Umberto
Eco
“Baudolino”
(2000)
Cap.13. Baudolino vede nascere una nuova
città
Erano ormai dieci
anni che Baudolino stava a Parigi, aveva letto tutto quello che si poteva
leggere, aveva imparato il greco da una prostituta bizantina, aveva scritto
poesie e lettere amorose che sarebbero state attribuite ad altri, aveva
praticamente costruito un regno che ormai nessuno conosceva meglio di lui e dei
suoi amici, ma non aveva terminato gli studi. Si consolava pensando che era
stata già una bella impresa studiare a Parigi, se si pensava che era nato
tra le vacche, poi si ricordava che a studiare era più facile andassero
degli squattrinati come lui che non i figli dei signori, i quali dovevano
imparare a combattere e non a leggere e scrivere... Insomma, non si sentiva del
tutto soddisfatto.
Un giorno Baudolino si rese conto che mese più, mese meno, avrebbe
dovuto avere ventisei anni: essendo andato via di casa a tredici anni, erano
esattamente tredici anni che vi mancava. Avvertì qualcosa che
definiremmo nostalgia del paese natale, salvo che lui, che non l'aveva mai
provata, non sapeva che cosa fosse. Perciò pensò di provare
desiderio di rivedere il proprio padre adottivo, e decise di raggiungerlo a
Basilea, dove si era fermato, di ritorno ancora una volta dall'Italia.
Non aveva più visto Federico dalla nascita del primo figlio. Mentre lui
scriveva e riscriveva la lettera del Prete, l'imperatore aveva fatto di tutto,
muovendosi come un'anguilla da nord a sud, mangiando e dormendo a cavallo come
i barbari suoi antenati, e la sua reggia era il posto in cui stava in quel
momento. In quegli anni era tornato in Italia altre due volte. La seconda,
sulla via del ritorno, aveva subito un affronto a Susa, dove i cittadini gli si
erano ribellati, obbligandolo a fuggire di nascosto e travestito, e prendendo
in ostaggio Beatrice. Poi i susani l'avevano lasciata andare senza farle alcun
male, ma intanto lui aveva fatto una pessima figura, e a Susa l'aveva giurata. E
non è che quando tornava oltre le Alpi si riposasse, perché
doveva ridurre a miti consigli i principi tedeschi.
Quando infine Baudolino vide l'imperatore lo trovò scurissimo in volto. Capì
che da un lato era sempre più preoccupato per la salute del figlio
maggiore - Federico anch'egli - e dall'altro per le cose della Lombardia.
"D'accordo," ammetteva, "e lo dico solo a te, i miei
podestà e i miei legati, i miei esattori e i miei procuratori non solo
esigevano ciò che mi spettava, ma sette volte tanto, per ogni focolare
hanno fatto pagare ogni anno tre soldi di moneta vecchia, e ventiquattro denari
antichi per ogni mulino che navigava su acque navigabili, ai pescatori
portavano via la terza parte dei pesci, a chi moriva senza figli confiscavano
l'eredità. Avrei dovuto dare ascolto alle lagnanze che mi pervenivano,
lo so, ma avevo altro a cui pensare... E ora pare che da alcuni mesi i comuni
lombardi si siano organizzati in una lega, una lega anti-imperiale, capisci? E
che cosa hanno deliberato per prima cosa? Di ricostruire le mura di
Milano!"
Che le città italiane fossero riottose e infedeli, pazienza, ma una lega
era la costruzione di un'altra res publica. Naturalmente, che quella lega
potesse durare, visto il modo in cui in Italia una città odiava l'altra,
non era neppure da pensare, e tuttavia si trattava pur sempre di un vulnus per
l'onore dell'impero.
Chi stava aderendo alla lega? Correvano voci che in un'abbazia non lontano da
Milano si fossero riuniti i rappresentanti di Cremona, Mantova, Bergamo, poi
forse anche Piacenza e Parma, ma era incerto. Ma le voci non si arrestavano
lì, si parlava di Venezia, Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Mantova,
Ferrara e Bologna. "Bologna, ti rendi conto?!" gridava Federico
andando su e giù davanti a Baudolino. "Ti ricordi, vero? Grazie a
me i loro maledetti maestri possono far soldi come vogliono con quei loro
stramaledetti studenti, senza risponderne né a me né al papa, e
adesso fanno lega con quella lega? Ma si può essere più
svergognati? Ci manca solo Pavia!"
"O Lodi," partecipava Baudolino, per dirne una grossa. "Lodi?!
Lodi?!" urlava il Barbarossa, rosso anche in viso, che pareva che stesse
per prenderlo un colpo. "Ma se debbo dare ascolto alle notizie che sto
ricevendo, Lodi ha già preso parte ai loro incontri! Mi sono cavato
sangue da queste mie vene per proteggerli, quei pecoroni, che senza di me i
milanesi li spianavano sino alle fondamenta a ogni nuova stagione, e adesso
fanno comunella coi loro carnefici e complottano contro il loro
benefattore!"
"Ma padre mio," chiedeva Baudolino, "che cosa sono questi sembra
e pare che? Non ti arrivano più notizie sicure?"
"Ma voi che studiate a Parigi avete dunque perduto il senso di come vanno
le cose di questo mondo? Se c'è una lega c'è una cospirazione, se
c'è cospirazione quelli che prima stavano con te hanno tradito, e ti
raccontano proprio il contrario di quello che laggiù stanno facendo,
così l'ultimo a sapere che cosa fanno sarà proprio l'imperatore,
come accade ai mariti che hanno una sposa infedele di cui ormai sa tutta la
contrada meno loro!"
Non poteva scegliere un esempio peggiore, perché proprio in quell'istante
entrava Beatrice, che aveva saputo dell'arrivo del caro Baudolino. Baudolino si
era inginocchiato a baciarle la mano, senza guardarla in volto. Beatrice aveva
esitato un istante. Forse le pareva che, a non dare segni di confidenza e
d'affetto, avrebbe tradito imbarazzo; quindi gli aveva posato l'altra mano
maternamente sul capo, scompigliandogli un poco i capelli - dimenticando che
una donna poco più che trentenne non poteva più trattare in tal
modo un uomo fatto, pochissimo più giovane di lei. A Federico la cosa
era parsa normale, padre lui, madre lei, anche se adottivi entrambi. Chi si
sentiva fuori posto era Baudolino. Quel duplice contatto, la vicinanza di lei,
che si poteva avvertire il profumo della veste come se fosse quello della
carne, il suono della sua voce - e fortuna che in quella posizione non potesse
fissarla negli occhi, ché sarebbe subito sbiancato e caduto steso a
terra senza più sentimenti - lo colmavano di insostenibile diletto, ma
corrotto dalla sensazione che con quel semplice atto di omaggio egli stesse
ancora una volta tradendo il proprio padre.
