Dolcezze
Per Alfredo Tusti — e per Sandro
Benedetti — che più dolce fanno — la mia giovinezza.
Il mio
cuore
Il mio cuore è una rossa
macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove
eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s’arrossa
sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà
uno schianto stridente...
...e allora morirò.
La gabbia
Ben salda era di grétole e di staggi
la gabbia, a primavera, se di fuori
benigno sole offriva a’ bei canori
pennuti la dolcezza di suoi raggi;
ma poi che nostalgia di viaggi
tenne i cari a Leonardo cantori,
fuggiron via pei cieli ampi e
sonori,
desiosi di più limpidi maggi.
Or fatta muta de’ suoi canti onde
era
superba, come di sue corde, lira,
la gabbia triste e pur fidente sta:
come l’anima mia che più non spera
e continuamente si martira
in un desio di giocondità.
Acque
lombarde
Acque serene ch’io corsi sognando
ne la dolcezza de le notti estive,
acque che vi allargate fra le rive
come un occhio stupito, a quando a
quando,
o nostalgiche acque di sorgive
mormoranti nel verde un sogno
blando,
acque lombarde ch’io vo’ sospirando
sempre, tanto il ricordo in cor mi
vive,
di voi l’anima dice acque stagnanti
ne’ verdi piani de la Lombardia,
di voi fonti gioconde scintillanti
a’ dolci soli del fiorito maggio
e su voi la sognante anima mia
muove per suo spiritual viaggio.
La
Madonna e il suo lampioncello
I
Umilmente la Vergine pregava,
e ne la voce avea tanto dolore,
e il suo cuore, trafitto,
sanguinava:
«O lampioncello, fallo per mi’
amore,
tu se’ il compagno mio, tu sei la
stella
che mi dà pace con il pio chiarore;
tu sei fratello, io sono tua
sorella,
senti: ho paura di stare all’oscuro,
senza il raggietto de la tua
fiammella!
Ardi, ed il cuor dolente rassicuro,
ardi, ti prego, lampioncello rosso,
come il cuor di Gesù, tremante e
puro...»
Ma il lampioncello sospirò: «Non
posso».
II
E Maria seguitò umilemente:
«Perché non puoi? Se tu sarai buono,
come una stella ti faccio splendente
e il tuo disobbedire ti perdono.
O lampioncello, o lampioncello mio,
mi sembra di sentir, lontano, il
tuono!
Qui sono sola ed assai lunge è Dio!
Qui sono sola, assai lunge è il
mortale;
sono fatta d’oblio, d’oblio
d’oblio...
Non un passero batte la su’ ale
contro il mio volto, o lampioncello
rosso,
ardi! Ho tanto timor del
temporale...»
Ma il lampioncello spasimò: «Non
posso».
III
La sera dopo, era una sera mite,
piena di trilli, piena di fiammelle,
di voci mai prima d’allora udite,
umilmente, una mano, una di quelle
mani che sanno spesso l’altra mano,
una mano tranquilla che il ribelle
gesto non seppe mai, piano piano,
il solitario lampioncello accese:
s’udì una prece, dolce, un passo
umano
lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese
fuoco: Maria suavissima non
c’era...
IV
Umilmente chiamò, umilmente
attese. Pensò perché mai Maria
fosse fuggita senza dirgli niente,
la sua dolce compagna, la sua pia
sorella! Aveva dunque una sì folle
paura de la solitaria via?
E il lampioncello, disperato, volle
giungere al cielo con la sua
fiammella...
Ah, se fosse mai nato su quel colle!
Pregò ancora: «Maria, buona sorella,
ti farà luce il lampioncello rosso,
oh vieni, vieni, la serata è
bella!»...
Ma la Madonna singhiozzò: «Non
posso».
Cremona
Cremona, non è Antonio Stradivari
oggi ne l’aria con i violini
maravigliosi? — palpitano fini
melodie per i cieli — o da li altari
osannano i soavi cherubini
del Boccaccino che ne li occhi
ignari
hanno l’azzurro tremulo dei mari
e sanno i regni che non han confini?
Cremona, evvi un’assai dolce malìa
oggi ne’ tuoi rosai, dolce così
ch’io ne sento vanir l’anima mia
beata sognatrice intenerita
de l’azzurro che a’ miei occhi fiorì
come ne li occhi d’una sulamita.
