I
A voi, messere
Iacopo comare,
Rustico s'acomanda
fedelmente,
e dice, se vendetta
avete a fare,
ch'e' la farà di
buon cuor lëalmente. 4
Ma piaceriagli
forte che 'l parlare
e·rider vostro
fosse men sovente,
ché male perdere
uom, che guadagnare,
suole schifare più
la mala gente. 8
E forte si crucciò
di monna Nese
quando sonetto udì
di lei novello;
e credel dimostrar
tosto in palese. 11
Ma troppo siete
conto di Fastello,
fino a tanto
ch'egli ha danar da spese:
ond'e' si crede
bene esser donzello. 14
II
Fastel, messer
fastidio de la cazza,
dibassa i
ghebellini a dismisura,
e tutto il giorno
aringa in su la piazza
e dice ch'e' gli
tiene 'n aventura. 4
E chi 'l contende,
nel viso gli sprazza
velen, che v'è
mischiato altra sozzura,
e sì la notte come
'l dì schiamazza.
Or Dio ci menovasse
la sciagura! 8
Ond'io 'l ti fo
saper, dinanzi assai
ch'a man vegni de'
tuo' nemici guelfi,
s'è temp'e se
vendetta non ne fai. 11
Ma tu n'avrai merzé,
quando il vedrai.
Fammi cotanto:
togligli Montelfi,
così di duol morir
tosto il vedrai. 14
III
A voi, che ve ne
andaste per paura:
sicuramente potete
tornare;
da ch'e' ci è
dirizzata la ventura,
ormai potete guerra
inconinzare. 4
E' più non vi
bisogna stare a dura,
da che nonn-è chi
vi scomunicare:
ma ben lo vi tenete
'n isciagura
che non avete più
cagion che dare. 8
Ma so bene, se
Carlo fosse morto,
che voi ci
trovereste ancor cagione;
però del papa
nonn-ho gran conforto. 11
Ma io non voglio
con voi stare a tenzone,
ca·llungo temp'è
ch'io ne fui acorto
che 'l ghibellino
aveste per garzone. 14
IV
Su, donna Gemma,
co·la farinata
e col buon vino e
co·l'uova ricenti,
che la Mita per voi
sia argomentata,
ch'io veggio ben
ch'ell' ha alegati i denti. 4
Non vedete
com'ell'è sottigliata?
Maravigliar ne fate
tutte genti.
Donna Filippa assai
n'è biasimata
da tutti i suoi
amici e da' parenti. 8
Or acendete il foco
e sì cocete
cosa che spesso in
bocca si metta;
se non, per certo
morir la farete: 11
ché la gonella, che
sì l'era stretta,
se ne porian far
due, be·llo vedete,
così è fatta magra
e sotiletta. 14
V
Se no l'atate, fate
villania,
però ch'io dubbio
non sia intisichita:
di belle
tortellette le faria,
ché vedete che
nonn-ha de la vita. 4
Oi lasso me,
com'ell'è gita via!
Per Dio, pensate
come sia guerita,
ché, non ch'a voi,
a me ne 'ncresceria:
più rangola
dovreste aver di Mita. 8
E spïate qual fosse
la cagione
ond'ell'ha sì
perduto il manicare,
che si suole sì
atar per ficazone; 11
e quando fosse
sopra al vendemmiare,
non si tenea le man
sotto il gherone:
ed or s'è sì
lasciata dimagrare! 14
VI
Volete udir
vendetta smisurata
c'ha·fatta di sua
donna l'Acerbuzzo?
La barba lunga un
mese n'ha portata,
orando che dovea
far Giovannuzzo. 4
Dio, com' bene le
stette a la sciaurata,
quand'ella soferia
così gran puzzo!
Per quella via ne
va da la cognata,
s'altra vendetta
nonn-è di Cambiuzzo. 8
Dunque, ben
n'anderà per quella via:
che 'nmantenente
fue passato il duolo
ch'e' la disotterrò,
perché putia. 11
Almen faccia
vendetta del figliuolo!
Ma per quel ch'io
ne spero che ne sia,
per un fiorin
voglio esser cavigliuolo. 14
VII
No riconoscereste
voi l'Acerbo,
ancor che voi il
vedeste molto a sera?
Sì fareste, ch'e'
non fue da Viterbo
nonn-è ancora una
semana intera. 4
Del compagno nol
dico, ché 'l mi serbo,
ché troppo
arosserebbe ne la cera;
in pasto il tegno e
tuttavia lo 'nerbo,
ché verrà or con
via maggiore schiera. 8
Non ch'io
v'aprisse, monna lëonessa!
Sì gra·lezzo vi
vien per la quintana
ch'altri avrà
quella peverada spessa. 11
Molto vi mostravate
piemontana;
fatta siete reina,
di contessa:
Frian v'aspetta
quest'altra semana. 14
VIII
Due donzei nuovi ha
oggi in questa terra
c'hanno sì vinti
ciascun fiorentino
che più non possor
sofrire la guerra:
l'un è l'Acerbo e
l'altro è Guadagnino. 4
Questi due ci hanno
messi a sì gran serra
che ne ripiace
molto Bonfantino;
e quinci si racorga,
s'alcun ci erra,
che macine non son
già di molino: 8
ch'elle non hanno
fondo, ma stranezza
hanno di peso, sì
che lo palmento
n'andria giù in
perfondo per gravezza, 11
ché di piombo è
ciascun lor reggimento.
