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sergio corazzini

poesie

 

Edizione di riferimento:

Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi 1968.

 

Dal Piccolo libro inutile

 

Qui m’a parlé est devenu silencieux.

Péladan

 

La fin de toutes choses saintes est dans la joie.

Schwob

 

Desolazione del povero poeta sentimentale

 

I

Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.

Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.

Perché tu mi dici: poeta?

 

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.

Le mie gioie furono semplici,

semplici così, che se io dovessi confessarle a te

arrossirei.

Oggi io penso a morire.

 

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

solamente perché i grandi angioli

su le vetrate delle catedrali

mi fanno tremare d’amore e di angoscia;

solamente perché, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

 

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

 

IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!

E non domandarmi;

io non saprei dirti che parole così vane,

Dio mio, così vane,

che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.

Le mie lagrime avrebbero l’aria

di sgranare un rosario di tristezza

davanti alla mia anima sette volte dolente

ma io non sarei un poeta;

sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo

cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

 

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.

E i sacerdoti del silenzio sono i romori,

poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

 

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.

Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo

dimenticato da tutti gli umani,

povera tenera preda del primo venuto;

e desiderai di essere venduto,

di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo,

disperatamente triste,

in un angolo oscuro.

 

VII

Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!

Ma tu non mi comprendi e sorridi.

E pensi che io sia malato.

 

VIII

Oh, io sono, veramente malato!

E muoio, un poco, ogni giorno.

Vedi: come le cose.

Non sono, dunque, un poeta:

io so che per esser detto: poeta, conviene

viver ben altra vita!

Io non so, Dio mio, che morire.

Amen.

 

Ode all’ignoto viandante

 

I

Ben ch’io t’oda passare

vicino alla mia soglia

e pensi che tu voglia

battere e domandare,

 

non tormento a più viva

fiamma la mia lucerna

— cui, nella notte eterna

guardo come a una riva —

 

e non se, a poco a poco,

cresca la lontananza,

vedovo di speranza,

ormai, te folle invoco,

 

ché le tue mani sono

colme di doni: porti

ai dolenti conforti,

ai felici perdono.

 

Hai pianto e un poco vuoi

di quel pianto godere,

qualche lagrima bere,

ancora, con i tuoi.

 

Donare e perdonare!

Contener nell’immenso

cuore grani d’incenso

pe’ ’l più lontano altare.

 

Dire al nemico: Sei,

tu, mio padre, mio figlio:

dormi sul mio giaciglio,

che io sul tuo dormirei.

 

E questo, senza pena

dire e senza tristezza;

sfarsi alla tenerezza

come al mare la rena.

 

Ma, forse, tu non hai

nessuno e, pure, torni,

così, per pochi giorni,

per un’ora, e non sai

 

tu, non sai che la povera

piccola casa accoglie

cader di nuove foglie,

fiorir di rose nuove

 

e che più nulla, più

nulla! del tuo rimane

se, triste come un cane

randagio, vaghi tu

 

imaginando i nidi

più folti e più canori,

tanto, che ora ne muori

di dolcezza e sorridi.

 

Ma l’ombra non lo vede

quel tuo sorriso: vela

piccola che s’incela,

sembra, nella sua fede,

 

e non è che una cosa

trepida, tutta sola,

che, per te, forse, vola,

ma per gli altri non osa,

 

ma per gli altri non pare

che una vela, una vela

piccola che s’incela

a l’estremo del mare.

 

II

Viandante, ancor io

risi alla mia speranza,

vissi la lontananza

per vivere d’oblio,

 

come te, come tutti

gli uomini. Un giorno volli

cantare ne’ più folli

canti i miei folli lutti,

 

parlare al sole come

al mio cuore e, talvolta,

ove l’ombra più folta

fosse, chiamarmi a nome

 

e dirmi: «Creatura

vergine, non udire

più. Apprendi, ora, a morire

nella tua sepoltura.

 

Accendi un lume, un solo.

Medita la tua nuova

vita. A te sia la prova

d’una morte o d’un volo.

 

Ma non tentare, mai.

Confida, anche, ma senza

elegger la semenza:

dopo non piangerai.

 

Canzoni assai soavi

canta, se vuoi cantare.

Canzoni marinare

dai ponti delle navi,

 

canzoni di parole

semplici, a pena nate,

che, ancora, dall’estate

odorano di sole.

 

Così vivrai, né cura

ti terrà del passante,

ignaro viandante

di una via peritura,

 

se tu l’oda cantare

o piangere alla soglia

e imagini che voglia

battere e domandare».

 

San Saba

 

Forse, Antonello, nostra sora Morte,

da la qual nullo uomo può scampare,

udendo quel tuo dolce sospirare

piana venne a le nostre anime assorte,

 

poi che vedemmo le tre chiuse porte

ove i beati stannosi a pregare

e i mendichi non osano levare

occhi, in temenza della buona sorte?

 

Forse, Antonello, se desio di vita

ci crebbe l’ora de le prime stelle

e un di piccoli orti vanimento

 

sì rassegnati al trasfiguramento

che le ingenue anime sorelle

non pensaronsi aver la via smarrita.

 

Sonata in bianco minore

 

I

— Sorelle, venite a vedere!

— C’è il sole nell’orto, c’è il sole!

— È un povero sole che ha freddo, non senti?

— Che piange le sue primavere...

— Sole di convalescenti.

— Suor Anna sorride così.

