomo da
Lentini e lui stesso non hanno capito la nuova poesia.
L’analisi
della poetica stilnovistica può essere l’argomento di un
altro articolo. Basti, quindi, dire che i predecessori
erano privi d’ispirazione interiore e troppo ricercati
nell’espressione.
Quello che m’interessa è, soprattutto, il
riferimento a “ ‘l Notaro” perché in lui Dante concentra
la poetica della scuola siciliana. Dante non lo chiama mai
nome, e nel De vulgari Eloquentia ricorda la canzone
Madonna, dir vi voglio, senza fare riferimento
all’identità dell’autore, forse perché universalmente noto,
e lo stesso succede con Per fino amore vo si letamente di
Rinaldo d’Aquino. Tutt’ e due sono testi esemplari dei
poeti meridionali prefulgentes:
“8. Sed quamvis terrigene Apuli loquantur
obscene comuniter, prefulgentes eorum quidam polite locuti
sunt, vocabula curialiora in suis cantionibus compilantes,
ut manifeste apparet eorum dicta perspicientibus, ut puta
Madonna,
dir vi voglio,
et
Per fino
amore vo si letamente.”
[8. Ma benché gli Apuli nativi della regione
parlino comunemente in una sconcia maniera, tra loro
alcuni uomini illustri si espressero con eleganza,
trascegliendo nelle loro canzoni i vocaboli più nobili,
ciò che appare manifesto a chi ben esamina le loro rime;
come per esempio:
Madonna,
dir vi voglio,
e
Per fino amore vo si letamente.]
(VE, I, XII).
Dante, però, colloca a torto Iacopo da Lentini
fra i continentali (Apuli), cioè fra coloro che abitano il
territorio angioino dell’Italia meridionale, a sud del
Tronto e del Garigliano. L’errore può provenire dalla
menzione di un altro Iacopo nei codici consultati da lui:
forse Giacomino Pugliese o Iacopo d’Aquino (che s’incrocia
pure con Iacopo Mostacci nel manoscritto
Laurenziano-Rediano). Bisogna pensare che nel De vulgari
eloquentia Dante tratta duramente il dialetto pugliese nei
confronti del siciliano: gli Apuli “fanno uso di sconci
barbarismi (turpiter barbarizant) per una loro congenita
asprezza (acerbitas I xii 7) o per la vicinanza con Romani
e Marchigiani (I xi 2-3).
Jacopo (Iacopo, Giacomo) da Lentini nacque
verso il 1210 e morì nel 1260c. Malgrado la sua fama di
notaio, le notizie sulla sua vita pubblica sono molto
scarse. I documenti autografi attestano la sua presenza
vicino all’imperatore nel 1233: a Policoro (Basilicata) in
marzo, Catania in giugno, e a Castrogiovanni (attuale Enna)
in agosto. Appose anche la sua firma il 5 maggio 1240 a
Messina ad un transunto dal greco in latino di un
privilegio di Guglielmo I del 1557.
Gli sono state attribuite una quarantina di
poesie e lo si considera un codificatore delle forme
metriche con la canzone aulica (Madonna, dir vo voglio),
la canzonetta di genere popolaresco (Meravigliosamente),
il discordo (Dal core mi vene); e alcuni autori gli
attribuiscono addirittura l’invenzione del sonetto. In
realtà si può solo certificare che sia stato fra i primi
ad usarlo nelle tenzoni scolastiche, come quelle che
sostenne – appunto – con Pier della Vigna e Jacopo
Mostacci (1240?), con l’Abate di Tivoli (1241?), con i
fiorentini Maestro Francesco e Maestro Torrigiano e col
senese Ugo di Massa (1244-5?).
Nel codice Vaticano lat. 3793 (considerato una
raccolta storiografico-cronologica, che parte dai
“siciliani” per arrivare ai siculo-toscani) Iacopo occupa,
precisamente, il primo luogo.
Comunque, Dante dà più spazio nel De vulgari
eloquentia a Guido delle Colonne.
Giudice a Messina, è presente in sette
documenti con firma autografa, redatti fra il 1243 e il
1277. Nel primo si firma “Guido de Columpnulis iudex
Messanae” (9 marzo 1243) e poi “Guido de Columpnis iudex
Messanae” fino all’ultimo (3 giugno 1277). Nato nel 1210c.
e morto dopo il 1287, è stato identificato con lo
scrittore che rifece il Roman de Troie di Benoît de
Sainte-More (composto in francese a metà del XII secolo)
nella prosa latina dell’ Historia destructionis Troiae.