Chi gli bestemmia,
molto abbia alegrezza,
e chi non, sì gli
basti esto tormento. 14
IX
Collui che puose
nome al Macinella
al mio parer non
fue strolago fino,
ché – dico questo a
voi non per novella –
ch'egli 'l dovea
serbar per ser Laino. 4
Ché qual cavallo il
porta in su la sella
non vuole esser
puledro né ronzino:
ch'e' vela gli
occhi e sì grale favella
che 'l mar passo
per esser saracino! 8
Ched egli avanza e
passa ogn'altro grave
che fosse o sia o
possa essere al mondo,
e di·cciò porta ben
seco la chiave. 11
Ed haccene un, che
non ha il capo biondo,
che 'n mar vorria
che fosse co·llui i·nave,
perch'ambendue
n'andassero in profondo. 14
X
Messer Bertuccio, a
dritto uom vi cagiona
che Fazo non
guardate del veleno,
e ciascun fiorentin
di ciò ragiona,
ch'e' non va ben
sicuro a pallafreno. 4
Un gran distrier di
pregio hae a Chermona,
che mille livre il
dice in tutto 'l meno:
fate che vegna per
la sua persona;
non siate scarso in
sua guardia, né leno. 8
E questo dico, e vo'
che sia sentenza,
credendo il me' di
voi dicer, per vero:
messer Bertuccio il
guardi per Fiorenza, 11
che de lo 'ngegno
suo sta cavaliero;
e 'l Chiocciolo gli
deggia far credenza.
Non ch'io ne dotti,
tant'ha il viso fero. 14
XI
Oi dolce mio marito
Aldobrandino,
rimanda ormai il
farso suo a Pilletto,
ch'egli è tanto
cortese fante e fino
che creder non déi
ciò che te n'è detto. 4
E no star tra la
gente a capo chino,
ché non se' bozza,
e fòtine disdetto;
ma sì come
amorevole vicino
co·noi venne a
dormir nel nostro letto. 8
Rimanda il farso
ormai, più no il tenere,
ch'e' mai non ci
verrà oltre tua voglia,
poi che n'ha
conosciuto il tuo volere. 11
Nel nostro letto
già mai non si spoglia.
Tu non dovéi
gridare, anzi tacere:
ch'a me non fece
cosa ond'io mi doglia. 14
XII
D'una diversa cosa
ch'è aparita
consiglio ch'
abbian guardia i fiorentini;
e qual è quei che
vuol campar la vita,
sì mandi al Veglio
per suoi asessini. 4
Ché ci ha una lonza
sì fiera ed ardita
che, se Carlo
sapesse i suo' confini
e de la sua
prodezza avesse udita,
tosto n'andrebbe
sopra i Saracini. 8
Ma chi è questa
lonza or lo sacciate:
Paniccia egli è.
Che fate, o da Fiorenza,
ch'oste no
stanzïate o cavalcate? 11
Che s'e' seguisce
inanzi sua valenza
com'egli ha fatta
adietro, sì gli date
sicuramente in
guardia la Proenza. 14
XIII
Una bestiuola ho
vista molto fera,
armata forte d'una
nuova guerra,
a cui risiede sì la
cervelliera
che de·legnaggio
par di Salinguerra. 4
Se 'nsino 'l mento
avesse la gorgiera,
conquisterebbe il
mar, non che la terra;
e chi paventa e
dotta sua visera
al mio parer nonn-è
folle ned erra. 8
Laida la cera e
periglioso ha 'l piglio,
e burfa spesso a
guisa di leone:
torrebbe l' tinto a
cui desse di piglio; 11
e gli occhi ardenti
ha via più che leone:
de' suoi nemici
asai mi maraviglio
sed e' non muoion
sol di pensagione. 14
XIV
Quando Dïo messer
Messerin fece
ben si credette far
gran maraviglia,
ch'ucello e bestia
ed uom ne sodisfece,
ch'a ciascheduna
natura s'apiglia: 4
ché nel gozzo
anigrottol contrafece,
e ne le ren giraffa
m'asomiglia,
ed uom sembia,
secondo che si dice,
ne la piagente sua
cera vermiglia. 8
Ancor risembra
corbo nel cantare,
ed è diritta bestia
nel savere,
ed uomo è
sumigliato al vestimento. 11
Quando Dio il fece,
poco avea che fare,
ma volle dimostrar
lo suo potere:
sì strana cosa fare
ebbe in talento. 14
XV
Quando egli apre la
bocca de la tomba
per dir parole,
messer Casentino,
sì nel gozzo la
boce gli rimbomba
che diserta le
donne e guasta 'l vino. 4
E Baldanza si
dorme, quando tromba,
ed hal per gica
messere Ugolino:
ma quest'è il gran
fastido, che colomba
si crede che ver'
sé fosse Merlino. 8
...