Non avrebbe saputo come prendere congedo se l'imperatore non gli avesse chiesto
un favore, o dato un ordine, che era lo stesso. Per vederci più chiaro
nelle faccende d'Italia, non fidandosi né dei messaggeri ufficiali,
né degli ufficiali messaggeri, aveva deciso di inviare laggiù
pochi uomini di fiducia, che conoscessero il paese, ma non fossero
immediatamente identificati come imperiali, in modo che annusassero l'atmosfera
e raccogliessero testimonianze non adulterate dal tradimento.
A Baudolino piacque l'idea di sottrarsi all'imbarazzo che provava a corte, ma
subito dopo provò un altro sentimento: si sentì
straordinariamente commosso all'idea di rivedere i suoi luoghi, e comprese
finalmente che era per quello che si era messo in viaggio.
Dopo aver girato per varie città, un giorno Baudolino, cavalca cavalca,
ovvero smuletta smuletta, perché si faceva passare per un mercante che
se ne andava pacifico di borgo in borgo, era arrivato un giorno su quelle
alture oltre le quali, dopo un buon tratto di pianura, avrebbe dovuto guadare
il Tanaro per raggiungere, tra pietraia e paludi, la natia Frascheta.
Se pure a quei tempi quando si partiva di casa si partiva, senza pensare di
tornarvi mai più, Baudolino si sentiva in quel frangente un formicolio
nelle vene, perché di colpo lo aveva preso l'ansia di sapere se i suoi
vecchi ci fossero ancora.
Non solo, ma all'improvviso gli tornavano alla mente volti d'altri ragazzi del
circondario, il Masulu dei Panizza, con cui andava a mettere le trappole per i
conigli selvatici, il Porcelli detto il Ghino (o era il Ghini detto il
Porcello?), che appena si vedevano si prendevano a sassate, l'Aleramo
Scaccabarozzi detto il Ciula e il Cuttica di Quargnento quando pescavano
insieme nella Bormida. "Signore," si diceva, "sarà mica
che muoio adesso, perché pare che sia solo in punto di morte che si
ricordano così bene le cose dell'infanzia..."
Era la vigilia di Natale, ma Baudolino non lo sapeva, perché nel corso
del suo viaggio aveva perduto il conto dei giorni. Tremava dal freddo, sulla
sua mula altrettanto intirizzita, ma il cielo era limpido nella luce del
tramonto, pulito come quando già si sente in giro odore di neve. Lui
riconosceva quei luoghi come se vi fosse passato il giorno prima, perché
ricordava di essere andato su quei colli con suo padre, a consegnare tre muli,
arrancando per salite che già da sole potevano fiaccare le gambe anche a
un ragazzo, e immaginiamoci a spingervi su delle bestie che non ne avevano voglia.
Ma si erano goduti il ritorno, guardando la pianura dall'alto e bighellonando
liberi in discesa. Baudolino ricordava che, non molto distante dal corso del
fiume, la pianura per un breve tratto s'ingobbiva in un dosso, e dal culmine
del dosso quella volta aveva visto emergere da una coltre lattiginosa i
campanili di alcuni borghi, lungo il fiume Bergoglio, e Roboreto, e poi
più distante Gamondio, Marengo, e la Palea, ovvero quella zona di
acquitrini, di ghiaia e di boscaglia ai cui margini forse sorgeva ancora la
casupola del buon Gagliaudo.
Ma, come fu sul dosso, vide un panorama diverso, come se tutt'intorno, sui
colli e nelle altre valli, l'aria fosse tersa, e solo la pianura davanti a lui
fosse intorbidata da vapori nebbiosi, da quei blocchi grigiastri che ogni tanto
ti vengono incontro sulla strada, t'avviluppano tutto sino a che non vedi
più nulla, e poi ti oltrepassano e se ne vanno come se ne erano venuti -
tanto che Baudolino si diceva: guarda te, tutt'intorno può essere anche
agosto, ma sulla Frascheta regnano le nebbie eterne, come le nevi sulle cime
delle Alpi Pirenee - né la cosa gli dispiaceva perché chi nella
nebbia c'è nato ci si ritrova sempre come a casa sua. A mano a mano che
discendeva verso il fiume si rendeva però conto che quei vapori non
erano nebbia, bensì nuvole di fumo che lasciavano intravedere i fuochi
che li alimentavano. Tra fumi e fuochi, Baudolino ora capiva che, nella piana
oltre fiume, intorno a quello che era un tempo Roboreto, il borgo era
straripato sulla campagna, e dappertutto era una fungaia di nuove case, alcune
in muratura e altre di legno, molte ancora a mezzo, e verso ponente si poteva
scorgere anche l'inizio di una cinta muraria, come da quelle parti non ve
n'erano mai state. E sui fuochi bollivano dei paioli, forse per riscaldare
dell'acqua, che non gelasse subito mentre più in là altri la
versavano in buche piene di calce, o malta che fosse. Insomma, Baudolino aveva
visto iniziare la costruzione della nuova cattedrale a Parigi, sull'isola in
mezzo al fiume, e conosceva tutti quei macchinari e quelle incastellature che
usano i maestri muratori: per quello che sapeva di una città,
laggiù la gente stava finendo di farne sorgere una dal niente, ed era
uno spettacolo che - quando va bene - si vede una volta nella vita e poi basta.
"Robe da matti," si era detto, "giri un momento la testa e te ne
combinano subito una", e aveva dato di sprone alla mula per arrivare il
più presto possibile a valle. Attraversato il fiume, su uno zatterone
che traghettava pietre di ogni genere e dimensione, si era arrestato proprio
là dove alcuni lavoranti, su un'incastellatura periclitante, stavano
facendo crescere un muraglietto, mentre altri da terra, con un verricello,
innalzavano sino a quelli di sopra panieri di pietrisco. Ma verricello era per
modo di dire, ché più selvaggio non si poteva concepirlo, fatto
di pertiche piuttosto che di pali robusti, che traballava a ogni momento, e i
due che a terra lo facevano girare, più che a far scorrere la corda,
parevano fossero occupati a reggere quell'ondeggiare minaccioso di pennoni. Baudolino
si era subito detto: "Ecco si vede, la gente di queste parti quando fa
qualcosa o lo fa male o lo fa peggio, ma guarda te se si deve lavorare in
questo modo, se qui fossi il padrone li avrei già presi tutti per il
fondo delle brache e li avrei gettati a Tanaro."
