Carlo Emilio Gadda
La Madonna dei Filosofi
I.
Mi rincresce di cadere nel convenzionale, ma è proprio andata così.
Metà strada fra Boffalora e Turbigo c'è una strada che traversa: e da una banda si sperde fra salci ed altissimi pioppi verso il Ticino: e dall'altra, con forte salita, valica lo spalto boschivo segnante, nella coltre fonda della pianura, l'erosione del fiume.
Voltando e salendo di li, si arriva col fiato grosso a una torre di mattone bruno, merlata, con un tetto di tegoli bruni. E intorno tetti e altri muri di mattone fra gli alberi, con buchi allineati, con nidi di rondini e strida nei rossi tramonti. Il fossato rivela un'antica munizione: i merli sono ghibellini di forma e lombardi di sostanza: lombarde le cornici di cotto alle bifore. I canti dell'edificio speronati di granito grigio, d'un impasto assai ruvido: serizzo de' trovanti morenici: e inchiavardati di ferro.
Questa bicocca la chiamano Castelletto e anche sulla guida del Touring c'è Castelletto, da non confondersi con l'altro Castelletto sul Naviglio Grande, fra Abbiategrasso e Gaggiano. E i saputelli dicono che fu schiaffata li da non so che Bernabò Visconti, per tenere in rispetto non so che lazzeroni di allora, che anche allora pare ce ne fossero in giro più d'uno, in quel sito lì, come in altri. Difatti ci riuscì: e il Ducato di Milano fu un ducato solo, invece di cinquecento cinquantacinque ducatini, vuoi di Gaggiano? vuoi di Sedriano: finché fu collocato a riposo, dico Bernabò Visconti non il Ducato, dal suo nipotino Gian Galeazzo.
Ma altri saputelli sentenziano che “l'ala destra deve essere stata rifatta in epoca posteriore”. Che bravi! Le finestre han cornici barocche di pietra grigia, e fra la seconda e la terza del primo piano, sopra un bei balcone di ferro battuto, e panciuto, c'è dipinta una Madonna che appare benedicente a San Carlo Borromeo. Non si sbaglia più. Sullo sfondo, sotto un livido cielo, una fila di rognosi, pestilenti. Questa Madonna è, come pittura, di mano abbastanza buona e tutto l'affresco di buon disegno e colore, sebbene un poco sgretolato dai diluvi: e davanti, retto da una mensola di ferro, c'è un lumino rosso, ma bei grande, con dentro uno stoppino che non finisce più, ed è sempre acceso, estate e inverno, e non c'è mai pericolo di trovarcelo spento.
Raccontano una storia, che quella mensola e quel lume rosso fosseroun ex-voto d'un gran dottore e letterato di “quei tempi là” che nei pressi del castello, una notte, era stato aggredito da tré tipastri della razza appunto di quelli a cui Bernabò Visconti gli piaceva di cantargliela chiara: “o dentro, o fuori”; e il fuori era un po' lontanuccio. La ragione pare che fosse che costoro lo volevano sposar per forza a una loro megera detta la “bella strega”. Questa, che mesceva a un piccolo posteggio sulla strada di Vittuone, era riuscita a togliere il senno a quel grandissimo dottore, che ci passava in carrozza ed anche a cavallo, nel venir da Milano, che solo a Milano ci possono essere dei letterati cosi. Come fosse riuscita, preciso non lo si sa: ma di certo, svelta com'era, gli aveva versato di straforo nel suo boccale qualche goccia di “ poculum amatorium ”, un filtro stillato dal veleno di due vipere gravide e dalle foglie del rabarbaro e di altre erbe malefiche delle specie più rare e più sostanziose: poi fanno bollire tutt'insieme quando è scuro, chiamando i nomi di tutte le donne maritate che di notte, oltre al rè di denaro, si sognano anche del fante di picche.
Questa ragazza, che aveva degli occhi infernali, apparteneva certamente a una qualità speciale di streghe, a quella qualità che le chiamano anche zingare o maliarde: le quali non si curano affatto di cavalcare fra un camino e l'altro, nella pioggia e nel vento, quando fa buio, a cavallo d'una scopa; come le vere streghe o befane; ma pur tuttavia intrattengono anche loro dei misteriosi rapporti con l'Esecrando.
Pare (qui si va un po' nel torbido e chi me la contava abbassò la voce, guardandosi prudentemente in giro) che dopo aver baciato nottetempo le natiche dell'Esecrando e avergli giurato divozione e servitù, acquistino perniciosa bellezza.
Naturalmente perirono tutte tra i fuochi eterni e sono tuttora esposte a temperature elevatissime e guardate a vista dagli spiriti infernali: i quali per altro hanno interesse a conceder loro dei brevi congedi, ben sapendo, da vecchia dimestichezza con il tomo 44° della “Histoire universelle”, che elleno son suscettibili di pronta reincarnazione e che della vacanzetta insperata si avvalgono tosto per qualche proficua gita di propaganda nella virtuosa Italia.
Il dottore mentecatto, “doctor insaniens”, radunate l'ultime forze, aveva con una estrema implorazione invocato la Beatissima, dal fondo della sua tetra miseria: ed Ella, luminosa e pura, gli aveva ottenuto la guarigione. E fu allora che una notte di ottobre gli tesero quella imboscata: ma nella disperata difesa, sotto la grandine delle pazzesche legnate e tra le lame de' pugnali levati per rifinir l'opra, chiamò nuovamente il nome della Salvatrice. E dal castello con torce e tromboni uscirono i famigli, e portatelo dentro quella fossa e que' muri, fu ricoverato e guarito. Da allora la lampada arde.
E nelle sere di luglio, quando le mosche e i tafani han i ceduto il regno alle zanzare e alle lùcciole, e il turno delle cicale è scaduto e lo han rilevato le raganelle ed i grilli, (gemme del silenzio notturno), infinite stelle trapuntano la cava fonda del cielo, infinite cose si pensano; la torre è sola nel buio. E il lume, come nelle favole del bambino sperduto, è davvero un lumicino lontano.
Questo Castelletto apparteneva ai Ripamonti, discendenti de' marchesi Ripamonti: ma non erano più marchesi, perché uno, un numero della serie, dedito a funeste letture e avvelenato da teorie “ progressiste ”, gli venne il prurito democratico, consule Depretis. Questo prurito lo tenne poi in orgasmo per quindici anni consecutivi, durante i quali la vecchia e nobile famiglia conobbe rari i momenti di pace, e a lui non gli riuscf nemmeno di farsi eleggere, nonché deputato della Sinistra, ma neppur sindaco di Boffalora. Fece però in tempo a perdere un buon terzo delle sue sostanze, senza che alcuno per legge di compenso ci guadagnasse un centesimo: e a riempir la casa d'una congerie di libri, che si aggiunsero ai molti che già ci stavano. Ma quello che lo preoccupava era la “ elevazione ” morale e intellettuale del popolo. A stento i congiunti poteron levargli di mano la posateria di famiglia, non so quante decine di chili d'argento massiccio, ch'egli voleva far rifondere a tutti i costi, per annichilare al crogiuolo fin le ultime tracce della corona gentilizia: obbrobrioso residuo degli instituti feudali, segno pestifero, che non si capiva come potesse ancora vedersi nel mondo, al secolo del Darwin e dello Spencer, dell'Haeckel e del Comte, del Lassalle e del Buckie, del Taine e dello Zola. Tutte le altre corone che potè grattare però le grattò.
Il titolo, fra la costernazione generale, lo ripudiò senza batter ciglio: e non so poi per che pasticci e regole araldiche e per quali complicazioni insorte nel groviglio agnatizio de' Ripamonti, bisognerebbe dimandarne uno pratico, cadde in proscrizione, da' libri, e in dimenticanza, dalle bocche di tutti. Ma più che tutto era il vento dei tempi nuovi.
Qui, per quello che ci importa, basta riferire che, nel 1922, dei Ripamonti non ne eran più rimasti che tre: padre, madre e figlia.
II
Maria Ripamonti, la figlia, aveva raggiunto e di poco superato i venticinque anni senza che i famigliari e i conoscenti se ne avvedessero: ma il papa e la mamma avevano fisso il pensiero sull'avvocato Pertusella, un distinto commercialista lombardo, il quale aveva già militato “non sine gloria” nel partito clericale e adesso, verso i trentotto, gli era venuto un naso un po' rosso; per cui, a ogni primo rinverdire de' colli, onorava di sua presenza le Regie Terme di Salsomaggiore.
Una figura distinta, per altro: un po' miope, portava gli occhiali: intratteneva tuttora salubri contatti con associazioni culturali cattoliche, con solidissime banche cattoliche e con instituti di beneficenza parimente cattolici e parimente solidi. Consigliere e membro ed amministratore di qui, consulente e procuratore legale e presidente di là.