XVI
Le mie fanciulle
gridan pur vivanda
e non fìnaro sera
né matino,
e stanno tutte
spesso in far domanda:
'Or nonn-è vivo
messere Ugolino?' 4
Però ciascuna a voi
si racomanda,
ed in ischiera v'è
Lippo e Cantino,
che non temon che
lor botte si spanda,
ché, s'han del
pane, il pozzo è lor vicino. 8
Ond'io vi priego
ancor, che la speranza
daria per men di
due fiorin lo staio,
ma le 'mpromesse
atendo ad abondanza: 11
ch'a me penna non
val né calamaio,
né me' venir
né·ffar far ricordanza,
ned esser ricco più
che Min di Ciaio. 14
XVII
Chi messere Ugolin
biasma o riprende
perché nonn-ha
fermezza né misura
e perché sua
promessa nonn-atende,
nonn-è cortese,
ché·ll'ha da natura. 4
Ma fa gran cortesia
chi 'l ne difende,
ch'è sì gentil che
no ne mette cura,
e poco pensa se
manca od offende,
e se vuol ben
pensar, poco vi dura. 8
Ma i' so bene che,
s'e' fosse leale,
ch'egli è di sì
gran pregio il suo valore
che men se ne poria
dir ben che male. 11
Ed ama la sua parte
di bon core,
se non ch'a punto
ben no gliene cale,
e ben non corre a
posta di signore. 14
XVIII
Io fo ben boto a
Dio: se Ghigo fosse,
ser Cerbiolin
che·ll'hai tanto lodato,
per pilliccion di
quella c'ha le fosse,
non si riscalderia,
tant'è gelato. 4
Non vedi che di
mezzo luglio tosse
e 'l guarnel tien
di sotto foderato?
E dicemi che fuoco
anche nol cosse;
e' par figliuol di
Bonella impiombato: 8
ché tutto il giorno
sol seco si siede,
onde 'mbiecare
ha·ffatte molte panche,
se non ch'a
manicare in casa riede. 11
Maraviglia che no
gli cascar l'anche!
ché, se grande
bisogno no·richiede,
da la sua casa non
si partio anche. 14
XIX
Se tu sia lieto di
madonna Tana,
Azzuccio, dimmi
s'io vertà ti dico;
e se tu no la veggi
ancor puttana,
non ci guardar
parente ned amico: 4
ch'io metto la
sentenza in tua man piana,
e di neiente no la
contradico,
perch'io son certo
la darai certana;
non ne darei de
l'altra parte un fico. 8
Ch'egli è più
freddo che detto non aggio:
non vedi come 'l
naso il manofesta?
ché redir non
saprebbe di Cafaggio. 11
E spesse volte
duolegli la testa;
credo che stesse a
balia ne·Rimaggio:
tant'è salvaggio
pare una tempesta. 14
XX
Ne la stia mi par
esser col leone
quando a Lutier son
presso ad un migliaio,
ch'e' pute più che
'nfermo uom di pregione
o che nessun
carname o che carnaio. 4
Li suo' cavegli
farian fin buglione
e la cuffia faria
ricco un oliaio
e li drappi de·lin
bene a ragione
sarian per far
panei di quel massaio. 8
E' sente tanto di
vivarra fiato
e di leonza e
d'altro assai fragore,
mai nessun ne
trovai sì smisurato; 11
ed escegli di sopra
un tal sudore
che par veleno ed
olio mescolato:
la rogna compie,
s'ha mancanza fiore. 14
XXI
Dovunque vai
conteco porti il cesso,
oi buggeressa
vecchia puzzolente,
che quale-unque
persona ti sta presso
si tura il naso e
fugge inmantenente. 4
Li dent'i·le gengìe
tue ménar gresso,
ché li taseva
l'alito putente;
le selle paion
legna d'alcipresso
inver' lo tuo
fragor, tant'è repente.
8
Ch'e' par che s'apran
mille monimenta
quand'apri il
ceffo: perché non ti spolpe
o ti rinchiude, sì
ch'om non ti senta? 11
Però che tutto 'l
mondo ti paventa:
in corpo credo
figlinti le volpe,
ta·lezzo n'esce
fuor, sozza giomenta. 14
XXII
Al mio parer
Teruccio non è grave,
ma scarso il tegno
ismisuratamente;
e' ben cavalca de
la man soave
quando l'avere
utolità ne sente. 4
E con tale usa e
vanno insieme·nave
che boce glien'è
corsa di mordente.
Non so se 'l fa, ma
'l suo sì serra a chiave
che 'l medesmo, che
'n tôrre è sì saccente 8
non credo che del
suo potesse avere.
