Belpaese2000             BIBLIO ITALIA  

 

Home Biblio Italia

NATALINO SAPEGNO
La poesia di Jacopone

da Frate Jacopone. Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1969, pp.80-84.

Non vogliam dire che [Jacopone] per le folle scrivesse le sue poesie, e anzi pare a noi che non debba accettarsi neppur l'opinione di chi volle le Laude scritte per i confratelli religiosi del Tudertino: bensì soltanto che, mentre colesti ritmi didattici furono il supremo tentativo di Jacopone per entrare in diretta colleganza con gli altri uomini, proprio essi mostrano, meglio di ogni nostra parola, l'assoluta incolmabile lontananza fra l'esperienza mistica del poeta di Todi e quella troppo più semplice ed umana dei moti popolari, dell'Alleluja per esempio o dei Flagellanti.

Che al fallimento umano s'accompagni, in questo caso, anche un fallimento letterario; che cioè, mancando a Jacopone anima vera di maestro, le sue laude didattiche dovessero riuscir fredde quasi in ogni punto, noiose e non prive d'antipatiche dissonanze, questo appare anche più facilmente comprensibile.

Però, dal naufragio dell'esperimento che chiameremo apostolico, si salvano - come abbiam visto - alcune poche reliquie, le quali hanno talvolta un loro effettivo valore poetico e sempre, ciò che più importa, ci additano le direzioni e le vie della nostra ricerca.

Sia che, in esse, noi ci fermiamo a considerare la tristezza dell'anima posta di fronte al mistero di giustizia e di dissoluzione che la morte sancisce e nasconde; sia che invece incontriamo il senso del terrore umano nel cospetto di Dio punitore e vendicatore; o la sete di passione dell'umanità per amor di Cristo crocifisso; o ancora l'anima stessa fatta persona e descritta in figura di fanciulla fragile e gentile; o finalmente anche gli accenni ad un'esteriore acuta psicologia e persino le incarnazioni dei vizi, nei quali si risente Iteco del flagello che non può mai tacere d'una mordace coscienza - il travaglio cioè d'uno spirito abituato a scrutare in sé anche gli spunti e le possibilità di colpe non mai commesse, anzi appena e con ripugnanza sfiorate del pensiero che vaga indocile -: sempre in ogni caso, dove una luce di poesia o un barlume d'interesse ci sorprenda attenti e bevevoli, troveremo una materia contenuta in limiti sufficientemente fissi, chiari e non difficili a definirsi.

Vogliam dire che tutta la poesia del Tudertino tende verso una lirica commossa e raffinata, che esprima le più delicate e sottili vibrazioni del suo animo e della sua vita religiosa. Quando Jacopone abbandoni del tutto anche l'esteriore paludamento ammaestrativo e moraleggiante, e faccia della sua anima stessa l'inizio ed il fuoco della sua poesia, e lasci penetrar nei suoi versi tutto il complicatissimo dramma delle sue esperienze umane e divine: allora sentiremo di trovarci di fronte ad una più grande arte, della quale avevamo raccolto e vagheggiato fin qui gli sparsi frammenti.

Il fraticello di Todi che, nel primo fervore religioso dopo la conversione, aveva ceduto ad un bisogno di predicazione, non menzognero né volgare ma certo qualche po' esteriore, riuscì poi, come abbiam visto, con l'andar del tempo, a raccogliersi in se stesso, fatto esperto da tante disillusioni e sempre meglio convinto della sua disperata solitudine e della straordinaria miseria e debolezza degli uomini, desideroso di liberarsi nel silenzio dal tumulto delle passioni e delle ire che troppo ancor lo turbavano. Questo processo di riflessione e maturazione s'andò sviluppando in realtà in un periodo di tempo, che è certamente impossibile determinare con precisione, e che può esser stato lunghissimo o esser durato magari tutta la vita del poeta. D'altra parte è chiaro che, anche quando più si faceva strada nello spirito di lui il desiderio di solitudine e di pace, si mescevan poi con esso i contrari istinti che lo spingevano a lotte e polemiche: così come quando dal suo cuore sgorgavano i motivi d'una nuova lirica più profonda e maturata nel silenzio, rimanevano accanto ad essi le velleità didattiche non ancor morte e qua e là trasparenti, con danno maggior e minore dell'organismo poetico, pur nelle laude più belle. Pertanto, sebbene a noi paia giusto tener fermo il concetto che questo processo s'andò accelerando e compiendo nell'ultima parte della vita del poeta, quando più noi lo vediamo acquetarsi, quasi in un'estasi mistica, uscito fuori alfine delle guerre per la riforma della Chiesa e dell'Ordine Francescano: si può ben dire tuttavia che questa lotta durò in lui in ogni tempo: e soltanto a noi, che siam ridotti a giudicar dagli avvenimenti esterni, può sembrare ch'essa si risolvesse in un senso o nell'altro in ciascun istante della sua vita.

Quando lo spirito di Jacopone sostava in questa riflessione solitària, nella quale la sensibilità sua, già così grande, si faceva più acuta e quasi morbosa: allora gli accadeva di sorprendere in sé tante e siffatte brame diverse e contrastanti, desideri ed opposti terrori, affetti ed angosciose rinunzie, maligne tendenze ed aspirazioni ad un'infinita bontà, impulsi demoniaci e divini: tanto e così complicato intrico di sentimenti e di passioni, ch'egli si ritraeva impaurito e quasi disperato di rinvenir mai più un principio di chiarezza e di salute, e non trovava liberazione se non nel canto ("prorompe l'abundanza en voler dire" [LXXX]).

