Brunetto Latini
Il Tesoretto
Il poemetto, composto di
settenari a rima baciata, dalla struttura visionario allegorica, narra di
Brunetto che dal rientro dalla Spagna incontra uno studente bolognese che lo
informa della sconfitta dei guelfi a Montaperti. Per il dolore Brunetto si
smarrisce in una selva diversa (strana), dove incontra la natura personificata
che lo consola e lo istruisce sulla creazione e sui principi di filosofia
naturale; lo accompagna nel regno delle Virtù, che lo informano sul
comportamento cortese, e nel regno di Amore, dalle cui insidie Ovidio lo mette
in guardia. Dopo una fase di pentimento, Brunetto sale in Olimpo; il trattato
si interrompe dopo l'incontro con Tolomeo, che si accinge a esporre i principi
dell'astronomia.
I
Al valente
segnore,
di cui non so
migliore
sulla terra
trovare:
ché non avete
pare
né 'n pace né
in guerra;
sì ch'a voi
tutta terra
che 'l sole
gira il giorno
e 'l mar
batte d'intorno
san' faglia
si convene,
ponendo mente
al bene
che fate per
usaggio,
ed a l'alto
legnaggio
donde voi
sete nato;
e poi da
l'altro lato
potén tanto
vedere
in voi senno
e savere
a ogne
condizione,
un altro
Salamone
pare in voi
rivenuto;
e bene avén
veduto
in duro
convenente,
ove ogn'altro
semente,
che voi pur
migliorate
e tuttora
afinate;
il vostro cuor
valente
poggia sì
altamente
in ogne
benananza
che tutta la
sembianza
d'Alesandro
tenete,
ché per
neente avete
terra, oro ed
argento;
sì alto
intendimento
avete d'ogne
canto,
che voi
corona e manto
portate di
franchezza
e di fina
prodezza,
sì ch'Achilès
lo prode,
ch'aquistò
tante lode,
e 'l buono
Ettòr troiano,
Lancelotto e
Tristano
non valse me'
di voe,
quando
bisogno fue;
e poi, quando
venite
che voi
parole dite
o 'n
consiglio o 'n aringa,
par
ch'aggiate la lingua
del buon
Tulio romano
che fu in dir
sovrano:
sì buon
cominciamento
e mezzo e
finimento
sapete ognora
fare,
e parole
acordare
secondo la
matera,
ciascuna in
sua manera;
apresso tutta
fiata
avete
acompagnata
l'adorna
costumanza,
che 'n voi fa
per usanza
sì ricco
portamento
e sì bel
reggimento
ch'avanzate a
ragione
e Senica e
Catone;
e posso dire
insomma
che 'n voi,
segnor, s'asomma
e compie ogne
bontate,
e 'n voi solo
asembiate
son sì
compiutamente
che non falla
neente,
se non com'
auro fino:
io Burnetto
Latino,
che vostro in
ogne guisa
mi son sanza
divisa,
a voi mi
racomando.
Poi vi
presento e mando
questo ricco
Tesoro,
che vale
argento ed oro:
sì ch'io non
ho trovato
omo di carne
nato
che sia degno
d'avere,
né quasi di
vedere,
lo scritto
ch'io vi mostro
i·llettere
d'inchiostro.
Ad ogn'altro
lo nego,
ed a voi
faccio priego
che lo
tegnate caro,
e che ne
siate avaro:
ch'i' ho
visto sovente
viltenere a
la gente
molto valente
cose;
e pietre
prezïose
son già
cadute i·lloco
che son
grandite poco.
Ben conosco
che 'l bene
assai val
men, chi 'l tene
del tutto in
sé celato,
che quel ch'è
palesato,
sì come la
candela
luce men, chi
la cela.
Ma i' ho già
trovato
in prosa ed
in rimato
cose di
grande assetto,
e poi per
gran sagretto
l'ho date a
caro amico:
poi, con
dolor lo dico,
lu' vidi in
man d'i fanti,
e rasemprati
tanti
che si ruppe
la bolla
e rimase per
nulla.
S'aven così
di questo,
si dico che
sia pesto,
e di carta in
quaderno
sia gittato
in inferno.
II
Lo Tesoro
comenza.
Al tempo che
Fiorenza
froria, e
fece frutto,
sì ch'ell'era
del tutto
la donna di
Toscana
(ancora che
lontana
ne fosse
l'una parte,
rimossa in
altra parte,
quella d'i
ghibellini,
per guerra
d'i vicini),
esso Comune
saggio
mi fece suo
messaggio
all'alto re
di Spagna,
ch'or è re de
la Magna
e la corona
atende,
se Dio
no·llil contende:
ché già sotto
la luna
non si truova
persona
che, per
gentil legnaggio
né per altro
barnaggio,
tanto degno
ne fosse
com' esto re
Nanfosse.
E io presi
campagna
e andai in
Ispagna
e feci
l'ambasciata
che mi fue
ordinata;
e poi sanza
soggiorno
ripresi mio
ritorno,
tanto che nel
paese
di terra
navarrese,
venendo per
la calle
del pian di
Runcisvalle,
incontrai uno
scolaio
su 'n un
muletto vaio,
che venia da
Bologna,
e sanza dir
menzogna
molt' era
savio e prode:
ma lascio
star le lode,
che sarebbono
assai.
Io lo pur
dimandai
novelle di
Toscana
in dolce
lingua e piana;
ed e'
cortesemente
mi disee
immantenente
che guelfi di
Firenza
per mala
provedenza
e per forza
di guerra
eran fuor de
la terra,
e 'l
dannaggio era forte
di pregioni e
di morte.
Ed io,
ponendo cura,
tornai a la
natura
ch'audivi dir
che tene
ogn'om ch'al
mondo vene:
nasce
prim[er]amente
al padre e a'
parenti,
e poi al suo
Comuno;
ond' io non
so nessuno
ch'io volesse
vedere
la mia
cittade avere
del tutto a
la sua guisa,
né che fosse
in divisa;
ma tutti per
comune
tirassero una
fune
di pace e di
benfare,
ché già non
può scampare
terra rotta
di parte.
Certo lo cor
mi parte
di cotanto
dolore,
pensando il
grande onore
e la ricca
potenza
che suole
aver Fiorenza
quasi nel
mondo tutto;
e io, in tal
corrotto
pensando a
capo chino,
perdei il
gran cammino,
e tenni a la
traversa
d'una selva
diversa.
III
Ma tornando a
la mente,
mi volsi e
posi mente
intorno a la
montagna;
e vidi turba
magna
di diversi
animali,
che non so
ben dir quali:
ma omini e
moglieri,
bestie,
serpent' e fiere,
e pesci a
grandi schiere,
e di molte
maniere
ucelli
voladori,
ed erbi e
frutti e fiori,
e pietre e
margarite
che son molto
gradite,
e altre cose
tante
che null'omo
parlante
le porria
nominare
né 'n parte
divisare.
Ma tanto ne
so dire:
ch'io le vidi
ubidire,
finire e
cominciare,
morire e
'ngenerare
e prender lor
natura,
sì come una
figura
ch'i vidi,
comandava.
Ed ella mi
sembrava
come fosse
incarnata:
talora
isfigurata;
talor toccava
il cielo,
sì che parea
su' velo,
e talor lo
mutava,
e talor lo
turbava
(al suo
comandamento
movëa il
fermamento);
e talor si
spandea,
sì che 'l
mondo parea
tutto nelle
sue braccia;
or le ride la
faccia,
un'ora
cruccia e duole,
poi torna
come sòle.
E io, ponendo
mente
a l'alto
convenente
e a la gran
potenza
ch'avea, e la
licenza,
uscìo de·rreo
pensiero
ch'io avëa
primero,
e fe'
proponimento
di fare un
ardimento
per gire in
sua presenza
con degna
reverenza,
in guisa
ch'io vedere
la potessi, e
savere
certanza di
suo stato.
E poi ch'i'
l'ei pensato,
n'andai
davanti lei
e drizzai gli
occhi miei
a mirar suo
corsaggio.
E tanto vi
diraggio,
che troppo
era gran festa
li capel de
la testa,
si ch'io
credea che 'l crino
fosse d'un
oro fino
partito sanza
trezze;
e l'altre
gran bellezze
ch'al volto
son congiunte
sotto la
bianca fronte,
li belli
occhi e le ciglia
e le labbra
vermiglia
e lo naso
afilato
e lo dente
argentato,
la gola
biancicante
e l'altre
biltà tante
composte ed
asettate
e 'n su' loco
ordinate,
lascio che
no·lle dica,
né certo per
fatica
né per altra
paura:
ma lingua né
scrittura
non seria
soficente
a dir
compiutamente
le bellezze
ch'avea,
né quant'
ella potea
in aria e in
terra e in mare
e 'n fare e in
disfare
e 'n generar
di nuovo,
o di congetto
o d'ovo
o d'altra
incomincianza,
ciascuna in
sua sembianza.
E vidi in sua
fattura
ched ogne
creatura
ch'avea
cominciamento,
venï' a
finimento.
IV
Ma puoi
ch'ella mi vide,
la sua cera
che ride
inver' di me
si volse,
e puoi a sé
m'acolse
molto
covertamente,
e disse
immantenente:
“Io sono la
Natura,
e sono una
fattura
de lo sovran
Fattore.
Elli è mio
creatore:
io son da Lui
creata
e fui
incominciata;
ma la Sua
gran possanza
fue sanza
comincianza.
E' non fina
né more;
ma tutto mio
labore,
quanto che io
l'alumi,
convien che
si consumi.
Esso è
onipotente;
ma io non
pos' neente
se non quanto
concede.
Esso tanto
provede
e è in ogne
lato
e sa ciò ch'è
passato
e 'l futuro e
'l presente;
ma io non son
saccente
se non di
quel che vuole:
mostrami,
come suole,
quello che
vuol ch'i' faccia
e che vol
ch'io disfaccia,
ond'io son
Sua ovrera
di ciò
ch'Esso m'impera.
Così in terra
e in aria
m'ha fatta
sua vicaria:
Esso dispose
il mondo,
e io poscia
secondo
lo Suo
comandamento
lo guido a
Suo talento.
V
A te dico,
che m'odi,
che quattro
so·lli modi
che Colui che
governa
lo secolo in
eterna,
mise ['n]
operamento
a lo
componimento
di tutte
quante cose
son, palese e
nascose.
L'una,
ch'eternalmente
fue in divina
mente
immagine e
figura
di tutta Sua
fattura;
e fue questa
sembianza
lo mondo in
somiglianza.
Di poi, al
Suo parvente
sì creò di
neente
una grossa
matera,
che non avea
manera
né figura né
forma,
ma sì fu di
tal norma,
che ne potea
ritrare
ciò che volea
formare.
Poi, lo Suo
intendimento
mettendo a
compimento,
sì lo
produsse in fatto;
ma non fece
sì ratto,
né non ci fu
sì pronto,
ch'Elli in un
solo punto
lo volessi
compiére,
com' Elli
avea il podere:
ma sei giorni
durao,
il settimo
posao.
