Le
aureole
L’anima
a Guido W. Sbordoni
Tu sai: l’anima invano si
martòra
di sogni; al mar non più le
fragorose
acque dei fiumi giungon desiose
di confondere lor voce sonora
con quella che sì forte le
innamora
da farle di ogni immagine
obliose,
ma van per l’onda petali di rose
come se Ofelia vi dormisse
ancora.
Tu sai: l’anima ben vide cadere
tutte le foglie e in ogni foglia
un puro
desiderio, fin che, in suo
tormento,
le parve dolce figurarsi in nere
vesti, per sempre crocifissa al
muro
di un lontano antichissimo
convento.
Il
fanale
a Alfredo Tusti
Torbido e tristo nella solitaria
via, davanti la porta del
postribolo,
s’affioca e il buono incenso del
turibolo,
forse, è la nebbia che fa opaca
l’aria.
Mai sacerdote curvo per i sacri
facili gradi d’un superbo altare
seppe con dolce sapienza fare
omaggio a i freddi e vani
simulacri.
Per i vetri malchiusi, a tratti,
un grido
fugge e ne trema il cuore del
fanale
e pensa la corsia d’un ospedale
e un vuoto desolato nel suo
nido.
Nido, ché, all’alba, sempre una
leggiadra
bocca una cara nostalgia
d’aprile
diffonde, giù, nel piccolo
cortile
che sogna il sole e fosche nubi
inquadra.
Forse è la stessa che l’ombra di
rauchi
singhiozzi seminò, forse è la
stessa
che fredda rise a una volgar
promessa
e spasimò sotto i grandi occhi
glauchi.
La notte, oh, quale triste
cantilena
langue per le tre camere fumose
in fin che al suolo cadano le
rose
disfatte sulla lunga veglia
oscena,
in fin che su la solitaria via
strida la chiave dell’antica
porta
e che la tua, fanal, fiamma sia
morta
di passione e di malinconia.
Stelle! Non forse nell’orror
notturno
di una turba briaca o di una
muta
breve agonia, non forse t’è
venuta
dolce una voglia, fanal
taciturno,
di stelle? e non ti tenne
un’amarezza
grande e un odio pel tuo triste
destino
e non ti parve poi, spento, al
mattino,
di sentirti morire di tristezza?
Cuor che ti duoli, soddisfatto
mai,
della vacuità de gli orizzonti,
oh, bevi alle tue buone e chiare
fonti,
oh, cogli rose a’ tuoi bianchi
rosai,
ma non guardare, non udire, va’
dolce e solingo e la tua lampa
rechi
luce a te solo e invano gli
altri, ciechi,
implorino la buona carità.
Spleen
Che cosa mi canterai tu
questa sera?
Amica, non voglio pensare
troppo: la prima canzone
che ricordi, antica,
non importa;
una di quelle canzoni
che non si cantano più
da tanto,
che non fanno più schiuder
balconi
da un secolo. Vuoi
darmi la nostalgia
di una canzone morta?
Sei triste, mi dai pena
questa sera; non canti, non mi
parli...
Che hai? malinconia
di morire? Ti duoli
perché siamo soli?
Ricordi l’ultimo ballo
nel tuo salotto giallo
roso dai tarli?
Sai che è primavera?
Io non me n’era accorto;
non ho rosai,
non ne ho avuto mai
nel mio triste orto.
Perché non suoni? Langue
di desiderio
quel tuo piccolo pianoforte
esangue,
nell’ombra; o non così,
amica,
l’anima ci sospira nell’attesa
di chi
sappia farla vibrare?
Oh, che tristezza! Pare,
nel biancore lunare,
malata di etisia,
con tutte le sue porte
chiuse, la nostra via
diserta e quel fanale
solo e torbido pare
che attendendo la morte
ne vegli l’agonia.
Sonetto della neve
Nulla più triste di quell’orto
era,
nulla più tetro di quel cielo
morto
che disfaceva per il nudo orto
l’anima sua bianchissima e
leggera.
Maternamente coronò la sera
l’offerta pura e il muto cuore
assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.
Ma poi che l’alba insidiò co’ ’l
lieve
gesto la notte e, per l’usata
via,
sorrisa venne di sua luce
chiara,
parve celato come in una bara
l’orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.
