Chi è questa
che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre1
e mena seco2
Amor, sì che parlare
null’omo pote3,
ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira, 5
dical’Amor, ch’i’ nol savria contare4:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira5.
Non si poria contar la sua piagenza6,
ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute7,
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e la beltate per sua dea la mostra8.
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza9.
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1 Chi…
âre: Chi è costei che avanza,
che ognuno (ogn’om, impersonale)
guarda con stupore, e che fa vibrare di luce (chiaritate)
l’aria intorno a sé? Il pronome “la” è pleonastico (la
funzione di complemento oggetto è già svolta dal relativo
“che”). L’interrogativo iniziale riecheggia due passi
biblici: il Cantico dei Cantici (6, 9: “Quae est
ista quae progreditur?”) e Isaia, 63, 1: (“Quis
est iste, qui venit?”). La domanda, che rimane senza
risposta, crea un clima di mistero e di sospensione. Tanto
più che, come ha notato Contini, nel Medio Evo l’esegesi
cristiana riferiva questi passi biblici alla Vergine.
L’incedere della donna viene quindi accostato a
un’apparizione soprannaturale, come sottolinea anche
l’alone luminoso di cui la figura è circonfusa (l’idea del
riverbero dell’aria è sottolineata al v. 2
dall’allitterazione delle consonanti t e r).
2
mena seco:
porta con sé.
3
null’omo
pote: nessuno
può; null’omo è un gallicismo.
4
dical…
contare: lo
dica Amore, perché io non saprei spiegarlo, esprimerlo.
5
cotanto…
ira: a tal
punto si manifesta a me (mi pare)
come signora (donna, dal latino
domina) della benignità (umiltà),
che, in confronto a lei (ver’ lei),
io chiamo “superbia” (ira) ogni altra
donna. Il pronome personale “la” è pleonastico.
6
Non…
piagenza: Non
si potrebbe descrivere la sua bellezza (piagenza).
Ribadisce il concetto della ineffabilità della bellezza
femminile, già espresso al v. 6, passando però dal piano
dell’impossibilità soggettiva (“i’ nol savria contare”) a
quello dell’impossibilità assoluta.
7
ch’a le’…virtute:
perché dinanzi
a lei si inginocchia ogni nobile virtù: si riprende il
tema del v. 7, in cui la donna appare già come domina:
così come la benignità, ogni altra virtù non può che
renderle omaggio.
8
e la
beltate… mostra:
e la stessa virtù della bellezza la indica come sua dea.
La donna appare dunque come una miracolosa, ma sensibile
manifestazione di virtù ideali, tra cui spiccano la
benignità (“umiltà”) e la bellezza.
9
Non…
canoscenza: La
nostra mente (per il significato di questo termine si
veda l’analisi del testo) non fu mai (già)
così elevata, e non fu posta in noi tanta perfezione
(salute) che possiamo adeguatamente (propiamente)
averne conoscenza. Il pronome personale “n’” può
riferirsi alla donna, ma sembra più pertinente collegarlo
alle “virtù” (“umiltà” e “beltate”) di cui essa è la
manifestazione sensibile.
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Analisi del testo |
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Livello metrico
Sonetto con rime incrociate, secondo lo schema
ABBA, ABBA, CDE, EDC. In tale schema l’omofonia delle rime
è molto più serrata nelle quartine. Nelle terzine restano
libere da riprese foniche le prime tre rime, con un
incremento notevole dell’ariosità del dettato, affidato
solo alla simmetria degli endecasillabi; la
retrogradatio della seconda terzina, con perfetta
dialettica, crea una nuova simmetria nella nuova
succesione di rime. Le rime in C restano comunque
distanziate da quattro versi.
Livello lessicale, sintattico,
stilistico
Sul piano lessicale, è da notare il frequente
ricorso a sostantivi astratti (il latinismo “chiaritate”,
“umiltà”, “ira”, il provenzalismo “piagenza”, e poi “virtute”,
“beltate”, “salute”, “canoscenza”), che contribuiscono a
creare un’atmosfera rarefatta, nella quale il dato
sensibile tende a sfumare. Siamo all’opposto della
teatralizzazione dei moti dell’anima, osservata nel
sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core:
mentre, in quel caso, la precisione terminologica mirava a
dare concretezza a moti interiori ordinariamente non
rappresentabili in maniera visiva, qui un dato concreto (il
passaggio della donna amata) viene trasportato in una
dimensione trascendente (sottolineata sia dai richiami
scritturali, sia dalla esplicita invocazione a Dio del v.
5).
Di grande rilevanza anche il ruolo delle negazioni:
“null’omo” (v. 4), “i’ nol savria contare” (v. 6), “Non si
poria contar” (v. 9), “Non fu sì alta” (v. 12), “non si
pose” (v. 13). I due ultimi periodi del sonetto (corrispondenti
alle due terzine) iniziano con l’avverbio “non”; in due
casi (ai vv. 6 e 9) la negazione si riferisce al verbo “contare”:
ne risulta una forte insistenza sull’impossibilità, per la
parola poetica, di descrivere adeguatamente l’apparizione
della donna. Con questa enunciazione di una poetica
dell’ineffabile, Cavalcanti si colloca agli antipodi di
Guinizzelli [qN2]).