Questa traduzione (unica in latino di un modello volgare)
ha avuto diversi volgarizzamenti trecenteschi,
contribuendo alla formazione della prosa romanzesca e
storiografica. Di fronte all’ipotesi dell’esistenza di due
letterati diversi, Carlo Dionisotti sostiene che si
dovrebbe credere “l’esistenza immediatamente successiva e
probabilmente in parte contemporanea di due omonimi
entrambi messinesi, entrambi giudici, entrambi uomini di
lettere a tempo perso, e accordatisi per giunta a
scrivere, l’uno soltanto rime volgari, ma nient’affatto
popolari, testi d’una raffinata cultura e tecnica, l’altro
soltanto la prosa latina della Historia.” [Proposta per
Guido giudice, in Studi in onore di Alfredo Schiaffini,
Roma 1965, I, p.465].
Ci sono
rimaste cinque canzoni sue: La mia gran pena e lo gravoso
affanno, Gioiosamente canto, La mia vit’è sì fort’e dura e
fera, Ancor che l'aigua per lo foco lassi e Amor, che
lungiamente m'ài menato.
Le ultime
due – come ho già detto - sono citate da Dante quando si
riferisce al volgare siciliano come famoso nel De vulgari
Eloquentia (I, XII, 2) senza mettere iI nome dell’autore,
perché si tratta di versi conosciuti e documentano un
preciso giudizio: perplures doctores indigenas invenimus
graviter cecinisse. Più avanti (II, VI, 6), la prima
canzone è un esempio del gradum constructionis
excellentissimum proprio dei dictatorum illustrium.
L’altra, invece, è ricordata per quanto
riguarda la constructionis elatio, la excellentia
vocabulorum e la gravitas sententiarum. Si trova fra le
grandi (illustres) canzoni che cominciano con un
endecasillabo, carmen superbissimum (vedi il già citato
(VE, II, V,4).
Alcuni pensano che Odo delle Colonne potesse
appartenere alla stessa famiglia di Guido, ma Dante non lo
cita affatto. Ha lasciato due componimenti d’incerta
attribuzione: Distretto core e amoruso e Oi llassa,
namorata.
Se la poesia volgare francese è stata
possibile grazie alle corti, in Italia il fenomeno è stato
pure promosso da un potere politico: quello
dell’imperatore Federico II che, divenuto re di Sicilia a
soli tre anni ed essendo uscito dalla tutela del Papa nel
1208, tentò di trasferire la sede dell’impero occidentale
nel Sud d’Italia. Come parte del suo progetto generale,
sperava di far sorgere un centro culturale alternativo a
Bologna e Parigi. Fondò l’Università di Napoli e riordinò
la Scuola Medica di Salerno, si fece circondare da
intellettuali di diverse estrazioni culturali (latina,
provenzale, ebraica, araba, bizantina), delle quali
conosceva le lingue, oltre al francese e al tedesco. Lui
stesso compose poesie e il trattato De arte venandi cum
avibus (Arte di cacciare con uccelli).
Il suo regno moderno, codificato nelle
Costituzioni di Melfi (1231) come uno stato burocratico e
centralizzato, non aveva però un territorio dominato
militarmente. La resistenza dei comuni e del Papa (che lo
costrinse a partecipare anche a una crociata) impedirono
lo sviluppo del regno, e Federico venne sconfitto a Parma
e a Fossalta (1248-49): la morte lo raggiunse nel castello
di Fiorentino, presso Foggia, mentre preparava una nuova
offensiva.
Muore così il sogno feudale dell’Impero e
anche la produzione culturale federiciana. E muore pure
una magna curia interessata alla poesia e alla lingua
locale. Come farà più tardi col “dolce stil novo”, sarà
Dante a creare il nome “Scuola Siciliana”, poiché chiamò
“Siciliana” tutta la produzione poetica precedente a
quella toscana. Ricordiamo le parole del De vulgari
eloquentia:
“1. Exaceratis quodam modo vulgaribus ytalis,
inter ea que remanserunt in cribro comparationem facientes
honorabilius atque honorificentius breviter seligamus.
2. Et primo de siciliano examinemus ingenium:
nam videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis
asciscere eo quod quicquid poetantur Ytali sicilianum
vocatur, et eo quod perplures doctores indigenas invenimus
graviter cecinisse, puta in cantionibus illis
Ancor che
l'aigua per lo foco lassi,
et
Amor, che
lungiamente m' ài menato.
3. Sed hec fama trinacrie terre, si rccte
signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in
obproprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico
more sed plebeio secuntur superbiam.
4. Siquidem illustres
heroes, Fredericus cesar et benegenitus eius Manfredus,
nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec
fortuna permisit humana secuti sunt, brutalia dedignantes.
Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inherere
tantorum principum maiestati conati sunt, ita ut eorum
tempore quicquid excellentes animi Latinorum enitebantur
primitus in tantorum coronatorum aula prodibat; et quia
regale solium erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri
predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum
voc[ar]etur: quod quidem retinemus et nos, nec posteri
nostri permutare valebunt.
5. Racha, racha.
Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid
tintinabulum secundi Karoli, quid cornua lohannis et
Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie,
nisi ‘Venite carnifices, venite altriplices, venite
avaritie sectatores’?