Apresso il
quarto modo
è questo ond'
io godo,
ch'ad ogne
crëatura
dispuose per
misura
secondo il
convenente
suo corso e
sua semente;
e a questa
quarta parte
ha loco la
mi' arte,
sì che cosa
che sia
non ha nulla
balìa
di far né più
né meno
se non a
questo freno.
Ben dico
veramente
che Dio
onnipotente,
Quello ch'è
capo e fine,
per gran
forze divine
pò in ogne
figura
alterar la
natura
e far Suo
movimento
di tutto
ordinamento:
sì come déi
savere,
quando degnò
venire
la Maestà
sovrana
a prender
carne umana
nella Virgo
Maria,
che contra
l'arte mia
fu 'l suo
ingeneramento
e lo Suo
nascimento,
ché davanti e
da puoi,
sì come savén
noi,
fue netta e
casta tutta,
vergine non
corrotta.
Poi volse
Idio morire
per voi gente
guerire
e per vostro
soccorso;
allor tutto
mio corso
mutò per
tutto 'l mondo
dal cielo
infi·l profondo,
ché 'l sole
iscurao,
la terra
termentao:
tutto questo
avenia
chè 'l mio
Segnor patia.
E perciò che
'l me' dire
io lo voglio
ischiarire,
sì ch'io non
dica motto
che tu non
sappie 'n tutto
la verace
ragione
e la
condizïone,
farò mio
detto piano,
che pur un
solo grano
non sia che
tu non sacci:
ma vo' che
tanto facci,
che lo mio
dire aprendi,
sì che tutto
lo 'ntendi;
e s'io
parlassi iscuro,
ben ti faccio
sicuro
di dicerlo in
aperto,
sì che ne sie
ben certo.
Ma perciò che
la rima
si stringe a
una lima
di concordar
parole
come la rima
vuole,
sì che molte
fiate
le parole
rimate
ascondon la
sentenza
e mutan la
'ntendenza,
quando vorrò
trattare
di cose che
rimare
tenesse
oscuritate,
con bella
brevetate
ti parlerò
per prosa,
e disporrò la
cosa
parlandoti in
volgare,
che tu
intende ed apare.
VI
Omai a ciò
ritorno,
che Dio fece
lo giorno
e la luce
gioconda
e cielo e
terra ed onda,
e l'aire
crëao
e li angeli
fermao,
ciascun
partitamente:
e tutto di
neente.
Poi la
seconda dia
per la Sua
gran balìa
stabilìo 'l
fermamento
e 'l suo
ordinamento.
Il terzo, ciò
mi pare,
ispecificò 'l
mare
e la terra
divise
e 'n ella
fece e mise
ogne cosa
barbata
che 'n terra
e radicata.
Al quarto dì
presente
fece
compiutamente
tutte le
luminare,
stelle
diverse e vare.
Nella quinta
giornata
sì fu da Lui
crëata
ciascuna
crëatura
che nota in
acqua pura.
Lo sesto dì
fu tale,
che fece
ogn'animale,
e fece Adamo
ed Eva,
che puoi
ruppe la treva
del Suo
comandamento.
Per quel
trapassamento
mantenente fu
miso
fòra di
Paradiso,
dov'era ogne
diletto,
sanza neuno
espetto
di fredo o di
calore,
d'ira né di
dolore;
e per quello
peccato
lo loco fue
vietato
mai sempre a
tutta gente.
Così fu l'uom
perdente:
d'esto
peccato tale
divenne l'om
mortale,
e ha lo male
e 'l danno
e l'agravoso
afanno
qui e
nell'altro mondo.
Di questo
greve pondo
son gli
uomini gravati
e venuti em
peccati,
perché 'l
serpente antico,
che è nostro
nemico,
sodusse a rea
maniera
quella
primaia mogliera.
Ma per lo mio
sermone
intendi la
ragione
perché fu
ella fatta
e de la costa
tratta:
prima, che
l'uomo atasse;
poi, che
multipricasse,
e ciascun si
guardasse
con altra non
fallasse.
Omai il
coninciamento
e 'l primo
nascimento
di tutte
crëature
t'ho detto,
se me cure.
Ma sacce che
'n due guise
lo Fattor lo
devise:
ché l'une
veramente
son fatte di
neente,
ciò son
l'anim' e 'l mondo,
e li angeli
secondo;
ma tutte
l'altre cose,
quantunque
dicere ose,
son d'alcuna
matera
fatte per lor
manera”.
VII
E poi che
l'ebbe detto,
davanti al
suo cospetto
mi parve
ch'io vedesse
che gente
s'acogliesse
di tutte le
nature
(sì come le
figure
son tutte
divisate
e
diversificate),
per domandar
da essa
ch'a ciascun
sia permessa
sua bisogna
compiére;
ed essa,
ch'al ver dire
ad ognuna
rendea
ciò ched ella
sapea
che 'l suo
stato richiede,
così in tutto
provede.
E io, sol per
mirare
lo suo nobile
affare,
quasi tutto
smarrìo;
ma tant' era
'l disio,
ch'io avea,
di sapere
tutte le cose
vere
di ciò
ch'ella dicea,
ch'ognora mi
parea
maggior che
tutto 'l giorno:
sì ch'io non
volsi torno,
anzi
m'inginocchiai
e merzé le
chiamai
per Dio, che
le piacesse
ched ella
m'acompiesse
tutta la
grande storia
ond'ella fa
memoria.
Ella disse
esavia:
“Amico, io
ben vorria
che ciò che
vuoli intendere
tu lo potessi
imprendere,
e sì sotile
ingegno
e tanto buon
ritegno
avessi, che
certanza
d'ognuna
sottiglianza
ch'io volessi
ritrare,
tu potessi
aparare
e ritenere a
mente
a tutto 'l
tuo vivente.
E comincio da
prima
al sommo ed a
la cima
de le cose
crëate,
di ragione
informate
d'angelica
sustanza,
che Dio a Sua
sembianza
crëò a la
primera.
Di sì ricca
manera
li fece in
tutte guise
che 'n esse
furo assise
tutte le
buone cose
valenti e
prezïose
e tutte le
vertute
ed eternal
salute;
e diede lor
bellezza
di membra e
di clarezza,
sì ch'ogne
cosa avanza
biltate e
beninanza;
e fece lor
vantaggio
tal chent' io
diraggio:
che non
possen morire
né unquema'
finire.
E quando
Lucifero
si vide così
clero
e in sì
grande stato
grandito ed
innorato,
di ciò
s'insuperbio,
e 'ncontro al
vero Dio,
Quello che
l'avea fatto,
pensao d'un
maltratto,
credendo Elli
esser pare.
Così volse
locare
sua sedia in
aquilone,
ma la sua
pensagione
li venne sì
falluta
che fu tutt'
abattuta
sua folle sorcudanza,
in sì gran
malenanza
che, s'io
voglio 'l ver dire,
chi lo volse
seguire
o tenersi con
esso
de regno for
fu messo,
e piovvero in
inferno
e 'n fuoco
sempiterno.
Apresso
imprimamente
in guisa di
serpente
ingannò collo
ramo
Eva, e poi
Adamo;
e chi chi
neghi o dica,
tutta la gran
fatica,
la doglia e
'l marrimento,
lo danno e 'l
pensamento
e l'angoscia
e le pene
che la gente
sostene,
lo giorno e
'l mese e l'anno,
venne da
quello inganno;
e·lado
ingenerare
e lo grave
portare
e 'l parto
doloroso
e 'l nudrir
faticoso
che voi ci
sofferite,
tutto per ciò
l'avete;
lavorero di
terra,
astio,
invidia e guerra,
omicidio a
peccato
di ciò fue
coninciato:
ché 'nanti
questo tutto
facea la
terra frutto
sanza nulla
semente
o briga d'on
vivente.
Ma questa
sottiltate
tocc' a
Divinitate,
ed io non
m'intrametto
di punto così
stretto,
e non aggio
talento
di sì gran
fondamento
trattar con
omo nato.
Ma quello che
m'è dato,
io lo faccio
sovente:
che se tu
poni mente,
ben vedi li
animali
ch'io no·lli
faccio iguali
né d'una
concordanza
in vista né
in sembianza;
erbe e fiori
e frutti,
così gli
albori tutti:
vedi che son
divisi
le natur' e
li visi.
Acciò che
t'ho contato
che l'omo fu
plasmato
posci' ogne
crëatura,
se ci ponessi
cura,
vedrai
palesemente
che Dio
onnipotente
volse tutto
labore
finir nello
migliore:
ca chi ben
inconinza
audivi per
sentenza
ched ha bon
mezzo fatto;
ma guardi,
puoi dal tratto,
ca di reo
compimento
aven
dibassamento
di tutto 'l
convenente;
ma chi
orratamente
fina suo
coninciato,
da la gente è
laudato,
sì come dice
un motto:
"La fine
loda tutto".
E tutto ciò
ch'on face,
pensa o parla
o tace,
a tutte guise
intende
a la fine
ch'atende:
dunqu' è più
grazìosa
la fine
d'ogne cosa
che tutto
l'altro fatto.
Però ad ogne
patto
dé omo
accivire
ciò che
porria seguire
di quella che
conenza,
ch'aia bella
partenza.
E l'om, se
Dio mi vaglia,
crëato fu
san' faglia
la più nobile
cosa
e degna e
prezïosa
di tutte
crëature:
così Que'
ch'è 'n alture
li diede
segnoria
d'ogne cosa
che sia
in terra
figurata;
ver' è ch'è
'nvizïata
de lo primo
peccato
dond' è 'l
mondo turbato.
Vedi
ch'ogn'animale
per forza
naturale
la testa e 'l
viso bassa
verso la
terra bassa,
per far
significanza
de la grande
bassanza
di lor
condizïone,
che son sanza
ragione
e seguon lor
volere
sanza misura
avere:
ma l'omo ha
d'alta guisa
sua natura
divisa
per vantaggio
d'onore,
che 'n alto a
tutte l'ore
mira per
dimostrare
lo suo nobile
affare,
ched ha per
conoscenza
e ragione e
scienza.
Dell'anima
dell'uomo
io ti
diraggio como
è tanto degna
e cara
e nobile e
preclara
che pote a
compimento
aver
conoscimento
di ciò ch'è
ordinato
(sol se·nno
fue servato
in divina
potenza):
però sanza
fallenza
fue l'anima
locata
e messa e
consolata
ne lo più
degno loco,
ancor che sïa
poco,
ched è
chiamato core.
Ma 'l capo
n'è segnore,
ch'è molto
degno membro;
e s'io ben mi
rimembro,
esso è lume e
corona
di tutta la
persona.
Ben è vero
che 'l nome
è divisato,
come
la forza e la
scïenza:
ché l'anima
in parvenza
si divide e
si parte
e ovra in
prusor parte.