Ch'è 'n questo è
fermo il süo intendimento:
del suo non dare,
altrui tôrre a podere. 11
E se per rima fosse
il suo lamento,
de' nuovi danni che
stima d'avere
sollazzi n'averemmo
il giorno cento. 14
XXIII
Poi che guerito son
de le mascelle
io no rido, ancor
ch'i' smanio, e canto
che si sconciàr per
rider di novelle
che mi contò
Cristofan, dritto santo, 4
cui non bisogna
colla e manovelle,
così le ti sciorina
ad ogni canto;
e chi non si
ralegrerà di quelle
in paradiso avrebbe
doglie e pianto. 8
Oi Cion del Papa
bene aventurato,
lasciati andar di
man de lo sterlino,
credi a Cristofan
ch'e' non è donato! 11
Per Dio, soccorri
quel gentil Bandino,
ch'e' sia per te di
morte suscitato:
è, ne le scritte,
conte baladino. 14
XXIV
Buono inconincio,
ancora fosse veglio,
v'ebbe il valente
messere Ubertino;
vostra grandezza va
di bene in meglio,
ch'a voi ne viene
il buon conte Bandino. 4
Quel da Romena,
ch'è segnor del Peglio,
v'intende, so,
cagion de lo sterlino;
e saccio ben, se
moglie non ha il Veglio,
ch'e' gli assesini
ha messi nel camino 8
per domandar la
Diana o sua sorella;
ché quel da Senno
nonn-è tanto ardito
ch'egli oggi
adomandasse la fancella. 11
E Tanuccio n'è
molto isbigottito
e nonn-ha più
speranza in suo' castella;
né 'l cardinal,
secondo ch'aggio udito. 14
XXV
Il giorno avesse io
mille marchi d'oro
che la Dianuzza fia
contessa Diana,
e sanza grande
isfolgòr di tesoro;
e non cavaleressa
né cattana. 4
È fermo più che 'l
genovese moro
lo detto di
Cristofano in Toscana;
e poi apresso,
sanza gran dimoro,
farem de l'altra
orrevol marchisciana. 8
Fra gli altri
partiremo li casati:
Donati ed Adimar
sian del Capraccia;
di Donaton,
Tosinghi e Giandonati. 11
Se più ve n'ha che
non sian maritati,
dean la parola là
ove più lor piaccia:
e se rilievo v'ha,
sia degli Abati. 14
XXVI
Da che guerra
mì'avete incominciata,
paleserò del vostro
puttineccio,
de la foia, che
tanto v'è montata
che non s'atuteria
per pal di·lleccio. 4
Non vi racorda,
donna, a la fïata
che noi stemmo a
San Sebio in tal gineccio?
E se per moglie
v'avesse sposata,
non dubbiate
ch'egli era un bel farneccio. 8
Che foste putta il
die che voi nasceste
ed io ne levai
saggio ne la stalla:
ché 'l culo in
terra tosto percoteste, 11
e sed io fosse
stato una farfalla,
maraviglia saria,
sì mi scoteste:
voi spingate col
cul, quando altri balla. 14
XXVII
A voi, Chierma, so
dire una novella:
se voi porrete il
culo al colombaio,
cad io vi porgerò
tal manovella,
se non vi piace, io
no ne vo' danaio. 4
Ma tornerete
volontier per ella,
ch'ella par
drittamente d'un somaio:
con tutto che non
siate sì zitella
che troppo colmo
paiavi lo staio. 8
Adunque, Chierma,
non ci date indugio,
che pedir vi
farabbo come vacca
se porrete le
natiche al pertugio. 11
Tutte l'altre
torrete poi per acca:
sì vi rinzafferò
col mio segugio
ch'e' parrà ch'Arno
v'esca de la tacca. 14
XXVIII
Quando ser Pepo
vede alcuna potta
egli anitrisce sì
come distriere
e no sta queto:
inanzi salta e trotta
e canzisce che par
pur un somiere; 4
e com' baiardo ad
ella si ragrotta
e ponvi il ceffo
molto volontiere,
ed ancor de la
lingua già non dotta
e spesse volte
mordele il cimiere. 8
Chi vedesse ser
Pepo incavallare
ed anitrir, quando
sua donna vede,
che si morde le
labbra e vuol razzare, 11
quelli, che dippo
par non si ricrede:
quando v'ha 'l
ceffo sì la fa sciacquare,
sì le stringe la
groppa ch'ella pede. 14
XXIX
El Muscia sì fa
dicere e bandire,
qual donna non
avesse buon marito,
ch'aggia picciol
dificio da servire,
che vada a·llui,
cad e' n'è ben fornito. 4
Ed ancor questo fa
nel bando dire,
ch'è sedici once,
sanza i·rimonito;
e dice ben, se no
la fa pedire
a ogni tratto, ch'e'
vuol perder lo 'nvito. 8
Ma se se ne
aterranno al mio consiglio,
inanzi il
proveranno ver' di mezzo,
que' c'ha la
schiena bianca e 'l co vermiglio; 11
e poi, quando verrà
colà 'l da sezzo,
darannovi con ambo
man di piglio,
ch'a ben
ripalleggiarlo egli è un vezzo.