Ma poi aveva visto un poco più in là un altro gruppo che
pretendeva di edificare una loggetta, con le pietre mal tagliate, travi mal
rifinite, e capitelli che sembravano sagomati da una bestia. Per issare il
materiale da costruzione avevano costruito anche loro una sorta di carrucola, e
Baudolino si rese conto che, comparati a questi, quelli del muraglietto erano
maestri comacini. Smise poi di fare paragoni quando, procedendo per un poco,
vide altri che costruivano come fanno i bambini quando giocano con la terra
bagnata, e stavano dando gli ultimi colpi di piede, si sarebbe detto, a una
costruzione, uguale ad altre tre che le stavano accanto, fatta di fango e
pietre informi, con i tetti di paglia malamente compressa: così che
stava nascendo una sorta di stradetta di casupolacce molto mal fatte, come se
gli operai facessero a gara a chi finiva prima per le feste, senza alcun
riguardo per le regole del mestiere.
Però, penetrando negli incompleti meandri di quell'opera incerta,
scopriva ogni tanto mura ben squadrate, facciate solidamente reticolate,
bastioni che, ancorché incompleti, avevano un'aria massiccia e
protettiva. Tutto questo gli lasciava capire che avevano concorso a costruire
la stessa città genti di diversa origine e abilità; e se molti
erano certamente novizi in quel mestiere, contadini che stavano elevando case
come per tutta la vita avevano fatto capanni per le bestie, altri dovevano aver
l'abito dell'arte.
Mentre cercava di orientarsi tra quella moltitudine di saperi, Baudolino
scopriva anche una moltitudine di dialetti - i quali mostravano come
quell'insieme di stamberghe lo stessero facendo villani di Solero, quella torre
stortignaccola fosse opera di monferrini, quella malta rivoltante la stessero
rivoltando dei pavesi, quelle assi le stessero segando genti che sino ad allora
avevano abbattuto gli alberi nella Palea. Però quando sentiva qualcuno
che dava ordini, o vedeva un manipolo che lavorava come si deve, sentiva
parlare genovese.
"Che sia capitato proprio nel bel mezzo della costruzione di Babele,"
si chiedeva Baudolino, "o nella Hibernia di Abdul, dove quei settantadue
saggi hanno ricostruito la lingua di Adamo mettendo insieme tutte le favelle,
proprio come s'impastano acqua e argilla, pece e bitume? Però qui la
lingua di Adamo non la parlano ancora e, malgrado parlino tutti insieme
settantadue lingue, uomini di razze così diverse, che di solito si
frombolerebbero gli uni con gli altri, stanno pasticciando d'amore e
d'accordo!"
Si era avvicinato a un gruppo che stava sapientemente coprendo una costruzione
di trabeazioni di legno, come se fosse una chiesa abbaziale, usando un argano
di grandi dimensioni che non era mosso a braccia, ma facendo lavorare un
cavallo - il quale non era oppresso dal collare, ancora in uso in certe
campagne, che gli stringeva la gola, ma tirava con grande energia grazie a un
comodo collare di spalla. Gli operai emettevano suoni certamente genovesi, e
Baudolino li abbordò subito nel loro volgare - anche se non in modo
così perfetto da celare il fatto che non era dei loro.
"Che cosa fate di bello?" aveva chiesto tanto per incominciare il
discorso. E uno di loro, guardandolo male, gli aveva detto che stavano facendo
una macchina per grattarsi il belino. Ora, siccome tutti gli altri si erano
messi a ridere ed era chiaro che ridevano di lui, Baudolino (cui già
bollivano gli spiriti a dover fare il mercante disarmato su una mula, mentre
nel bagaglio teneva, accuratamente avvolta in un rotolo di stoffa, la sua spada
da uomo di corte) gli aveva risposto nel dialetto della Frascheta, che dopo
tanto tempo gli tornava spontaneo alle labbra, precisando che non aveva bisogno
di machinae perché a lui di solito il belino, che le persone per bene
chiamano uccello, glielo grattavano quelle bagasce delle loro madri. I genovesi
non avevano capito bene il senso delle sue parole, ma avevano intuito
l'intenzione. Avevano abbandonato le loro occupazioni raccogliendo chi una
pietra chi un piccone, ponendosi a semicerchio intorno alla mula. Per fortuna
in quel momento si stavano appressando altri personaggi, tra cui uno che aveva
l'aria di un cavaliere, e che in una lingua franca mezzo latina, mezzo
provenzale e mezzo chissà cosa, aveva detto ai genovesi che il
pellegrino parlava come uno di quelle parti, e che quindi non lo trattassero
come chi non avesse diritto a passare di là. I genovesi si erano
giustificati dicendo che lui aveva fatto domande come se fosse una spia, e il
cavaliere aveva detto che anche se l'imperatore mandava delle spie, tanto
meglio, perché era ora che sapesse che lì era sorta una
città proprio per fargli dispetto. E poi a Baudolino: "Non ti ho
mai visto, ma hai l'aria di uno che ritorna. Sei venuto per unirti a noi?"
"Signore," aveva risposto urbanamente Baudolino, "sono nato
nella Frascheta, ma ne sono partito tanti anni fa, e non sapevo nulla di tutte
queste cose che stanno succedendo quaggiù. Mi chiamo Baudolino, figlio
di Gagliaudo Aulari..."
Non aveva finito di parlare che, dal gruppo dei nuovi arrivati, un vecchio,
dalla chioma e dalla barba bianca, aveva levato un bastone e si era messo a
gridare: "Brutto bugiardo senza cuore, ti pigliasse una saetta sulla
testa, come hai il coraggio di usare il nome del mio povero figlio Baudolino,
figlio di me che sono quel Gagliaudo stesso e Aulari per giunta, che è
partito di casa tanti anni fa con un signore alamanno che sembrava la regina
Pedoca e poi magari era davvero uno che faceva ballare le scimmie perché
del mio povero ragazzo non ho mai saputo più niente e dopo tanto tempo
non può essere che morto, cosa che io e la mia santa moglie ci
consumiamo da trent'anni che questo è stato il più grande dolore
della nostra vita che era già grama di suo ma perdere un figlio è
uno strazio che chi non l'ha provato non lo sa!"