Che se tu
poni cura
quando la
crïatura
vede
vivificata,
è anima
chiamata;
ma la voglia
e l'ardire
usa la gente
dire:
"Quest'
è l'animo mio,
questo voglio
e disio";
e l'om savio
e saccente
dicon c'ha
buona mente;
e chi sa
giudicare
e per certo
trïare
lo falso dal
diritto,
ragione è
nome detto;
e chi
saputamente
un grave
punto sente
in fatt' o in
dett' o in cenno,
quelli è
chiamato senno;
e quando
l'omo spira,
l'alena manda
e tira,
è spirito
chiarnato.
Così t'aggio
contato
che 'n queste
sei partute
si parte la
vertute
ch'all'anima
fu data,
e così
consolata.
Nel capo son
tre çelle,
e io dirò di
quelle.
Davanti è lo
ricetto
di tutto lo
'ntelletto
e la forza
d'aprendere
quello che
puoi intendere;
in mezzo è la
ragione
e la discrezïone,
che cerne ben
da male,
e lo torto e
l'iguale;
di dietro sta
con gloria
la valente
memoria,
che ricorda e
ritene
quello che 'n
esso avene.
Così, se tu
ti pensi,
son fatti
cinque sensi,
d'i quai ti
voglio dire:
lo vedere e
l'udire,
l'odorare e
'l gostare,
e dapoi lo
toccare;
questi hanno
per ofizio
che lo bene e
lo vizio,
li fatti e le
favelle
ritornano a
le zelle
ch'i' v'aggio
nominate,
e loco son
pesate.
VIII
Ancor son
quattro omori
di diversi
colori,
che per la
lor cagione
fanno la
compressione
d'ogne cosa
formare
e sovente
mutare,
sì come l'una
avanza
le altre in
sua possanza:
ché l'una è
'n segnoria
de la
malinconia,
la quale è
freda e secca,
certo di lada
tecca;
un'altr' è in
podere
di sangue, al
mio parere,
ch'è caldo ed
omoroso
e fresco e
gioioso;
frema in alto
monta,
ch'umido e
fredo pont' à,
e par che sia
pesante
quell'omo, e
più pensante;
poi la
collera vene,
che caldo e
secco tene,
e fa l'omo
leggiero,
presto e
talor fero.
E queste
quattro cose,
così
contrarïose
e tanto
disiguali,
in tutti
l'animali
mi convene
acordare
ed i·lor
temperare,
e rinfrenar
ciascuno,
si ch'io li
torni a uno,
si ch'ogne
corpo nato
ne sia
compressionato;
e sacce
ch'altremente
non si faria
neente.
IX
Altresì tutto
'l mondo
dal ciel fin
lo profondo
è di quattro
aulimenti
fatto
ordinatamenti:
d'aria,
d'acqua e di foco
e di terra in
suo loco;
ché, per
fermarlo bene,
sottilmente
convene
lo fredo per
calore
e 'l secco
per l'omore
e tutti per
ciascuno
sì rinfrenar
a uno
che la lor
discordanza
ritorni in
iguaglianza:
ché ciascuno
è contrario
a l'altro
ch'è disvario.
Ogn'omo ha
sua natura
e diversa
fattura,
e son talor
dispàri:
ma io li
faccio pari,
e tutta lor
discordia
ritorno in
tal concordia,
che io per
lo·ritegno
lo mondo e lo
sostegno,
salva la
volontade
de la
Divinitade.
X
Ben dico
veramente
che Dio
onnipotente
fece sette
pianete,
ciascuna in
sua parete,
e dodici
segnali
(io ti dirò
ben quali);
e fue il Suo
volere
di donar lor
podere
in tutte crëature
secondo lor
nature.
Ma sanza
fallimento
sotto meo
reggimento
è tutta la
loro arte,
sicché nesun
si parte
dal corso che
li ho dato,
a ciascun
misurato.
E dicendo lo
vero,
cotal è lor
mistiero,
che metton
forza e cura
in dar fredo
e calura
e piova e
neve e vento,
sereno e
turbamento.
E s'altra
provedenza
fue messa
i·llor parvenza,
no 'nde farò
menzione,
ché picciola
cagione
ti porria far
errare:
ché tu déi
pur pensare
che le cose
future,
e l'aperte e
le scure,
la somma
Maestate
ritenne in potestate.
Ma se di
storlomia
vorrai saper
la via,
de la luna e
del sole
come saper si
vuole,
e di tutte
pianete,
qua 'nanzi
l'udirete,
andando in
quelle parte
dove son le
sette arte.
Ben so che
lungiamente
intorno al
convenente
aggioti
ragionato,
sl ch'io
t'aggio contato
una lunga
matera
certo in
breve manera.
E se m'hai
bene inteso,
nel mio dire
ho compreso
tutto 'l
coninciamento
e 'l primo
nascimento
d'ogne cosa
mondana
e de la gente
umana;
e hotti detto
un poco,
come s'avene
loco,
de la
Divinitate;
e holle
intralasciate,
sì come
quella cosa
ched è sì
prezïosa
e sì alta e
sì degna
che non par
che s'avegna
che mette
intendimento
in sì gran
fondamento:
ma tu
sempicemente
credi
veracemente
ciò che la
Chiesa Santa
ne predica e
ne canta.
Apresso t'ho
contato
del ciel com'
è stellato,
ma quando fie
stagione
udirai la
cagione
del ciel com'
è ritondo
e del sido
del mondo.
Ma non sarà
pe·rima,
com' e
scritto di prima
ma per piano
volgare
ti fie detto
l'affare
e mostrato in
aperto,
che ne sarai
ben certo.
Ond'io ti
priego ormai,
per la fede
che m'hai,
che ti
piaccia partire:
ché mi
conviene gire
per lo mondo
d'intorno,
e di notte e
di giorno
avere studio
e cura
in ogne
crëatura
ch'è sotto
mio mestero;
e faccio a
Dio preghiero
che ti
conduca e guidi
en tutte
parti, e fidi”.
XI
Apresso esta
parola
voltò 'l viso
e la gola,
e fecemi
sembianza
che sanza
dimoranza
volesse
visitare
e li fiumi e
lo mare.
E, sanza dir
fallenza,
ben ha grande
potenza,
ché, s'io vo'
dir lo vero,
lo suo alto
mistero
è una
maraviglia:
ché 'n un'ora
compiglia
e cielo e
terra e mare
compiendo suo
affare,
ché 'n così
poco stando
al suo breve
comando
io vidi
apertamente,
come fosse
presente,
i fiumi
principali,
che son
quattro, li quali,
secondo il
mio aviso,
movon di Paradiso,
ciò son Tigre
e Fisòn,
Eofrade e
Gïòn.
L'un se ne
passa a destra
e l'altro
ver' sinestra,
lo terzo
corre in zae
e 'l quarto
va di lae:
sì ch'Eufrade
passa
ver'
Babillona cassa
i·Mesopotanìa,
e mena
tuttavia
le pietre
preziose
e gemme
dignitose
di troppo
gran valore
per forza e
per colore.
Gïòn va in
Etïopia,
e per la
grande copia
d'acqua che
'n esso abonda,
bagna de la
sua onda
tutta terra
d'Egitto
e l'amolla a
diritto
una fiata
l'anno
e ristora lo
danno
che lo 'Gitto
sostene,
che mai
pioggia non viene:
così serva
su' filo
ed è chiamato
Nilo;
d'un su' ramo
si dice
ched ha nome
Calice.
Tigre tien
altra via,
chè corre per
Soria
sì
smisuratamente
che non è om
vivente
che dica che
vedesse
cosa che sì
corresse.
Fisòn va più
lontano,
ed è da noi
sì strano
che, quando
ne ragiono,
io non trovo
nessuno
che l'abbia
navicato,
né 'n quelle
parti andato.
E in poca
dimora
provide per
misura
le parti del
Levante,
lì dove sono
tante
gemme di gran
vertute
e di molte
salute;
e sono in
quello giro
balsime ed
ambra e tiro
e lo pepe e
lo legno
aloè, ch'è sì
degno,
e spigo e
cardamomo,
gengiov' e
cennamomo
e altre molte
spezie,
che ciascuna
in sua spezie
è migliore e
più fina
e sana in
medicina.
Apresso in
questo poco
mise in
asetto loco
le tigre e li
grifoni
e leofanti e
leoni,
cammelli e
drugomene
e badalischi
e gene
e pantere e
castoro,
le formiche
dell'oro
e tanti altri
animali
ch'io non
posso dir quali,
che son sì
divisati
e sì
dissomigliati
di corpo e di
fazzone,
di sì fera
ragîone
e di sì
strana taglia
ch'io non
credo, san' faglia,
ch'alcuno omo
vivente
potesse
veramente
per lingua o
per scritture
recittar le
figure
de le bestie
ed uccelli,
tanto son,
laidi e belli.
Poi vidi
immantenente
la regina
piagente
che stendëa
la mano
verso 'l mare
Ucïano,
quel che
cinge la terra
e che la
cerchia e serra,
e ha una
natura
ch'è a veder
ben dura,
ch'un'ora
cresce molto
e fa grande
timolto,
poi torna in
dibassanza;
così fa per
usanza:
or prende
terra, or lassa,
or monta, or
dibassa;
e la gente
per motto
dicon c'ha
nome fiotto.
E io, ponendo
mente
là oltre nel
ponente
apresso
questo mare,
vidi diritto
stare
gran colonne,
le quale
vi pose per
segnale
Ercolès lo
potente,
per mostrare
a la gente
che loco sia
finata
la terra e
terminata:
ch'egli per
forte guerra
avea vinta la
terra
per tutto
l'uccidente,
e non trova
più gente.
Ma doppo la
Sua morte
sì son gente
raccorte
e sono oltre
passati,
sì che sono
abitati
di là, in bel
paese
e ricco per
le spese.
Di questo mar
ch'i' dico
vidi per uso
antico
nella
perfonda Spagna
partire una
rigagna
di questo
nostro mare,
che cerehia,
ciò mi pare,
quasi lo
mondo tutto,
sì che per
suo condotto
ben pò chi sa
dell'arte
navicar tutte
parte,
e gire in
quella guisa
di Spagna
infin a Pisa
e 'n Grecia
ed in Toscana
e 'n terra
ciciliana
e nel Levante
dritto
e in terra
d'Igitto.
Ver' è che 'n
orïente
lo mar volta
presente
ver' lo
settantrïone
per una
regïone
dove lo mar
non piglia
terra che
sette miglia;
poi torna in
ampiezza,
e poi in tale
stremezza
ch'io non
credo che passi
che
cinquecento passi.
Da questo mar
si parte
lo mar che
non comparte,
là 'v'e la
regïone
di Vinegia e
d'Ancone:
così
ogn'altro mare
che per la
terra pare
di traverso e
d'intorno,
si move e fa
ritorno
in questo mar
pisano
ov'è 'l mare
Occïano.