Lei, Maria, invece, non pensava mai neanche per sbaglio all'avvocato Pertusella, di cui riusciva a stento a ricordare il solo naso, ogni qualvolta i suoi ci lasciavan cader sopra il discorso, affettando il per caso e il per combinazione. Se mai, capiva d'istinto che la sua propria vita avrebbe finito, un po' che continuassero, per diventare una farsa, una atroce, grottesca e spampanata farsa; senza capo ne coda. Va bene la religione, va bene Don Zaccaria, va bene “ La Perseveranza ” e “L'Italia” (1), va bene il patronato di Sant'Alessandro, ma l'idea di diventare la signora Pertusella le procurava delle crisi isteriche; le réclames di Salsomaggiore le davano il cardiopalma.
Maria, e ciò è un po' l'onore e il merito delle creature, non voleva ancora ridursi a credere che proprio il mondo e i cavalli e le case e i cigni de' giardini, e le bimbe; che le guardie, i generali, i paralitici, i sacerdoti, i biglietti da cento, gli scrittori celebri, le pere e i capistazione e la prosa degli scrittori celebri, e tutto, sia proprio tutto un brutto sogno: no: sentiva bene dal più profondo dell'animo, come tutte forse le nobili e gentilissime donne della sua vecchia famiglia, che qualcosa di men che cretino ci doveva essere, che ci doveva essere qualcosa di vero nel mondo anche a costo di inventarlo, di fabbricarselo con la fantasia, o con una volontà disperata.
E poi, non era neppur tutto qui: capiva e sentiva di aver vissuto due vite. Una era arrivata fino ai diciannove anni, l'altra era dopo. Quella che era arrivata fino ai diciannove anni era finita in un ricordo straziante, in un orrido e desolato nulla, in un atroce non si sa. Maria, a diciassette anni, aveva avuto il torto di trovare estremamente “ simpatico ” il figlio di un commerciante rovinato, o industriale che fosse.
Il commerciante aveva avuto il torto di rovinarsi: in parte con degli esperimenti di coltivazione del baco da seta, più elegantemente filugello, tentati in una regione dove nessuno ne vuoi sapere, ne della seta, ne del baco, ne del bòzzolo, ne della crisalide, ne di altri fastidiosi lepidotteri: che sostengono, con buona pace di Ludovico il Moro, che il gelso o moro tira il malocchio e a loro gli preme sopratutto di tirare a campa; ma il vecchio era un po' fan. tasioso, parlava sempre di patria, di industria, di lavoro di iniziative moderne, di tram elettrici, di “ elevazione ” delle masse rurali, di colonizzazione interna, e si baloccava con simili ed altre espressioni che in quegli anni eran già di moda, ma nessuno sapeva ancora che cosa cristo volessero dire. Certi abili ed avveduti sensali, allora ai primi gradini “d'una vita operosa, tutta spesa per il bene della famiglia”, lo ascoltavano con deferenza, come s'ascolta un invasato predicar alla gente; ed è li li per ricevere un calcio da un retrostante mulo.
Quel che è certo è che intanto perdeva soldi a tutt'andare.
In parte poi si era rovinato con una sua casa di campagna, che aveva edificato nella boscaglia, in un terreno attiguo ai possessi del Castelletto, e che era stata per anni la miseria della famiglia: non contento di avere spropositato nel costruirla, a ogni primavera ci aggiungeva un muro, o un fosso, o un cancello, o un rustico, o un portico, o un tabernacolo, pur di vedersi i muratori d'attorno. È superfluo aggiungere che in quella casa non era possibile di prendere un bagno, (col Ticino a due passi, il bagno in casa era, secondo lui, un'operazione equivoca, degna delli effeminati cortigiani di Caracalla), ne di starci d'inverno. E anche d'estate, imperversando certi strattempi indiscutibilmente paesani che, più propri del Varesotto, della Brianza e del Bergamasco, arrivano tuttavia a raggiunger qualche volta “ la bassa ”, non era difficile di trovar la casa buia e allagata, sotto lo schianto dell'uragano. Le donne dovevano allora rilevar la sottana, (perché allora, parlo del 1906 o 1907, le sottane delle donne, in Lombardia, e forse anche altrove, arrivavano fino a terra) ed Emi-lio camminava sui calcagni.
Emilio era appunto il nome di quel ragazzo, il figlio del commerciante. Non era forse meno fantasioso di suo padre, ma molto meno del padre rivolto a problemi di economia rurale e di “progresso agricolo”. Era di statura media, magro, taciturno, sanissimo, biondo. Aveva per lo più nove in latino e in matematica, e una sfrenata passione per i romanzi e l'Ariosto, che lesse nove volte in due anni stando ginocchioni sulla seggiola, dilungato con le gomita sul tavolino, mentre dilacerava con morsi feroci uno di quei lunghi pani infarinati, che chiamano “ pan francese ”. A quattordici anni aveva preso il malvezzo, assai raro, per fortuna, nei giovanotti che frequentano le nostre scuole classiche, ma molto diffuso, per disgrazia, presso i collaboratori delle nostre meglio riviste, di scriver dei versi: ne scriveva ancora a diciotto anni e l'immagine di Maria vi ritornava insistente. I versi di Emilio però, a differenza di quelli delle riviste, non erano destituiti di senso comune: le rime, anche se il ritmo fosse libero, erano nòbili, agévoli, e ragionévoli: l'andamento metrico non privo d'originalità: e “lo stile” non riceveva a ogni passo un calcio di dietro, passando, come fanno, di colpo, dal pretestato allo sciatto, dal frack agli sbrèndoli, dal famigliare al teatrale, dal “ fumiste ” al “ pompier ”; e dal Petrarca e da Cino da Pistola a Filippo Tommaso Marinetti a Paolo Buzzi ed a Fólgore.
Non c'era caso che giunchiglia fosse tirata a rimare con parapiglia, ne, con fidanza, vacanza o maestranza; ne “l'astro d'argento” del recanatese e del calunniato di Dasindo, con il “moderno stabilimento” del milanese Buzzi; ne la bruniana o vichiana “cagione” con il “ tram di circonvallazione ”, dello stesso “ dinamico ” ed “ elettrico ” Buzzi.
A tutti questi torti Emilio aggiunse il più grave: quello di arruolarsi diciannovenne nel luglio del '15, anno e stagione giudicati quant'altri insalubri per le stellette, fra quanti il Regno ne vide. Maria, allora tenera e splendida, ebbe il torto di scambiare con lui una passionata corrispondenza, che, se fosse poi venuta a mano di Don Zacca-ria o dell'avvocato Pertusella, sarebbero certo rimasti di princisbecco.
Durante un breve congedo Emilio entrò al Castelletto, vestito da sottotenente: i suoi discorsi in quella circostanza furono piuttosto scuciti: era come trasognato, assorto: ma nel fondo della pupilla (che Maria ricordava stranamente nera, per uno cosi biondo) ardeva una disperata fiamma di vita. Era più magro, più muto del solito, lo sguardo più fermo ed intenso.
Le disse: “arrivederci”, papa e mamma di Maria gli dissero: “auguri! ”, e si corressero subito: “....cioè, in bocca al lupo ”, perché dicono che a dir auguri, per gli esami come pel Carso, mena d'un gramo da non averne un'idea.
Dopo un po' di tempo Emilio ebbe il torto, e stavolta fu l'ultimo, di non dar più notizia di sé. L'amministrazione militare lo defini “disperso”.
Cosi gli anni passarono e probabilmente quel ragazzo, vivo e guizzante, con tutte le sue poesie e con tutto il pan francese che aveva addentato, si era disperso per tutta l'eternità. Nessun maresciallo de' baraondeschi uffici distrettuali sarebbe mai più riuscito a ripescarlo, ne in Russia, ne in Siberia, ne a Wladivostok, donde pure sbuca ogni tanto qualche marito ritardatario, preso dopo quattordici anni da un repentino attacco di devozione coniugale; e arriva a casa a far perdere la pensione alla moglie: e a scombinarle quel po' di tela che nel frattempo ella aveva preso a filare ed a tessere, alla facciazza di Penelope.
A Maria non rimase altro conforto se non quello di capire che la parola “ vita ”, come ogni parola, ha un significato elastico: chiamano vita, molte volte, una spettrale sopravvivenza.
Ella aveva “un vero e proprio temperamento di artista ”, come dicono di certe pianiste e mezze-soprano i redattori mondani di certi giornali, dopo certi concerti di beneficenza. (Mi si accappona la pelle solo a pensarci). Rivide molte volte, nell'ultimo istante del sonno, un'alba triste di ottobre: lui ritto di là dalla rete metallica che, presso all'uscita, divideva il parco del Castelletto dalla proprietà dell'industriale idealista: partivano in massa per una gita un po' dispendiosa, ragazzi, ragazze: c'erano anche “ i tré inseparabili ” o “ tré moschettieri ”, come li chiamavano, Lampugnani, Rovida e Cadetto Vanni, rispettivamente violino, viola e violoncello d'un trio dispu-tatissimo nella cerchia dei conoscenti comuni. Emilio, ritto di là dalla rete, la salutò: suo padre s'era rovinato.
Maria ricordò mille volte quel viso assorto, l'ultimo saluto di sottotenente. Ringhiotti le lacrime amare. Era un disperso: nessuno più si curava di lui. La sua adolescenza, ormai tanto lontana nella memoria, doveva essere stata qualche cosa di irreale: un padre fantasioso e spropositato, Cesare, Orazio, il baco da seta, degli affari sballati proprio quando le ossa si allargano, dei sogni militari, delle poesie, e poi? L'immobilità buia. Messe di suffragio. La mamma vestita di nero. Davanti ai ritratti, delle viole mammole.