Al che Baudolino aveva gridato: "Padre mio, sei proprio te!" E gli
era venuto come un cedimento nella voce e le lacrime agli occhi, ma erano
lacrime che non riuscivano a velare una grande allegrezza. Quindi aveva
aggiunto: "E poi non sono trent'anni di strazio perché io me ne
sono andato solo tredici anni fa, e dovresti essere contento che li ho spesi
bene e ora sono qualcuno." Il vecchio si era fatto sotto alla mula, aveva
guardato bene Baudolino in viso e aveva detto: "Ma anche te sei proprio
te! Fossero passati anche trent'anni, quello sguardo da balosso non l'hai
proprio perduto, e allora sai cosa ti dico? Che sarai anche diventato qualcuno,
ma torto a tuo padre non lo devi dare, se ho detto trent'anni è
perché a me sono parsi trenta e in trent'anni potevi anche mandare
notizie, disgraziato che non sei altro, sei la rovina della nostra famiglia,
vieni giù da quella bestia che magari l'hai rubata e ti rompo questo
bastone sulla testa!" E già aveva afferrato Baudolino per i calzari
cercando di tirarlo giù dalla mula, quando quello che sembrava un capo
si era messo di mezzo. "Andiamo Gagliaudo, ritrovi tuo figlio dopo
trent'anni..."
"Tredici," diceva Baudolino.
"Stai zitto te, che poi parliamo noi due - lo trovi dopo trent'anni e in
questi casi ci si abbraccia e si ringrazia Iddio, per Dio!" E Baudolino
era già sceso dalla mula e stava per gettarsi nelle braccia di
Gagliaudo, che aveva cominciato a piangere, quando il signore che sembrava un
capo si era di nuovo messo di mezzo e aveva afferrato Baudolino per la collottola:
"Però se qui c'è uno che con te ha un conto da regolare sono
io."
"E chi sei tu?" aveva chiesto Baudolino. "Sono Oberto del Foro,
ma tu non lo sai, e magari non ti ricordi niente. Io avrò avuto dieci
anni e mio padre si è degnato di passare dal tuo, per vedere dei vitelli
che voleva comperare. Io ero vestito come dev'essere il figlio di un cavaliere
e mio padre non voleva che entrassi con loro nella stalla per timore che mi
sporcassi. Io mi ero messo a girare intorno alla casa, e proprio dietro c'eri
tu, brutto e sudicio che sembrava che fossi uscito da un mucchio di letame. Mi
sei venuto davanti, mi hai guardato, mi hai chiesto se volevo fare un gioco, io
scemo ho detto di sì, e tu mi hai dato una spinta che mi ha fatto cadere
nel truogolo dei maiali. Quando mi ha visto in quello stato, mio padre mi ha
preso a nerbate perché avevo rovinato il vestito nuovo."
"Sarà anche," diceva Baudolino, "ma è una storia
di trent'anni fa..."
"Intanto sono tredici, e io è da allora che ci penso ogni giorno
perché non sono mai stato tanto umiliato in vita mia come quella volta e
sono cresciuto dicendomi che se un giorno incontro il figlio di quel Gagliaudo,
lo ammazzo."
"E mi vuoi ammazzare adesso?"
"Adesso no, anzi, adesso non più, perché siamo tutti qui che
abbiamo quasi finito di tirar su una città per batterci con
l'imperatore, quando rimetterà piede da queste parti, e figurati se
posso perdere tempo ad ammazzare te. Per trent'anni..."
"Tredici."
"Per tredici anni ho avuto questa rabbia in cuore, e proprio in questo
momento, guarda te, mi è passata."
"Quando si dice, alle volte..."
"Adesso non fare il furbo. Va', e abbraccia tuo padre. Poi, se mi chiedi
scusa per quel giorno, andiamo qui vicino dove stiamo festeggiando una
costruzione appena terminata, e in questi casi si spilla dalla botte di quello
buono e, come dicevano i nostri vecchi, alè, goga e migoga."
Baudolino si era ritrovato in un cantinone. La città non era ancora
finita, e già ne era sorta la prima osteria, col suo bel pergolato nella
corte, ma in quei giorni si stava meglio dentro, in un antro che era tutta una
botte, e lunghi tavoli di legno, pieni di bei boccali e di salamini di carne
d'asino, che (spiegava Baudolino a un Niceta inorridito) ti arrivano che
sembrano otri gonfiati, li fendi con una coltellata, li butti a sfrigolare in
olio e aglio, e sono una prelibatezza. Ed ecco perché tutti i convenuti
erano lieti, puzzolenti ed alticci. Oberto del Foro aveva annunciato il ritorno
del figlio di Gagliaudo Aulari, e subito alcuni di quelli si erano buttati a
dar pugni sulle spalle di Baudolino, che spalancava dapprima gli occhi,
sorpreso, poi ricambiava, in uno scatenarsi di agnizioni che ancora un poco e
non finiva più. "O Signore, ma te sei lo Scaccabarozzi, e te il
Cuttica di Quargnento - e te chi sei? No, sta' zitto che voglio indovinare, ma
te sei lo Squarciafichi! E te sei il Ghini o il Porcelli?"
"No, il Porcelli è lui, quello che vi prendevate sempre a sassate! Io
ero il Ghino Ghini, e a dire la verità lo sono ancora. Noi due andavamo
a fare le sghiarole sul ghiaccio, d'inverno."
"Gesù Signore, è vero, te sei il Ghini. Ma non eri quello
capace di vendere tutto, anche la merda delle tue capre come quella volta che a
quel pellegrino l'hai fatta passare per le ceneri di San Baudolino?"
"E come no, infatti adesso faccio il mercante, guarda te se non c'è
un destino. E quel lì, prova un po' a dire chi è..."
"Ma l'è il Merlo! Merlo, cos'è che ti dicevo sempre?"
"Mi dicevi: beato te che sei stupido e non te la prendi... E invece
guarda, invece di prendermela me la sono persa", e mostrava il braccio
destro senza più la mano, "all'assedio di Milano, quello di dieci
anni fa."
"Appunto, stavo per dire, per quel che ne so io, quelli di Gamondio, di
Bergoglio e di Marengo sono sempre stati con l'imperatore. E com'è che
prima stavate con lui e adesso fate una città contro di lui?"