Nacque forse così quella parte della sua poesia, più veramente lirica e più grande, nella quale i diversi stati del suo animo religioso e le sue solitàrie angoscie trovano una espressione singolarissima e nuova.

Un motivo unico vive nelle laude di Jacopone che ora ci accingiamo ad esaminare: l'incontro dell'anima umana con Dio. Quel contatto e contrasto dell'umano e del divino, che foggiò la sua vita così tormentata e strana e riempì di sé tutta la sua mente e tutto il suo cuore. Perché se questa mescolanza di terreno e di celeste, di finito e d'infinito, di chiaro e di misterioso, con il suo orizzonte ristretto di ombre terribili, è l'ambiente caratteristico dello spirito medievale: certo nessuno più del Tudertino fece di questo comune problema il sno problema, raccogliendo intorno ad esso ed in esso tutto il suo spirito.

Lo studio di questi ritmi pertanto potrà sembrar a taluno monotono e privo di sorprese: ma si tratta d'una monotonia in ogni caso inevitabile, come quella che è propria di tutte le anime individuali, le quali sempre, nÈ momenti in cui la loro vita culmina e si assomma, ritornano ciascuna alla sua primordiale sostanza, dove vive perfettamente distinto e non confondibile un unico accento.

Il che non esclude per altro, neppur nel cave nostro, una certa possibile varietà d'atteggiamenti. Invero la posizione dell'uomo di fronte a Dio non è sempre quella medesima, ma passa per infinite sfumature attraverso una larga e variopinta gamma di reazioni simili e diverse. Le quali tutte posson raccogliersi sotto la comune denominazione d'amore: qualora si intenda però questa parole nel suo più ampio e vero significato, come relazione di amicizia ed inimicizia ad un tempo, consolazione e terrore, fiducioso abbandono e gelosia: giubilo talora, ma più spesso, e quasi sempre anzi, ebbrezza tormentosa ed irrequieta.

L'amore di Dio, inteso come contenuto di una determinate forma poetica, ha tenuto in Jacopone quel posto stesso che, in altri poeti suoi contemporanei, il culto di vaghe e fuggevoli donne beatrici o selvagge: del che ci potrem meglio render conto più innanzi.

È chiaro che, partendo il Tudertino da una siffatta ispirazione, dovesse parergli ogni volta tentatore il motivo della nascita di Gesù: il miracolo della venuta di Dio, così apparentemente semplice e piana, ma pregna di tanto altissimo mistero fra gli uomini ignari ed indegni. Spesso infatti è tornato Jacopone al racconto della Natività, con felicità poetica più o men grande, e talora nulla. Tralasciando per il momento la lauda II, che ha versi pieni di dolce bellezza; osserviamo ora la LXV, nella quale l'Incarnazione diventa un problema, che il poeta pone a sé stesso e faticosamente risolve con aridi raziocini. Qual è la ragione che ha spinto il Figlio di Dio sulla terra? Un'ebbrezza d'amore, per cui egli "ebrio par deventato - o matto senza senno", una carità nella quale s'abbruciano occultandosi senno, forza e valore, un amore smisurato, cui gli affetti che legano i figli a' padri e alle madri stesse non si posson paragonare. Gesù ha abbandonato per ciò altezza e potenza ed è disceso a ricercar dolor e viltà: "l'amor l'ha sì ferito, - pena li par dolzore". Ed egli parla all'anima, come a sposa, in tono commosso:

Amor, priego, me done, - sposa, ch'amor demando,

altro non vo cercando - se non amor trovare;

l'amor non me perdona, - tutto me va spogliando,

forte me va legando, - non cessa d'enflammare;

donqua prendi ad amare, - sposa cotanto amata,

ben faggio comparata, - più dar non ho valore.

E l'anima, che intende tutto il valore dell'atto di Cristo, il quale come Dio e uomo è venuto a "trarla di fetore", a farla di serve regina, risponde parole semplici e umane:

A te più che me tutta, - amor, se dar potesse,

non è che noi facesse, - ma più non ho che dia;

lo mondo e ciò che frutta, - se tutto el possedesse,

e più, se ancora avesse, - dariate, vita mia;

dótte che ho en balia: - voler tutto e sperare,

amare e desiare - con tutto el mio core...

Demandi che più dia, - amor, questa tua sposa

che tanto è desiosa - te potere abracciare;

o dolce vita mia, - non me far star penosa,

tua faccia graziosa - me done a contemplare;

se non potesti fare - tu da l'amor defesa,

co posso far contesa - portar tanto calore?

Donqua, prendi cordoglio - de me, Gesù pietoso!

Non me lassar, mio sposo, - de te star mai privata;

s'io me lamento e doglio - quando tuo amor gioioso

non se da grazioso, - ben par morte acorata;

da che m'hai desponsata - sarestime crudele,

lo mondo me par fiele - ed onne suo dolzore.

Voglio ormai far canto, - che l'amor mio è nato

ed hame recomperato; - d'amor m'ha messo anello;

l'amor m'encende tanto - ch'en carne me s'è dato,

terollome abracciato, - eh'è fatto mio fratello;

o dolce garzoncello, - en cor t'ho conceputo

ed en braccia tenuto, - pero si grido: - Amore!

Veramente, nei versi citati, il dialogo fra il Redentore e l'anima salvata non è privo d'una certa commozione fervida e dolce; e più ancora quel passar dell'anima da un senso di totale abbandono, attraverso il desiderio d'una più intima e costante contemplazione, ad un grado d'esaltata ebbrezza, che ricrea dall'immagine concepita nella mente la realtà del Dio fatto carne - umana e fraterna carne di fanciullo -, è pieno di verità e di passione.

 

Belpaese2000.. 19.10.2005

                     Biblio Italia

 



Hosted by uCoz