Cosi, anche il viso di Maria aveva mutato natura. Ma aveva un vero e proprio temperamento d'artista. Ragione per cui, dopo la scomparsa di quel ragazzo, che vivo guizzava nel freddo canale, o nel bluastro Ticino, o si arrampicava ai tralicci della grande conduttura elettrica dicendo che la vicinanza della corrente alternata fa diventar forti, quando fu certa che non lo avrebbe veduto più mai, rimase cinque anni senz'aprire il piano, senza frequentare una sala di concerto: ne tollerò, nella sua mozartiana casa, che mai si toccasse un violino. Pennelli, tavolozze, colori, cavalietto furon dimenticati ne' solai.
Una volta, dopo sei anni, a Milano, accadutole di rincasar tardi, in una splendente sera di giugno, allorché le luci del crepuscolo, che in Italia sono talora meravigliose ed inimitabili, facevano diventar più rosa le colonne di granito di Baveno, fra ombre violette e globi d'oro; con rondini e tutto; e le torri, già nere da levante, erano rosse contro gli ultimi desolati bagliori; ragazze magnifiche succhiavano già la cassata alla Siciliana nei più pretensiosi caffè, magari in compagnia di qualche siciliano autentico, (dicono che per le ragazze non sono poi cosi grami) — Maria pensò che Emilio mai non l'avrebbe accompagnata a prendere nessuna cassata, ne spumone, ne altra pepiniana specialità. Emilio era qualche cosa del meraviglioso passato: adesso, dopo gli anni atroci, non era che un nome, associato a vani ricordi, e a funebri viole mammole. Così, scesa la notte, era rincasata e stava mutandosi d'abito: e ancora pensieri e lacrime brucianti; quelle che tornano e ritornano alle ragazze, quando il destino fa piangere; fa piangere e disperare. E quella sera proprio, Lampugnani, Rovida e Carletto avevano pensato a una visita in casa Ripamonti: ma il papa dopo un po' s'era congedato: aveva altri visitatori, per un precedente convegno: e la mamma, anche, s'era voluta ritirare.
I tre insistettero allora presso Maria, perché concedesse loro di eseguire un trio, che tanto già le piaceva.... un tempo...
“Mi farà male, troppo male.... ” disse Maria.... “Voi sapete.... Gli anni sono passati.... ma.... ” e osservava qualche capello già bianco sulle tempie di Rovida, il più adulto dei tré: il viso dell'uomo, già serio, già grave, le riproponeva l'aspetto di virile tristezza e più quel subito riscaturire nell'anima quasi d'un lontano empito o pensiero o sogno o amoroso motivo, alle quali significazioni fu inimitabilmente atteggiato il viso del suonatore di clavicembalo nel “ Concerto” del Giorgione (2): tante volte, nella fulgida sala de' Pitti, l'avevano quei tré volti del concerto avvinta nei segni dell'ignoto, palesandole un processo misterioso da giovenili fantasmi verso la profonda immobilità.
Eppure Rovida'lo vedeva ancora, come ieri, allegro, gioviale, saltar le panche di sasso nelli antichi giardini, scendere nel fossato del castello per coglierle un fiore, anzi un quadrifoglio, che diceva d'avervi scorto fra mille non quadrifogli: e tornar su graffiato dal sasso e dai pruni con un trifoglio qualunque “ .... ma fa lo stesso ”.
Fini per cedere: e telefonarono per il trasporto degli strumenti.
Il loro grande amico concesse la sua “ serenata ” in rè maggiore, opus 8, per violino, viola e violoncello. È nota l'esegesi più comunemente accolta di questo trio: una comitiva di musicanti fa una serenata lunare sotto le finestre d'una casa amica: le ragazze scendono nel giardino e si balla: i giovani poi se ne vanno. Una cadenza di marcia accompagna il loro notturno vanire.
Era tanto il dolore, che le cavate ardenti e meravigliose si effusero piene di vita e di sonorità nella notte.
Mi dispiace proprio di dare nel convenzionale: ma la casa da proprio sul giardino e larghi viluppi di glicine s'erano aggrappati alla bella casa seicentesca, che con ombre fonde ne ricadevano. Il folto e superbo giardino è limitato dal canale, detto Naviglio, che fluisce tacitamente traverso la città promanando un suo odore acuto di gam-beri, e, quando fa caldo, è una discreta porcheria. La balaustra verso il Naviglio, di una squisita amplitudine baroc-chesca, come tutta la casa, faceva pensare a nobilissime dame, ravvolte per magnificenza in un velo: ma, appoggiandosi li, dovevano arricciare il nasetto. Di là dal canale, dov'era una specie di vicoletto e di darsena per chissà quali approdi, una lampada elettrica vigilava implacabile, ributtava ogni ombra, che alle industri fatiche del giorno male conseguono per entro l'ombre i convegni furtivi ed i rapidi baci ne' vicoletti e le strette, ed i lievi sussurri, se cada la notte: “lenesque sub noctem susurri”. Sicché, mezzo intontito dentro la mota, si discerneva bene un recipiente pariniano, ma di consistenza novecentesca, e cioè di ferro smaltato, rugginoso e sfondato e intorno diverse latte arrugginite di ex-conserva di pomidoro, sedimenti e residui strettamente tipici per tutto il “ giardin dell'imperio ”.
Dentro il cielo della Italia, la qual sarebbe questo giardino, luminose stelle erano zaffiri per tutti li amanti, nella cava fonda del cielo erano smeraldi o caldi topazi.
III.
Il tono acido dell'ingegner Baronfo gli aveva procurato una legnata in testa da un robusto diciannovenne; un processo in pretura, che lo perde; e infine una ricetta del prof. Settanta, docente clinica delle malattie mentali e nervose presso la Regia Università di Roma.
La stangata la prese perché a quel giovane, che lo aveva urtato malamente sul già marciapiede nella terremotata via della Scrofa, apostrofatelo con certo suo tono di signorile dispregio, aveva conchiuso col dargli del “calabrese”, mentre dobbiamo ricordarci che siamo tutti e soltanto italiani; il processo in pretura lo perde sia perché aveva torto, sia perché il pretore, avvegnaché si spacciasse per romano, in cuor suo sapeva benissimo di esser nato a Paola, la ridente cittadina tirrenica che diede i natali al secondo Francesco. Di questo, che confortò il rè Luigi morente, (e de' suoi Minimi confratelli, che vollero dall'Eremo della Calabria dipartirsi verso l'eternità e la salute), i cittadini di Paola conclamano con occhi incandescenti l'indiscutibile superiorità rimpetto a' di lui omonimi primo terzo e quarto, quinto e sesto, cioè umbro, navarrino, valentino, savoiardo e narbonese.
I quali pur con tanta cagione di fede sovvengono a ogni loro divoto: e per la mansuetudine in che fu cosi dolcemente sospinto il lupo ferocissimo di Agobbio; e Francesco Saverio, “l'Apostolo delle Indie”, per la intimità del grande Ignazio, al quale fu condiscepolo nel collegio parigino di Santa Barbara e del quale elesse di osservare la regola, per le miracolose conversioni operate, per la morte radiosamente incontrata, ne' lontani regni; e il Borgia valentino, se non come consanguineo di Cesare e di Lucrezia, ma per la benignità in lui rivolta dal Rè che corse i mari e le terre, per l'ardente propagazione della Fede dentro dai confini di Spagna, per l'eccelso grado raggiunto nella Compagnia di Saverio e di Ignazio; e Francesco di Sales, il vescovo di Ginevra, quasi un Calvino del Cattolicesimo, per la umana ma rigida austerità onde giudicò fossero tentabili le vie del Signore, per la dolce lettera della “Introduction a la vie devote”, per la forte lettera del “Traité de l'amour de Dieu ”, per la vivida e insinuante eloquenza onde tante anime, dai perduti laberinti dell'eresia, rapportò vittoriosamente verso la verità e la luce del dogma e per pressapoco i medesimi titoli Francesco Régis da Fontcouverte, consolatore degli appestati di Tolosa, e in tutta la terra di Linguadoca araldo della Chiesa vera di Cristo contro la bestemmia dell'eresiarca.
Che Paola, e non Roma, fosse la natia città del pretore, lo dimostra la giusta condanna a L.100 di ammenda del manganellato ingegnere, a cui concedette per altro “ il beneficio della non inscrizione ”. Baronfo recitò tra sé e sé un atto di contrizione. Quanto alla ricetta del prof. Settanta, mediante quel suo scombiccherato e indecifrato “recipe”, il celebre psichiatra gli prescriveva, come prima medicina, le pillole al protojoduro di ferro del dottor Cassia. Di queste pillole, poco alla volta, doveva deglutirne otto scatole: lontano dai pasti: a meno che nel frattempo non fosse guarito. Poi doveva fare dei bagni tepidi, evitare le emozioni e le congestioni (come quella di quella legnata), contro le quali ultime appunto lavorano i sali jodici, con grande efficacia; e i bruschi mutamenti di temperatura; e non eccitarsi con diatribe politiche o filosofiche; non concorrere a premi letterari; ber pochissimo vino, meno ancora caffè; fumatore non era, benissimo!; e, quel che più conta, doveva per un bei po' di tempo studiarsi di apparire, con le ragazze, un tipo strano, il tipo più platonico e più inconcludente che gli venisse fatto.