E allora, tutti a cercare di spiegare, e l'unica cosa che Baudolino capiva bene
era che intorno al vecchio castello e alla chiesa di Santa Maria di Roboreto
era sorta una città fatta dalla gente dei borghi vicini, come appunto
Gamondio, Bergoglio e Marengo, ma con gruppi di intere famiglie che si erano
spostati da tutte le parti, da Rivalta Bormida, da Bassignana o da Piovera, per
costruire la case che avrebbero abitato. Tanto che sin da maggio tre di loro,
Rodolfo Nebia, Aleramo di Marengo e Oberto del Foro avevano portato a Lodi, ai
comuni là radunati, l'adesione della nuova città, anche se
esisteva, in quel momento, più nelle intenzioni che lungo il Tanaro. Ma
avevano lavorato tutti come bestie, per tutta l'estate e l'autunno, e la
città era quasi pronta, pronta a sbarrare il passo all'imperatore il
giorno che fosse ridisceso in Italia, come era suo vizio.
Ma sbarrare che cosa, chiedeva Baudolino un poco scettico, basta che lui ci
giri attorno... Eh no, gli rispondevano, tu non conosci l'imperatore
(figurarsi), una città che sorge senza il suo consenso è un'onta
da lavare col sangue, sarà obbligato ad assediarla (e qui avevano
ragione loro, conoscevano bene il carattere di Federico), ecco perché ci
vogliono mura solide e strade studiate apposta per la guerra, ed è per
questo che abbiamo avuto bisogno dei genovesi, che sono marinai, sì, ma
vanno per paesi lontani a costruire tante nuove città, e sanno come si fa.
Ma i genovesi non sono gente che fa niente per niente, diceva Baudolino. Chi li
ha pagati? Hanno pagato loro, ci hanno già dato un prestito di mille
solidi genovini, e altri mille ne hanno promessi per l'anno che viene. E che
cosa significa che fate strade studiate apposta per la guerra? Fattelo spiegare
da Emmanuele Trotti, che è lui che ha avuto l'idea, parla tu che sei il
Poliorcete!
"Cosa l'è il poliorcosa?"
"Sta' bravo Boidi, lascia parlare il Trotti."
E il Trotti (che come Oberto aveva anche lui l'aria di un miles, e cioè
di un cavaliere, di un valvassore di una certa dignità): "Una
città deve resistere al nemico in modo che non scali le mura, ma se per
disgrazia le scala, la città deve essere ancora in grado di tenergli
testa, e rompergli il groppone. Se il nemico, dentro alle mura, trova subito un
intrico di vicoli dove infilarsi, non lo prendi più, chi va di qua, chi
di là, e dopo un poco i difensori fanno la fine del topo. Invece il
nemico deve trovare sotto alle mura uno spiazzo, e vi rimanga allo scoperto il
tempo giusto che dagli angoli e dalle finestre davanti possa essere flagellato
con frecce e pietrame, in modo che prima di aver superato quello spazio sia
ormai dimezzato."
(Ecco, interloquiva tristemente Niceta, a sentire questa storia, che cosa
avrebbero dovuto fare a Costantinopoli, e invece hanno lasciato che ai piedi
delle mura crescesse proprio quell'intrico di vicoli... Sì, avrebbe
voluto rispondergli Baudolino, ma ci voleva anche della gente con le palle dei
miei borghigiani, e non dei cacasotto come quegli smidollati della vostra
guardia imperiale - ma poi taceva per non ferire il suo interlocutore e gli
diceva: stai zitto, non interrompere il Trotti e lasciami raccontare.)
Il Trotti: "Se poi il nemico supera lo spazio aperto e si infila nelle
strade, queste non debbono essere dritte e tirate con il filo a piombo, neppure
se tu volessi ispirarti ai romani antichi, che una città la disegnavano
come una graticola. Perché con una strada dritta il nemico sa sempre che
cosa lo aspetta davanti a sé, mentre le strade debbono essere piene
d'angoli, o di gomiti che dir si voglia. Il difensore attende dietro l'angolo,
e da terra e da sopra i tetti, e sa sempre che cosa fa il nemico, perché
dal tetto vicino - che fa angolo col primo - c'è un altro difensore che
lo scorge e fa segni a quelli che non lo vedono ancora. E invece il nemico non
sa mai a che cosa va incontro, e questo rallenta la sua corsa. Quindi una buona
città deve avere le case messe male, come i denti di una vecchia, che
sembra brutto ma è invece lì il suo buono. E infine, ci vuole la
falsa galleria!"
"Questa non ce l'avevi ancora detta," interloquiva quel Boidi.
"E per forza, me l'ha appena raccontata un genovese che gliela ha
raccontata un greco, e fu una idea di Belisario generale di Giustiniano
imperatore. Qual è il proposito di un assediante? Scavare gallerie
sotterranee che lo menino nel cuore della città. E quale è il suo
sogno? Di trovare una galleria già bella e fatta, e ignota agli
assediati. Noi allora gli prepariamo subito una galleria che dà
dall'esterno entro le mura, e all'esterno se ne cela l'ingresso tra massi e
arbusti, ma non così bene che un giorno o l'altro il nemico non la
scopra. L'altro capo della galleria, quello che dà in città, deve
essere uno stretto budello, che ci passi un uomo o al massimo due per volta,
chiuso da una inferriata - in modo che il primo scopritore possa dire che, una
volta arrivati alla grata si vede una piazza e, che so, l'angolo di una
cappella, segno che il cunicolo porta proprio in città. Alla grata sta
invece una guardia fissa, ed ecco che quando il nemico arriva è
obbligato a uscire uno per uno, e come uno esce, uno ne stendi a terra..."
"E il nemico è ciula e continua a uscire senza accorgersi che
quelli davanti cascano giù come fichi," cachinnava il Boidi.
"E chi ti ha detto che il nemico non è ciula? Calma. La cosa va
forse studiata meglio ma non è una idea da buttare via."
Baudolino aveva preso da parte il Ghini, che ormai era mercante e dunque doveva
essere persona di senno e coi piedi per terra, non come quei cavalieri,
feudatari di feudatari, che pur di acquistar fama militare si buttano anche
nelle cause perse. "Senti un po', Ghinèn, passami ancora di quel
vino e intanto dimmi questa. Mi va bene l'idea che, a fare qui una
città, il Barbarossa è costretto ad assediarla per non perdere le
faccia, e così dà tempo a quelli della lega di prenderlo alle
spalle dopo che lui si è sderenato nell'assedio. Ma chi ci rimette in
questa impresa sono quelli della città. E tu vuoi farmi credere che la
nostra gente lascia i posti dove bene o male campava, e se ne viene qui a farsi
ammazzare per far piacere a quelli di Pavia? E vuoi farmi credere che i
genovesi, che non scucirebbero un solido per riscattare la propria madre dai
pirati saraceni, vi danno danaro e fatica per costruire una città che al
massimo fa comodo a Milano?"