14
XXX
Amor fa nel mio cor
fermo soggiorno
e quindi non si
parte né va fori,
ma manda li suo'
messi spesso intorno
cercando e
provedendo gli amadori. 4
E 'ntende le ragion
ciaschedun giorno:
a tal dà gioia, a
tal dona dolori;
ma 'l meo Segnore
ha me in tal loco adorno
ch'io passo tutti
gli altri intenditori. 8
Oi core orrato più
di nessun core,
perch'ami la
megliore e la più gente;
orrato, poi che
torna teco Amore! 11
Cortese ed amoroso
meo Segnore,
di cui mi credo
star leal servente,
non vi so graze far
di tanto onore. 14
XXXI
Tutte le donne
ch'io audo laudare,
parmi che lor non
aggiano bieltate;
quando posso la mia
donna membrare
son neiente le
laude che son date: 4
ma' che vorria
ch'Amor tanto in parlare
mi desse graza
ch'io con veritate
savesse a tutta
gente adimostrare
com'è somma de
l'altre donne nate. 8
Dëo, che maraviglia
sembreria
a dir tanta smisura
di bellezze
quante son quelle
di madonna mia! 11
Perch'io non posso
dir le grand'altezze;
io non so se m'aven
per gelosia
ch'io nonn-oso
nomar le sue adornezze. 14
XXXII
Come pote la gente
soferire,
donna amorosa,
standovi lontana?
Chi vive como si
puote partire
da la vostra
gioiosa cera umana? 4
Ben me ne
maraviglio, a lo ver dire,
ché de le donne
siete la sovrana.
Come si trova
i·llor tanto fallire
ched a·llor non
istate prossimana? 8
Eo nol dico,
madonna, che mi doglia
di questo fallo che
la gente face:
paremi così grande
maraviglia. 11
E so ben che non
fora vostra voglia,
e me
dismisuratamente piace:
tanta di gelosia
l'Amor m'apiglia. 14
XXXIII
I' aggio inteso che
sanza lo core
non pò l'om viver
né durar neiente;
ed io vivo
sanz'esso, e lo colore
però non perdo, né
saver, né mente: 4
ma solo per la
forza del Segnore
che 'l n'ha
portato, che, tanto potente,
lo dipartì dal
corpo, ciò fue Amore:
e' l'ha miso in
balìa de l'avenente. 8
Lo cor, quando dal
corpo si partio,
disse ad Amor: 'Segnore,
in quale parte
mi meni?' E que'
rispose: 'Al tuo disio'. 11
'In tale loco è che
già mai non parte';
insieme sta il meo
core e 'l disir mio:
così vi fosse il
corpo in terza parte! 14
XXXIV
Madonna, quando eo
voi non veggio in viso,
tant'è forte e
dogliosa la mia pena
che 'n su la morte
mi conduce e mena,
non m'aucide e
tenemi conquiso. 4
E quando eo sto da
voi, bella, diviso,
languisco se l'Amor
non mi rimena;
e 'l vostro bel
riguardo mi dà lena
e mi ritien ch'io
non mi sono auciso. 8
Volete audire,
amor, gentil penzero
per ch'io donare a
me morte non voglio?
che dico: 'Con'
vedrei poi 'l viso clero?' 11
E sed io nol
vedesse com'io soglio,
come faria? Però
non mi dispero.
Amor, merzé, che
tango aggio d'orgoglio. 14
XXXV
Dovunque eo vo o
vegno o volgo o giro,
a voi son, donna
mia, tuttor davanti,
e s'eo co·gli occhi
altrove guardo o miro,
lo cor non v'è, poi
ch'io faccio i sembianti. 4
E spesse volte sì
forte sospiro
che par che 'l cor
dal corpo mi si schianti:
alor piango e
lamento, e non m'adiro,
ma li mei occhi
bagno tutti quanti; 8
e dolzemente faccio
mio cordoglio,
tuttor, mia donna,
a voi merzé chiamando
umilemente più
quant'eo più doglio. 11
Durar non posso più
disiderando;
non aggio di voi
quello ch'aver soglio:
morrò per voi
piangendo e sospirando. 14
XXXVI
Merzé, madonna, non
mi abandonate,
e non vi piaccia
ch'io stessi m'aucida;
poi che venne da
voi questa amistate,
dovetemi esser
donna, porto e guida. 4
Durar non posso
più, se mi tardate
conven per ben la
morte mi conquida.
Oi amorosa somma di
bieltate,
piacciavi ch'io
diporti e giochi e rida. 8
In voi è la mia
morte e la mia vita:
oi, donna mia,
traetemi di pene;
se nol fate, la
vita a mort'è gita. 11
E se di me,
madonna, a voi sovene,
la mia faccia
dogliosa e scolorita
ritornerà 'n istato
di gran bene. 14
XXXVII
Amore, onde vien
l'acqua che lo core
agli occhi senza
mai rifinar manda?
Saria per tuo
comandamento, Amore?
