Soliloquio delle cose
...Je crois que nous sommes à l’ombre.
Maeterlink
Les choses ont leur terrible «non possumus».
Hugo
Dicono le povere piccole cose: Oh soffochiamo d’ombra!
Il nostro amico se ne è andato da troppo tempo: non tornerà più.
Chiuse la finestra, la porta; il suo passo cadde nel silenzio del
lungo corridoio in cui non s’accoglie mai sole, come nel vano delle
campane immote, poi la solitudine stese il suo tappeto verde e tutto
finì.
Qualche cosa in noi si schianta, qualche cosa che il
nostro amico direbbe: cuore. Siamo delle vecchie vergini, chiuse
nell’ombra come nella bara. E abbiamo i fiori. Egli avanti di
andarsene, per sempre, lasciò sul suo piccolo letto nero delle
violette agonizzanti. Disperatamente ci penetrò quel sottile alito e
ci pensammo in una esile tomba di giovinetta, morta di amoroso
segreto. Oh! come fu triste la perdita cotidiana inesorabile del
povero profumo! E se ne andò come lui, con lui, per sempre. Noi non
siamo che cose in una cosa: imagine terribilmente perfetta del
Nulla.
Qualche volta le campane della piccola parrocchia
suonano a morto. Tutto ciò sarebbe tristissimo per noi, povere
piccole cose sole, se egli fosse qui. Ma è lontano e le campane non
tarlano il silenzio per lui, povero caro.
Un tempo lo vedemmo e l’udimmo piangere senza fine:
volevamo consolarlo, allora, e mai ci sentimmo così spaventosamente
crocefisse. Oggi, oh, oggi è un’altra cosa: dove piange? perché
piange?
Allora lacrimò desolatamente perché una sua piccola e
bianca sorella non veniva, a sera, come per il passato, a farlo men
solo... o più solo. Così egli le diceva mentre l’abbracciava. E
soggiungeva: «Noi ricordiamo e nulla come il ricordo è simbolo di
solitudine e di morte». Rievocavano molte liete fortune e molte
tristi vicende, anche, ma non troppo di queste si amareggiavano.
Una sera il nostro amico attese inutilmente. Attese fino
all’ora delle prime rondini e delle ultime stelle... Oh, egli ci
voleva bene: qualche volta ci parlava a lungo, come in sogno. In
sogno parlava. Avanti di dormire, accendeva un piccolo lume giallo,
sospeso al muro. Forse aveva paura. È una così dolce cosa, la paura,
appunto perché è dei fanciulli!
Noi non dormiamo; noi siamo le eterne ascoltatrici, noi
siamo il silenzio che vede e che ascolta: il visibile silenzio.
La casa dev’essere molto vasta. Udiamo a tratti delle
voci lontanissime e che pensiamo non vengano dalla piccola piazza.
Oh, la finestra, se si spalancasse e facesse entrare un poco di
sole, un poco di vento! oh, nulla è simile al cuore perduto come il
sole che vuole entrare, e tutti i giorni domanda e tutte le sere,
triste e bianco, smuore di rinunzia. Un convento, una chiesa, un
lungo muro basso, interrotto da due piccole porte, la cui soglia
allora era sempre verde. La neve restava intatta, davanti a quel
muro, un tempo interminabile. Il nostro amico diceva che una porta
chiusa è figurazione di gran gioia. Noi siamo semplici, non abbiamo
mai comprese queste parole, sarà, forse, perché siamo così sole e
così sconsolate, da tanti anni, in questa camera chiusa!
Oh, gli occhi aperti smisuratamente nell’ombra
terribile, sono così simili a noi! Sanno vedere ma non possono
vedere.
Per quanto ci disfaceremo nel buio come le stelle dietro
le nuvole? Per quanto la nostra cecità apparente, ci vieterà il
sole, o, forse anche, un poco di dolce luna?
Come tante piccole monache in clausura, noi, povere
cose, viviamo e morremo. Pietà! Pietà!