"Baudolino," disse il Ghini, "la storia è molto
più complicata di così. Sta' bene attento a dove stiamo
noi." Intinse un dito nel vino e incominciò a far segni sul tavolo.
"Qui è Genova, d'accordo? E qui ci sono Terdona, e poi Pavia, e poi
Milano. Queste sono città ricche, e Genova è un porto. Quindi
Genova deve avere via libera nei suoi traffici con le città lombarde, va
bene? E i valichi passano per la val di Lemme, per la val d'Orba, per la valle
della Bormida e per quella dello Scrivia. Stiamo parlando di quattro fiumi - o
no? - e tutti s'annodano più o meno qui in riva al Tanaro. Che se poi
hai un ponte sul Tanaro, di lì hai la via aperta per commerci con le
terre del marchione del Monferrato, e chissà sin dove ancora. Chiaro?
Ora, sino a che Genova e Pavia se la vedevano tra loro, queste valli gli andava
bene che restassero senza padrone, ovvero volta per volta si facevano delle
alleanze, per esempio con Gavi o con Marengo, e le cose andavano lisce... Ma con
l'arrivo di questo imperatore qui, Pavia da una parte e il Monferrato
dall'altra si mettono con l'impero, Genova rimane bloccata sia a sinistra che a
destra, e se passa dalla parte di Federico i suoi affari con Milano li saluta. Allora
si dovrebbe tenere buone Terdona e Novi, che le permettono una di controllare
la valle dello Scrivia e l'altra quella della Bormida. Ma sai cosa è
successo, l'imperatore ha raso al suolo Terdona, Pavia ha preso il controllo
del tortonese sino alle montagne dell'Appennino, e i nostri borghi se ne sono
andati a stare con l'impero, e sacranone, volevo ben vedere se, piccoli come
eravamo, potevamo fare i prepotenti. Che cosa dovevano darci i genovesi per
convincerci a cambiar parte? Qualcosa che non ci eravamo mai sognati di avere,
e cioè una città, con dei consoli, dei soldati, e un vescovo, e
delle mura, una città che raccoglie pedaggi d'uomini e di merci. Ti
rendi conto, Baudolino, che solo a controllare un ponte sul Tanaro fai soldi a
palate, stai lì seduto e a uno chiedi una moneta a un altro due
pollastri, all'altro ancora un bove intero, e quelli zan zan, pagano, una
città è una cuccagna, guarda come erano ricchi quelli di Terdona
rispetto a noi della Palea. E questa città che faceva comodo a noi,
faceva comodo anche alla lega, e faceva comodo a Genova, come ti dicevo,
perché, per debole che sia, per il solo fatto che è lì,
scompiglia i piani di tutti gli altri e garantisce che in quella zona non
possano spadroneggiare né Pavia, né l'imperatore né il
marchione del Monferrato..."
"Sì, ma poi arriva il Barbarossa e vi squatagna come un babio,
ovverosia vi spiaccica come un rospo."
"Calma. Chi l'ha detto? Il problema è che quando arriva lui, la
città è lì. Poi sai bene come vanno le cose, un assedio
costa tempo e danaro, noi gli facciamo un bell'atto di sottomissione, lui
è contento (perché quella è gente che l'onore sopra tutto)
e se ne va da un'altra parte."
"Ma quelli della lega e i genovesi, hanno buttato via i soldi per far
venire su la città, e voi li mandate a prendersela nel culo
così?"
"Ma dipende quando arriva il Barbarossa. Vedi bene che nel giro di tre
mesi queste città cambiano alleanza come se niente fosse. Stiamo
lì e aspettiamo. Magari a quel momento là, la lega è
alleata dell'imperatore." (Signor Niceta, raccontava Baudolino, mi
potessero cascare questi occhi, sei anni dopo, all'assedio della città,
dalla parte di Federico, c'erano i frombolieri genovesi, capisci, i genovesi,
quelli che avevano contribuito a costruirla!)
"E se no," continuava il Ghini, "sosteniamo l'assedio, o vacca
di una cipolla, a questo mondo non si ha niente per niente. Ma prima di parlare
vieni a vedere..."
Aveva preso Baudolino per mano e l'aveva condotto fuori della taverna. Era
ormai scesa la sera, e faceva più freddo di prima. Si usciva su una
piazzetta, da cui, si intuiva, avrebbero dovuto dipartirsi almeno tre vie, ma
c'erano solo due angoli già costruiti, con case basse, a un piano, i
tetti di stoppie. La piazzetta era illuminata da alcune luci che venivano dalle
finestre intorno, e da qualche braciere attizzato dagli ultimi venditori, che
gridavano: donne donne, sta per incominciare la notte santa e non vorrete che i
vostri mariti trovino niente di buono in tavola. Presso a quello che sarebbe
diventato il terzo angolo, stava un arrotino, che faceva stridere i suoi
coltelli mentre annacquava a mano la mola. Più in là, su una
bancarella, una donna vendeva della farinata di ceci, fichi secchi e carrube, e
un pastore vestito di pelle di pecora portava un cavagnino gridando: ehi donne
la buona mascherpa. In uno spazio vuoto in mezzo a due case, due uomini stavano
contrattando per un maiale. In fondo, due ragazze stavano appoggiate
languidamente a una porta, battendo i denti sotto uno scialle che lasciava
intravedere una scollatura generosa, e una aveva detto a Baudolino: "Ma
che bel ciciolino che sei, perché non vieni a passare il Natale con me
che t'insegno a fare la bestia a otto zampe?"