E io che mi sforzava
di ciò che io
mirava
saver lo
certo stato,
tanto andai
d'ogne lato
ch'io vidi
apertamente,
davanti al
mio vidente,
di ciascuno
animale
e lo bene e
lo male
e la lor
condizione
e la
'ngenerazione
e lo lor
nascimento
e lo
cominciamento
e tutta loro
usanza,
la vista e la
sembianza.
Ond'io aggio
talento
nello mio
parlamento
ritrare ciò
ch'io vidi.
Non dico
ch'io m'afidi
di contarlo
pe·rima
dal piè fin a
la cima,
ma 'n bel
volgare e puro,
tal che non
sia oscuro,
vi dicerò per
prosa
quasi tutta
la cosa
qua 'nanti da
la fine,
perché paia
più fine.
XII
Da poi ch'a
la Natura
parve che
fosse l'ora
del mio
dipartimento,
con gaio
parlamento
sl cominciò a
dire
parole da
partire
con grazia e
con amore;
e faccendomi
onore
disse: “Fi'
di Latino,
guarda che 'l
gran cammino
non torni
esta semmana,
ma questa
selva piana,
che tu vedi a
sinestra,
cavalcherai a
destra.
Non ti paia
travaglia,
ché tu vedrai
san' faglia
tutte le gran
sentenze
e le dure
credenze;
e poi da
l'altra via
vedrai
Fisolofia
e tutte sue
sorelle;
e poi udrai
novelle
de le quattro
Vertute;
e se quindi
ti mute,
troverai la
Ventura;
a cui se poni
cura,
ché non ha
certa via,
vedrai
Baratteria,
che 'n sua
corte si tene
di diare e
male e bene;
e se non hai
timore,
vedrai i·Dio
d'Amore,
e vedrai
molte gente
che 'l
servono umilmente,
e vedrai le
saette
che fuor de
l'arco mette.
Ma perché tu
non cassi
in questi
duri passi,
te', porta
questa segna
che nel mio
nome regna.
E se tu fossi
giunto
d'alcun
gravoso punto,
tosto lo
mostra fuore:
non fia sì
duro core
che per la
mia temenza
non t'aggia
in reverenza”.
E io
gechitamente
ricevetti 'l
presente,
la 'nsegna
che mi diede;
poi le
basciai il piede
e mercé le
gridai,
ch'ella
m'avesse ormai
per suo
racomandato.
E quando io
fui girato,
già più
no·lla rividi.
Or conven
ch'io mi guidi
ver' là dove
mi disse
'nanti che si
partisse.
XIII
Or va mastro
Burnetto
per un
sentiero stretto,
cercando di
vedere
e toccar e
sapere
ciò che l'è
destinato;
e non fu'
guari andato
ch'i' fu'
nella deserta,
dov' io non
trovai certa
né strada né
sentero.
Deh, che
paese fero
trovai in
quella parte!
Ché, s'io
sapesse d'arte,
quivi mi
bisognava,
ché, quanto
io più mirava,
più mi parea
salvaggio:
quivi non ha
vïaggio,
quivi non ha
magione,
quivi non ha
persone,
non bestia,
non uccello,
non fiume,
non ruscello,
né formica né
mosca
né cosa ch'io
cognosca.
Ed io,
pensando forte,
dottai ben de
la morte:
e non è
maraviglia,
ché ben
trecento miglia
durava d'ogne
lato
quel paese
ismaggiato.
Ma sì
m'asicurai
quando mi
ricordai
del sicuro
segnale
che contra
tutto male
mi dà
sicuramento;
e io presi
andamento
quasi per
aventura
per una valle
scura,
tanto ch'al
terzo giorno
io mi trovai
d'intorno
un grande
pian giocondo,
lo più gaio
del mondo
e lo più
dilettoso.
Ma ricontar
non oso
ciò ch'i'
trovai e vidi:
se Dio mi
porti e guidi,
io non sarei
creduto
di ciò ch'i'
ho veduto;
ch'i' vidi
imperadori
e re e gran
segnori,
e mastri di
scïenze
che dittavan
sentenze,
e vidi tante cose
che già in
rime né in prose
no·lle porria
contare;
ma sopra
tutti stare
vidi una
imperadrice
di cui la
gente dice
che ha nome
Vertute,
ed è capo e
salute
di tutta
costumanza
e de la buona
usanza
e d'i be'
reggimenti
a che vivon
le genti;
e vidi agli occhi
miei
esser nate di
lei
quattro
regine figlie;
e strane
maraviglie
vidi di
ciascheduna,
ch'or mi
parea pur una,
or mi parean
divise
e 'n quattro
parti mise,
sì ch'ognuna
per séne
tenean sue
propie mene,
ed avean su'
legnaggio,
su' corso e
su' vïaggio,
e 'n sua
propria magione
tenean corte
e ragione;
ma non già di
paraggio,
ché l'un' è
troppo maggio,
e poi di
grado a grado
catuna va più
rado.
XIV
di più certo
sapere
la natura del
fatto,
mi mossi
sanza patto
di domandar
fidanza,
e trassimi a
l'avanza
de la corte
maggiore,
che v'è
scritto 'l tenore
d'una cotal
sentenza:
“Qui demora
Prodenza,
cui la gente
in volgare
suole Senno
chiamare”.
E vidi ne la
corte,
là dentro fra
le porte,
quattro donne
reali
che corte
principali
tenean ragion
ed uso.
Poi mi tornai
là giuso
a un altro
palazzo,
e vidi in
bello stazzo
scritto per
sottiglianza:
“Qui sta la
Temperanza,
cui la gente
talora
suol chiamare
Misura”.
E vidi là
d'intorno
dimorare a
soggiorno
cinque gran
principesse,
e vidi ch'elle
stesse
tenean gran
parlamento
di ricco
insegnamento.
Poi
nell'altra magione
vidi in un
gran pedrone
scritto per
sottigliezza:
“Qui dimora
Fortezza,
cui talor per
usaggio
Valenza di
coraggio
la chiama
alcuna gente”.
Poi vidi
immantenente
quattro ricche
contesse,
e gente rade
e spesse
che stavano a
udire
ciò ch'elle
volean dire.
E partendomi
un poco,
io vidi in
altro loco
la donna
incoronata
per una
caminata,
che menava
gran festa
e talor gran
tempesta;
e vidi che lo
scritto,
ch'era di
sopra fitto
in lettera
dorata,
dicea: “Io
son chiamata
Giustizia in
ogne parte”.
E vidi
i·l'altra parte
quattro
maestre grandi,
e a li lor
comandi
si stavano
ubidenti
quasi tutte
le genti.
Così, s'i'
non misconto,
eran venti
per conto
queste donne
reali
che de le
principali
son nate per
lignaggio,
sì come detto
v'aggio.
E s'io contar
volesse
ciò ch'io ben
vidi d'esse
insieme ed in
divisa,
non credo
i·nulla guisa
che
iscrittura capesse
né che lingua
potesse
divisar lor
grandore,
né 'l bene né
'l valore.
Però più non
ne dico;
ma sì pensai
con meco
che quattro
n'ha tra loro
cu' i' credo
ed adoro
assai più
coralmente,
perché 'l lor
convenente
mi par più
grazïoso
e a la gente
in uso:
Cortesia e
Larghezza
e Leanza e
Prodezza.
Di tutte e
quattro queste
il puro sanza
veste
dirò in
questo libretto:
dell'altre
non prometto
di dir né di
ritrare;
ma chi 'l
vorrà trovare,
cerchi nel
gran Tesoro
ch'io fatt'
ho per coloro
c'hanno il
core più alto:
là farò
grande salto
per dirle più
distese
ne la lingua
franzese.
XV
Ond' io
ritorno ormai
per dir come
trovai
le tre a gran
dilizia
in casa di
Giustizia,
ché son sue
descendenti
e nate di
parenti.
E io m'andai
da canto
e dimora'vi
tanto
ched i' vidi
Larghezza
mostrare con
pianezza
ad un bel
cavalero
come nel suo
mistero
si dovesse
portare.
E dicìe, ciò
mi pare:
“Se tu vuol'
esser mio,
di tanto
t'afid' io,
che nullo
tempo mai
di me mal non
avrai,
anzi sarai
tuttore
in grandezza
e in onore,
ché già om
per larghezza
non venne in
poverezza.
Ver' è
ch'assai persone
dicon ch'a
mia cagione
hanno l'aver
perduto,
e ch'è loro
avenuto
perché son
larghi stati;
ma troppo
sono errati:
ché, como è
largo quelli
che par che
s'acapilli
per una poca
cosa
ove onor
grande posa,
e 'n un'altra
bruttezza
farà sì
gra·larghezza
che fie
dismisuranza?
Ma tu sappie
'n certanza
che null' ora
che sia
venir non ti
poria
la tua
ricchezza meno
se ti tieni
al mio freno
nel modo
ch'io diraggio:
ché quelli è
largo e saggio
che spende lo
danaro
per salvar
l'ogostaro.
Però in ogne
lato
ti membri di
tu' stato
e spendi
allegramente;
e non vo' che
sgomente
se più che
sia ragione
despendi a le
stagione,
anz' è di mio
volere
che tu di non
vedere
te infinghi a
le fïate,
se danari o
derrate
ne vanno per
onore:
pensa che sia
il migliore.
E se cosa adivenga
che spender
ti convenga,
guarda che
sia intento,
sì che non
paie lento:
ché dare
tostamente
è donar
doppiamente,
e dar come
sforzato
perde lo dono
e 'l grato;
ché molto più
risplende
lo poco, chi
lo spende
tosto e a
larga mano,
che que' che
da lontano
dispende gran
ricchezza
e tardi, con
durezza.
Ma tuttavia
ti guarda
d'una cosa
che 'mbarda
la gente più
che 'l grado,
cioè gioco di
dado:
ché non è di
mia parte
chi si gitta
in quell'arte,
anz' è
disvïamento
e grande
struggimento.
Ma tanto dico
bene,
se talor ti
convene
giocar per
far onore
ad amico o a
segnore,
che tu
giuochi al più grosso,
e non dire:
"I' non posso".
Non abbie in
ciò vilezza,
ma lieta
gagliardezza;
e se tu perdi
posta,
paia che non
ti costa:
non dicer
villania
né mal motto
che sia.
Ancor, chi
s'abandona
per astio di
persona,
e per sua
vanagroria
esce de la
memoria
a spender
malamente,
non m'agrada
neente;
e molto m'è
rubello
chi dispende
in bordello
e va perdendo
'l giorno
in femine
d'intorno.
Ma chi di suo
bon core
amasse per
amore
una donna
valente,
se talor
largamente
dispendesse o
donasse
(non sì che
folleggiasse),
be·llo si
puote fare,
ma no'l
voglio aprovare.
E tegno
grande scherna
chi dispende
in taverna;
e chi in
ghiottornia
si getta, o
in beveria,
è peggio che
omo morto
e 'l suo
distrugge a torto.