[1. Spulati, in certo modo, gli italici
volgari, scegliamo subito fra i rimasti nel vaglio,
facendone il paragone, quello che è il più onorevole ed il
più onorifico.
2. Ed anzitutto intorno al siciliano mettiamo
a prova l’ingegno, poiché è manifesto che il volgare di
Sicilia si attribuisce rinomanza al di sopra degli altri,
per il fatto che tutto ciò che gli Italiani poeticamente
compongono si chiama siciliano, e per il fatto che
parecchi maestri, di quel paese nativi, troviamo aver
cantato con gravità, come nelle ben note canzoni:
Ancor che
l'aigua per lo foco lassi,
e
Amor, che
lungiamente m' ài menato.
3. Ma questa rinomanza della tricrania terra,
se ben guardiamo a quale effetto riesce, appare rimasta
solo ad infamia degli italici prìncipi, i quali non a
maniera di eroi, ma di plebe, vivon superbi.
4. E veramente gli illustri eroi Federico
imperatore e Manfredi, degnamente nato da lui, tutta
manifestando la nobiltà e la drittura della loro anima,
finché la fortuna lo permise, visser da uomini, sdegnando
viver da bruti. E perciò coloro ch’erano nobili di cuore e
forniti di doni divini cercarono di stare sempre vicini
alla maestà di prìncipi così grandi, di modo che tutto ciò
che al tempo loro anime eccelse d’Italiani, sforzandosi,
riuscivano a compiere, primieramente nella reggia di sì
grandi sovrani veniva alla luce; e poiché regale sede era
la Sicilia, avvenne che quanto i predecessori nostri
produssero in volgare si chiamasse siciliano; e questo noi
pure teniamo fermo, né i posteri nostri varranno a mutare.
5. Raca! Raca! Di che risuona ora la tromba
dell’ultimo Federico? di che la campana di Carlo secondo?
di che corni di Giovanni ed Azzo, marchesi potenti, di che
cenamelle di altri magnati? se non di questo: venite,
carnefici! venite, ingannatori! venite, seguaci
d’avarizia!] (VE, I, XII).
L’aggettivo siciliano non deve intendersi come
un’attribuzione geografica, ma come linguaggio accomunato
intorno ad una poetica condivisa. Infatti, non erano
siciliani Rinaldo d’Aquino, Paganino da Serzana, Pier
della Vigna, Iacopo Mostacci, Giacomino Pugliese,
Percivalle Doria né Compagnetto da Prato. Comunque, i dati
biografici di quasi tutti sono molto scarsi e non sono
nemmeno chiari i punti che li separano del gruppo
siculo-toscano, che gira intorno a Guittone d’Arezzo e
Bonagiunta da Lucca.
I testi – scritti secondo modelli provenzali
in una lingua siciliana depurata degli elementi dialettali
e modificata da latinismi e francesismi – ci sono giunti
tramite traduzioni di copisti toscani. Dante stesso ha di
sicuro conosciuto le rime in codici toscanizzati e,
dunque, non è stato a contatto con ad un siciliano “puro”.
La poesia prestilnovistica è siciliana soprattutto per
ragioni politiche: Federico II e Manfredi furono re di
Sicilia, vissero in Italia e il centro dell’Impero era
identificabile con Palermo. Nella sua prospettiva
monarchica, è uno sguardo nostalgico a tempi ormai
tramontati.
Mentre nel Nord i trovatori si preoccupavano
della cronaca cortigiana e della propaganda politica, i
federiciani si collegavano all’originaria concezione
amorosa della poesia provenzale. Ma, attraverso una
ricerca più approfondita della fenomenologia amorosa,
andavano al di là del rapporto feudale
poeta-vassallo/donna-castellana e interiorizzavano in
maniera intellettualistica nell’ispirazione amorosa.
Sarà l’indirizzo seguito dopo dagli stilnovisti.
A Federico II sono stati attribuiti cinque
componimenti: De la mia disïanza, Poi ch'a voi piace,
amore, Misura, providenzia e meritanza, Dolze meo drudo, e
vaténe, e Oi lasso, nom pensai. Oltre al fatto che non
risulta chiaro se il “Re Federico” sia l’imperatore o suo
figlio Federico d’Antiochia, bisogna dire che Dante non lo
ricorda come poeta. Esplicita è però la sua ammirazione
nel passo citato più sopra (VE, I, XII, 4), nel quale
segnala che l’imperatore e Manfredi ebbero una nobiltà che
rese possibile una corte culturale in senso nuovo.
Difatti, il siciliano non viene presentato come il
dialetto dei terrigenae mediocres, ma come una realtà
linguistica valida per un nuovo tipo di civiltà.
Federico sarà anche ricordato nel Convivio
come l’ultimo imperadore de li Romani (IV III 6) nella sua
teoria della nobiltà: “E però è da sapere che l’oppinione
de lo Imperadore – avvegna che con difetto quella ponga –
ne l’una particula, cioè là dove disse belli costumi,
toccò de li costumi di nobilitade, e però in quella parte
riprovare non s’intende” (CV, IV, X, 3).