Ballata
della Primavera
O Primavera, Sandro Botticelli
sentì fiorire in cuore i tuoi rosai
poi che ti seppe come niuno mai
ne la soavità de’ suoi pennelli.
Ancor io, giovinetta, una fiorita
di mammole e di rose ebbi nel cuore
e m’era dolce assai tuo venimento
e m’era triste assai tua dipartita;
non oggi, o Primavera, ché il Dolore
come tarlo nel cuor rodere io sento
quasi per demoniaco incantamento;
non oggi, o Primavera, ché di spine
fatte del mio buon sangue porporine
come Cristo ho corona ai miei
capelli.
I solchi
Un desiderio di seminagione
teneva i solchi aperti ne l’attesa
de la buona promessa; oh la tua rude
mano, figlio de’ campi, che si
schiude
al seme come il labro a la parola,
ancora è lunge da la sacra impresa,
ma verrà come il grano a la sua
mola.
Soavità de la dedizione!
I solchi aperti — (ha bene le sue
culle
la terra madre) — te buon seme
avranno!
Vi sarà un po’ di biondo anche
quest’anno
intorno a la tua casa e larghi lampi
avran le falci mietitrici sulle
spighe ben colme, o nato sacro ai
campi!
O lontananza de’ seminatori!
Quante albe passate in una vana
speranza e quanta disperazione
di tramonti! Fioriva la canzone
su le bocche giulive ampia e serena,
o solchi, ma fioriva assai lontana
tanto lontana che giungeva a pena.
E l’ansia d’un mattino?! Eran le
cose
bianche e quiete come ne l’indugio
un po’ triste de l’alba, tanto che
pareva un’alba. I solchi aperti ne
gioirono. Sarà fra poco, forse
adesso! Oh l’interminabile indugio!
Un brivido la Terra avida corse.
Bocche d’umani aperte ne l’attesa
d’un puro bacio ignoto, mani aperte
da l’imo d’un abisso tenebroso,
pupille aperte senza mai riposo,
cuori aspettanti, cuori doloranti
ne l’attesa di gioie ultime e
incerte...
O trascorrere lento degli istanti!
Pace, il seme verrà! Eccolo, o
solchi
su di voi ne la mano che lo serra
tenacemente; il seme buono è raro
e ben colmo dev’essere il granaro
anche quest’anno! Fra le dita buone
ecco già scorre e cade su la terra
aperta per la fecondazione...
O solchi, il seme è sacro ora che in
voi
s’accolse, il seme è sacro, poi che
un giorno
sarà spiga, sarà forse farina
e pane! O solchi aperti a la divina
opera, penso — (o come il cuor mi
preme
acuta doglia!) — penso e vedo
intorno
a me fratelli chiusi ad ogni seme!
Dolore
E sol melanconia m’aggrada forte.
Cino da Pistoia
I
Voglio dirti in segreto
de la dolce follia
che mi fa triste e quieto
tanto; vedi, la mia
anima è nel mio cuore,
il cuore è nella mia
anima, e se dolore
l’anima un poco sente,
soffre un poco anche il cuore,
bimbo, quietamente.
II
Io, vedi, soffro molto,
e più soffro e più sento
che soffrirei; se ascolto
il mio vaneggiamento
continuo, senza tregua,
senza un breve momento
di pace, e se dilegua
poi non so come, pare
che l’anima lo segua
oltre il cielo, oltre il mare.
III
Io porto tanto amore
a una crocetta d’oro
che s’apre, sul mio cuore.
È un tenue lavoro,
non è un ricordo, no,
come l’ebbi, l’ignoro.
Io l’amo perché so
che croce fu dolore,
e assai ne spasimò
un mio dolce Signore!
Chiesa
abbandonata
Din, dan, don, dan,
o la piccola voce,
Santa Maria de la Concezione,
o, sapiente lunga orazione
sotto immobili cieli, ferrea croce;
altari bianchi come anime, buone,
o santi lieti nel martoro atroce,
o Gabriel, sotto il cui piè, feroce
ghigna il ribelle con le luci prone;
corone d’oro, manti di broccato,
cuori trafitti, bocche dolorose,
occhi con occhi in adorazione,
oh nulla, nulla sopravisse al fato
ne la tetra rovina de le cose,
Santa Maria de la Concezione.
Il
fanciullo suicida
«A Torino, un fanciullo di quindici
anni si gettava dalla finestra, disperando di
raggiungere i suoi alti ideali».