E ho visto
persone
ch'a comperar
capone,
pernice e
grosso pesce,
lo spender
no·lli 'ncresce:
ché, come vol
sien cari,
pur trovansi
i danari,
sì pagan
mantenente,
e credon che
la gente
lili ponga
i·llarghezza;
ma ben è gran
vilezza
ingolar tanta
cosa
che già fare
non osa
conviti né
presenti,
ma colli
propî denti
mangia e
divora tutto:
ecco costume
brutto!
Mad io, s'i'
m'avedesse
ch'egli altro
ben facesse,
unqua di ben
mangiare
no·llo dovrei
blasmare:
ma chi 'l nasconde
e fugge
e consuma e
distrugge,
solo che ben
si pasce,
certo in mal
punto nasce.
Hacci gente
di corte
che sono use
ed acorte
a sollazzar
la gente,
ma domandan
sovente
danari e
vestimenti:
certo, se tu
ti senti
lo poder di
donare,
ben déi
corteseggiare,
guardando
d'ogne lato
di ciascun lo
suo stato;
ma già non
ublïare,
se tu puoi
megliorare
lo dono in
altro loco,
non ti vinca
per gioco
lusinga di
buffone:
guarda loco e
stagione.
Ancora abbi
paura
d'improntare
a usura;
ma se ti pur
convene
aver per
spender bene,
prego che
rende ivaccio,
ché non è bel
procaccio
né piacevol
convento
di diece
render cento:
già d'usura
che dài
nulla grazia
non hai;
né 'n ciò non
ha larghezza,
ma tua gran
pigrezza.
Ben forte mi
dispiace
e gran noia
mi face
donzello e
cavalero
che, quando
un forestero
passa per la
contrada,
non lascia
che non vada
a farli
compagnia
in casa e per
la via,
e gran cose
promette,
ma altro non
vi mette:
così ten
questa mena;
e chi lo
'nvita a cena,
terrebbe ben
lo 'nvito;
non farebbe
convito,
servigio né
presente.
Ma sai che
m'è piagente?
quando vene
un forese,
di farli ben
le spese
secondo che
s'aviene:
ché presentar
ritiene
amore ed
onoranza,
compagnia ed
usanza.
E sai ch'io
molto lodo?
che tu a ogne
modo
abbi di belli
arnesi
e privati e
palesi,
sì che 'n
casa e di fore
si paia 'l
tuo onore.
E se tu fai
convito
o corredo
bandito,
fa'l
provedutamente,
che non falli
neente:
di tutto
inanzi pensa;
e quando
siedi a mensa,
non far un
laido piglio,
non chiamare
a consiglio
sescalco né
sergente,
ché da tutta
la gente
sarai scarso
tenuto
e non ben
proveduto.
Omai t'ho
detto assai:
perciò ti
partirai,
e dritto per
la via
ne va' a
Cortesia,
e prega da
mia parte
che ti mostri
su' arte,
ché già non
veggo lume
sanza 'l su'
bon costume”.
XVI
Lo cavaler
valente
si mosse
inellamente
e gìo sanza
dimora
loco dove
dimora
Cortesia
grazïosa,
ln cui ognora
posa
pregio di
valimento,
e con bel
gechimento
la pregò che
'nsegnare
li dovess' e
mostrare
tutta la
maestria
di fina
cortesia.
Ed ella
immantenente
con buon viso
piacente
disse in
questa manera
lo fatto e la
matera:
“Sie certo
che Larghezza
è 'l capo e
la grandezza
di tutto mio
mistero,
sì ch'io non
vaglio guero,
e s'ella non
m'aita
poco sarei
gradita.
Ella è mio
fondamento,
e io suo
doramento
e colore e
vernice:
ma chi lo
buon ver dice,
se noi due
nomi avemo,
quasi una
cosa semo.
Ma a te,
bell' amico,
primeramente
dico
che nel tuo
parlamento
abbi
provedimento:
non sia
troppo parlante,
e pensati
davante
quello che
dir vorrai,
ché non
retorna mai
la parola
ch'è detta,
sì come la
saetta
che va e non
ritorna.
Chi ha la
lingua adorna,
poco senno
gli basta,
se per follia
no'l guasta.
E 'l detto
sia soave,
e guarda non
sia grave
in dir ne'
reggimenti,
ché non puo'
a le genti
far più
gravosa noia:
consiglio che
si moia
chi spiace
per gravezza,
ché mai non
si ne svezza;
e chi non ha
misura,
se fa 'l ben,
sì l'oscura.
Non sia
inizzatore,
né sia
redicitore
di quel
ch'altra persona
davante a te
ragiona;
né non usar
rampogna,
né dire
altrui menzogna,
né villania
d'alcuno:
ché già non è
nessuno
cui non posse
di botto
dicere
u·laido motto.
Né non sie sì
sicuro
che pur un
motto duro
ch'altra
persona tocca
t'esca fuor
de la bocca:
ché troppa
sicuranza
fa contra
buona usanza;
e chi sta lungo
via
guardi di dir
follia.
Ma sai che ti
comando
e pongo a
greve bando?
che l'amico
de bene
innora quanto
téne
a piede ed a
cavallo.
Né già per
poco fallo
non prender
grosso core,
per te non
falli amore.
E abbie
sempre a mente
d'usar con
buona gente,
e da l'altra
ti parti:
ché, sì come
dell'arti,
qualche vizio
n'aprendi,
sì ch'anzi
che t'amendi
n'avrai danno
e disnore.
Però a tutte
l'ore
ti tieni a
buona usanza,
perciò
ch'ella t'avanza
in pregio ed
in valore,
e fatt' esser
migliore
e dà bella
figura:
ché la buona
natura
si rischiara
e pulisce
se 'l buon
uso seguisce.
Ma guarda
tuttavia,
s'a quella
compagnia
tu paressi
gravoso,
di gir non
sie più oso,
mad altra ti
procaccia
a cui il tu'
fatto piaccia.
Amico, e
guarda bene,
con più ricco
di téne
non ti caglia
d'usare,
ch'o starai
per giullare
o spenderai
quant'essi:
che se tu
no'l facessi,
sarebbe
villania;
e pensa
tuttavia
che larga
inconincianza
sì vuol
perseveranza.
Dunque déi
provedere,
se 'l porta
tuo podere,
che 'l facci
apertamente;
se non, sì
poni mente
di non far
tanta spesa
che poscia
sia ripresa;
ma prendi
usanz' a tale
che sia con
teco iguale;
e s'avanzasse
un poco,
non ti smagar
di loco,
ma spendi di
paraggio:
non prendere
avantaggio.
E pensa ogne
fïata,
se nella tua
brigata
ha omo al tu'
parere
men potente
d'avere,
per Dio
no·llo sforzare
più che non
posse fare:
che se per
tu' conforto
il su'
dispende a torto
e torna in
basso stato,
tu ne sarai
biasmato.
Ma ben ci son
persone
d'altra
condizïone,
che si
chiaman gentili:
tutt' altri
tegnon vili
per cotal
gentilezza;
e a questa
baldezza
tal chiaman
mercennaio
che più tosto
uno staio
spenderia di
fiorini
ch'essi di
picciolini,
benché li lor
podere
fosseron d'un
valere.
E chi gentil
si tiene
sanza fare
altro bene
se non di quella
boce,
credesi far
la croce,
ma e' si fa
la fica:
chi non dura
fatica
sì che possa
valere,
non si creda
capere
tra gli
uomini valenti
perché sia di
gran genti;
ch'io gentil
tengo quelli
che par che
modo pilli
di grande
valimento
e di bel
nudrimento,
sì ch'oltre
suo lignaggio
fa cose
d'avantaggio
e vive
orratamente,
sì che piace
a le gente,
Ben dico, se
'n ben fare
sia l'uno e
l'altro pare,
quelli ch'è
meglio nato
è tenuto più
a grato,
non per mia
maestranza,
ma perch' è
sì usanza,
la qual vince
e rabatti
gran parte
d'i mie' fatti,
sì ch'altro
no ne posso:
ch'esto mondo
è sì grosso
che ben per
poco detto
si giudica 'l
diritto;
ché lo grande
e 'l minore
ci vivono a
romore.
Perciò ne sie
aveduto
di star tra
lor sì muto
chè non ne
faccia·risa:
pàssati a la
lor guisa,
che 'nanzi ti
comporto
che tu segue
lo torto;
che se pur
ben facessi,
da che lor
non piacessi,
nulla cosa ti
vale
e dir bene né
male.
Però non dir
novella
se non par
buona e bella
a ciascun che
la 'ntende,
ché tal ti ne
riprende
che aggiunge
bugia,
quando se'
ito via,
che ti déi
ben dolere.
Però déi tu
sapere
in cotal
compagnia
giucar di
maestria,
ciò è che
sappie dire
quel che deia
piacere;
e lo ben, se
'l saprai,
con altrui lo
dirai,
dove fie
conusciuto
e ben caro
tenuto,
ché molti
sconoscenti
troverai fra
le genti,
che metton
maggio cura
d'udire una
laidura
ch'una cosa
che vaglia:
trapassa e
non ti caglia.
E sie bene
apensato,
s'un om molto
pesato
alcuna volta
faccia
cosa che non
s'aggiaccia
in piazza né
in templo,
no 'nde
pigliare asemplo,
perciò che
non ha scusa
chi altrui
mal s'ausa.
E guarda non
errassi
se tu stessi
o andassi
con donna o
con segnore
o con altro
maggiore;
e benché sie
tuo pare,
che lo sappie
innorare,
ciascun per
lo su' stato.
Siene sì
ampensato,
e del più e
del meno,
che tu non
perdi freno;
ma già a tuo
minore
non render
più onore
ch'a luï si
convenga,
né ch'a vil
te ne tenga:
però, s'egli
è più basso,
va sempre
inanzi un passo.
E se vai a
cavallo,
guardati
d'ogne fallo;
quando vai
per cittade,
consiglioti
che vade
molto
cortesemente:
cavalca
bellamente,
un poco a
capo chino,
ch'andar così
'n disfreno
par gran
salvatichezza;
né non
guardar l'altezza
d'ogne casa
che truove;
guarda che
non ti move
com'on che
sia di villa;
non guizzar
com' anguilla,
ma va'
sicuramente
per vïa tra
la gente.
Chi ti chiede
in prestanza,
non fare
adimoranza
se tu li
vuol' prestare:
no'l far
tanto tardare
che 'l grado
sia perduto
anzi che sia
renduto.
E quando se'
in brigata,
seguisci ogne
fïata
lor via e lor
piacere,
ché tu non
déi volere
pur far a la
tua guisa,
né far di lor
divisa.
E guàrdati ad
ogn'ora
che laida
guardatura
non facci a
donna nata
a casa o
nella strata:
però chi fa
'l sembiante
e dice ch'è
amante,
è un briccon
tenuto.