Benché Piccarda Donati lo ricordi come il
terzo [vento di Soave] e l’ultima possanza (Pd. III, 120)
e Pier della Vigna come mio segnor, che fu d'onor sì degno
(If. XIII, 75), Dante lo destina al cerchio degli eretici.
Così, dice Farinata:
Dissemi: "Qui con
più di mille giaccio:
Qua dentro è ‘l
secondo Federico,
e ‘l Cardinale; e
delli altri mi taccio".(If. X, 118-120)
Il Cardinale per antonomasia è
Ottaviano degli Ubaldini, vescovo di Bologna dal 1240 al
1244, cardinale dal 1245, morto nel 1273. D’illustre
famiglia ghibellina ed eretico per fama. La stessa accusa
di eresia era rivolta dalla propaganda guelfa
all’imperatore, per ragioni politiche, e probabilmente per
il suo stile di vita.Benvenuto scrive: “fuit vere
epicureus; quoniam intendens potentiae et imperio per fas
et nefas insurrexit ingrate contra matrem ecclesiam, quae
ipsum pupillum educaverat et exaltaverat ad imperium; et
ipsam ecclesiam variis bellis afflixit per spatium
triginta annorum et ultra; pacem turpem fecit cum Soldano,
quum posset totam Terram sanctam recuperare: multos
praelatos, captos venientes ad concilium per mare,
inhoneste tractavit et in carceribus maceravit: Saracenos
induxit in italiam: beneficia ecclesiarum contulit, et
bona earum usurpavit”.
La stessa propaganda guelfa lo fa apparire
come un crudele torturatore. Dante lo ricorda quando
descrive gli ipocriti e le loro cappe:
Di fuor dorate son,
sì ch’elle abbaglia;
ma dentro tutte
piombo, e gravi tanto,
che Federigo le
mettea di paglia. (If. XXIII, 64-66)
A questo riguardo, scrive il Buti: “È
da sapere che lo imperadore Federigo II, coloro ch’egli
condannava a morte per lo peccato dell’offesa maestà, li
facea spogliare ignudi e vestire d’una veste di piombo
grossa un dito, e faceali mettere in una caldaia sopra il
fuoco e facea fare grande fuoco tanto che si struggea lo
piombo addosso al misero condannato, e cosí miseramente e
dolorosamente li facea morire”. Ripetuta dal Lana,
l’Ottimo, Benvenuto e l’Anonimo Fiorentino, la notizia non
trova alcuna conferma nei cronisti e neppure nei
documenti.
Fra i collaboratori di Federico II c’erano
Michele Scoto – formatosi a Oxford, Parigi, Bologna e
Toledo (centro di trasmissione della cultura araba per
l’occidente) – e Maestro Teodoro, che conosceva l’arabo e
il greco. Stefano da Messina dedicò a Manfredi due opere
arabe tradotte dal greco in latino: Il libro delle
rivoluzioni (Liber rivolutionum) e "I fiori di astronomia"
(Flores astronomiae).
Ma è stata innanzitutto fondamentale la
partecipazione di Pier della Vigna, che nacque a Capua nel
c.1190 e morì in Toscana nel 1249, studiò retorica e
diritto alle scuole di Capua e Bologna, e nel c.1220 passò
al servizio di Federico II, diventando un suo uomo di
fiducia.
Comunque, la fama del segretario imperiale è
legata più che altro alla sua presenza come personaggio
nel noto episodio della selva dei suicidi nella Commedia,
preannunciato dal famoso verso Cred’io ch’ei credette
ch’io credesse (If. XIII, 25), che riecheggia lo stile
dettatorio latino, suggerito forse dal v. 27 della Satira
I di Persio: “Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc
sciat alter”.
Secondo il Sapegno, si tratta di figure
artificiose che appartengono alla cultura linguistica e
rettorica del tempo di Dante. E aggiunge: “Del tutto
arbitrario è il supporre, come pur s’è fatto da molti, che
in questo canto il poeta se ne compiaccia piú che altrove,
quasi per rifare il verso a un solenne maestro dell’ars
dictandi, quale fu Pier della Vigna, che qui è assunto a
protagonista dell’episodio”.
Ecco i
versi di If. XIII, 55-78:
E 'l tronco:
«Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso
tacere; e voi non gravi
perch'io un poco a
ragionar m'inveschi.
Io son colui che
tenni ambo le chiavi
del cor di
Federigo, e che le volsi,
serrando e
diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo
quasi ogn'uom tolsi:
fede portai al
glorioso offizio,
tanto ch'i' ne
perde' li sonni e ' polsi.
La meretrice che
mai da l'ospizio
di Cesare non torse
li occhi putti,
morte comune e de
le corti vizio,
infiammò contra me
li animi tutti;
e li 'nfiammati
infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor
tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per
disdegnoso gusto,
credendo col morir
fuggir disdegno,
ingiusto fece me
contra me giusto.