Povero ingegnere! Da allora si senti perduto. “ La nevrastenia ”, diceva passandosi una mano sulla bella fronte, “conseguenza della guerra, del dopoguerra e della crisi degli alloggi ”. Ma le lingue di seconda scelta dicevano che era conseguenza della legnata, dello choc, e della rabbia assaporata poi in pretura. Le lingue di prima scelta davano invece un'altra versione ancora: secondo loro, “le cause erano complesse ”.
L'ingegner Baronfo era titolare di una floridissima azienda di rappresentanze, ereditata dal padre, e da lui figlio molto onorevolmente gestita negli anni che si soglion chiamare calamitosi, dopo il Politecnico e dopo la guerra. Secondo una affermazione della sua portinaia, certa signora Dirce, non meglio qualificata, (era però, come lingua, di primissima scelta), egli aveva recentemente “ allargato il suo giro d'affari ”. La signora Dirce sapeva servirsi a tempo e luogo di precise designazioni tecniche. Ma questo allargamento del giro non riguardava il giro finanziario e contabile della ditta, si i veri e propri giri topografici del veloce ingegnere, che avevan finito per assumere ed osservare un ritmo frenetico. Non era ancor sceso da un direttissimo, che già il suo bagaglio veniva issato con pena su di un altro, già sibilante.
Il suo campo d'affari raggiungeva da tempo amene cittadine dell'Italia Centrale, dove il padre, tenacia e fatica, aveva elaborato anno per anno una “ numerosa ed affezionata clientela ”, che con pari affetto e in numero non minore di adepti soleva accogliere tutti i suoi concorrenti, a ogni sùbita ventata che scompigliasse inopinatamente i listini. Adesso Baronfo aveva preso a spingersi, per gli acquisti, nella Prussia Settentrionale e, per le vendite, in Puglia e in Sicilia: e pare intendesse fino a Malta ed a Tripoli e nel “vicino” Oriente; - ma ci voleva un nuovo passaporto. Egli non osava confessare a se medesimo che forse un motivo altro da quello del lucro poteva avergli suggerito cosi lunghi, cosi intensi viaggi, contrariamente ai consueti desideri delle sue ossa. Gli è che l'anima sospinge talora le povere, stanche ossa, come una crudele fustigatrice: e, da quella simulatrice che è, dice che lo fa a fin di bene.
I treni caldi e stanchi sussultano in corsa agli aghi delli scambi e la mente, che aveva cominciato a dimenticare nel sonno numeri e listini, riscossioni penose, clienti morosi dal sorriso pieno di umiltà dilatoria o di signorilità fallimentare, nuove ordinazioni disbranate dalla concorrenza famelica e fatte, anche quel poco rimasto, iperbolicamente ipotetiche, la mente è ridesta di colpo ad altre e non meno mordenti angustie.
Quali pensieri o sogni cullavano l'ingegner Baronfo ai bruschi urti del fuggente vagone? Forse una lenta neve sulle acute case di Norimberga o di Bruges, un fuoco di tré legni, una tepida moglie, una dolce bimba, dai grandi occhi ammirati, a cui regalasse ogni confetto e ogni bambola bella. Certo è che penose incertezze gli sconquassavano quel focherello.
L'implacabile compagna delle sue notti di riposo gli aveva attribuito, non si sa come, a lui, proprio a lui, quella irrimediabile “gaffe” che ormai aveva preso il nome e la consistenza di Gigetto. Luigi, figlio di Cesare, dicevano gli atti: e questo Cesare era lui, non certo il proconsole antico. Ma proprio lui? Un ingegnere, un calcolatore, un viaggiatore? Ma se passava in treno sei notti su sette, come poteva essergli capitata una storia simile? Eppure Gigetto gli assomigliava ogni giorno di più; se lo prendesse nostalgia della balia, raggiungeva strillando le ultime note del cantino, ma il “ volume ” era terrificante. Teneva dei Baronfo anche nel carattere, non si poteva non riconoscerlo. Ma sua madre, Emma Renzi, sua madre, non aveva accolto i soli omaggi di un Baronfo, quella strega forsennata! Pellicce, gioielli, cappelli; ingegneri, medici, giureconsulti; scarpini, calze, giarrettiere, colonnelli; ed anche un figlio! Un figlio, povero cristo, ha fame per diciott'anni.
Ai primi denti, le cose presero una piega istero-epilettica. Sposarla non ne volle sapere: piuttosto si sarebbe lasciato revolverare, come nei giornali. Le spaventose scenate con cui Emma Renzi l'aveva accolto poi a ogni nuovo dente che Gigetto mettesse (quaranta coinquiline alla finestra, in ascolto) avevano avuto per lui ripercussioni un po' dure, ma era il minore de' mali, sulla scelta degli alberghi, degli antipasti, dei piatti, dei vini, delle pesche, cadauna lire quattro, susina uno e venti, dei sarti, dei posti a teatro. Ma si erano ripercosse altresì sulle sue opinioni circa “ l'ignobile materialismo degli psicologi contemporanei ”. Il dubbio atroce che l'anima fosse daddovero tutt'uno con il sistema nervoso, filtrategli sottilmente nell'essa, cominciò ad ossederlo. Allora, per allontanar questo spettro, fini per spendere altre duemila lire in bagni, visite mediche e sciroppi ricostituenti, ingombrando la casa d'una collezione inverosimile di bottiglie, bottigliette, scatole, fiale, bòssoli e fialette, che non ardi più di gettare, nella tema di perder di vista qualche medicamento più efficace degli altri. Qualche volta, dominato dall'idea che “ più ne prendo e più mi fa bene ”, prendeva delle indigestioni impressionanti, a base di fòsforo o di ferro o d'arsenico, o di tutt'e tre insieme, e solo una energica purga e una dieta dì allesso poteva controbilanciare l'effetto di quei potenti energetici. E fini anche, come dicemmo, per ottemperare nel modo più assoluto ai suggerimenti di un quinto o sesto neurologo specialista, questo qui però di Milano, che, per sole cinquanta lire, lo esortò “ a distrarsi, a viaggiare (sic), e a non permettere che le idee lugubri gli entrassero a sua insaputa nel cervello, il quale aveva indubbiamente bisogno di serenità e di riposo ”. Per soprannumero gli rifece poi in senso inverso l'apologo di Menenio Agrippa: che il cervello non deve voler tutto per sé, ma anche l'intestino, e il fegato col relativo cistifèle, e le gambe ed i piedi e i polmoni e il filone della schiena han pur diritto a un certo qual trattamento. Al qual conclusivo epifonema, sinceramente plaudiamo.
Quando finalmente si ammalò davvero, l'ingegner Baronfo cominciò a trovar che la vita non vale la fatica di viverla, la vita, ch'è “l'ombra d'un sogno fuggente”, secondo il parere di un trovatore fenomenalista: e lo “spirito” solo è quello che conta. E a furia di pensare allo spirito, s'era dato a riaprire certi libri vecchi e dimenticati da tempo, che negli anni di giovinezza eran passati sul suo tavolino e qualche non ignobile pensiero avevano acceso dentro la sua inquietissima anima. E di pensiero in pensiero, anche per certa dimestichezza di persone assai colte, per certa frequenza d'un cenacolo di “ cerebrali ”, e per l'amicizia viva e la stima che professava a un compagno di liceo, laureatesi in filosofia e in filologia, gli era venuta la grama idea di levarsi dagli affari e dai treni, dai “soliti” alberghi e dall'“ampio e ben illuminato” ufficio: e di mandare l'affezionata clientela a carte quarantotto. E di dedicar la sua vita al pensiero, allo “ spirito ”: e di incamminarsi, non osava confessarlo, per una via seminata di spine: la via dei filosofi. La tendenza a rivangare e criticare ogni cosa ce l'aveva sempre avuta: piantava poi a metà lavoro la vanga nella indocile terra, lasciando che la sterpaglia seguitasse a viver nel sole. Vivere e lasciar vivere, sogghignava.
Ma poi era anche che il mondo del dopoguerra gli pareva troppo sciatto, troppo volgare, troppo dominato dal caffè-concerto e dai rivenditori di motociclette, troppo popolato d'asini in tocco e di villani indomenicati: con analfabetissime donne, sazie d'ogni cibo, sdraiate nelle fanfaronesche automobili de' spaccamonti falliti.