E io ho già
veduto
solo d'una
canzone
peggiorar
condizione:
ché già 'n
questo paese
non piace tal
arnese.
E guarda in
tutte parti
ch'Amor già
per su' arti
non
t'infiammi lo core:
con ben grave
dolore
consumerai
tua vita,
né mai di mia
partita
non ti potrei
tenere,
se fossi in
suo podere.
Or ti torna a
magione,
ch'omai è la
stagione;
e sie largo e
cortese,
sì che 'n
ogne paese
tutto tuo
convenente
sia tenuto
piagente”.
XVII
Per così bel
commiato
n'andò da
l'altro lato
lo cavalier
gioioso,
e molto
confortoso
per sembianti
parea
di ciò
ch'udito avea;
e 'n questa
benenanza
se n'andò a
Leanza,
e lei si fece
conto,
e poi disse
suo conto
sì come parve
a lui:
e certo io
che vi fui
lodo ben sua
manera
e 'l costume
e la cera.
E vidi
Lealtate
che pur di
veritate
tenea suo
parlamento;
con bello
acoglimento
li disse:
“Ora m'intendi
e ciò ch'io
dico aprendi.
Amico,
primamente
consiglio che
non mente,
e 'n qual
parte che sia
tu non usar
bugia:
ch'on dice
che menzogna
ritorna in
gran vergogna
però c'ha
breve corso;
e quando vi
se' scorso,
se tu a le
fïate
dicessi
veritate,
non ti sarà
creduta.
Ma se tu hai
saputa
la verità
d'un fatto,
e poi per
dirla ratto
grave briga
nascesse,
certo, se la
tacesse,
se ne fossi
ripreso,
sarai da me
difeso.
E se tu hai
parente
o caro
benvogliente
cui la gente
riprenda
d'una laida
vicenda,
tu dê essere
acorto
a diritto ed
a torto
in dicer ben
di lui,
e per fare a
colui
discreder ciò
che dice;
e poi, quando
ti lice,
l'amico tuo
gastiga
del fatto
onde s'imbriga.
Cosa che tu
promette,
non vo' che
la dimette:
comando che
s'atenga,
purché mal
non n'avenga
Ben dicon
buoni e rei:
"Se tu
fai ciò che déi,
avegna ciò
che puote";
ma poi, chi
ti riscuote
s'un grave
mal n'avene?
Foll' è chi
teco tene:
ch'i' tegno
ben leale
chi per un
picciol male
fa schifare
un maggiore,
se 'l fa per
lo migliore,
sì che lo
peggio resta.
E chi ti
manofesta
alcuna sua
credenza,
abbine
retenenza,
e la lingua
sì lenta
ch'un altro
no la senta
sanza la sua
parola:
ch'io già per
vista sola
vidi
manofestato
un fatto ben
celato.
E chi ti dà
in prestanza
sua cosa, o
in serbanza,
rendila sì a
punto
che non sie
in fallo giunto.
E chi di te
si fida,
sempre lo
guarda e guida,
né già di
tradimento
non ti vegna
talento.
E vo' ch'al
tuo Comune,
rimossa ogne
cagione,
sie diritto e
leale,
e già per
nullo male
che ne poss'
avenire
no·llo
lasciar perire.
E quando se'
'n consiglio,
sempre ti
tieni al meglio:
né prego né
temenza
ti mova
i·rria sentenza.
Se fai
testimonianza,
sia piena di
leanza;
e se giudichi
altrui,
guarda sì
abondui
che già da
nulla parte
non falli
l'una parte.
Ancor ti
priego e dico,
quand' hai lo
buono amico
e lo leal
parente,
amalo
coralmente:
non si' a sì
grave stallo
che tu li
facce fallo.
E voglio
ch'am' e crede
Santa Chiesa
e la fede;
e solo e
infra la gente
innora
lealmente
Geso Cristo e
li santi,
sì che'
vecchi e li fanti
abbian di te
speranza
e prendan
buon' usanza.
E va', che
ben ti pigli
e che Dio ti
consigli,
ché per esser
leale
si cuopre
molto male”.
XVIII
Allora il
cavalero,
che 'n sì alto
mestero
avea la mente
misa,
se n'andò a
distesa
e gìsene a
Prodezza;
e quivi con
pianezza
e con bel
piacimento
e disse il
suo talento.
Allor vid' io
Prodezza
con viso di
baldezza
sicuro e
sanza risa
parlare in
questa guisa:
“Dicoti
apertamente
che tu non
sie corrente
a far né a
dir follia,
ché, per la
fede mia,
non ha presa
mi' arte
chi segue
folle parte;
e chi briga
mattezza
non fie di
tale altezza
che non
ruvini a fondo:
non ha grazia
nel mondo.
E guàrdati
ognora
che tu non
facci ingiura
né forza a om
vivente:
quanto se'
più potente,
cotanto più
ti guarda,
ché la gente
non tarda
di portar
mala boce
a om che
sempre noce.
Di tanto ti
conforto,
che, se t'è
fatto torto,
arditamente e
bene
la tua ragion
mantene.
Ben ti
consiglio questo:
che, se tu
col ligisto
atartene
potessi,
vorria che lo
facessi,
ch'egli è
maggior prodezza
rinfrenar la
mattezza
con dolci
motti e piani
che venire a
le mani.
E non mi
piace grido;
pur con senno
mi guido;
ma se 'l
senno non vale,
metti mal
contra male,
né già per
suo romore
non bassar
tuo onore;
ma s'è di te
più forte,
fai senno se
'l comporte
e da' loco a
la mischia,
ché foll' è
chi s'arischia
quando non è
potente:
però
cortesemente
ti parti di
romore;
ma se per suo
furore
non ti lascia
partire,
vogliendoti
ferire,
consiglioti e
comando
no 'nde vada
[da] bando:
abbie le mani
acorte,
non dubbiar
de la morte,
ché tu sai
per lo fermo
che già di
nullo schermo
si pote omo
covrire,
che non vada
al morire
quando lo
punto vene.
Però fa
grande bene
chi
s'arischi' al morire
anzi che
soferire
vergogna né
grave onta:
ché 'l
maestro ne conta
che omo teme
sovente
tal cosa, che
neente
li farà
nocimento.
Né non
mostrar pavento
a om ch'è
molto folle,
ché, se ti
truova molle,
piglierànne
baldanza;
ma tu abbi
membranza
di farli un
ma·riguardo,
sì sarà più
codardo.
Se tu hai
fatto offesa
altrui, che
sia ripresa
in grave
nimistanza,
sì abbi per
usanza
di ben
guardarti d' esso,
ed abbi
sempre apresso
e arme e
compagnia
a casa e per
la via;
e se tu vai
atorno,
sl va' per
alto giorno,
mirando
d'ogne parte,
ché non ci ha
miglior arte
per far
guardia sicura
che buona
guardatura:
l'occhio ti
guidi e porti,
e lo cor ti
conforti.
E un'altra ti
dico:
se questo tuo
nemico
fosse di
basso afare,
non ce
t'asecurare,
perché sie
più gentile;
no·llo tenere
a vile,
ch'ogn'omo ha
qualch' aiuto:
e i' ho già
veduto
ben fare una
vengianza,
che quasi
rimembranza
no 'nd' era
tra la gente.
Però
cortesemente
del nemico ti
porta,
e abbie
usanza acorta:
se 'l truovi
in alcun lato,
paia l'abbie
innorato;
se 'l truovi
in alcun loco,
per ira né
per gioco
no·lli
mostrare asprezza
ne villana
fierezza;
dà·lli tutta
la via:
però che
maestria
afina più
l'ardire
che non fa
pur ferire.
Chi fere bene
ardito,
pò ben esser
ferito;
e se tu hai
coltello,
altri l'ha
buono e bello:
ma maestria
conchiude
la forza e la
vertude,
e fa 'ndugiar
vendetta
e alungar la
fretta
e mettere in
obria
e atutar
follia.
E tu sia bene
apreso:
che se ti
fosse ofeso
di parole o
di detto,
non rizzar lo
tu' petto,
ne non sie
più corrente
che porti 'l
convenente.
Al postutto
non voglio
ch'alcuno per
suo orgoglio
dica né
faccia tanto
che 'l gioco
torni 'n pianto,
né che già
per parola
si tagli mano
o gola.
E i' ho già
veduto
omo ch'è pur
seduto,
non facendo
mostranza,
far ben dura
vengianza.
S'afeso t'è
di fatto,
dicoti a ogne
patto
che tu non
sie musorno,
ma di notte e
di giorno
pensa de la
vendetta,
e non aver
tal fretta
che tu ne
peggior' onta,
ché 'l
maestro ne conta
che fretta
porta inganno,
e 'ndugio è
par di danno;
e tu così
digrada:
ma pur, come
che vada
la cosa,
lenta o ratta,
sia la
vendetta fatta.
E se 'l tuo
buono amico
ha guerra di
nemico,
tu ne fa'
quanto lui,
e guàrdati di
plui:
non menar tal
burbanza
ched elli a
tua fidanza
coninciasse
tal cosa
che mai non
abbia posa.
E ancor non
ti caglia
d'oste né di
battaglia,
né non sie
trovatore
di guerra o
di romore.
Ma se pur
avenisse
che 'l tuo
Comun facesse
oste o
cavalcata,
voglio che 'n
quell'andata
ti porte con
barnaggio
e dimostreti
maggio
che non porta
tuo stato;
e déi in ogne
lato
mostrar tutta
franchezza
e far buona
prodezza.
Non sie lento
né tardo,
ché già omo
codardo
non aquistò
onore
né divenne
maggiore.
E tu per
nulla sorte
non dubitar
di morte,
ch'assai è
più piacente
morire
orratamente
ch'esser
vituperato,
vivendo, in
ogne lato.
Or torna in
tuo paese,
e sie prode e
cortese:
non sia
lanier né molle
né corrente
né folle”.
Così noi due
stranieri
ci ritornammo
arrieri:
colui n'andò
in sua terra
ben apreso di
guerra,
e io presi
carriera
per andar là
dov' iera
tutto mio
intendimento
e 'l final
pensamento,
per esser
veditore
di Ventur' e
d'Amore.
XIX
Or si ne va
il maestro
per lo camino
a destro,
pensando
duramente
intorno al
convenente
de le cose
vedute:
e son maggior
essute
ch'io non so
divisare;
e ben si dee
pensare
chi ha la
mente sana
od ha sale 'n
dogana
che 'l fatto
è smisurato,
e troppo gran
trattato
sarebbe a
ricontare.
Or voglio
intralasciare
tanto senno e
savere
quant' io fui
a vedere,
e contar mio
vïaggio,
come 'n calen
di maggio,
passati valli
e monti
e boschi e
selve e ponti,
io giunsi in
un bel prato
fiorito
d'ogne lato,
lo più ricco
del mondo.