Eo credo ben che
mova a tua dimanda. 4
E' pare a me che
surgia di dolore,
e convien che con
duol degli occhi spanda;
ché, se dagli occhi
non uscisse fore,
lo cor morria: Amor
no lo comanda. 8
Amor non vol ch'io
moia, ma languendo
viva: così cortese
segnoria
mi faccia Amor, po'
ch'io non mi difendo. 11
In quest'è tutta la
speranza mia:
che tanto le starò
merzé cherendo,
che sia pietosa più
sua segnoria. 14
XXXVIII
L' afanno e 'l gran
dolor ch'io meco porto
mi dovria mille
fiate avere auciso;
ma per la dismisura
non son morto,
che men dolor
m'avria morto e conquiso: 4
ch'io son degli
smarruti capo e porto,
sì come d'ogni
gioia paradiso:
adunque chi ha pena
e disconforto
comeco i·nullo logo
sia conmiso. 8
Per ch'io voglio
esser de l'altrui mal miro,
e voglio a
ciaschedun dar guerigione
veggendo lo mio
pianto e lo sospiro. 11
Non avranno mai dol
né pensagione,
tant'è lo male
ch'io comeco tiro:
perché de me' morir
nonn-è stagione. 14
XXXIX
Tant'è lo core meo
pien di dolore
e tant'è forte la
doglia ch'eo sento,
ca s'e' de la mia
pena mi lamento
la lingua il dice
sì, che par dolzore. 4
A me foria mistier
che lo mio core
parlasse, ch'e'
mostrasse il suo tormento:
eo credo certo,
sanza fallimento,
ca di pietà ne
piangerebbe Amore. 8
Oi core meo e
occhi, che farete?
Cor, come soferrai
dolor cotanto?
ed occhi, voi che
sì spesso piangete? 11
Amor, merzé,
ch'aleni lo mio pianto;
e voi, per Dio,
madonna, provedete
che lo dolor del
cor ritorni in canto. 14
XL
Similmente la notte
come 'l giorno
io dormo e poso ed
ho sollazzo e gioco,
e simile mi volgo e
giro intorno
e sto, senza
pensier doglioso, poco; 4
e spesse volte a
pianger mi ritorno
e quindi bagno
l'amoroso foco,
e lo pensiero e 'l
pianto è 'l mio soggiorno:
oi lasso, che tutto
ardo e 'ncendo e coco! 8
E nessun foco mai
cangia calore
o che faccia
languire o tormentare,
per certo non, con'
fa il foco d'Amore, 11
che 'l natural ti
fa poco durare:
ma quegli ha vita,
ca più tosto more,
a cui non vole
Amore alegro fare. 14
XLI
Amore, a voi
domando perdonanza,
sì como fin
servente al suo segnore,
s'eo dico cosa che
vi si' a pesanza,
ché soferir non pò
la doglia il core. 4
Sacciate che segnor
sanza pietanza
tanto non val, con'
s'ha pietoso il core.
Oimè, che dissi!
Forse che fallanza
terrà che 'nver
di·llui dett'aggia Amore. 8
Vengianza, se
fallato aggio, ne prenda,
ché la pena
m'incalcia e dà conforto
ch'io dica, e poco
pensa ch'io misprenda. 11
Però perdon dovria
trovar del torto;
ma prego la ragion
che mi difenda
e de l'altezza mi
conduca a porto. 14
XLII
Tutto lo giorno
intorno vo fuggendo,
credendomi campar,
davanti Amore,
e s'io trovo
nessun, forte piangendo
lo prego che mi
celi al mio Segnore. 4
Oi lasso, con' gran
pene soferendo
condotto ho me
medesmo in questo errore!
ché, quando i' sono
assai gito languendo,
io trovo Amor che
m'è dentro dal core. 8
Così la pena c'ho
mi mena e caccia,
che mi fa soferir
l'amore amaro,
che spesso il
giorno il cor m'arde ed aghiaccia. 11
E non mi manca
pena, ched io saccia;
lo mal m'è vile e
'l ben m'è troppo caro:
Amor, merzé, ch'io
non so ch'io mi faccia. 14
XLIII
Amor, poi che del
mio mal non vi dole,
più siete inver' di
me fero che fera;
Amor, guardate
inver' le mie parole:
s'aggio fallato,
piacciavi ch'io pèra. 4
E s'io nonn-ho
mancato, come sole
lo mio cor
ritornate a quella spera,
che tanto quanto
guarda o gira il sole
più doglioso di me
merzé non chera. 8
Oi Morte, chi
t'apella 'dura Morte'
non sente ciò ched
io patisco e sento,
ché, se mi vuoli
aucider, mi conforte; 11
ché la mia vita
passa ogni tormento.