Ma certo erano le fisime della nevrastenia. Tutto era per lui ombra o tortura. Il grammofono “gli demoliva i nervi”; il mandolino gli strappava concitate apostrofi contro “la civiltà Mediterranea” e, subito dopo, la veemente e circostanziata asserzione della preminenza morale della razza eschimese, che non lo suona; il piano degli sfeps e delle barcarole.... era un serrar di mascelle che una stretta eguale non la producono gli stricnidi e il tètano; i cani, quando abbaiano a ogni più futile caso, li avrebbe remunerati versando loro con un imbuto del burro fritto e ben rosolato nelle orecchie; e ai loro padroni nell'umbilico; mentre invece la cattiva sintassi e l'enfasi spropositata di alcuni concittadini gli eran cagione d'oscuramenti, di vertigine e d'agorafobia; e le prodezze de' nuovi architetti gli davano il giallo dell'itterizia. Certi imparaticci poi, recitati a gran voce dai concionanti droghieri, improvvisatisi economisti della nuova Europa, gli parevano indegni d'un venditore ambulante di fazzoletti. Prese ad odiare Puccini, Leoncavallo e Mascagni, che l'Italia ed il mondo universo salutavano coi nomi della gloria. Sognava falò accesi da cataste di mandolini: e di coronare imperatore d'Occidente un samojedo sordo.
E odiò anche, d'un odio cupo, senza sapere chi fosse, Giambattista Pedrazzini, al di cui nome era intitolata la via, dove abitava: e dove c'erano tutti insieme grammofoni e mandolini, maschietti urlanti a rincorrersi e serve discinte e padrone poco cognite di storia della filosofia, e automobili di pervenuti e beccai e droghieri e sparanti motociclette e cani e cagnette e lattai.
Cosi, un po' per la salute e un po' per questa mania filo-sofica, aveva ceduto l'azienda a chi non aspettava di meglio e s'era, come dicono, ritirato, a trentaquattr'anni. Aveva di che vivere: avrebbe fatto studiare Gigetto, il più era levarlo da quelle granfie. E studiava filosofia. De' suoi malanni j si consolava rammemorando la gracile giovinezza di Carte- i sio e la tubercolosi che rapi Spinoza quarantacinquenne all'affetto de' rabbini, e alla cristiana benevolenza di tutti i dottori di tutte le confessioni cristiane.
Non sempre però gli pareva di trovar in sé la fede e la forza per tirar avanti in quella desolata strada: “ e se fosse un'invenzione de' preti? ”, si chiedeva l'Innominato, del misterioso al di là, nel buio castello; “e se fosse un'invenzione de' filosofi?”, si chiedeva del mondo l'ingegner Baronfo, atterrito, in Via Giambattista Pedrazzini N. 28, piano terzo, mentre il grammofono d'un coinquilino, “dai cieli bigi”, gli demoliva in pochi giri tutto il castello de' benefici lentamente accumulati a furia di protojoduro. E intanto l'azienda l'aveva liquidata; e altri tettavano.
Allora, guardate un po', pensava di esser lui la colpa di tutto, e non la “civiltà Mediterranea”; lui l'abulico, lui l'asino; con una vita che gli si dissolveva, per cosi dire, fra mano, con una vita senza capo ne coda. Pensava allora alla rivoltella, dov'era, se era carica, scarica: e, per associazione, al porto d'arme, al rinnovo, ai bolli, alla questura, al pretore, alla legnata.... a quel.... giovanotto. (Non osava più dire, neanche tra sé, “ quel calabrese ”, per paura che il Padreterno lo sentisse e ne riferisse al titolare). E riconosceva, preso dai brividi dell'umiltà, d'aver avuto torto: torto marcio. Non bisogna aver dispregio a nessuno, che cui oggi si dispregia, domani è più alto di noi.
Eppure sentiva di non essere un pusillanime. Le medaglie, le ferite. Era la bontà personificata: ecco. Un po' acre talora, ma galantuomo. Un po' di malumore, un po' distratto, come capiva poi in ritardo da certe irrimediabili gaffes; ma era la nevrastenia! Queste crisi di impersonalismo o di inelezione, come amava di definirle, lo coglievano talora tra un filosofo e l'altro, quando la zuppa era più tremenda o più grama.
Seguiamo un po', con la coda dell'occhio, l'egregio ingegnere nelle sue letture pazienti e ce ne spiegheremo forse il perché. Alcuni di prima di quello che ci interessa, aveva tra mano un vecchio bouquin pescato a Parigi, non so in che lungosenna, dove si diceva, da uno speciale punto di vista, di uno speciale momento del pensiero inglese. (Con un suo linguaggio “ antistorico ” e settecentesco il libro diceva: “du sentiment de certains philosophes anglois”). Fra gli altri era tirato in ballo certo signor Ismaele Digbens, citato con gran segni di rispetto dal garbatissimo autore, che lo chiamava alternativamente: “l'illustre écrivain anglois” e “Messire le Chevalier de Cheimsford ”. E c'era anche una vignetta ingiallita e maculata di ruggine, e altre belle calcografie a ogni capitolo, con parrucche e pizzi e spadini e settecenteschi polpacci; ed era stampato “a Paris, - Chez Barthelemy Alix, Libraire, — rue St-Jacques, près la Fontaine St-Severin, au Griffon - MDCCXXXVII - Avec Privilège du Roi ”. E sentiva di vecchio, e d'antico torchio ed inchiostri, quell'odorino cosi caro ai raccoglitori e a lui stesso, Baronfo, che non era odor d'asini ne di roboanti saputi, ma | di vecchia e nobile e garbata e privilegiata cosa.
II cavalier Digbens, in quella settecentesca vignetta, appariva un po' allampanato: con dei nicker-bocker: con polpacci secchi, ma delineati: con due scarpe a fibbia, che somigliavano due caravelle: con un giacchettino fronzuto di pizzi, come un'insalatina: con un libro in mano; e una enorme parrucca, ricciolutissima, a scriminatura centrale: e sotto quella pergola della parrucca un viso magro e lungo: dove i minutissimi occhi e il naso aquilino, affilato, conchiudevano insomma a una faccia di “écrivain illustre”, abbastanza rara nel suo genere.
Egli fu però un benemerito della filosofia (dogmatica) e più specialmente di quel ramo di essa chiamato settecentescamente pneumatologia o pneumatica, ovverosia scienza dell'anima (3). Era benemerito altresì della fisiologia e della fisica. Contro il “lockiano ” Burner, accumulò dodici prove dell'esistenza di Dio, che suddivise in tré gruppi: quattro chiamò metafisiche, quattro fisiche, e quattro miste. Queste prove operarono come catapulte contro il castello di falsi sillogismi dell'ateista Burner, che, dedito a una vita disordinatissima, mori poco dopo a Parigi.
Inoltre aveva dimostrato che le bestie non posseggono ragione, salvo in alcuni casi specialissimi: ma allora si tratta di una ragione imperfetta, di una ragione di seconda
qualità.
Nella Fisica si era distinto con meditazioni originali e memorie, e sopratutto col sostenere, contro Democrito, contro Epicuro, contro Gassendi, che esistono anche degli atomi in istato di quiete: credeva ad esempio che il ghiaccio e le sostanze gelate in genere fossero costituite da atomi cosi tranquilli.
Tali opinioni, per altro, furono violentemente combattute da Samuele Beatty, vescovo anglicano di Norvich, il quale, non si sa perché, le giudicava egualmente esiziali alla fede cristiana e al progresso delle scienze.
Inoltre ammetteva che esistessero regioni dello spazio vuote di materia, ossia insostanziali. Tale doveva essere, ad esempio, lo spazio interposto fra il sistema planetario solare e le stelle fisse. Invece il cervello dei minorati, degli idioti nati e dei morti senza battesimo era un pieno o sostanza, ma scarsamente dotato di attitudini modali, sicché poteva talora paragonarsi al vuoto.
L'anima concepiva come un essere o sostanza semplice: e perciò piena in quanto sostanza, e, benché semplice, purtuttavia capace di differenziazioni, allorché fosse a ciò sollecitata da parte dei sensi: e qui Samuele Beatty vedeva le catastrofiche conseguenze del più pernicioso sensismo, “dont les amphibolies captieuses et les pitoyables paralogismes avaient pu égarer jusqu'à un philosophe de si bons sentiments, tei que Messire de Cheimsford”.
Le differenziazioni dell'anima potevano essere benigne o maligne. Le prime conducevano alla salute eterna, le altre all'eterno raffreddore.
La preghiera aveva, secondo lui, efficacia di favorire le differenziazioni benigne e di allontanare le maligne. Le bestie come prive di ragione, i sensi in esse funzionavano quali piccoli proprietari esenti da decime, quale classe artigianizia franca, onninamente libera da obblighi di vassallaggio. In compenso le bestie non avevano la gioia, che ha l'uomo, di assaporare almeno di quando in quando il trionfo della virtù, poiché erano incapaci di distinguerla dal vizio, essendoché appunto la loro anima non solo non poteva differenziarsi ne in bene, ne in male, ma non esisteva neppure. “Ma allora cosa stai a menare il can per l'aia....” venne pensato all'ingegner Baronfo. Erano esse inoltre destituite del sentimento del dovere (officium) e di quello del pudore (pudor), che nell'uomo, quest'ultimo, è innato. I casi che nell'uomo sembrerebbero testimoniar del contrario, avvicinando la discendenza di Adamo ai più popolari quadrupedi, erano da lui considerati come eccezioni, dovute a un influsso abnorme dei sensi sull'anima, a uno squilibrio pneumatico tra il vuoto e il pieno, oltreché a eventuale prolungata negligenza delle pratiche della pietà. Allora l'uomo si adegua alla condotta delle bestie e compromette irreparabilmente la salute.