I
I suoi compagni non avean chimere,
non nutrivano in cuore ardite
voglie,
erano tante piccolette foglie
fiorite in un medesimo verziere.
Ma il fanciullo, sdegnoso, nelle
altere
luci sognava di abbaglianti soglie,
ed attendea la pura man che coglie
fiore da fiore ne le primavere.
O il sogno vano! L’anima impotente,
ruggiva de la sua tetra sconfitta,
e il cuore, oh il cuore, lagrimava
sangue!
Il bimbo disperò perdutamente,
e la debole fibra derelitta
sentì costretta da insaziabil angue.
II
Oh, la gloria e la morte, in loro
arcano
fascino hanno le illusioni istesse!
Quanta di sogni ardimentosa messe
nasce in un cielo e muore in un
pantano!
Quietamente il bimbo a morte elesse
la giovinezza sua fiorente in vano
ne l’estasi d’un sogno sovrumano
che la fantasiosa anima eresse.
Una sera, s’uccise. Ne l’azzurro
passava e ripassava un’allegria
di rondini. S’udì nell’aria un
pianto,
un grido, un tonfo sordo, un gran
susurro
di popolo dolente... Ne la via
come il suo sogno, egli si giacque,
infranto.
Follie
Madonna, in vano anelo
vostre dolci parole;
per me non v’è più sole,
per me non v’è più cielo.
Io sono come avvolto
in un sogno, in un sogno
triste; io non agogno
più nulla; io non ascolto
più nulla. Il cuore trema
a volte, forte: io penso
che sia la fine, io penso
l’unione suprema.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Oh la piccola bara,
ricordo, i tetri cerei
e gli arazzi funerei,
e poi la folla ignara
e la dolente, l’organo
molle e profondo, i chini
frati benedettini
che par da terra sorgano
ne la penombra delle
colonne, fra gli altari
fiammeggianti, con vari
aspetti; e le sorelle
candide, per i banchi
lunghi, oranti, soave
coro, ne la lor grave
veste e la corda ai fianchi,
e tu, e tu, mio amore,
piccola, fra le rose
che la mia mano pose
su la fronte, su ’l cuore,
ne le mani conserte,
sopra i piedini lievi
— e tu non le vedevi
con le pupille aperte —
rose dovunque, fra i
capelli ch’io non sciolsi,
capelli per cui colsi
rose odorate mai,
su la bocca che rise,
che rise e poi si tacque
come gorgoglio d’acque
d’un sùbito divise,
su gli occhi dolci, avvinti
da una visione
ignota e poi corone,
di gigli, di giacinti,
una pioggia di petali,
e tu, e tu, mio amore
che godevi nel cuore
d’una gioia secreta
intensa, immensa e pura!
O morta ch’eri in cielo
e nel mio cuore anelo
di te, di te, creatura,
per cui arsero tutte
le mie fiammee voglie
e cadder come foglie
le speranze distrutte.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . .
E poi la terra breve,
il cipresso diritto
come lancia, lo scritto
sopra il marmo di neve,
la croce che non seppe
Gesù, le spine, i chiodi,
i pianti che non odi
di chi, di chi non seppe
adorarti a bastanza
e le tombe e i cipressi
immobili lungh’essi
i viali ove danza
monna Morte ghignando,
e i cancelli che stridono
a ogni bara, a ogni grido
lugubre a quando a quando,
i fiori gialli che
il morto volle seco
per dirsi: «altrove io reco
fiori di terra», e
le lampadette, stelle
di cimitero, tetre
su le gelide pietre,
lugubri sentinelle,
e le grandi, notturne
ali, solcanti l’ombra
paurosa che ingombra
le tombe, i marmi, le urne...
Madonna, perdonate
se vi pensai, se forse
troppo il pensiero corse.
Madonna, perdonate.
Io vi vidi, tranquilla
in una bara, morta,
e vi sognai risorta
e il sogno ancor m’assilla
onde vano è il martoro
che l’anima dilania,
insana è questa smania
per le tue ciglie d’oro,
per le pupille gravi
di ombre, or nella morte
profondamente assorte
come quando sognavi,
per la tua bocca rossa
che non ho mai baciata
e che pure m’ha data
la dolorosa scossa,
per le tue mani stanche,
per le tue mani molli
che toccare non volli
(erano tanto bianche!),
per la voce che mai
non seppi, per i gesti
ignoti, per le vesti
che avevi e che ora avrai
nella semplice bara
fiorita; in somma tutto
amo di te, il mio lutto
sei tu, piccola cara!