Voltavano l'angolo, ed ecco un cardatore di lana, che gridava a gran voce che
era l'ultimo momento per i sacconi e le pagliasse, per dormirci al caldo e non
gelare come Gesù Bambino; e accanto gridava un acquaiolo; e andando per
le strade ancora mal disegnate si vedevano già degli androni in cui
lì piallava ancora un falegname, là un fabbro batteva ancora la
sua incudine in una festa di scintille, e laggiù ancora un altro
sfornava pani da un forno che baluginava come la bocca dell'Inferno; e c'erano
mercanti che arrivavano da lontano per fare affari in quella nuova frontiera,
oppure gente che di solito viveva nella foresta, carbonai, cercatori di miele,
fabbricanti di ceneri per il sapone, raccoglitori di cortecce per farne corde o
conciare i cuoi, venditori di pelle di coniglio, facce patibolari di chi
conveniva nel nuovo abitato pensando che qualche vantaggio ne avrebbe comunque
tratto, e monchi e ciechi e zoppi e scrofolosi, a cui la questua per le vie di
un borgo, e durante le sante feste, si prometteva più ricca che per le
strade deserte delle campagne.
Incominciavano a cadere i primi fiocchi di neve, poi si erano infittiti, e
già imbianchivano, per la prima volta, i giovani tetti che nessuno
sapeva ancora se avrebbero retto quel peso. A un certo punto Baudolino, memore
dell'invenzione che aveva fatto in Milano conquistata, stravide, e tre mercanti
che stavano entrando su tre asini per un arco nelle mura gli parvero i Magi,
seguiti dai loro famigli che recavano vasi e panni preziosi. E dietro di loro,
oltre Tanaro, gli pareva di scorgere greggi che scendevano dalle falde della
collina che già s'inargentava, coi loro pastori che suonavano bagotti e
zampogne, e carovane di cammelli orientali con i mori dai grandi turbanti a
strisce multicolori. Sulla collina radi fuochi si stavano estinguendo sotto lo
sfarfallare della neve sempre più intensa, ma a Baudolino uno di questi
parve una grande stella caudata, che si muoveva nel cielo verso l'urbe che
vagiva.
"Vedi che cosa è una città?" gli diceva il Ghini. "E
se è già così quando non è nemmeno finita,
immaginiamoci dopo: è un altro vivere. Ogni giorno vedi gente nuova -
per i mercanti, figurati, è come avere la Gerusalemme Celeste, e quanto
ai cavalieri l'imperatore gli proibiva di vendere le terre per non dividere il
feudo, e morivano d'inedia in campagna, invece ora comandano compagnie di
arcieri, escono a cavallo in parata, danno ordini di qui e di là. Ma non
è che va bene solo per i signori e i mercanti, è una provvidenza
anche per la gente come tuo padre, che non avrà gran che di terra ma ha
un poco di bestiame, e in città arriva gente che lo chiede e paga in monete,
si principia a vendere per metallo sonante e non per altra merce in cambio, e
non so se capisci cosa vuole dire, se prendi due polli per tre conigli prima o
poi li devi mangiare se no invecchiano, mentre due monete le nascondi sotto
dove dormi e vengono buone anche dieci anni dopo, e se ti va bene rimangono
lì persino se i nemici ti entrano in casa. E poi, è accaduto a
Milano come a Lodi o a Pavia, e accadrà anche qui da noi: non è
che i Ghini o gli Aulari debbano star zitti, e comandino solo i Guasco o i
Trotti, facciamo tutti parte di chi prende le decisioni, qui potrai diventare
importante anche se non sei nobile, e questo è il bello di una
città, ed è bello specialmente per chi nobile non è, ed
è disposto a farsi ammazzare, se proprio si deve (ma meglio se no)
perché i suoi figli possano andare in giro e dire: io mi chiamo Ghini e
anche se tu ti chiami Trotti sei uno stronzo lo stesso."
Ovvio che Niceta a quel punto domandasse a Baudolino come si chiamava quella
benedetta città. Ebbene (gran talento di narratore quel Baudolino, che
sino a quel momento aveva tenuto la rivelazione in sospeso) la città non
si chiamava ancora, se non genericamente Civitas Nova, che era nome di genus,
non di individuum. La scelta del nome sarebbe dipesa da un altro problema, e
non da poco, quello della legittimazione. Come acquista diritto all'esistenza
una città nuova, senza storia e senza nobiltà? Al massimo per
investitura imperiale, così come l'imperatore può fare cavaliere
e barone, ma qui si stava parlando di una città che nasceva contro i
voleri dell'imperatore. E allora? Baudolino e il Ghini erano tornati alla
taverna mentre tutti stavano discutendo proprio di quello.
"Se questa città nasce al di fuori della legge imperiale non si
può che darle legittimità secondo un'altra legge, altrettanto
forte e antica."
"E dove la troviamo?"
"Ma nel Constitutum Costantini, nella donazione che l'imperatore
Costantino fece alla chiesa, dandole diritto di governare territori. Noi
doniamo la città al pontefice e, visto che in questo momento di
pontefici ce ne sono in giro due, la doniamo a quello che sta dalla parte della
lega e cioè Alessandro III. Come abbiamo già detto a Lodi, e mesi
fa, la città si chiamerà Alessandria, e sarà feudo
papale."
"Intanto tu a Lodi dovevi stare zitto, perché non avevamo ancora
deciso niente," diceva il Boidi, "ma non è questo il punto, il
nome per essere bello è bello, e comunque non è più brutto
di tanti altri. Però quello che mi resta sullo stomaco è che noi
ci facciamo un sedere così per fare una città e poi la regaliamo
al papa che ne ha già tante. E così dobbiamo poi pagargli i
tributi e gira di qua gira di là sono sempre soldi che se ne escono di
casa e tanto valeva allora pagarli all'imperatore."
"Boidi non fare il solito," gli diceva il Cuttica, "primo
l'imperatore non vuole la città neanche se gliela regaliamo, e se era
pronto ad accettarla allora non valeva la pena di farla. Secondo, un conto
è non pagare il tributo all'imperatore, che ti arriva addosso e ti fa a
tocchi come ha fatto con Milano, e un conto non pagarlo al papa, che sta a
mille miglia e con le grane che ha figurati se ci manda un esercito solo per
riscuotere due soldi."
"Terzo," intervenne allora Baudolino, "se mi permettete di
metterci bocca, ma ho studiato a Parigi e su come si fanno lettere e diplomi ho
una certa esperienza, c'è modo e modo di regalare. Voi fate un documento
in cui dite che Alessandria viene fondata in onore di Alessandro papa e
consacrata a San Pietro, per esempio. Come prova costruite una cattedrale di
San Pietro su terreno allodiale, che è libero da obblighi feudali. E la
costruite col danaro offerto da tutto il popolo della città. Dopo di che
ne fate dono al papa, con tutte le formule che i vostri notai troveranno le
più appropriate e le più impegnative. Condite il tutto con
profferte di figliolanza, affetto e tutte quelle cose lì, mandate la
pergamena al papa e vi prendete tutte le sue benedizioni. Chiunque poi vada a
sottilizzare su quella pergamena vedrà che alla fin fine gli avete
donato solo la cattedrale, e non il resto della città, ma voglio vedere
il papa che viene qui a prendersi la sua cattedrale e se la porta a Roma."