Essendogli stato riferito che sir William Cudoss, in uno de' suoi lunghissimi viaggi attraverso paesi inesplorati, s'era imbattuto una sera nella statua equestre di Napoleone III e, subito dopo, in due persone di sesso diverso: e queste, colte da sir Cudoss in atteggiamento a tutta prima un po' difficile da definirsi, avevano seguitato ad accudire all'opera della natura senza manifestare veruna perplessità ne dar segno altro di verecondia veruna, il Digbens osservò, con molta acutezza psicologica e con fine senso storico ed esegetico, che tuttociò poteva dipendere, oltreché dall'aver que' due scambiato sir William Cudoss per un passante qualunque, dall'inosservanza del principio d'autorità e dalla “ inscitia divinarum rerum ”, da che certi popoli son condotti a negligere, insieme con esse cose, i veri fondamenti dell'Etica e della Pneumatica.
(Questi popoli, per effetto della loro inconsistente superficialità, permettono in ogni angolo che germoglino i più abracadabranti sofismi, e finiscono per confondere e per mescolare a ogni pie sospinto nelle cose private il pieno col vuoto e nelle pubbliche il vuoto col pieno).
Il cavalier Digbens mori nel 1722 e fu sepolto con grandi onori. Il libriccino riferiva poi altre notizie, di capitale importanza. E cioè come presso la sua tomba, nella cappella dell'avito maniero, gli fosse eretto un primo monumento: abbellito in seguito da una statua della Fisica, a destra, e da una della Filosofia, a sinistra, entrambe ginocchioni e in atto di spander lagrime sull'urna di lui. Tutt'e due avevano le chiome raccolte in un'acconciatura piena di grazia e di austerità ad un tempo. Sulla tomba, a cura dei discepoli e degli estimatori, venne inscritto un epitaffio latino micamal lungo, la cui testata suonava: “Ismaeli Digben-sosio - Tum physicorum sic item metaphysicorum disciplina — Viro insigni.... ” La di lui vedova ebbe l'usufrutto di tutti i suoi beni, e alcune delle molte cariche di cui vivente egli era stato insignito le apportarono altresì una pensione globale di 163 ghinee.
Ella mori settuagenaria nel 1730, dopo aver dato alle stampe un trattatene sulla vita vedovile, che in brevissimo giro di tempo ebbe l'onore di tré versioni latine: “De vidua” del 1726; “De viduarum solacio” del 1727; e “De canonibus auxiliisque decem quibus viduarum dolor continetur” del 1729.
Ciò posto, non recherà meraviglia il sentire che, al leggere nel “Corriere della Sera” del 9 giugno 1922 una inserzione cosi concepita: “Collezione opere storiche filosofiche, rarità, cedesi. Occasionissima. Corsera 144 L ”, l'ingegner Baronfo fosse preso prima dalle voglie, poi dalle svoglie, o abulia, poi dalla gola dell'occasione e delle rarità, poi dal sospetto che solo a trasportarli, quei libri, ci sarebbe voluto Gondrand e che chissà che polvere e che tanfo e che tarme ne venivan fuori; e a furia di si e di no (la nevrastenia mescolata con la filosofia) scrisse, impostò, poi dubitò d'aver dimenticato il francobollo, poi se ne ricordò, poi si pentì e poi si riconsolò: e poi si pentì e si racconsolò ancora cinque o sei volte: finché arrivò la risposta, con il nome e il recapito dell'offerente: certo Coen. “Della progenie di Spinoza ”, pensò l'ingegnere, con un moto di simpatia per il gran derelitto. La sera dopo il Coen lo portò da un sacerdote cattolico, teologo e professore di lettere: e due sere dopo andarono tutti e tre in una casa patrizia, e furono ricevuti dal padron di casa con amabile signorilità.
Il discorso risultò abbastanza lunghetto e anche piuttosto complicatuccio, essendoché fu questione, per l'ospite, di dissertare col bei garbo circa i temi seguenti: 1°. Come nessuno di sua famiglia avesse mai dato via nulla: “ alienato, ceduto ” diceva, per non dire la bruttissima parola “ venduto ”. - 2°. Come non sempre i marchesi Ripamonti si fossero tirati in casa della roba degna d'entrarci. - 3°. Come ciò fosse per altro imputabile a calamità de' tempi, avanti che non a nequizia delle persone. - 4°. Come, (ed ecco veniva il difficile, dovendosi lavorar di timone fra Coen e l'ignoto visitatore), come certi germini non fossero per anco sopiti nei cuori de' fanatici, ne cancellati dalla travagliata storia del mondo; ma i perduti sognavano, volevano il fuoco sotto la cenere, auspicando l'albe livide che divampi a' novissimi incendi, per i novissimi lutti: ed era obbligo di ogni padre cristiano attendere invigilando a che le tenere anime, quanto più facili a smarrirsi in investigare e sognare, tanto più fermamente sien rattenute, sul margine de' paurosi abissi. - 5°. Com'egli avesse accolto il suggerimento del prof. Don Zaccaria Eusebi, illuminato teologo, patriota fervente; (e gli rivolse un breve, signorile sorriso); il quale Don Zaccaria aveva dimostrato a lui e alla marchesa sua moglie quanto convenisse di purgare la ricca biblioteca dei maggiori da tutte quell'opere che, pur attestando non comune l'ingegno de' scrittori loro, troppo si dilontanavano tuttavia dallo spirito e dagli ideali della vera scienza; la quale deve essere presidio dell'idea religiosa, e non ostacolo al suo trionfo; (e citò il nome d'alcuni amici, come l'illustre avvocato Pertusella, che erano dello stesso parere). — 6°. Aveva quindi deciso di alienare quell'opere. - 7°. Le avrebbe cedute gratis o anche distrutte o mandate a riempir le molazze d'alcuna cartiera; ma Don Zaccaria lo aveva fatto accorto esser elleno convertibili “ in altrettanto pane pei poveri ”. - 8°. Aveva dunque officiato il signor Coen, studioso d'antichità rare e innamorato raccoglitore d'ogni maniera di libri e di quadri, a funger da arbitro nell'atto d'una eventuale “ cessione ”, benché il Darwin e lo Haeckel, il Mili e lo Spencer non fossero purtroppo cosi antichi, ne cosi dimenticati, come meritavano d'essere. - 9°. Si rimetteva all'equità del prefato signor Coen e del signor ingegnere Baronfo, quando con tutto lor comodo avessero esaminato i volumi, per lo stabilimento d'un prezzo globale.
Intanto Baronfo, sotto l'influsso di reminiscenze casistiche, era caduto preda d'una “quaestio” angosciosa: “ Se un cristiano, per far del bene ai poveri, possa rifilare a un altro cristiano i libri e le suppellettili del demonio, purgandone sé medesimo e la propria sua casa”.
Quei libri, (disse l'ospite concludendo), una esigua parte della biblioteca di famiglia, troppo ingombravano certa sala di un suo “castello”, che sorgeva al limitare d'una sua tenuta: qualche volta gli scappò detto “feudo”. Ma il castello non distava da Milano che una trentina di chilometri: con la macchina quaranta minuti. - L'ingegnere doveva vederli. Si trattava d'una collezione abbastanza organica di opere filosofiche e di scienze naturali del periodo evoluzionistico e positivistico; e d'altre d'economia, di sociologia e di storia dello stesso sciagurato periodo.
Dopo ventilati dei prezzi possibili, Coen se ne andò. Rimasero il sacerdote e l'ingegner Baronfo, che l'ospite cortesemente trattenne. Quel giovane, così alto, cosi distinto, cosi colto, gli andava a genio. Lo richiese garbatamente della sua vita e, saputolo, non che ingegnere, filosofo, non potè a meno d'invitarlo, con molta amabilità, a vedere la casa.
Erano delle sale stupende, rimaste alcune nel modo del più sobrio seicento lombardo, con soppalco a cassettone di legno dipinto, o con volta affrescata. Altre rimaneggiate e ridipinte, con gran voli e tiepoleschi svolazzi di veli e di panni e di più o men tiepolesche matrone, la Sapienza, la Fortezza, la Temperanza, la Giustizia, delle quali, dal sotto in su, si ammiravano per prima cosa le piante de' piedi e fenomenali pòllici, o alluci che siano: e queste fu negli anni della graziosa Imperatrice e Regina Maria Theresia, che instituf un primo ed esatto catasto della verde pianura.
Ed altre sale poi anche: dopo la fervida e magnificente tristezza del seicentesco lombardo, dopo la blanda serenità giuseppina, quasi desolate in certo lor vuoto freddo: con esigue mensole e dorature metalliche di smilze ghirlande, e colonnine con capitello cubico dalla cornicetta in bronzo dorato, a spigoli vivi e a vertice pungente; e specchiere alte, di luce fredda e fastosa, che sentivano il cerimoniale imposto e ricordavano alamari e colbacchi e sciabole e bande e stelle, di generali e di viceré, più o men cisalpini od italici.