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . .
Ohimè, dolce Madonna,
perdonate se forse
troppo il pensiero corse
pensandovi, Madonna.
Voi siete il Sole, io sono
un pazzo che lo segue
e non concede tregue
allo spirto mai prono,
e come suo bagliore
i cieli azzurri infiamma,
s’agita la gran fiamma
del mio inutile amore!
Scritto
sopra una lama
Lama, fulmin d’acciar, anima tersa
e fredda come un’anima di bianca
sacerdotessa, o lama, dimmi, stanca
non fosti mai di star nel sangue
immersa?
Io t’odio, t’odio, eppure a questo
orrore
un’invidia di pazzo s’accompagna;
sei più grande di me, lama di
Spagna,
perché tu forse hai penetrato un
cuore!
Imagine
da P. Bourget
La rondine di mare che ieri, mia
dolente,
volava sopra il lago, con l’alucce
sgomente,
erra sempre a la sorte del suo
tenero volo?
brutal piombo la colse, e cadde,
morta, al suolo?
o pur, libera, dopo un lungo palpito
d’ale,
giunse all’immenso, azzurro Oceano
natale,
ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni
amare?...
A me, vedi, la piccola rondinella di
mare,
stanca, che sfiorava, con l’aluccia
sua lieve,
l’onde del lago, troppo, per i suoi
voli, breve,
a me sembra il tuo cuore
instancabile, ardito,
cuore di donna, cuore acceso
d’infinito,
cuor nostalgico in preda al doloroso
senso
di cercar, vanamente, per sé un
amore immenso!
Giardini
O piccoli giardini addormentati
in un sonno di pace e di dolcezze,
o piccoli custodi rassegnati
di sussurri, di baci e di carezze;
o ritrovi di sogni immacolati,
di desideri puri e di tristezze
infinite, o giardini ove gli alati
cantori sanno di notturne ebbrezze,
o quanto v’amo! I sogni che rinserra
il mio core, fioriscono, o giardini,
lungo i viali, ne le vostre aiuole.
Io v’amo, io v’amo, o fecondati al
sole
di primavera in languidi mattini,
o giardini, sorrisi de la terra!
Per musica
Tu m’hai scritto così: «Or che
spezzato
è questo nostro amor fatto di
ebbrezze,
io ti rimando i baci che m’hai dato
io ti rimando tutte le carezze».
Piccola bimba mia sempre malata,
una cosa ti sei dimenticata.
La prima cosa che ti ho data, o
amore,
ti sei scordata di ridarmi il cuore!
Il
campanile
I
Il prete bianco s’affacciò, protese
le faticate braccia sì soavi
ai cieli e mormorò: — parvero gravi
le sue parole quanto mai — «Le
offese
perdono, come già Tu perdonavi,
ho vestito un ignudo, a chi mi
chiese
la spiga ho dato il pane, ai venti
ho stese
le mani e assai rimproverai gli
ignavi.
Colmo è l’ovile, ma la porta è
aperta!
Un’agnella fuggì ieri — ben sai —
ma stamani tornò nel buono ovile».
Disse il vecchio e la mano bianca e
incerta
levò per benedire come mai
il villaggio, la chiesa e il
campanile.
II
Un ruinar precipite di frane
ignote, il lungo rombo nella notte
pallida e il campanile vide rotte
a terra, immote le sue due campane,
cadute senza grida e senza lotte,
così, come due stanche anime umane.
Oh non verranno più da le lontane
case le donne per la messa, a
frotte!
Irto per la sua doglia, muto, solo,
come l’ira che in cuor chiuso si
cuoce,
il campanile si pensò usignuolo
privo del canto buono e fu maggiore
la pena poi che non avea la voce
onde gridare al mondo il suo dolore.
Asfodeli
Madonna, se il cuore v’offersi,
il cuore giovine e scarlatto,
e se voi, con un magnifico atto,
lo accettaste insieme a’ miei versi
di fanciullo poeta, e se voi
con l’olio del vostro amore
teneste vivo il suo splendore
e lo appagaste de’ suoi
capricci assiduamente,
perché ieri lo faceste
sanguinare, lo faceste
lagrimare dolorosamente?
Tutte le sue gocce rosse
caddero a terra, mute,
e poi che furono cadute
il cuore più non si mosse
e come per incantamento
in ognuna fiorì un asfodelo,
il triste giglio del cielo
da l’eterno ammonimento.