Per le nove radici
d'esto legno
vi giuro che già
mai non ruppi fede
al mio segnor, che
fu d'onor sì degno.
E se di voi alcun
nel mondo riede,
conforti la memoria
mia, che giace
ancor del colpo che
'nvidia le diede».
Lasciando da parte l’evidente intertestualità
virgiliana di tutto l’episodio, è importante non
confondere storia con poesia e anche rilevare l’uso che
Dante fa del linguaggio dall’inizio alla fine. Conclude il
citato Sapegno: “Si osservi che tutta l’artificiosa
costruzione del racconto di Pier della Vigna – con
quell’accumularsi di perifrasi (vv. 58-61, 64-66)), di
replicazioni (vv. 60, 67-68), di antitesi (v. 69), di
metafore preziose (vv. 55-57) – culmina in un periodo (vv.
70-72), in cui non soltanto non è esclusa, ma anzi
precipita e si fa piú che mai evidente quell’ambiguità e
tensione dello sforzo intellettualistico e delle strutture
formali; mentre da quel travaglio vien fuori, espressa
ancora una volta in un’antitesi (“ingiusto... contra me
giusto”), la definizione illuminante della natura e delle
circostanze della colpa, che costituisce il nodo, e il
senso di tutto l’episodio” (SAPEGNO, ad loc.)
Pier
della Vigna entrò come notaio nella corte di Federico II
fu giudice della Magna Curia, finché fu nominato
protonatoro della corte imperiale e logoteta del Regno di
Sicilia. Oltre alla sua creazione poetica, compilò le
Costituzioni del 1231 e recitò orazioni giuridiche per
difendere i diritti del suo signore. Per quest’ultima
ragione fu salutato “egregium dictatorem et totius linguae
latinae iubar”.
Tenne
“ambo le chiavi”, cioè fu l’arbitro del cuore
dell’imperatore. Come scrive il Buti: "l'affermativa che
apriva (" diserrando ") lo cuore e la negativa che lo
serrava ". Il Moore (I,77) ha voluto vedere la fonte
dell’immagine in Isaia XXII, 22 (“et dabo clavem domus
David super umerum eius et aperiet et non erit qui claudat
et claudet et non erit qui aperiat”), il che sembra
coerente pure con il cenno del Torraca alle parole di
un’epistola di Niccolò da Rocca, in cui si riferisce
proprio a Pier delle Vigne: “Tamquam imperii claviger
claudit, et nemo aperit, aperit et nemo claudit”.
S’ignora
perché perse il favore del sovrano nel 1248, ma questi
l’avrebbe fatto imprigionare e accecare, per cui si
uccise. Il Villani annota: “per la qual cosa il detto
savio per dolore si lasciò tosto morire in prigione e chi
disse ch’egli medesimo si tolse la vita” (Cron., VI, 22).
La “meretrice” è l’invidia, capace di
prostituire le coscienze. Afferma il già citato Buti: “lo
imperadore si fidava tanto di lui, che quasi niun altro
avea al suo segreto consiglio se non lui, e per questo li
altri baroni dello imperadore lo cominciarono a odiare e
averli invidia, e apposonli, mostrando con false lettere,
ch’elli rivelava i segreti dello imperadore a’ suoi
nemici, cioè al papa”. Fu arrestato a Cremona e,
trasferito a S. Miniato al Tedesco, venne accecato. Poco
dopo, in carcere, si sarebbe tolta la vita.
Riguardo al suicidio, non c’è consenso fra i
commentatori. Il Lana afferma: “lo imperadore lo fe’
prendere e fello abacinare, e questo fu a San Miniato del
Tedesco; poi in processo di tempo, facendolo portare a
Pisa in su uno asino lo imperatore, fu per li somieri
tolto giuso e messo ad uno ospedale perché reposasse, e
questo (Piero) batté tanto lo capo al muro che morì”. Buti
aggiunge che da San Miniato fu portato a Pisa “e quando fu
posato a Sant’Andrea in Barattularia domandò ov’elli era,
e dettoli che era a Pisa... percosse tanto lo capo al muro
ch’elli s’uccise”. Boccaccio e Anonimo Fiorentino
attestano invece che Piero, caduto in disgrazia e
abbacinato, si recò ad abitare liberamente in Pisa, città
di parte imperiale.
Della sua attività letteraria – cui Dante non
fa cenno in nessuna delle sue opere - ci è rimasto il suo
Epistolario latino, giudicato dagl’intenditori come una
mostra raffinata degli artifici retorici delle "artes
dictandi". Dei suoi versi in volgare, gli sono attribuiti:
due canzoni di maniera (Amore, in cui disìo ed ò speranza,
Amando con fin core e co speranza), una di argomento
amoroso (Amor, da cui move tuttora e vene ) e un sonetto
di corrispondenza per la già citata tenzone con Iacopo da
Lentini e Iacopo Mostacci sulla natura dell'amore (Però
ch'Amore non se pò vedire).