Era la cèlere gente di Montenotte, Millesimo e Lodi, e poi di Arcole, e poi di Rivoli; quando il futuro Duca di Rivoli, principe di Essiing e Maresciallo di Francia, entrò il primo dall'arco di porta Lodi con la vanguardia liberatrice de' suoi trafelati e infangati battaglioni: e quando il bianco Viceré aveva corte a Milano, a metà strada fra Marengo e la Beresina. Rivivevano in quelle sale gli anni movimentati, i giorni di Massena e del Foscolo, rapida gloria, rapida gioia; che all'incedere della splendida amica, più maravigliosa e più bianca della dea anadiomène, e, come la dea, diademata di cammei neoclassici, i garzoni obliavan le danze; e in novelli pianti vegliavano trepide madri ed amanti oltremodo sospettose; ed era fiamma e fulgida gloria ciò che di poi apparve silenzio e tenebra, nei regni dell'Eterno. “ Di qui son passati i liberatori! ”, era scritto in quel vuoto; poi, tra parentesi: “ e le argenterie e le posate e le tele e le stoffe, chi le ha viste le ha viste ”.
E da un ultimo e più raccolto salotto giungevano le ultime dolci note dell'Allegretto e Marcia della giovenile serenata in rè maggiore, opus 8, quasi un mozartiano divertimento, ma con un grido più alto di giovinezza e più pieno, e un anelito verso il mistero, nella dolce notte. Questo trio fu conosciuto nel 1797 e l'autore era quello, certamente un po' bisbetico, che aveva furiosamente lacerato l'indirizzo di un'altra e più eroica sua marcia, già dedicata al Liberatore.
Dalli aperti balconi cadevano e traboccavano le glicine folte: e stelle infinite ed eterne erano, nella cava fonda del cielo della Italia. Di là dal silente Naviglio tacitamente trasvola in bicicletta una elegante e traditrice coppia di guardie municipali, ma senza fanale: e i penduli globi elettrici hanno satelliti di farfalloni mentecatti d'amore, che tempestano turgidi il vetro; e “le ombre” bisogna tenerle d'occhio e fugarle con ogni mezzo, con guardie, con fari, specie ne' dintorni della statua equestre di Napoleone III, o lunghesso le allineate de' secolari ippocastani, nei pariniani e foscoliani Boschetti.
IV.
Mi riferisco sempre al 1922.
Verso gli ultimi di luglio, la notte avanti Sant'Anna, mi sembra, fra le undici e mezzanotte, che anche lo stradale di Magenta è deserto, un'automobile s'era incastrata di traverso, fari accesi, quasi per una sosta di fortuna: non ricordo il punto preciso, ma è un sito dove la massicciata dev'esser più angusta che altrove: al sopraggiungere d'un'altra macchina, che a stento fu evitato un disastro, il guidatore di quest'altra già bestemmiava per la frenata e la strisciata pazzesca, e le due dame di dietro si sporsero dopo un po' di batticuore, come a chieder notizie. Ma capirono subito tutti e tré che non era questione di proteste ne di cortesi premure.
Al lume perso de' fari, cinque rivoltelle spianate, cinque brigantesche bautte, fatte di cinque fazzoletti annodati e di cinque berretti da ciclista rincalcati alla lazzero-na: due svenimenti: al giovinetto una revolverata: fra gioielli, denaro e roba di seta, quarantamila lire di bottino.
Due giorni prima, il contabile d'un grosso stabilimento di Busto Arsizio era stato fregato allo stesso modo, tornando da Milano in macchina con le paghe di fine mese: si vede che erano pratici: e due giorni dopo, a Castellanza, avevano svaligiato una villa un po' fuori di mano, alle tre di notte, con tre coltellate al custode che lo avevano pescato nel sonno ma, siccome era uno tracagnotto (4), aveva “cercato di reagire”. Fatti del genere si ripetevano già da qualche tempo, un po' per tutta la provincia, oggi qui e doman là. Le stazioni di polizia del territorio di Abbiategrasso, Vittuone e Magenta erano state rafforzate di coningenti ausiliari e la Tenenza di Abbiategrasso aveva preso, almeno si sperava, misure energiche. Mentre le indagini fervevano nel polipaio centrale e ne' minori polipai disseminati fra l'Adda e il Ticino, la campagna e le strade eran battute, specie nottetempo, da pattuglie di inesorabili carabinieri.
Una sera pareva che al Castelletto, con i sibili dell'uragano, fosse entrata ogni ombra e ogni antica paura. Maria e l'ingegner Baronfo non si vedevano più di ritorno. Erano usciti, quasi un pellegrinaggio, nell'intento di visitare la tomba di Camnago, la piccola e neoclassica rotonda in che furono adagiate le spoglie del grande comasco: e poi la filosofica tomba di Stresa, dove quelle dell'insigne roveretano: ed è sul più ampio lago e nelle amenissime rive, dominio che fu della gente di Carlo e di Federigo. I due ragazzi eran soli: eran le nove e dovevan rientrare alle sei! Ed era venuto un tempo, l'ira di Dio.... Ma l'idea dell'automobile fantasma ossedeva già tutti e la solitudine versa ne' cuori una più cupa angoscia. Poi si davan conforto pensando: c'erano i muri e il fossato e la torre e la merlatura e più d'una feritoia ne' vecchi muri inchiavardati di ferro, speronati di serizzo, con cium di cadenti e dondolanti erbe nel vento. Prima di svaligiare il castello e assassinar tutti quanti, dovevan far conto con Domenico, che certi fringuelli una volta su cento non li mancava, e con i suoi figli, che neppur loro non eran poi guerci. E poi c'erano Antonio, il meccanico, il cuoco e, in caso di bisogno, anche il marchese avrebbe data una mano.
Ma ciò che aveva messo tutti in orgasmo ed in chiacchiere, e i signori in angustia ed in pena, era che proprio verso le sei, sotto l'imperversare dell'acqua, un'automobile avea sostato all'entrata del parco: (due seicenteschi paracarri, una massiccia catena, una rotonda di platani: e da presso la cascina del custode). E il guidatore, un giovinastro con un berretto, proprio, aveva dimandato se c'era un ingegnere al Castello, e chi c'era, e se era solo, se era via, se tornava, quando tornava. Poi quel motore, fra tuono e tuono, fra ràffica e ràffica, s'era udito ronzare tutta la sera, verso Vittuone, verso Boffalora, verso Turbigo: pareva potesse volare da una strada all'altra, con ali notturne, come gli spiriti dell'Abisso. E la portinaia aveva detto ogni cosa, un'oca eguale è difficile trovarla. E che l'ingegnere tornava alle sei con la macchina. Una vera oca.
Dopo le otto, con rotolare degli ultimi tuoni, le chiome nere della tempesta diademata di fólgori si smarrivano di là dai lontani salci e dai pioppi, verso grecale: forse, mollato un attimo il pargolo, la bustrofèlica vipera di Bernabò ebbe morso le torme de' sibilanti venti a' garretti.
Sopra gli spalti, muraglie nere, della Dufour, i fuochi del giorno ultimo, l'oro liquido, il croco e sogni di alivoli cirri. Valicato il Ticino, quel fulgore accese nel ducato ogni torre più rossa e le lucide e tremule, tergiversanti foglie dei pioppi, bagnate. Di sotto il legno della cara grondaia era con mille stridi acutissimi uscita la rondine: dai vertici de' tetti garrendo e dalla rapida luce, saettavano gli spalti de' fossati cupi, e, risòrtene, sfiorano gli alti fastigi: e ridiscese sbandano sùbite, accorte in esimersi da ogni danno d'investimenti, poi che, promanata dagli archi e dagli anditi, già l'ombra accoglie il volo claustrale del pipistrello, ombra nell'ombra.
Tre carabinieri si presentarono alla casina dell'entrata: il brigadiere impose il coprifuoco ai famigli ed a tutti: moschetti carichi, si appostarono dentro la macchia degli olmi, fra lo stradale ed il parco, o chissà diavolo dove. Tutto questo fini per inquietar tanto la mamma e farla tanto piangere: (forse era malata). Aveva voluto scendere alla casina, con Antonio, sotto lo stillare de' paurosi alberi, aggrovigliate radici e fragore sopravveniente, col vento. E voleva adesso cercare il brigadiere per dirgli che c'erano fuori i ragazzi, facesse attenzione, non sparassero, per amor di Dio: quella de' ragazzi era una macchina verde, un rombo forte.
“ Signora Marchesa, non pianga ”, diceva l'Elisa, la portinaia: “ è la Madonna di San Carlo, che ci manda i carabinieri. Con questi non c'è più brigante che possa.... ”
“Non capite, Elisa; come al solito, non capite niente.... ” disse, con insolita asprezza, la povera mamma.
Una lieve nebbia esalava dal Ticino.
Ecco com'erano andate le cose.
I libri de' positivisti l'ingegner Baronfo li aveva ormai travasati tutti in Via Pedrazzini N.28, stando madama Dirce con la scopa tra mano a rimirarlo ferma, dall'alto del pianerottolo, (mentr'egli saliva sudato e ridiscendeva, guida ai facchini), e il viso atteggiando a una gelida e sprezzante commiserazione: “Ecco come l'han ridotto! Basta che non sprofondi la casa! ” (I facchini curvi, sotto il peso delle casse, lentamente salivano).