Ma or parea
ritondo,
ora avea
quadratura;
ora avea
l'aria scura,
ora e chiara
e lucente;
or veggio
molta gente,
or non veggio
persone;
or veggio
padiglione,
or veggio
case e torre;
l'un giace e
l'altro corre,
l'un fugge e
l'altro caccia,
chi sta e chi
procaccia,
l'un gode e
l'altro 'mpazza,
chi piange e
chi sollazza:
così da ogne
canto
vedea gioco e
pianto.
Però, s'io
dubitai
o mi
maravigliai,
be·llo dëon
sapere
que' che
stanno a vedere.
Ma trovai
quel suggello
che da ogne
rubello
m'afida e
m'asicura:
così sanza
paura
mi trassi più
avanti,
e trovai
quattro fanti
ch'andavan
trabattendo.
E io,
ch'ognora atendo
di saper
veritate
de le cose
trovate,
pregai per
cortesia
che sostasser
la via
per dirmi il
convenente
de·luogo e de
la gente.
E l'un,
ch'era più saggio
e d'ogne cosa
maggio,
mi disse in
breve detto:
“Sappi,
mastro Burnetto,
che qui sta
monsegnore
ch'e capo e
dio d'amore;
e se tu non
mi credi,
passa oltra e
sì 'l vedi;
e più non mi
toccare,
ch'io non
t'oso parlare”.
Così furon
spariti
e in un punto
giti,
ch'i' non so
dove o come,
né la 'nsegna
né 'l nome.
Ma i'
m'asicurai,
e tanto
inanti andai
ch'i' vidi al
postutto
e parte e
mezzo e tutto;
e vidi molte
genti,
cu' liete e
cui dolenti;
e davanti al
segnore
parea che
gran romore
facesse
un'altra schiera;
e 'n una gran
chaiera
io vidi
dritto stante
ignudo un
fresco fante,
ch'avea
l'arco e li strali
e avea penn'
ed ali,
ma neente
vedea,
e sovente
traea
gran colpi di
saette,
e là dove le
mette
convien che
fora paia,
chi che
periglio n'aia;
e questi al
buon ver dire
avea nome
Piacere.
E quando
presso fui,
io vidi
intorno lui
quattro donne
valenti
tener sopra
le genti
tutta la
segnoria;
e de la lor
balìa
io vidi
quanto e come,
e so di lor
lo nome:
Paura e
Disianza
e Amore e
Speranza.
E ciascuna in
disparte
adovera su'
arte
e la forza e
'l savere,
quant' ella
può valere:
ché Desïanza
punge
la mente e la
compunge
e sforza
malamente
d'aver
presentemente
la cosa
disïata,
ed è sì
disvïata
che non cura
d'onore,
né morte né
romore
né periglio
ch'avegna
né cosa che
sostegna;
se non che la
Paura
la tira
ciascun'ora,
sì che non
osa gire
né solo u·motto
dire
né far pur un
semblante,
però che 'l
fino amante
riteme a
dismisura.
Ben ha la
vita dura
chi così si
bilanza
tra tema e
disïanza;
ma Fino Amor
solena
del gran
disio la pena,
e fa dolce
parere,
e leve a
sostenere,
lo travaglio
e l'afanno
e la doglia e
lo 'nganno.
D'altra parte
Speranza
aduce gran
fidanza
incontro a la
Paura,
e sempre
l'asicura
d'aver buon
compimento
di suo
inamoramento.
E questi
quattro stati
son di
Piacere nati,
con essi sì
congiunti
che già ora
né punti
non potresti
contare
tra·llor lo
'ngenerare:
ché, quando
omo 'namora,
io dico che
'n quell'ora
disia ed ha
temore
e speranza ed
amore
di persona
piaciuta;
ché la saetta
aguta
che move di
piacere
lo punge, e
fa volere
diletto
corporale,
tant'è l'amor
corale.
Così ciascuno
in parte
aòverar su'
arte
divisa ed in
comuno;
ma tutti son
pur uno,
cui la gente
ha temore,
sì 'l chiaman
Dio d'Amore,
perciò che 'l
nome e l'atto
s'acorda più
al fatto.
Assai mi
volsi intorno
e di notte e
di giorno,
credendomi
campire
del fante,
che ferire
lo cor non mi
potesse;
e s'io questo
tacesse,
farei maggio
savere,
ch'io fui
messo in podere
e in forza
d'Amore.
Però, caro
segnore,
s'io fallo
nel dettare,
voi dovete
pensare
che l'om ch'è
'namorato
sovente muta
stato.
Poi mi tornai
da canto,
e in un ricco
manto
vidi Ovidio
maggiore,
che gli atti
dell'amore,
che son così
diversi,
rasembra 'n
motti e versi.
E io mi
trassi apresso,
e domandai
lu' stesso
ched elli
apertamente
mi dica il
convenente
e lo bene e
lo male
de l[o] fante
dell'ale,
c'ha le
saette e l'arco,
e onde tale
incarco
li venne, che
non vede.
Ed elli in
buona fede
mi rispose 'n
volgare
che la forza
d'amare
non sa chi no
lla prova:
“Perciò, s'a
te ne giova,
cércati fra
lo petto
del bene e
del diletto,
del male e de
l'errore
che nasce per
amore”.
E così stando
un poco,
io mi mutai
di loco,
credendomi
fuggire;
ma non potti
partire,
ch'io v'era
sì 'nvescato
che già da
nullo lato
potea mutar
lo passo.
Così fui
giunto, lasso,
e giunto in
mala parte!
Ma Ovidio per
arte
mi diede
maestria,
sì ch'io
trovai la via
com' io mi
trafugai:
così l'alpe
passai
e venni a la
pianura.
Ma troppo
gran paura
ed afanno e
dolore
di persona e
di core
m'avenne quel
vïaggio:
ond'io
pensato m'aggio,
anzi ch'io
passi avanti,
a Dio ed a li
santi
tornar
divotamente,
e molto
umilemente
confessar li
peccati
a' preti ed a
li frati.
E questo mio
libretto
e ogn'altro
mio detto
ch'io trovato
avesse,
s'alcun vizio
tenesse,
cometto ogni
stagione
i·llor
correzzïone,
per far
l'opera piana
co la fede
cristiana.
E voi, caro
segnore,
prego di
tutto core
che non vi
sia gravoso
s'i' alquanto
mi poso,
finché di
penitenza
per fina
conoscenza
mi possa
consigliare
con omo che
mi pare
ver' me
intero amico,
a cui sovente
dico
e mostro mie
credenze,
e tegno sue
sentenze.
XX
Al fino amico
caro,
a cui molto
contraro
d'alegrezza e
d'afanno
pare venuto
ogn'anno:
io Burnetto
Latino,
che nessun
giorno fino
d'aver gioia
e pena
(come Ventura
mena
la rot' a
falsa parte),
ti mando 'n
queste carte
salute e
'ntero amore:
ch'i' non
truovo migliore
amico che mi
guidi,
né di cui più
mi fidi
di dir le mie
credenze,
ché troppo
ben sentenze,
quando chero
consiglio
intra 'l bene
e 'l periglio.
Or m'è venuta
cosa
ch'i' non
poria nascosa
tener, ch'io
non ti dica:
pur non ti
sia fatica
d'udire
infi·la fine,
amico mio,
ch'afine
mie parole
mondane
ch'io dissi
ognora vane.
Per Dio merzé
ti mova
la ragione, e
la prova
che ciò che
dire voglio
da buona
parte acoglio.
Non sai tu
che lo mondo,
si poria dir
non mondo,
considerando
quanto
ci ha
no·mondezza e piant ?
Che truovi tu
che vaglia?
Non vedi tu
san' faglia
ch'ogne cosa
terrena
porta peccato
e pena,
né cosa ci ha
sì crera
che non
fallisca e pèra?
Or prendi un
animale
più forte e
che più vale:
dico che 'n
poco punto
è disfatto e
digiunto.
Ahi om,
perché ti vante,
vecchio,
mezzano e fante?
Di', che vai
tu cercando?
Già non sai
l'ora e quando
ven quella
che ti porta,
quella che
non comporta
oficio o
dignitate:
ahi Deo,
quante fïate
ne porta le
corone
come basse
persone!
Giulio Cesar
maggiore,
lo primo
imperadore,
già non campò
di morte,
né Sanson lo
più forte
non visse
lungiamente;
Alesandro
valente,
che conquistò
lo mondo,
giace morto
in fondo;
Assalon per
bellezze,
Ettòr per
arditezze,
Salamon per
savere,
Attavian per
avere
già non
camparo un giorno
fora del suo
ritorno.
Adunque, omo,
che fai?
Già torne
tutto in guai,
la mannaia
non vedi
c'hai tuttora
a li piedi.
Or guarda il
mondo tutto:
foglia e
fiore e frutto,
augel, bestia
né pesce
di morte fuor
non esce.
Dunque ben pe·ragione
provao
Salamone
ch'ogne cosa
mondana
è vanitate
vana.
Amico, or
movi guerra
e va' per
ogne terra
e va'
ventando il mare,
dona robe e
mangiare,
guadagna
argento ed oro,
amassa gran
tesoro:
tutto questo
che monta?
Ira, fatica
ed onta
hai messo a
l'aquistare,
poi non sai
tanto fare
che non perde
in un motto
te e
l'aquisto tutto.
Ond' io, di
ciò pensando
e fra me
ragionando
quant' io
aggio fallato
e come sono
istato
omo reo
peccatore,
sl ch'al mio
Crëatore
non ebbi
provedenza,
e nulla reverenza
portai a
Santa Chiesa,
anzi l'ho pur
offesa
di parole e
di fatto,
ora mi tegno
matto,
ch'i' veggio
ed ho saputo
ch'i' son dal
mal perduto.
E poi ch'io
veggio e sento
ch'io vado a
perdimento,
seria ben for
di senso
s'i' non
proveggio e penso
come per lo
ben campi,
che lo mal
non m'avampi.
XXI
Così tutto
pensoso
un giorno di
nascoso
entrai in
Mompuslieri,
e con questi
pensieri
me n'andai a
li frati,
e tutti mie'
peccati
contai di
motto in motto.
Ahi lasso,
che corrotto
feci quand'
ebbi inteso
com' io era
compreso
di smisurati
mali
oltre che
criminali!
ch'io pensava
tal cosa
che non fosse
gravosa,
ched è
peccato forte
più quasi che
di morte.
Ond' io tutto
a scoverto
al frate mi
converto
che m'ha
penitenziato;
e poi ch'i'
son mutato,
ragion è che
tu muti,
ché sai che
sén tenuti
un poco
mondanetti:
però vo' che
t'afretti
di gire ai
frati santi.