Del Notaro ho già detto. Iacopo Mostacci –
ignorato pure da Dante – era nativo di Messina e appare
nominato come falconiere di Federico II in un documento
del 1240 e poi, nel 1262, come ambasciatore di Manfredi in
Aragona. Oltre al sonetto della tenzone (Sollicitando un
poco meo savire), gli si attribuiscono le seguenti canzoni
di gusto provenzale: Al cor m'è nato e prende uno disìo,
Amor ben veio che mi fa tenire, Amor ben veio che mi fa
tenire, A pena pare ch'io saccia cantare, Umile core e
fino e amoroso e Mostrar vorrìa in parvenza.
Per la prima volta era stato impiegato un
volgare italiano con scopo letterario, con chiari apporti
latini e provenzali, secondo risulta dai frammenti
originali di re Enzo e di Stefano Protonotaro, che si
sono conservati nella cinquecentesca Arte del rimare di
Gian Maria Barbieri, pubblicata da Gerolamo Tiraboschi a
Modena nel 1780, col titolo Dell’origine della poesia
rimata.
Del Protonotaro si sa che è nato a Messina e
viene ricordato da due documenti: uno del 1261 e un altro
(postumo) del 1301. Un’ipotesi di lavoro lo identifica con
uno Stefano da Messina, traduttore dal greco in latino di
due trattati di astronomia. Ne restano tre canzoni: Per
meu cori alligrari (l’unico testo siciliano giuntoci nella
forma non toscaneggiata), Assai me placerìa e Assai cretti
celare. La canzone Amor, da cui move tuttora e vene, che
un tempo gli era stata attribuita, adesso si riconosce
come di Pier della Vigna. Enzo o Enzio di Svevia nacque a
Palermo intorno al 1220c. Figlio naturale di Federico,
diventò re di Sardegna (1239) e venne sconfitto dai guelfi
a Fossalta (1249), rimanendo prigioniero fino alla morte
nel castello di Bologna nel 1272. Sono sue due canzoni
(Amor mi fa sovente, S’eo trovasse Pietanza), un sonetto,
e un frammento (Allegru cori plenu).
Dante vuol essere preciso quando parla di quel
volgare siciliano che ha letto, quasi sicuramente
toscanizzato, ma che forse ha sentito cantare in diverse
occasioni:
“6. Sed prestat ad propositum repedare quam
frustra loqui. Et dicimus quod, si vulgare sicilianum
accipere volumus secundum quod prodit a terrigenis
mediocribus, ex ore quorum iudicium eliciendum videtur,
prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam
tempore profertur; ut puta ibi:
Tragemi
d'este focora se t'este a boluntate.
Si autem
ipsum accipere volumus secundum quod ab ore primorum
Siculorum emanat, ut in preallegatis cantionibus perpendi
potest, nichil differt ab illo quod laudabilissimum est,
sicut inferius ostendemus.
7. Apuli quoque vel sui acerbitate vel
finitimorum suorum contiguitate, qui Romani et Marchiani
sunt, turpiter barbarizant: dicunt enim
Volzera
che chiangesse lo quatraro.
8. Sed quamvis terrigene Apuli loquantur
obscene comuniter, prefulgentes eorum quidam polite locuti
sunt, vocabula curialiora in suis cantionibus compilantes,
ut manifeste apparet eorum dicta perspicientibus, ut puta
Madonna,
dir vi volglio,
et
Per fino
amore vo si letamente.
9 Quapropter superiora notantibus innotescere
debet nec siculum nec apulum esse illud quod in Ytalia
pulcerrimum est vulgare, cum eloquentes indigenas
ostenderimus a proprio divertisse.”
[6. Ma vale meglio ritornare all’argomento che
parlare a vuoto. Ed affermo che, se si vuole prendere
volgare siciliano nel senso fi quello che proviene dai
regionali di media condizione, dalla parlata dei quali
evidentemente si deve trarre un giudizio, esso non è
affatto degno dell’onore di preferenza, poiché non si
proferisce senza un certo indugio, come per esempio in
quel verso:
Tragemi d'este focora se t'este a boluntate.
Ma se vogliamo prenderlo nel senso di quello
che fluisce dalla bocca dei più ragguardevoli siciliani,
come si può ben osservare nelle succitate canzoni, in
nulla differisce da quello che è il più degno di lode,
come più oltre dimostreremo.
7. Gli Apuli inoltre sia per la loro rozzezza,
sia per la contiguità coi loro finitimi, i Romani ed i
Marchigiani, hanno una lingua bruttamente viziata. Dicono
infatti:
Volzera
che chiangesse lo quatraro.
