L’amaro calice
a Cesare
Chiappa
Invito
Anima pura come un’alba pura,
anima triste per i suoi destini,
anima prigioniera nei confini
come una bara nella sepoltura,
anima, dolce buona creatura,
rassegnata nei tristi occhi
divini,
non più rifioriranno i tuoi
giardini
in questa vana primavera oscura.
Luce degli occhi, cuore del mio
cuore,
tenerezza, sorella nel dolore,
rondine affranta nel mio stesso
cielo,
giglio fiorito a pena su lo
stelo
e morto, vieni, ho spasimato
anch’io,
vieni, sorella, il tuo martirio
è il mio.
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti
immenso
come il cuore di Cristo, ora sei
morto;
t’accoglie non so più qual
triste orto
odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per
amare
e tutti ho amato! Ho pianto
tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i
vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come
il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si
gela,
fu vano e ignoto sempre, ignoto
e vano!
Come un’antenna fu il mio cuore
umano,
antenna che non seppe mai la
vela.
Fu come un sole immenso, senza
cielo
e senza terra e senza mare,
acceso
solo per sé, solo per sé sospeso
nello spazio. Bruciava e parve
gelo.
Fu come una pupilla aperta e
pure
velata da una palpebra latente;
fu come un’ostia enorme,
incandescente,
alta nei cieli fra due dita
pure,
ostia che si spezzò prima
d’avere
tocche le labbra del
sacrificante,
ostia le cui piccole parti
infrante
non trovarono un cuore ove
giacere.
Cappella in campagna
I
Giù dall’antica grata, estenuati
i fiori morti, su l’altare, il
Santo,
dolcissimo nel suo nitido manto,
con gli occhi un po’ velati, un
po’ velati
forse, chi sa, da qualche umano
pianto;
due ceri gialli, senza fiamma, a
i lati,
due ceri senza fiamma,
inanimati,
come i cuori che mai sepper lo
schianto.
La ghirlandetta d’una
verginella,
sfiorita a pena a pena, intorno
a i biondi
capelli di una nitida madonna;
nel mezzo, una colonna; una
colonna
sfinita, in essa un pio nido di
rondini,
solo, coperto d’erba tenerella.
II
Venni non so per quale sogno
assai
dolce al mio cuore umile; fu
ieri
mattina; volli portare due ceri
nuovi, due ceri bianchi come mai
e due rose — ho i miei piccoli
rosai
anch’io — due rose bianche come
i ceri;
sembravano fiorite in monasteri
chiuse, le rose, in languidi
rosai.
Oh la fiamma purissima, oh il
profumo
novo ch’io seppi nella breve
stanza
che la mano soave ricompose!
La Madonna, un po’ triste fra le
rose,
disse: Che vale tua dolce
esultanza
s’io per dolore sempre mi
consumo?
III
Su i candelabri, i ceri arsero
in pura
fiamma, come due cuori amanti;
tutti
arsero, e per un poco su i
distrutti
avanzi andò la fiamma malsecura.
Nell’aria fu un odor di
sepoltura
e il cuore ripensò tutti i suoi
lutti,
come il pesco ripensa i dolci
frutti
nella feconda estate moritura.
Le rose giovinette, ne la pia
solennità, esalarono la breve
anima; oh gli atti e le
preghiere vane!
Quanta tristezza scese nella mia
anima, quando da non so qual
pieve
giunse pei cieli un suono di
campane!
IV
Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una
chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più
bruna,
più nera. Ho nel cuore una
tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza; oh non potrebbe ora
la luna
scendere un poco da la dolce
altezza?
Distinguo a pena la Madonna, ha
immoti
gli occhi lucidi come lame, come
le sette spade che le stanno in
cuore;
intorno, un po’ d’argento luce:
i voti
de gli umili, de i buoni senza
nome
ch’ebbero ancora fede nel
dolore.
Il
cuore e la pioggia
O mia piccola dolce casa,
vergine rossa
c’hai vergogna e ti celi in un
manto di foglie
qua e là strappato, ancora
nell’occhio si raccoglie
un pianto triste e il cuore
prova una fredda scossa
s’avvenga che ripensi le tue
diserte soglie,
il tuo muto giardino, la terra
non rimossa
da tempo grande, come la terra
d’una fossa,
la fossa ch’ogni mia dolce
speranza accoglie.
Piccola casa rossa che il molle
abbraccio tenta
del fiorito viale con mille
incantamenti,
nell’ora triste in cui mi parve
uscir di vita,
non io rossa ti vidi, ma come se
una lenta
lagrima assai t’avesse corse le
guancie ardenti,
mi sembrasti d’immenso dolore
impallidita.
St. Moritz.
Ballata del fiume e delle stelle
L’antichissimo fiume nella sera
estiva si sentì stanco di
andare;
era tanto lontano ancora il
mare,
e quella notte così dolce era!
Le luminose vennero al notturno
appuntamento e, come se uno
strano
desiderio superbo le tenesse,
convennero sul fiume taciturno
ove come in un ciel novo e
lontano
tutte si rimirarono riflesse.
L’orgoglio suo, l’alta sua gioia
espresse
il fiume: «Ben divenni un cielo
anch’io!»
All’alba, come pianse quando il
pio
lume svanì nella cinerea sfera!
A
Carlo Simoneschi
Carlo, malinconia
m’ha preso forte, sono
perduto; così sia.