"Mi pare magnifico," disse Oberto, e tutti assentirono. "Faremo
come dice Baudolino, che mi pare molto astuto e spero proprio rimanga qui a
darci altri buoni consigli, visto che è anche un gran dottore
parigino."
Qui Baudolino dovette risolvere la parte più imbarazzante di quella
bella giornata, e cioè rivelare, senza che nessuno potesse fargli la
morale, visto che loro stessi erano stati imperiali sino a poco tempo prima,
che lui era un ministeriale di Federico, a cui era legato anche da filiale
affetto - e via a raccontare tutta la storia di quei tredici anni mirabili, con
Gagliaudo che non faceva che mormorare: "Ma se me lo dicevano non ci avevo
creduto", e: "Ma guarda te che mi somigliava un ciulandario peggio
degli altri e adesso mi va a diventare davvero qualcuno!"
"Non tutto il male viene per nuocere," disse allora il Boidi. "Alessandria
non è ancora finita e già abbiamo uno di noi alla corte
imperiale. Caro Baudolino, non devi tradire il tuo imperatore, visto che gli
vuoi così bene, e lui a te. Ma gli starai vicino e prenderai le nostre
parti ogni volta che ce ne sarà bisogno. È la terra dove sei nato
e nessuno ti rimprovererà se tenti di difenderla, nei limiti della
lealtà, s'intende."
"Però è meglio se stasera vai a trovare quella santa donna
di tua madre e dormi alla Frascheta," disse con delicatezza Oberto,
"e domani te ne vai, senza star qui a guardare che corso prendono le strade
e di che consistenza sono le mura. Noi siamo sicuri che, per amore del tuo
padre naturale, se un giorno apprendessi che corriamo un grande pericolo, ci
faresti avvertire. Ma se avrai cuore di far questo, chi sa che per le stesse
ragioni un giorno tu non avvertiresti il tuo padre adottivo di qualche nostra
macchinazione troppo dolorosa per lui. Dunque, meno sai, meglio è."
"Sì, figlio mio," disse allora Gagliaudo, "fai almeno
questo di buono, con tanti fastidi che mi hai dato. Io devo stare qui
perché vedi che parliamo di cose serie, ma non lasciare sola tua madre
proprio questa notte, che se vede te almeno dalla gran contentezza non capisce
più gnente e non si dà conto che non ci sono io. Vai e, guarda
cosa ti dico, ti do pure la mia benedizione, che chissà quando poi ci
vediamo di nuovo."
"Va bene," disse Baudolino, "in un solo giorno trovo una
città e la perdo. O porca di una miseria vacca, ma vi rendete conto che
se vorrò rivedere mio padre dovrò venire ad assediarlo?"
Che fu, spiegava Baudolino a Niceta, quello che più o meno accadde. Ma
d'altra parte, non c'era modo di uscirne in maniera diversa, segno che quelli
erano davvero tempi difficili.
"E poi?" chiese Niceta.
"Mi ero messo a cercare casa mia. La neve per terra arrivava già a
mezza gamba, quella che veniva giù dal cielo era ormai una baraonda che
ti faceva girare le palle degli occhi e ti tagliava la faccia, i fuochi della
Città Nuova erano scomparsi, e tra quel bianco di sotto e quel bianco di
sopra io non capivo più da che parte dovevo andare. Credevo di
ricordarmi i vecchi sentieri ma a quel punto altro che sentieri, non si capiva
più che cosa era terreno solido e che cosa era palude. Si vede che per
far case avevano tagliato dei boschetti interi e non trovavo più nemmeno
le sagome di quegli alberi che una volta conoscevo a memoria. Mi ero perso,
come Federico, quella notte che mi aveva incontrato, solo che adesso era neve e
non nebbia, che se era nebbia me la cavavo ancora. Bella roba, Baudolino, mi
dicevo, ti perdi dalle tue parti, aveva ben ragione la mia mamma che quelli che
san leggere e scrivere sono più stupidi degli altri, e adesso che
faccio, mi fermo qui e mi mangio la mula, o domani mattina scava scava e mi
ritrovano che sembro una pelle di coniglio lasciata fuori per una notte nei giorni
della merla?"
Se Baudolino era lì a raccontarlo vuole dire che se l'era cavata, ma per
un evento quasi miracoloso. Perché mentre andava ormai senza meta aveva
scorto ancora una volta una stella nel cielo, pallida pallida ma pur sempre
visibile, e l'aveva seguita, salvo accorgersi che era finito in un valloncello
e la luce sembrava in alto proprio perché lui era in basso ma, una volta
risalito il pendio, la luce s'ingrandiva sempre più davanti a lui, sino
a che si era reso conto che veniva da uno di quei porticati dove si tengono le
bestie quando non c'è abbastanza posto in casa. E sotto il portico
c'erano una vacca e un asino che ragliava tutto spaventato, una donna con le
mani in mezzo alle zampe di una pecora, e la pecora che stava mettendo fuori un
agnellino e belava come tutto.
E allora si era arrestato sulla soglia per aspettare che l'agnellino uscisse
per intero, aveva fatto da parte l'asino con un calcio e si era precipitato a
posare il capo in grembo alla donna, gridando "Madre mia benedetta",
la quale per un momento non aveva capito più nulla, gli aveva tirato su
la testa volgendola verso il fuoco, e poi si era messa a piangere, e gli
accarezzava i capelli mormorando tra i singhiozzi: "O Signore o Signore,
due bestie in una notte sola, una che nasce e una che torna su dalla casa del
diavolo, è come avere il Natale e la Pasqua insieme, ma è troppo
per il mio povero cuore; tenetemi che sto per perdere i sentimenti; adesso
smettila Baudolino che ho giusto scaldato l'acqua nel paiolo per lavare questo
meschino, non vedi che ti sporchi di sangue anche tu; ma dove l'hai preso quel
vestito che sembra quello di un signore, l'avrai mica rubato, disgraziato che
non sei altro?"
E a Baudolino sembrava di sentir cantare gli angeli.