Oi Morte, perché
l'arma non ne porte
e falla far dal
secol partimento? 14
XLIV
A nessuno omo
adivenne già mai
ch'Amor prendesse
altrui sanza veduta;
a meve è adivenuto;
non pensai
ca sì forte
pungesse sua feruta. 4
Ch'e' mi tormenta e
dona pena assai,
se madonna amorosa
non m'aiuta,
che m'ha in balìa;
ed io medesmo il sai,
che·ll'ho donato il
cor sanza partuta. 8
Dunque mi dé'
campare, ed a ragione:
qualunque buon
segnore a suo servente,
che·llui ha messa
tutta sua intenzone, 11
non dé' sofrir ch'e'
moia di neiente,
ché·lli sarabbe
grande riprensione:
questo fedel son
io, donna valente. 14
XLV
Unqua per pene
ch'io patisca amando,
lasso, già non
vorria disamorare:
omè, che per aver
disiderando,
ciò ch'io sostegno
non porria mostrare. 4
Ché solo pur le
lagrime ch'io spando
sovente fannomi
maravigliare;
e quanto più
languisco e vo penando,
alor si ferma il
cor meo più d'amare. 8
E s'ïo ardisse
d'incolpare Amore,
eo diceria
ch'avesse di me torto,
dapoi che fuor di
me nonn-è dolore. 11
Se non che spero
ancor d'aver conforto,
là dov'è grande
pregio e gran valore:
sol è colpa d'Amor
s'io pene porto. 14
XLVI
Ispesse volte voi
vegno a vedere
per sodisfare agli
occhi ed a lo core;
ma quand'eo parto
sì mi stringe Amore
ch'io non saccio
che via deggia tenere. 4
E di tornar mi
sforza lo volere,
sì m'ha 'nfiammato
Amor del suo calore;
e poi, quando mi
parto, lo dolore
alor ritorna, e
partesi il piacere. 8
Adunque, lasso,
como deggio fare?
Ch'io non posso
tuttor madonna mia
veder co·gli occhi,
e 'l cor fare alegrare. 11
Gentile ed amorosa
più che sia,
e' sai in che guisa
tu mi puoi campare:
non pèra sanza
gioia, ch'io non dovria. 14
XLVII
Sì tosto con' da
voi, bella, partuto
son, mantenente
ritornar vorria;
e sentome
mortalmente feruto,
perdo la conoscenza
e:lla balìa. 4
Ma sì non perdo
ch'io no speri aiuto
di voi, gentil più
ch'altra che mai sia:
ch'io son fedel
d'Amor tanto vivuto
a la speranza di
voi, donna mia. 8
Sì come il
partimento mi dà noia,
amorosa e gentil
donna piagente,
così è·ritornar
somma di gioia. 11
E se non fosse
l'anoiosa gente,
la qual disia che
doloroso moia,
eo viveria per voi
alegramente. 14
XLVIII
Io non auso rizzar,
chiarita spera,
inver' voi gli
occhi, tant'ho gelosia,
e feremi nel viso
vostra spera,
e gli occhi abasso
e non so là ove sia. 4
Oi amorosa ed
avenante cera,
non mi tardate la
speranza mia,
ch'ad onta de la
gente malparliera
mi riterrete in
vostra segnoria. 8
Deo, como son
lontan da me' pensiero
li falsi e li
noiosi maldigenti,
che là non volgo
l'arco ov'eo ne fero; 11
ma tutavia mi fan
sofrir tormenti,
ché spesso
l'amoroso viso clero
s'asconde per li
falsi parlamenti. 14
XLIX
Quant'io verso
l'Amor più m'umilìo,
a me più mostra
fera segnoria;
e più monta e
cresce il meo disio,
e più mi tien
doglioso notte e dia. 4
Adunque, lasso,
como faraggio io,
se non mi
soccorrete, donna mia?
Se mi tardate,
bella, lo cor mio
durar non pò più
vita, anzi va via. 8
Ciascun mi guarda
in viso e fa dimando,
veggendomi cangiato
lo visaggio;
ed io celo la
doglia mia in parlando, 11
e non ardisco dir
lo meo coraggio,
perch'io l'ho da la
mia donna in comando.
Oi lasso,
ch'attendendo mi morraggio! 14
L
Tanto di cor verace
e fino amante
i' son, madonna,
inver' di voi stato,
che quando fosse a
voi, cor me', davante,
eo non pensava
d'esservi incolpato. 4
E s'io facea
davanti altrui sembiante,
già non credea di
nulla esser guardato;
ond'io doglie ne
porto e pene tante
che morte vita mi
sarebbe in grato. 8
Qual uomo ama di
cor perfettamente,
nonn-ha mai
conoscenza né misura,
tant'è lo foco de
l'amore ardente. 11
E se per nulla
cangiasi natura,
sì fa per gli
amador veracemente,
tant'è lor
condizion dogliosa e dura. 14
LI
Or ho perduta tutta
mia speranza
e non attendo mai
gioia né diporto,
poi che madonna,
ch'era il mio conforto,
cangiata m'ha la
sua bella sembianza, 4
e fatt'ha
co·l'Amore sua acordanza
ch'io viveraggio
assai peggio che morto.
Ai dolce donna mia,
pensa che torto
hai di mia greve e
dura malenanza! 8
Oi gentil donna,
come faraggio eo?