Ma pènsati
davanti
se per modo
d'orgoglio
enfiaste
unque lo scoglio,
sì che 'l tuo
Crëatore
non amassi di
core
e non fossi
ubidenti
a' Suoi
comandamenti;
e se ti se'
vantato
di ciò c'hai
operato
in bene o in
follia;
o per
ipocresia
mostrave di
ben fare
quando volei
fallare;
o se tra le
persone
vai movendo
tencione
di fatto o di
minacce,
tanto
ch'oltraggio facce;
o se
t'insuperbisti
o in greco
salisti
per caldo di
ricchezza
o per tua
gentilezza
o per grandi
parenti
o perché da
le genti
ti par esser
laudato;
o se ti se'
sforzato
di parer per
le vie
miglior che
tu non sie;
o s'hai
tenuto a schifo
la gente, o
torto 'l grifo,
per tua
grammatesia;
o se per
leggiadria
ti se' solo
seduto
quando non
hai veduto
compagno che
ti piaccia;
o s'hai
mostrato faccia
crucciata per
superba,
e la parola
acerba,
vedendo
altrui fallare,
e te stesso
peccare;
o se ti se'
vantato
o detto in
alcun lato
d'aver ciò
che non hai,
o saver che
non sai.
Amico, e ben
ti membra
se tu per
belle membra
o per bel
vestimento
hai preso
orgogliamento:
queste cose
contate
son di
superbia nate,
di cui il
savio dice
ched è capo e
radice
del male e
del peccato.
E 'l frate
m'ha contato,
sed io ben mi
ramento,
che per
orgogliamento
fallio
l'angel matto
ed Eva ruppe
'l patto,
e la morte
d'Abèl
e la torre
Babel
e la guerra
di Troia:
così convien
che muoia
superbia per
soperchio
che spezza
ogne coperchio.
Amico, or ti
provedi,
ché tu
conosci e vedi
che
d'orgogliose pruove
invidia nasce
e muove,
ch'è fuoco de
la mente.
Vedi se se'
dolente
dell'altrui
beninanza;
o s'avesti
allegranza
dell'altrui
turbamento;
o per tuo
trattamento
hai ordinata
cosa
che sia altrui
gravosa;
e se sotto
mantello
hai orlato il
cappello
ad alcun tu'
vicino
per metterlo
al dichino;
o se lo
'ncolpi a torto;
o se tu dài
conforto
di male a'
suo' guerreri,
e quando se'
dirieri
ne parle
laido male.
Ben mostri
che ti cale
di metterlo
in mal nome,
ma tu non
pensi come
lo spregio
ch'è levato
sì possa
esser lavato,
né pur che
mai s'amorti
lo blasmo,
chi chi 'l porti:
ché tale il
mal dire ode
che poi
no·llo disode.
Invidia è
gran peccato;
e ho scritto
trovato
che prima
coce e dole
a colui che
la vuole.
E certo, chi
ben mira,
d'invidia
nasce l'ira:
ché, quando
tu non puoi
diservire a
colui
né metterlo
al disotto,
lo cor
s'imbrascia tutto
d'ira e di
maltalento,
e tutto 'l
pensamento
si gira di
mal fare
e di villan
parlare,
sì che batte
e percuote
e fa 'l
peggio che puote.
Perciò,
amico, penza
se 'n tanta
malvoglienza
ver' Cristo
ti crucciasti,
o se Lo
biastimiasti,
o se battesti
padre
od afendesti
a madre
o cherico
sagrato
o segnore o
parlato:
cui l'ira dà
di piglio,
perde senno e
consiglio.
In ira nasce
e posa
accidia
nighittosa:
ché, chi non
puote in fretta
fornir la sua
vendetta
néd afender
cui vole,
l'odio fa
come suole,
che sempre
monta e cresce
né di mente
non li esce;
ed è 'n tanto
tormento
che non ha
pensamento
di neun ben
che sia,
ma tanto si
disvia
che non sa
megliorare
né già ben
cominciare;
ma croio e
neghittoso
e ver' Dio
grorïoso.
Questi non va
a messa,
né sa qual
che si' essa,
né dicer
paternostro
in chiesa né
nel chiostro.
Così per mal'
usanza
si gitta in
disperanza
del peccato
c'ha fatto,
ed è sì
stolto e matto
che di suo
mal non crede
trovare in
Dio merzede;
o per falsa
cagione
apiglia
presenzione,
che 'l mette
in mala via
di non creder
che sia
per ben né
per peccato
omo salv' o
dannato;
e dice a
tutte l'ore
che già
giusto Segnore
no·ll'avrebbe
crëato
perch' e'
fosse dannato
ed un altro
prosciolto.
Questi si
scosta molto
da la verace
fede:
forse che non
s'avede
che 'l
Misericordioso,
tutto che sia
pietoso,
sentenza per
giustizia
intra 'l bene
e le vizia,
e dà merito e
pene
secondo che
s'aviene?
Or pens',
amico mio,
se tu al vero
Dio
rendesti
grazia o grato
del ben che
t'ha donato:
ché troppo
pecca forte
ed è degno di
morte
chi non
conosce 'l bene
di là donde
li viene.
E guarda
s'hai speranza
di trovar
perdonanza.
Hai alcun mal
commesso?
Se non ne se'
confesso,
peccato hai
malamente
ver' l'alto
Dio potente.
Di negghienza
m'avisa
che nasce
covitisa:
ché, quand'
om per negghienza
non si trova
potenza
di fornir sua
dispensa,
immantenente
pensa
come potesse
avere
sì de
l'altrui avere
che fornisca
suo porto
a diritto ed
a torto.
Ma colui c'ha
divizia
sì cade in
avarizia,
ché l'avere
non spende
e già
l'altrui non rende,
anz' ha paura
forte
ch'anzi che
vegna a morte
l'aver gli vegna
meno,
e
pu·ristringe freno.
Così rapisce
e fura,
e dà mala
misura
e peso
frodolente
e novero
fallente;
e non teme
peccato
d'anstar suo
mercato
né di
cometter frode,
anzi 'l si
tene i·llode;
di
nasconderlo sòle,
e per bianche
parole
inganna
altrui sovente,
e molto
largamente
promette di
donare
quando no'l
crede fare.
E un altro
per impiezza
a la zara
s'avezza
e giuoca con
inganno,
e per far
l'altrui danno
sovente pigna
'l dado,
e non vi
guarda guado;
e ben presta
a unzino
e mette mal fiorino;
e se perdesse
un poco,
ben udiresti
loco
biastemiare
Dio e' santi
e que' che
son davanti.
E un altr' è,
che non cura
di Dio e di
Natura,
sì doventa
usoriere
e in molte
maniere
ravolge suo'
danari,
che li son
molto cari;
non guarda
dìe né festa,
né per pasqua
non resta,
e non par che
li 'ncresca,
pur che
moneta cresca.
Altro per
semonia
si getta in
mala via
e Dio e'
santi afende
e vende le
profende
e' santi
sagramenti,
e mette 'nfra
le genti
esempro di
malfare;
ma questo
lascio stare,
ché tocca a ta'
persone,
che non è mia
ragione
di dirne
lungiamente.
Ma dico
apertamente
che l'om ch'è
troppo scarso
credo c'ha 'l
cor tutt' arso,
ché 'n
puovere persone
e 'n on che
si' in pregione
non ha nulla
pietade:
tutto in
inferno cade.
Per
iscarsezza sola
vien peccato
di gola,
ch'om chiama
ghiottornia:
ché, quando
l'om si svia
sì che monti
i·rrichezza,
la gola sì
s'avezza
a le dolce
vivande
e far cocine
grande
e mangiare
anzi l'ora.
E molto ben
divora
chi mangia
più sovente
che non fa
l'altra gente;
e talor
mangia tanto
che pur da
qualche canto
li duole
corpo e fianco,
e stanne
lasso e stanco;
e inebrïa di
vino,
sì ch'ogne
suo vicino
se ne ride
d'intorno
e mettelo in
iscorno:
ben è tenuto
bacco
chi fa del
corpo sacco
e mette tanto
in epa
che talora ne
crepa.
Certo per
ghiottornia
s'aparecchia
la via
in commetter
lusura:
chi mangia a
dismisura,
la lussura
s'acende,
sì ch'altro
non intende
se non a quel
peccato,
e cerca
d'ogne lato
come possa
compiére
quel suo
laido volere.
E vecchio che
s'impaccia
di così laida
taccia,
fa ben doppio
peccato
ed è troppo
blasmato.
Ben è gran
vituperio
commettere
avolterio
con donne o
con donzelle,
quanto che
paian belle;
ma chi 'l fa
con parente,
pecca più
agramente.
Ma tra questi
peccati
son vie più
condannati
que' che son
soddomiti:
deh, come son
periti
que' che
contra natura
brigan cotal
lusura!
Or vedi, caro
amico,
e 'ntende ciò
ch'i' dico:
vedi quanti
peccati
io t'aggio
nominati,
e tutti son
mortali;
e sai che ci
ha di tali
che ne
curiamo poco.
Vedi che non è
gioco
di cadere in
peccato:
e però da
buon lato
consiglio che
ti guardi
che 'l mondo
non t'imbardi.
Ora a Dio
t'acomando,
ch'io non so
l'or' né quando
ti debbia
ritrovare:
ch'io credo
pur andare
la via ch'io
m'era messo;
ché ciò che
m'e promesso
di veder le
sett' arti
ed altre
molte parti,
io le vo' pur
vedere,
imparar e
sapere;
ché, poi che
del peccato
mi son
penitenzato,
e sonne ben
confesso
e prosciolto
e dimesso,
io metto poca
cura
d'andar a la
Ventura.
XXII
Così un dì di
festa
tornai a la
foresta,
e tanto
cavalcai
che io mi
ritrovai
una diman per
tempo
in sul monte
d'Olempo,
di sopra in
su la cima.
E qui lascio
la rima
per dir più
chiaramente
ciò ch'i'
vidi presente:
ch'io vidi
tutto 'l mondo,
sì com'egli è
ritondo,
e tutta terra
e mare,
e 'l fuoco
sopra l'ãre;
ciò son
quattro aulimenti,
che son
sostenimenti
di tutte
crëature
secondo lor
nature.
Or mi volsi
da canto,
e vidi un
bianco manto
così da la
sinestra
dopp' una
gran ginestra;
e io guatai
più fiso,
e vidi un
bianco viso
con una barba
grande
che sul petto
si spande.
Ond'io
m'asicurai,
e 'nanti lui
andai
e feci mio
saluto
e fui ben
ricevuto;
ond'io presi
baldanza,
e con dolce
contanza
lo domandai
del nome,
chi elli era,
e come
si stava sì
soletto
sanza niuno
ricetto.
E tanto 'l
domandai
che nel suo
dir trovai
che là dove
fu nato
fu Tolomeo
chiamato,
mastro di
storlomia
e di
fisolofia;
ed è a Dio
piaciuto
che sia tanto
vivuto,
qual che sia
la cagione.
E io 'l misi
a ragione
di que'
quattro aulimenti
e di lor
fondamenti,
e come son
formati
e insieme
legati.
E ei con
belle risa
rispuose in
questa guisa:
[ . . . . . ]
[ . . . . . ]
[ . . . . . ]
[ . . . . . ]