Carlo, un giorno ch’io sia
più tenero, più buono,
più docile al perdono,
che in un lungo abbandono
ancora ignoto io dia,
malinconico dono,
tutta l’anima mia,
quel giorno, amico, prono
mi vedrai nella via
morto di nostalgia
e di malinconia.
Poi che, Carlo, ben sono
perduto, così sia.
Toblack
I
...E giovinezze erranti per le
vie
piene di un grande sole
malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente
uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un
lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni,
tutte
le notti, e in alto, un cielo
azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un
occhio
di madre che rincuora e
benedice.
II
Le speranze perdute, le
preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni
infranti,
le inutili parole de gli amanti
illusi, le impossibili chimere,
e tutte le defunte primavere,
gl’ideali mortali, i grandi
pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno
bere,
e quanto v’ha Toblack
d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua
divina
terra, è in questo tuo sole
inestinguibile,
è nelle tue terribili campane,
è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange, Morte che
cammina.
III
Ospedal tetro, buona penitenza
per i fratelli misericordiosi
cui ben fece di sé Morte pensosi
nella quotidiana esperienza,
anche se dal tuo cielo piova,
senza
tregua, dietro i vetri lacrimosi
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.
Sempre, così finché verrà la
bara,
quietamente, con il crocefisso
a prenderli nell’ultima corsia.
A uno a uno Morte li prepara,
e tutti vanno verso il tetro
abisso,
lungo, Speranza! la tua dolce
via!
IV
Anima, quale mano pietosa
accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli spedali
ove la morte miete senza posa?
Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali;
disperata etisia degli Ideali
anelanti la cima gloriosa!
Ora tutto è quieto: nelle bare
stanno i giovini morti senza
sole,
arde in corona la pietà de’
ceri.
Anima, vano è questo lacrimare,
vani i sospiri, vane le parole
su quanto ancora in te viveva
ieri.
La
chiesa venne riconsacrata...
al poeta Carlo Govoni
Il sagrestano pazzo
traversò la chiesa oscura,
lentamente, con il mazzo
delle chiavi appeso alla
cintura.
I frati, ne le piccole celle,
dicono le orazioni
de la sera, poi, quando le
stelle
prime de l’Ave Maria
stanno su le cose terrene,
ogni monaco viene
al suo piccolo letto,
nitido come un altare,
e accende il luminetto
a la Vergine Maria,
che non fa che lagrimare
perché ha sette spade in core
che le dànno acerba doglia,
sempre acerba e sempre lenta!
Poi ognuno si spoglia,
e ognuno s’addormenta
nella pace del Signore.
L’acquasantiera di bronzo,
tonda,
sembra un occhio lagrimoso
che il suo pianto silenzioso
a stille su le fronti de gli
uomini diffonda.
I confessionali, con le loro
tendine verdi un po’ sciupate,
con le piccole grate
gialle che ne l’ombra sembrano
d’oro,
sonnecchiano allineati,
ognuno con le sue due candele
spente a i lati.
Sono essi, alveari ove ronzino,
api, i peccati,
e l’assoluzione sia miele?
Un rosario di granatine
a i piedi del Crocifisso morente
sembra sangue gocciato
lentamente
dalla fronte coronata di spine.
Un piccolo libro delle
Massime Eterne fu dimenticato
sopra una sedia, aperto.
È logoro. Certo,
è d’una delle solite beghine
che vengono la sera.
Fra le pagine c’è un Santo:
san Giovanni decollato;
dietro il Santo, una preghiera.
Il libro dimenticato
aperto, è l’unica bocca che
parli
nella chiesa silenziosa,
è l’unico occhio che veda,
nella chiesa oscura,
la morte della creatura.
Il sagrestano recise la grossa
corda per cui pendeva davanti la
figura
di Cristo, la lampada rossa
con la sua fiamma quieta e pura.
La lampada cadde con sorda
percossa su le pietre
sepolcrali;
l’uomo con tre moti uguali
girò intorno al collo la corda
e penzolò nel vuoto.
Davanti il Crocifisso
sembrò un macabro voto
improvvisamente sorto
fra il Cielo e l’Abisso.
Poi che la lampada non c’era più
biancheggiò d’avanti Gesù,
piamente la cotta del sagrestano
morto.
Sonetto d’autunno
Foglie e speranze senza tregua,
foglie
e speranze; non hanno rami e
cuori
cadute eguali allor che i primi
ori
Autunno triste su la terra
accoglie?
L’anima poi che nell’audaci
voglie
si disfece con gli ultimi
rossori
della sua giovinezza, in foglie
e fiori
malinconicamente si discioglie.
E resta il cuore e resta il
ramo: soli
sospiranti in un intimo richiamo
la rossa estate e il suo vivere
corto.
Ma se tornino i buoni e dolci
soli
primaverili, rinverranno il ramo
pien di speranza e il cuore,
invece, morto.
Isola dei morti
Il lampione di San Bartolomeo
non si rassegna alla sua mala
sorte;
il tragico fanale della Morte
rinnovella il martirio prometeo?
Veglia se vada il funebre corteo
del morto ignoto oltre le fosche
porte
ove già tante creature morte
stanno come in un fetido museo.
Su le pietre, dai luridi
lenzuoli
cola il sangue nerastro degli
umani
che agonizzaron, nella notte,
soli.
Ritto, immoto, su l’isola
terribile,
per i fratelli che sono lontani
arde il fanale d’odio inestinguibile