Dapoi che ver' di
me cangiata siete,
già mai nulla
allegranza non ispero. 11
Ma 'l fino amor
ch'io porto, viso clero,
in gioia mi
tornerà; come solete
sarete pïetosa,
amore meo. 14
LII
Lo vostro dolze ed
umìle conforto
sì tosto giugner
com'ho disïanza:
ond'io però la vita
in core porto,
e per aver di voi
ferma speranza. 4
Ma rea fortuna non
mi lascia in porto
sì tosto giugner
com'ho disïanza:
ma, tosto ch'anderà
via il tempo torto,
mi riterrà madonna
in sua possanza. 8
Da che madonna dol
quand'io aggio doglia,
dovria più
soferente esser del male,
poi che 'l mio ne
saria ben per sua voglia. 11
Ed è ben sì cortese
e tanto vale
che spesso si
lamenta e si cordoglia,
ed ha dolor di mia
pena mortale. 14
LIII
'Poi che voi piace
ch'io mostri alegranza,
madonna, ed i' 'l
faraggio volontiera'.
'Meo sire e tutta
mia disideranza,
alegra lo tuo core
e la tua cera'. 4
'O donna mïa, merzé
e pietanza
dimando, se
mostrat'ho doglia fera'.
'Meo sire, se
ralegri tua sembianza:
già mai non cangerò
disio né spera'. 8
'Merzede, Amor,
ch'io non saccio che dire
ver' la mia donna,
tanto m'è gioiosa:
tu se' il mio core,
Amore, e 'l meo disire'. 11
'Oi amador, di fin
cor l'amorosa
lëalmente ama senza
mai fallire,
però ch'ell'ama te
sovr'ogni cosa'. 14
LIV
(MADONNA)
Oi amoroso e mio
fedele amante,
amato più di
null'altro amadore,
se tu ti doli, i'
aggio pene tante
ch'ardo tutta ed
incendo per amore. 4
E se lo core meo
fosse diamante,
non doveria aver
forza né valore;
e se di doglia in
cera fai sembiante,
eo sono, eo, quella
che la porto in core. 8
Amore meo, cui più
coralmente amo
ch'amasse già mai
donna suo servente,
e che non fece
Tisbïa Prïamo, 11
l'atender non ti
sia disavenente,
ched io tanto del
cor disio e bramo
che picciol tempo,
amor, serai atendente. 14
LV
(MESSERE)
Graza e merzé vi
chero e a voi mi rendo,
donna, ch'io per
neiente non son degno;
l'amoroso consiglio
vostro prendo,
sperando venire nel
vostro regno. 4
E s'io aggio
fallato, al vostro amendo
son, di voi, donna,
mio core e sostegno;
e s'io lamento e
doglio e non atendo,
ormai di più doler
muto divegno. 8
La vostra doglia
sia la doglia mia,
e la mia doglia
metto 'n ubrianza;
più pene sofero
ch'io non sofria: 11
ma non, mia donna,
che paia sembianza.
Gentile ed amorosa
più che sia,
a voi rendo merzé
d'esta inoranza. 14
LVI
(MADONNA)
Assai mi son
coverta, amore meo:
oi lassa me, più
non posso sofrire;
cotanto forte
d'amor son presa eo
ch'io non aggio
potenza, omè, di dire. 4
Ch'io nonn-amo né
temo tanto Deo
quanto te, amoroso
e dolze sire,
e vo' ben che tu
sacce e penzi ch'eo
condotta son per te
presso al morire. 8
E se co·gli occhi
piangi o ti lamente,
e' son quella che
non trovo riposo
lo dì ch'io non ti
veggio, amor piagente. 11
E se due giorni o
tre mi stesse ascoso,
io n'anderei
piangendo infra la gente,
cherendo te, meo
sir disideroso. 14
LVII
(MESSERE)
Gentile ed amorosa
ed avenente,
cortese e saggia
con gaia sembianza,
ben aggia il giorno
che vostro servente
Amor mi fe', di voi
che somiglianza 4
non avete né pare,
al mio parvente.
Conforto e doglia
m'è vostra pesanza,
pensandome ch'Amor
veracemente
vi stringa, dolce
donna, per amanza. 8
Di ciò prendo
conforto nel coraggio,
e dolemi se voi
doglia portate,
ché quando voi
dolete io gioia non aggio. 11
Ma se di me vi pesa
o se m'amate,
Amor ringrazo, che
'n suo segnoraggio
mi tene, e voi,
madonn', ha in potestate. 14
LVIII
Due cavalier
valenti d'un paraggio
aman di core una
donna valente;
ciascuno l'ama
tanto in suo coraggio
che d'avanzar
d'amar saria neiente. 4
L'un è cortese ed
insegnato e saggio,
largo in donare ed
in tutto avenente;
l'altro è prode e
di grande vassallaggio,
fiero ed ardito e
dottato da gente. 8
Qual d'esti due è
più degno d'avere
da la sua donna ciò
ch'e' ne disia,
tra quel c'ha 'n sé
cortesia e savere 11
e l'altro d'arme
molta valentia?
Or me ne conta
tutto il tuo volere:
s'io fosse donna,
ben so qual vorria. 14