Sul piano sintattico sono frequenti le relative e le
consecutive. È presente un enjambement (vv. 3-4).
Livello tematico
Il tema di questo sonetto è quello, già
guinizzelliano, della lode della donna amata. Sono molti,
sia sul piano tematico che su quello formale – per esempio
nelle parole-rima –, i riferimenti a Io voglio del ver
la mia donna laudare [qN2].
A prima vista dunque la rappresentazione della figura
femminile, di cui fin dalle quartine si sottolinea la
trascendenza (con l’attribuzione addirittura di tratti
mariani) sembrerebbe ricondurre il componimento di
Cavalcanti nell’alveo di uno stilnovismo cristiano (molti
tratti, tra cui la stessa poetica dell’ineffabile,
sembrano anticipare Dante). In realtà, se è vero che la
donna appare come una figura superiore e inattingibile,
non ci sembra che questo contraddica i presupposti
averroistici del pensiero-poesia di Cavalcanti. Tutto sta
a capire cosa debba intendersi per “trascendenza” in
questo contesto. Più che apparire come un vero e proprio
angelo, la donna è qui infatti presentata come una
manifestazione sensibile dell’“umiltà” e della “beltate”:
manifestazione dunque di due “virtù”, di altissimi ideali
(o di forme, se vogliamo usare la terminologia
aristotelica) che possono essere conosciuti solo
dall’intelletto e per giungere ai quali si deve andare
oltre l’impressione lasciata sui nostri sensi dal
phantasma.
L’apparizione della donna ha, a ben vedere, conseguenze
paradossali. Da un lato essa è la manifestazione sensibile
di un mondo ideale e perfetto, che può essere conosciuto
solo intellettualmente. Dall’altro però proprio la sua
apparizione impedisce all’uomo di trascendere la
percezione sensibile, di elevarsi alla conoscenza
intellettuale della “umiltà” e della “beltate”. È questa
appunto l’eterna sconfitta dell’uomo innamorato: egli deve
confessarsi incapace di conoscere queste “virtù” proprio
nel momento in cui, in qualche modo, le “vede”.
Appare chiaro che l’uomo sia destinato a questa sconfitta.
In primo luogo, ce lo dimostra l’insistenza
sull’impossibilità di rappresentare adeguatamente con la
parola l’apparizione della donna: dapprima (vv. 3-4) essa
toglie la parola agli uomini che la vedono; poi (v. 6) il
poeta proclama la sua personale impossibilità di
descrivere (“contare”) la sensazione prodotta dal suo
sguardo; infine (v. 9) l’impossibilità di “contare” non è
più solo dell’io lirico, ma diviene universale (“Non si
poria contar”).
Le ragioni di quest’insistenza sulla poetica
dell’ineffabile (un vero e proprio climax che parte
dal verso 6) si chiariscono nell’ultima terzina, dove
l’impossibilità di “contare” viene fatta discendere
direttamente dall’impossibilità di avere “canoscenza”: in
altre parole, non si può dire ciò che non si può sapere.
La donna, abbiamo detto, è manifestazione sensibile dell’“umiltà”
e della “beltate”; ma la compiuta conoscenza di queste
idee (non sensibili, ma universali e puramente
intellettuali) non può essere data all’uomo innamorato. La
“mente” infatti non può giungere a quell’altezza (v. 12),
all’uomo non è data questa possibilità di salvezza (“salute”,
v. 13)1.
E ciò perché la mente (come abbiamo chiarito nell’analisi
di Voi che per li occhi mi passaste ’l core
[qN6]) non è
l’intelletto, ma piuttosto una parte dell’anima sensitiva,
e precisamente il luogo della memoria e dell’immaginazione.
Secondo la filosofia averroistica l’intelletto (che può
conoscere le verità universali senza il continuo supporto
dei sensi) non è dato ai singoli uomini. Esiste soltanto
un intelletto unico e universale, immortale, comune
all’intera umanità (l’anima del singolo uomo è invece
destinata a perire). È vero che per Averroè l’intelletto
si congiunge (copulatur) ai singoli uomini, i quali
contribuiscono alla conoscenza e possono, a loro volta,
riceverla, ma per far questo essi devono saper astrarre
dalla visione sensibile, andare oltre il phantasma
che domina la memoria e l’immaginazione: cosa, come
sappiamo, impossibile per l’uomo in preda alla passione
amorosa.
Si spiega quindi perché la “mente” (che è appunto, lo
ripetiamo, il luogo della memoria e dell’immaginazione)
non porta l’uomo innamorato verso il luminoso cammino
della conoscenza, ma piuttosto lo allontana da essa. Come
si vede, ancora una volta, la terminologia di Cavalcanti è
rigorosissima. La trascendenza delle verità intellettuali,
di cui la donna è manifestazione sensibile, lungi dal
disegnare, come qualcuno ipotizza, il ritratto di un
Cavalcanti vicino all’ortodossia cattolica, sembra
confermare appieno le radici averroistiche del pensiero di
cui si nutre la sua poesia.
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1 È significativo il fatto che il termine “salute”,
desunto da Guinizzelli, sia qui presente in un enunciato
negativo; lo stesso accade dell’avverbio “propriamente”,
anch’esso guinizzelliano.
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