8. Ma benché gli Apuli nativi della regione
parlino comunemente in una sconcia maniera, tra loro
alcuni uomini illustri si espressero con eleganza,
trascegliendo nelle loro canzoni i vocaboli più nobili,
ciò che appare manifesto a chi ben esamina le loro rime;
come per esempio:
Madonna,
dir vi volglio,
et
Per fino
amore vo si letamente.
9. A chi pertanto considera quanto sopra s’è
detto deve essere palese né il siculo né l’ ‘apulo’ essere
quello che in Italia è il volgare più bello, essendosi
mostrato che i nativi forniti di eloquenza si sono dalla
propia favella dipartiti.] (VE, I, XII).
L’imperatore si preoccupò di moltiplicare i
centri culturali: Napoli (dove istituì un’università nel
1224), Palermo, Messina. I letterati che vi lavoravano
erano funzionari, cioè avevano un livello sociale
superiore e rappresentavano lo sforzo della rinascita.
La produzione poetica acquista “dignità” a
partire dagli autori: Federico II, i suoi figli Enzo e
Manfredi, suo suocero Giovanni di Brienne, Federico
d’Antiochia. Scrivono pure giuristi e notai (Jacopo da
Lentini, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Guido e
Odo delle Colonne) e giovani dignitari di corte (Jacopo
Mostacci, Rinaldo d’Aquino, Giacomino Pugliese, Jacopo
d’Aquino).
Ai suddetti bisogna aggiungere il genovese
Percivalle (Perzivalle) Doria – non ricordato da Dante -
che è stato al servizio di re Manfredi dopo un periodo in
Provenza quale magistrato. Ci ha lasciati due componimenti
in provenzale e due in italiano, trapassando
dall’imitazione trobadorica ai canoni della scuola
federiciana. Dante non lo ricorda e non cita neanche
coloro che fanno parte del gruppo de giullari, che
servirono da ponte fra i “siciliani” e gli stilnovisti e
che Dante non ricorda: Folcacchiero Folcacchieri di Siena
(che ha lasciato la canzone d'amore Tutto lo mondo vive
sanza guerra), Paganino da Sarzana, Compagnetto da Prato,
Arrigo Testa di Arezzo e Cielo d’Alcamo.
Quest’ultimo (Cielo dal Camo, letto
erroneamente un tempo “Ciullo”) è l’autore di Rosa fresca
aulentissima, un contrasto di 160 versi riuniti in 32
strofe dialogiche, che ha come sfondo una città marinara
(forse Messina), e nel quale il poeta – in una lingua che
mescola modi curiali e vernacolari – seduce una popolana.
Il testo si conserva adespoto nel Codice Vaticano 3793, il
nome dell’autore è stato apposto dal grammatico jesino
cinquecentesco Angelo Colocci. Alessandro D’Ancona ha
proposto la sua composizione fra il 1231 (anno in cui fu
pubblicata la legge della “defensa” e furono coniati gli
“agostari” nominati al v. 22) e il 1250, quando muore
Federico II, ricordato vivo al v. 24. Si tratta di un
canto a due voci, nel quale il seduttore incalza con le
sue proposte erotiche una ragazza che tenta o finge di
resistergli.
Non è chiaro se Cielo sia un poeta popolare. I
seguaci della scuola romantica credono che la freschezza e
la vivacità nascondano un autore nato dal popolo. Ci sono,
però, dei fatti certi: non apparteneva alla scuola
siciliana vera e propria e non è stato poeta di corte. Il
contrasto contiene numerosi francesismi e provenzalismi,
che non appaiono come prestiti linguistici dell’epoca
normanna o angioina, e pure molte parole proprie del
vocabolario cortigiano: madonna, sire, donna cortese,
donna cortese e fina, sovrana, di bon core e fino,
solaccio e diporto, le altezze, merzé ecc. Ma,
soprattutto, il dialogo non è popolaresco.
Ci sono alcune ipotesi sull’identità di questo
“giullare” (ad es., un certo Michele d’Alcamo, studente di
medicina a Salerno), ma la questione rimane aperta finché
non ci saranno nuovi documenti. Dante non lo nomina, ma
cita il terzo verso del contrasto (Tragemi d'este focora
se t'este a boluntate) nel già citato paragrafo del De
vulgari eloquentia (VE, I, XII, 6).
Le forme poetiche sono già mature nei
componimenti di Giacomo da Lentini, tra il 1220 e il 1230,
e pare che avessero esaurito la propria vitalità con la
morte dell’imperatore nel 1250. Il crollo della potenza
sveva in Italia, 16 anni dopo, non sarebbe che la lapide
sepolcrale della scuola.
Il riferimento storico più antico in una
poesia “siciliana” è la crociata del 1227-28, nella
canzone Giamai non mi conforto di Rinaldo d’Aquino. La
potenza sveva finì, invece, con la battaglia de Benevento
e la morte di Manfredi (1266). Dopo un trentennio, il
centro culturale della penisola italiana si spostò verso
la vita comunale della Toscana.
Creduto da alcuni fratello di s.