— Che ci voglia raccontare

una fiaba d’oltre mare!

— È venuto a trovare

noi, povere sperdute,

e, forse un malato lo aspetta

invano al limitare

della sua casa per la sua salute.

— È più bianco della mia cornetta...

— Sorelle, scendiamo nell’orto

prima che se ne vada.

 

II

— Sorelle, pregatelo a mani

giunte ché torni domani!

— Che torni, per poco, che torni,

però, tutti i giorni!

— Perché non dovrebbe venire?

Noi stiamo per morire.

— Comunichiamocene, sorelle,

prima che vengano le stelle.

— Noi non abbiamo che Gesù,

Maria e niente più.

— Un po’ d’acqua nella scodella

e un po’ di sole nella cella.

— Io mi farò una ghirlandetta

per i miei poveri capelli.

— Io, sorella benedetta,

avrò il miglio per gli uccelli.

 

III

— Oh, Sorelle, e, se non torna,

che faremo?

— Se non torna, aspetteremo.

— Come è gelido il convento.

— È più gelido il mio cuore.

— Oh, Sorelle, invece, io sento

tutto il sole nel mio cuore.

— Stelle in cielo e vele in mare,

tante vele e tante stelle...

— Accendiamo le candele sull’altare.

— Ricordiamoci, sorelle,

che siamo mortali.

 

Regina sine labe originali...

— Che faremo, se non torna?

— Se non torna più, morremo.

 

A Gino Calza

 

Vita tua è vita mia.

Tu lo sai: melanconia

mi tien fermo in sua balia;

non ti posso consolare.

 

Tu m’hai detto: — Ov’io mi reco

voglio che tu venga meco.

— Oh, fratello, io sono cieco,

non ti posso seguitare.

 

— Vieni; è tanto lo sconforto

che nel cuor misero porto!

— Oh, fratello, io sono morto

per il troppo dolorare!

 

— Nel mio nido ho un usignolo,

del suo canto mi consolo

quando sono tutto solo

e ho desio di lacrimare.

 

— Oh, fratello, tu sei buono!

Il mio cuore, ecco, ti dono:

è più dolce di un perdono,

è più bianco di un altare —.

 

Foglie morte, foglie morte

su la soglia delle porte

dove il cuore batte forte

e non fa che domandare.

 

Or la luna se ne è andata

con la sua corte beata

tutta bianca e desolata

a dormirsene nel mare.

 

È così leggero il mio

cuore, par fatto d’oblio!

Non ti pesi nell’avvio,

non ti voglia faticare.

 

Le tue mani sono monde

e le sue ferite fonde:

le tue mani sieno sponde

al suo lento sanguinare.

 

Oh, il mio cuore è un usignolo,

che non canta quando è solo;

disiava un dolce brolo:

or nel tuo si sta a cantare.

 

Per organo di Barberia

 

I

Elemosina triste

di vecchie arie sperdute,

vanità di un’offerta

che nessuno raccoglie!

Primavera di foglie

in una via diserta!

Poveri ritornelli

che passano e ripassano

e sono come uccelli

di un cielo musicale!

Ariette d’ospedale

che ci sembra domandino

un’eco in elemosina!

 

II

Vedi: nessuno ascolta.

Sfogli la tua tristezza

monotona davanti

alla piccola casa

provinciale che dorme;

singhiozzi quel tuo brindisi

folle di agonizzanti

una seconda volta,

ritorni su’ tuoi pianti

ostinati di povero

fanciullo incontentato,

e nessuno ti ascolta.

 

Canzonetta all’amata

 

Conviene che tu muoia,

dolcezza, oggi, per me.

Vele di barche in mare!

Non dovevo lasciare

che, pur se triste, il sole

bagnasse il limitare!

 

Conviene che tu muoia,

dolcezza, oggi, per me.

 

Forse mi allontanai

troppo, ché, certo, mai

tanto mi piacque andare

solo, con la mia bella

rete nuova e una stella

per guida fra’ rosai.

 

Conviene che tu muoia,

dolcezza, oggi, per me.

 

Erano così chiare

le acque! Dolce pescare

se la rete sia nuova!

Quanti nidi contai

di stelle e quante mai

vele di barche in mare?

 

Conviene che tu muoia,

dolcezza, oggi, per me.

 

Quale gioia tentò

la porta, s’inoltrò

cauta e infantilmente

rise nell’obliata

casa e fiorì la grata

di viole? Non so.

 

Conviene che tu muoia,

dolcezza, oggi, per me.

 

Felicità mi spiace,

felicità è loquace

come un bimbo; l’ho a noia!

La mia rete ha ceduto,

la mia stella ha perduto

il fedele seguace.

 

Conviene che tu muoia,

dolcezza, oggi, per me.

 

Vele di barche in mare.

Chi attendi al limitare?

Regina delle lagrime

e de’ dolci martiri,

non anche tu sospiri

chi deve ritornare?

 

Sì, conviene che muoia,

dolcezza, tu, per me.

 

Dopo

 

Il passo degli umani

è simile a un cadere

di foglie... Oh! primavere

di giardini lontani!

 

Santità delle sere

che non hanno domani:

congiungiamo le mani

per le nostre preghiere.

 

Chiudi tutte le porte.

Noi veglieremo fino

all’alba originale,

 

fino che un’immortale

stella segni il cammino,

novizii, oltre la Morte!

 

 
© Belpaese2000-2006.  Created 05.04.2006

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