La
finestra aperta sul mare
a Francesco Serafini
Non rammento. Io la vidi
aperta sul mare,
come un occhio a guardare,
coronata di nidi.
Ma non so né dove, né quando,
mi apparve; tenebrosa
come il cuore di un usuraio,
canora come l’anima
di un fanciullo. Era
la finestra di una torre in
mezzo al mare, desolata
terribile nel crepuscolo,
spaventosa nella notte,
triste cancellatura
nella chiarità dell’alba.
Le antichissime sale morivano
di noia: solamente l’eco delle
gavotte,
ballate in tempi lontani
da piccole folli signore
incipriate,
le confortava un poco.
Qualche gufo co’ i tristi
occhi, dall’alto nido
scricchiolante incantava
l’ombra vergine di stelle.
E non c’era più nessuno
da tanti anni, nella torre,
come nel mio cuore.
Sotto la polvere ancora,
un odore appassito, indefinito,
esalavano le cose,
come se le ultime rose
dell’ultima lontana primavera
fossero tutte morte
in quella torre triste, in una
sera triste.
E lacrimava per i soffitti
pallidi, il cielo, talvolta
sopra lo sfacelo delle cose.
Lacrimava dolcemente
quietamente per ore
e ore, come un piccolo fanciullo
malato.
Dopo, per la finestra
veniva il sole, e il mare,
sotto, cantava.
Cantava l’azzurro amante,
cingendo la torre tristissima
di tenerezze improvvise,
e il canto del titano
aveva dolcezze, sconforti,
malinconie, tristezze
profonde, nostalgie
terribili... Ed egli le offriva
i suoi morti,
tutte le navi infrante,
naufragate lontano.
Una sera per la malinconia
di un cielo che invano
chiamava da ore e ore
le stelle, volarono via
con il cuore
pieno di tremore
le ultime rondini e a poco
a poco nel mare
caddero i nidi: un giorno
non vi fu più nulla intorno
alla finestra. Allora
qualche cosa tremò
si spezzò
nella torre e, quasi
in un inginocchiarsi lento
di rassegnazione
davanti al grigio altare
dell’aurora,
la torre
si donò al mare.
Dai
«soliloqui di un pazzo»
Sbarrò nell’ombra i grigi occhi
perduti:
l’alba coglieva con le dita
bianche
le ultime stelle per i cieli
muti.
Egli pensò che il cuor tremi
alle soglie
dell’anima così, come le stelle
treman la notte, alle divine
porte
fin che la pietosa alba le
coglie.
«Hai visto tu passare le
barelle,
o pazzo insonne, con le stelle
morte?»
Chiarità di una lama, o tu che
fendi
l’ombra maligna: io t’offro il
mio cervello
oscuro e tristo per disegni
orrendi.
Io non ho pace, l’anima è un
pantano;
nell’anima stagnarono i ricordi,
subitamente; oh quante volte,
pietre
vi hanno scagliato con secura
mano!
Dopo, il silenzio per i tonfi
sordi
sé avvolse in bende assai più
gravi e tetre.
Un ragno tesse la sua tela folta
per il mio teschio e nella tela
stanno,
morte stecchite, le idee d’una
volta.
Mai più, mai più! su le terrene
cose
l’occhio non sosta, l’occhio si
dispera,
come un’ala ferita ai cieli
tende.
Io voglio la tristezza delle
rose
morte all’inizio della primavera
per farne una corona alle mie
bende.
Il mio cortile con un po’ di
cielo,
con poche stelle, a me sembra
uno strano
fiore: corolla azzurra e grigio
stelo.
Il mio cortile è triste molto,
come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di
pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una
lontana
luce, su li orli, un oro dolce
sfoggia.
Tu che mi ascolti non aver
pietà,
non lacrimare delle mie sventure
come quel Cristo nell’oscurità.
Ah, quel Cristo, lo vedi? egli
moriva
così, come ora, desolatamente,
quando venni alla cella che mi
chiude.
Avea negli occhi una gran fiamma
viva,
la fronte dolce e pur
sanguinolente
e piaghe orrende per le membra
ignude.
Non morì mai, non morrà più: mi
guarda
nel buio e trema quando il lume
trema
come i fanciulli se la sera è
tarda.