Quante rughe ci solcano! Siamo vecchie, oh così vecchie
da temere la fine improvvisa. E la polvere che noi pensavamo cipria,
ci seppellisce cotidianamente come un becchino troppo scrupoloso.
Come ci carezzavano le tende, piene di vento a
primavera! Ella doveva carezzare così il nostro amico, doveva farlo
morire di spasimo, così. Ora, anch’esse, come le vele di una
decrepita barca inservibile, chiusa nel vano di un piccolo porto
solitario e triste, pendono flosce e vecchie: oggi una loro carezza
ci farebbe pensare alle mani di un agonizzante.
Un passo. Una mano tenta la chiave... oh, non
spasimiamo: è un bambino, è il solito bambino di tutti i giorni, che
passa lungo il corridoio per andare chi sa dove; non spasimiamo, è
inutile.
Esortazione al fratello
Ma nella croce delle tribolationi et delle
afflitioni ci possiamo gloriare, però che questo è nostro.
San Francesco
Ma un giorno voglio sradicarli dal suolo e
disporli in modo che ognuno stia da sé, affinché apprenda la
solitudine.
Nietzsche
Giovine, se amor di perfetta letizia in te sia, vigila
affinché la mala femina cui gli umani dicono Speranza non adeschi
l’inesperto Desiderio.
Sii semplice e puro come un fanciullo; non altra ombra
godere se non quella generata dal prezioso lume della tua anima.
E questo lume, assai dolce, sappia tu nutrire di olii
non vani e curare affinché il suo raggio non sia parte di un tutto,
ma un tutto, per se stesso. Ama, dunque, l’ombra e fuggi la luce
ché, a simiglianza del tempo, essa è ingenuamente maligna e
terribilmente giusta.
E, con l’ombra, ama il silenzio, poiché l’ombra delle
tue parole è il silenzio.
Amalo come Calvario delle tue Imagini, come Croce del
tuo Sogno, come Tomba della tua Anima. Saprà darti una stella per
una parola, un’aquila per un grido, un pianto per un ricordo,
sempre. Tu non vivrai che di Passato: ti sarà, in tal modo, assai
men grave fuggir la speranza e la vana felicità.
E dovrai viverne fino a morire. Lo spasimo bianco sarà
per tenerti ognuna ora: tutto che di più infantile e di più lontano
verrà a battere alla tua porta, dovrai accoglier nel profondo e
goderti.
La tua tristizia sarà quella de l’uomo che sempre
ritorna: tristizia e letizia maggiore tu non saprai, né mai sapesti.
Or tu voglia, nell’ombra e nella solitudine, morir
questa morte. Sudario dell’agonizzante sia il Silenzio.
E l’anima tua non più possederà il brivido libidinoso
della Speranza, ma ogni Suo gesto sarà di rassegnazione come il
chiudersi delle vetrate, a sera.
Allora che lungamente la tua vita per il deserto del
Dolore tratta sarà e non tu la gola arida — in udendo le fonti della
caduca felicità cantare — lusingata avrai di Piacere; allora che
l’anima si sarà cibata, divotamente dell’ostia del Silenzio, prona
all’altare della Solitudine, lo spasimo gaudioso vorrà tenerti
tutto, in fino a che la Morte non a te si figuri come il
meraviglioso fiorir di un seme ignoto e divino.
E in te sarà, veramente, la gioia e la dedizione de la
corolla che s’apra, nel mattino, al sole.
Giovine, io ti esorto a considerare e meditare la mia
volontà. Non temer dell’umano; anzi, se avvenga che tu gli mova
riso, godi e sappi che nello spregio degli altri è la vera felicità
del solitario. Felicità di esaltazione che non vorrai disdegnare
come quella che, sola, vana non sia e cresca in te il desio della
solitudine.
Getsemani!
Oh, che tu debba inginocchiarti e orare e sudar sangue,
novizio, in fin che una sua cantilena, incomprensibile e monotona
come le parole di un folle, ti lacrimi la Morte, dolce sorella, e tu
a lei ti doni a simiglianza dell’esule che ritorni e all’anima delle
vecchie cose tutto se stesso affidi, colmo il cuore di una mortale
felicità.