Tommaso, a Rinaldo d’Aquino sono stati attribuiti undici
componimenti di argomento amoroso: 9 canzoni (Venuto m'è
in talento, Poi li piace c'avanzi suo valore, Per fino
amore vao sì letamente, Amor, che m'à 'n comando, Già mai
non mi conforto, In gioi mi tegno tutta la mia pena,
Amorosa donna fina, In amoroso pensare, Ormai quando flore
) e 2 sonetti (Meglio val dire ciò nc'omo à 'n talento, Un
oselletto, che canta d'amore). Probabilmente è stato un
falconiere di Federico II, che passò alla parte angioina e
morì nel 1280. Dante ricorda due volte nel De vulgari
eloquentia la canzone Per fino amore vo sì letamente: una
per il solenne endecasillabo di avvio (VE, II, V, 4) e
l’altra come documento dell’arte migliore e della lingua
degli Apuli praefulgentes, i primi che - secondo Dante -
insieme coi Siciliani usarono il volgare illustre. (VE, I,
XII, 8).Non fa cenno, invece, agli altri poeti della
“scuola”, che qui ricordo per amore di completezza.
Jacopo d’Aquino combattè per Manfredi a
Benevento; e di lui rimane una sola canzone: Al cor m'è
nato e prende un disio.
Paganino da Serzana o da Serezano. Il nome
della sua città d’origine può essere interpretato in vario
modo: Sarzana (Lunigiana), Serzana (Sarezzano) presso
Tortona, oppure Serrazzano (Versilia). Si conosce una sua
canzone: Contro lo meo volire.
Di Giacomino Pugliese si sa soltanto che
nacque nell'Italia meridionale continentale. Restano di
lui sette tra canzoni e canzonette e un discordo: Morte,
perchè m'ài fatta sì gran guerra, Morte, perchè m'ài
fatta sì gran guerra, Tut[t]or la dolze speranza, Donna,
per vostro amore, Lontano amore manda sospiri, Donna, di
voi mi lamento, Quando vegio rinverdire, Isp[l]endïente e
La dolze cera piagente.
Altri poeti sono poco più di un nome, come i
già accennati Compagnetto da Prato e Arrigo Testa di
Arezzo. Spero che un giorno si possa scrivere di più su
Ruggerone da Palermo, Mazzeo di Ricco, Giovanni di Brienne
re di Gerusalemme, Tommaso di Sasso, Ruggieri d’Amici,
Arrigo di Castiglia, Tiberto Galliziani di Pisa e Folco di
Calabria.
Un ultimo paragrafo merita la cosiddetta “rima
siciliana”, che sarebbe stata modificata dai copisti
toscani.
Si tratta della rima "e" chiusa con "i"
("solea" con "mia") e di "u" con "o" chiusa ("lui" con
"voi") e la terminologia è stata estesa ad ogni rima di
"e" con "i" e di "o" con "u". L’espressione si spiega con
il riferimento ad un fenomeno legato alla trasmissione dei
testi della "scuola poetica siciliana".
Nel sistema fonologico siciliano, il
comportamento vocalico è il seguente:
- "e" lunga, "i" breve e "i" lunga latine
danno "i"
- "o" lunga, "u" breve e "u" lunga latine
danno "u".
Questo vuol dire che tiniri fa rima con
viniri.
Anche Dante si serve di “rime
siciliane” (nelle Rime e, soprattutto nell’ Inferno) e qui
ne do tre esempi presi dalla Commedia:
ma non sì
che paura non mi desse
la vista che
m’apparve d’un leone.
Questi parea che
contra me venisse
Con la test’alta e
con rabbiosa fame,
sì che parea che
l’aere ne tremesse.(If. I, 44-48)
Questa question
fec’ io; e quei "Di rado
Incontra", mi
rispuose, "che di noi
Faccia il cammino
alcun per qual io vado.
Ver è ch’altra
fiata qua giù fui,
congiurato da
quella Eritón cruda
che richiamava
l’ombre a’ corpi sui. (If. IX, 20-24)
"O eletti di dio,
li cui soffriri
e giustizia e
speranza fa men duri,
drizzate noi verso
li alti saliri".
"Se voi venite dal
giacer sicuri,
e volete trovar la
via più tosto,
le vostre destre
sien sempre di fori". (Pg. XIX, 77-81)
Questa tematica è già stata studiata da
Ernesto Giacomo Parodi (Rima siciliana. Rima bolognese e
aretina, in “Bullettino della Società Dantesca Italiana”,
XX , 1913), Michele Barbi (edizione nazionale delle Rime
di Dante Alighieri, Firenze 1921) e Gianfranco Contini
(Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1960).
Rispettando questi illustri predecessori, credo che siano
definitivi i risultati cui arriva Glauco Sanga nel suo
volume La rima trivocalica (Il Cardo editore, Venezia
1992).
Comunque, un’analisi approfondita fuoriesce
dai limiti di questo contributo.
Copyright ©2004
José Blanco |