A poco a poco si dissangueranno
le sue ferite per la doglia
atroce
infin che un tarlo, — quando? —
lentamente
roda i chiodi terribili che
sanno
l’ossa dell’uomo e il legno
della croce
e spezzi invano quel suo cuore
ardente.
Chi mi parla dell’anima? Un
impuro
ladro, forse, o un abate
incipriato?
L’anima è morta ed io ne son
sicuro.
Come una fonte semplice e
tranquilla
donò la gioia alle riarse gole
degli umani e non seppe, ahimè!
tenere
per la sua sete giovane una
stilla!
Morì così, come un ignoto sole
spento su le fiorite primavere.
Chi batte alla mia porta? sei
tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella
triste?
L’inchiodi forse questa grigia
bara?
Mi ricordo di te, sola; eri
bionda,
esile come un sogno giovinetto,
pallida come un astro mattutino;
te sola, nell’oscurità profonda
del mio cuore, t’accogli per
diletto;
te sola, con il mio tetro
destino.
Chi tenta l’ombra che stagnò nei
trivi
in cui le donne come idee mal
certe
più volte si volgean tentando i
vivi?
Chi veste d’auree stole anche le
immonde
case che il fango d’un amplesso
cinge?
Chi l’oro ai figli della terra
adduce?
Ah, sei tu, sole, che le più
profonde
pupille ferme nell’eterna sfinge
avvivi, anima orgiaca della
luce?!
Il
fanciullo
a Guido Ruberti
Campane d’oro e tu le vuoi, sì,
d’oro,
fanciullo, per il cuore che ti
trema
d’ineffabile angoscia, oh, sì,
campane
d’oro come i castelli de le
fate,
pellegrino che vai senza una
meta,
curvo e pensoso di un lontano
lume
che brilli sulla porta di una
casa
triste ma dolce al tuo
martirio... oh, d’oro,
sì, le campane come le alte
stelle!
Tu le ritroverai le tue sorelle
di un tempo, umili e buone e,
forse, è il loro
riso che canta con le fonti e
trilla
co’ i nidi e luce in fondo alla
tua strada.
Fanciullo, apri il tuo cuore e
in esso cada
l’ultima foglia dell’autunno:
mai
più mortale tristizia
accoglierai
lungo la siepe della eterna
strada.
Tu vuoi morire, ecco, tu vuoi
dormire,
solo, per sempre, con le tue
corone
sfiorite e chiudi le pupille
buone,
dolce, così, che sembra ti
vanisca
l’anima, desolato pellegrino.
E sogni... e nella tua casa in
un tetro
crepuscolo, le pallide sorelle
vanno inquiete per l’assente, il
loro
dolce fanciullo che le consolava
con l’innocenza delle sue
parole,
e ti cercano e guardano le
stelle
che ti guardano, e toccano le
cose
che già toccasti con le timorose
dita e non sanno che tu sei
vicino.
Vicino sì, ma stanco, ma seduto,
ma ignaro. Oh! Dio, queste
campane d’oro
come insistono... chi dunque ti
vuole,
fanciullo, se non il tuo
sogno?... Loro?!
Loro?! ma dove? non ti sei
perduto?
Forse: perduto, e non puoi
ritornare.
Alle tue fonti più non devi
bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi
resuscitare.
Domani, se riprenderai cammino
curvo e pensoso di un lontano
lume
che brilli sulla porta di una
casa,
fanciullo, come il tuo sogno
divino
vorrai morire dopo un breve
andare,
tanto solo e perduto ti sarai,
pellegrino che vai, che vai, che
vai
simile al fiume che non trovi
mare,
al seme che non possa fecondare
per un suo malinconico destino.
Verranno le sorelle a riguardare
su la soglia deserta se non
torni,
dolce il fratello dei lontani
giorni
ancora e sempre... e non potrai
tornare.
Sonetto
a suor Maria di Gesù
Sorella, dolce riguardare il
chiostro
che le vestite d’umiltà
rinchiude,
oggi che aprile giovinetto
illude
soavemente ogni martirio nostro!
E caro m’è pensar dov’io mi
prostro
Gesù trafitto per le membra
ignude
e ancor vorrei pellegrinare in
rude
saio e domar mie carni a più
d’un rostro.
Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi
tiene,
e le anime, sorelle in questa
mia
doglia infinita di levarmi a
volo,
dissetare col sangue delle vene.
Sonetto all’autunno
Dorma l’autunno e sogni ancora
biondo
il dolce vecchio, e il sonno gli
consoli
anche una gioia rapida di voli,
gli ultimi, Santo Stefano
Rotondo.
Forse, domani non varrà un
giocondo
subito trillo a risvegliare i
broli,
forse, domani i nostri cuori,
soli,
turberanno il silenzio profondo.
E noi, dolcezza, non lo
desteremo
il soave malato che non ha
più la speranza della guarigione
come l’anima nostra senza remo,
e senza vele, che non tornerà
mai più nel porto di salvazione.
Alla
serenità
Io t’ò nel cuore e tu, sole, mi
scaldi
e le cose non oggi allo sfacelo
imminente rassegnansi: che
cielo,
oggi! e che squilli! Nunziano
gli araldi
giovinetti l’avvento che sognai?
Come tutto è soave, come tutto
mi canta in cuore! non m’hai tu
costrutto
un nido nei novissimi rosai?
Stelle! che gioia! Quanto cielo
e quanti
voli s’io chiuda gli occhi alla
freschezza
di questa sera piena di
dolcezza,
accolgo in essi ancor tristi di
pianti!
Pianti lontani come le tue,
nonna,
favole buone, come le mie pure
notti, oh, quiete delle creature
che una fata protegge e una
madonna!
Serenità, non tu mi riconduci,
nave di sogno, a una perduta
riva?
non è forse una luce primitiva
questa che vince tutte le altre
luci?
E colgo ancora le margheritine
per i capelli de le mie sorelle
e m’inebrio del sole e de le
stelle
e piango se mi pungono le spine.
Tutto quel che fu mio,
teneramente,
mette le foglie, mette i fiori,
odora;
oh, mai tramonto si sbiancò in
aurora
più di questa soave e più
ridente!
Serenità, ben tu mi ricomponi
gioie profonde per il mio
ritorno,
e suoni tutte le campane a
stormo,
le campane già vedove di suoni,
entro il mio cuore, e vuoi tu
che al fiorito
maggio spalanchi l’umili
finestre
e odori il davanzale di ginestre
e canti ancora quello che
infinito
canto mi parve e non fu che una
nota!
Vuoi che l’orto mi dia ghirlande
e frutti...
ma non sai farmi libero di
lutti,
ma non sai popolarmi questa
vuota
casa! E allora?... perché farmi
tornare?
Serenità: quiete al mio tormento
vana, sono perduto, ora, mi
sento
morire e gli occhi s’empiono di
bare
e questo cielo non conobbe voli
mai, questa casa non s’aprì alla
gioia,
serenità, serenità, ch’io muoia
dunque se il cuore tu non mi
consoli,
se non valse al dolor tua
compagnia,
se il passato mi stringe sì che
in ogni
luogo ritrovo i miei perduti
sogni
pieni di una mortale nostalgia.
A la
sorella
Tu che non hai per la tua doglia
viva
una madre serena che consoli,
un orto dolce con i girasoli
e il canto di una limpida
sorgiva,
tu che, accesa una lampada
votiva,
pregavi per i tuoi fratelli soli
e per la doglia di che tu ti
duoli
la bocca non ad implorar
s’apriva,
tu che mi sei tristissima
sorella,
batti alla porta del mio cuore
vano,
lascia che io senta il tuo cuore
tremare
nel mio come una stella in una
stella
per un cielo più novo e più
lontano
sovra il pianto degli uomini e
del mare.
Sonetto della desolazione
Anima, come oggi nessuno arriva,
non tendere le pallide tue mani
a i cieli, troppo noi siamo
lontani
e troppo melanconica è la riva.
Dici: domani... Oh, non sperar
domani
più! La speranza è nel tuo cuore
viva
così che l’abbandono la ravviva
con i suoi tristi addii
quotidiani?!
Ben ora è che di tutto si
disperi
e che il rosario dei futuri
giorni
ci conduca al più puro dei
misteri
in queste solitudini malate,
vedove di partenze e di ritorni,
simili a stazioni abbandonate.