Ne' giorni subito dopo il trasferimento il grammofono dei coinquilini foggesi, esacerbato forse dal luglio torrido, era stato preso da tale accesso di mediterraneomania, che ai cieli bigi s'erano aggiunti il ridi pagliaccio, e il bada Santuzza: e, in subordine, la gelida manina e il fildifumo: per lasciare d'alcuni altri gargarismi poco decifrabili e belati di caprone dimolto truci, fuor dal di cui sibilante e agglutinato groviglio Baronfo arrivò stentatamente ad estrarre qualche sprazzo balsamico di marechiare, di pisce, e di scétate. Chiamò l'anima di Paisiello: intercedesse per i suoi poveri (diceva) nervi appiè il trono dell'Altissimo. Ma l'inocazione fu vana.
Sicché fu costretto ad abbandonare Messire le Chevalier de Cheimsford e gli altri della filosofica famiglia: e decise perfezionar la cura del protojoduro con un mesetto di plausibile riposo. Sebbene un settimo neurologo gli avesse prescritto l'alta montagna, i duemila, adattatissima nel caso suo, ove era solo questione d'un passeggero deperimento e solo bisognava “dare una frustatina ai nervi per ricondurli al giusto lor tono” (questo saggio consiglio non costò più di lire sessanta), - l'ingegner Baronfo incappò invece nei dintorni di Boffalora, sulle rive del Naviglio Grande: in un sito che tanto le carte al 25 al 50 e al 100 000 dell'I. G. M., quanto quelle al 250 000 del T.C.I. attestano con impressionante concordia levarsi ai 146 metri sulla superficie marina. Sgomberato il cervello “dalle idee lugubri che lo ossedevano”, avrebbe con più salda tempra riprese le vie dello spirito e della profonda meditazione, e tirata definitivamente la cinghia. Maria in que' mesi aveva finito per seguire un po' i concitati consigli di mademoiselle Delanay, un'amica di Rouen che i genitori solerti le avevan messo alle cestole per la “ saison ” del Castelletto e di Boflalora, svanito ormai l'avvocato Pertusella.
Questa Delanay, una ragazza non eccessivamente francese, piena di falsa vivacità e dipinta come un piroscafo nuovo, aveva vissuto alcuni anni in America, non so bene se del Nord o del Sud o del Centro, ma credo del Centro: ed era riuscita a instillare nell'animo di Maria non dirò la persuasione, ma il dubbio, primo: che, qual si disegni la trama della, come dicono, vita nell'ordito del nostro dolore, è conveniente per ogni ragazza di trovare un marito: secondo, che il marito non lo si trova, se una non suona il piano, - ma un piano facile, da star allegri, - se una non parla il francese o almeno (cosi graduava) l'inglese, e se non dipinge. “Che cosa?” disse Maria. “Frutta, animali....” E poi, sopratutto, bisogna “guidare”.
“Somme toute, il faut s'américaniser”. Ecco enunciata in un sol motto, secondo l'americanina di Rouen, la definizione sintesi di queste quattro nuove arti del moderno quadrivio. L'America, ecco la decima Musa. Appendice: “La femme italienne est insipide”. M.lle Delanay aveva un suo àbito, una meraviglia, da ricordare le allineate de' verdi banani e il folto dei sontuosi, spagnoleschi ananassi, ne' tramontii.rossi della Giamaica. Siccome il luglio di Boffalora richiama facilmente l'idea delle Antille e del sovrastante Cancro, quell'abito volle ad ogni costo farlo indossare a Maria. Maria non sapeva più come sedersi.
E poi bisognava esser vivaci, ardite, “spregiudicate”, buttar a mare tutti li scrupoli rancidi “de l'Europe au cerveau rétréci ”; e poi fumare, saltare, cantare, tracannar cicchetti da cocchiere senza batter ciglio, sedersi su tutti i tavoli(5) , mandar all'aria le gambe, in una parola “exubérer”. “ C'est la femme du nouveau monde, voilà tout: chez vous on est des marmottes”. I tavoli di Lombardia si prestano molto malvolentieri a sedercisi sopra, essendoché da Legnano a Magenta han sempre trasudato buonsenso da tutti i pori della pelle, come dicessero che per sedersi c'è fior di cadrèghe(6): e alle ragazze un po' nostrane l'alcool etilico cosi nudo e crudo le fa tossire, starnutare e strabuzzar gli occhi e venir lagrimoni, che paiono le gocce stupende del mare. Certo è che Maria a questi funambolismi non ci arrivò. Piano e pittura, come accennammo con certi nostri tocchi sapienti, “ si arrangiava ”, quanto un'americana, e fors'anco un po' più. Per quel che concerne il guidare, già ; la macchina la sapeva condurre: “ Mais veux-tu donc nous catastrophiser? ”, diceva l'amica all'incontro di certi carretti, guidati dagli addormentati.
“Prese la patente”, questo sì. E non disdegnò di portarsi insieme qualche volta il “malade imaginaire” o finto convalescente che fosse, a prendere una boccata d'aria sui laghi, un po' più su di Boffalora, oltre Sesto Calende o la Casa Merlata, e fino alla filosofica tomba di Antonio Rosmini; e a depositare poche centinaia di franchi nelle mani ducali del più spleenitico de' quattordici camerieri meditabondi, i di cui quattordici e sincroni inchini, nel deserto(7) e specchiante salone del “Grand Hotel et des Iles Borromées”, accompagnarono l'entrata e l'uscita della signorile coppia: e parvero a Baronfo un po' leziosi e certamente superflui.
Non sempre, ma spesso, la Delanay riuscivano a seminarla.
“Mi par già d'essere un altro!”, mormorò a Lesa l'ingegnere, con un tremito, diciamo cosi, di gratitudine nella voce, mentre filavano a tutt'andare in riva dello splendido lago.
Di là dalle rocce dorate e basse di Santa Caterina del Miracolo, lontani cumuli e fólgori erano sopra il Comasco, ed altri verso il buio Ticino.
“È la campagna, è il riposo ”, disse dolcemente Maria. Maria aveva sui pedali delle splendide gambe, (molto migliori di quelle del cavalier Digbens), in cui si riflettevano per rapidi e nervosi moti al pedale gli avvenimenti della celere corsa. L'abito lieve ch'ella aveva amato indossare, sotto lo spolverino aperto, mise all'ingegnere de' brividi strani.... ogni cosa vanirà, certo, ma sia versato nel cuore un sorso della celere gioia.
Capelli castanei, quasi ramati, sfuggivano alla stretta del casco e il vento di corsa li gelava sopra la fronte e la gota, o voleva strappare e portarne a qualche lontano una ciocca: e al viso pallido davano ne' moti ombre diverse, come celeri, fuggenti pensieri. In quel viso aveva il vano protendersi della memoria già radunato i segni di lontananze strane: ma pareva a tratti riessere e coordinare con tocchi subiti allora a sua posta i sciocchi frammenti in che va dissolta la presunzione della continuità, rinucleandone più puri enigmi.
Oh! Ella doveva essere certo, pensò il compagno, la nipote d'un uomo dedito a funeste letture! La teorica delle alternazioni, forse, era la verità. Dopo tutto, anche il positivismo di suo nonno fu religione, che malafede soltanto non è religione, e ancor meno il rubare. Il padre, lo si capiva, doveva essersi dato una bella fatica a poterla sorreggere, “ sul margine de' paurosi abissi ” ideologici. Ma verso i confini del male quel viso palesava sicuro il dominio: da poi che Dio è nel suo disegnare pensoso artefice e sì oscuramente profondo, che anche il pallido viso della nipo-tina d'un darwiniano può adombrarne il perenne, imperscrutabile essere.
“A lei, ingegnere, che è stato in America, piaceranno le ragazze all'americana.... ”, diceva sommessamente Maria schivando a settanta un carretto di verdi cocomeri, dopo averlo vanamente urlato col clackson.
“Ah!.... si, certo”, disse Baronfo, (dopo che lo sterminio de' cocomeri fu batticuore passato), cercando di afferrare il senso di quella domanda, che non ne aveva nessuno: “....e cioè.... veramente.... Ma la vita non mi ha dato molta fortuna.... Eppure ho lavorato tanto!.... ”
“Perché, ingegnere, dice cosi? La fortuna è un sogno, un pensiero, direi una trovata, per cui ci illudiamo di discernere le forme vane della notte e i cupi misteri.... Pensi che cosa è stato di me.... Glie l'ho detto....” e Maria rivedeva gli anni sfiorarla, i fuggenti anni, e ricordava il tempo di ogni dolcezza e di ogni rimpianto, il tempo del passato. E vedeva un ragazzo biondo, assorto, la cui giovenile mano aveva scritto per lei ogni parola d'amore e poi comandato li assalti nella cenere delle battaglie, davanti a' baleni del Gòlgota buio.
Non sapevano dove, ne come si fosse dilontanato. Nessuno sapeva.
Non aveva recato con sé medaglie, ne un fiore: ne alla notte aveva chiesto ribevere un attimo i tremanti baci di giovinezza, che quelli solo avea conosciuto cui Doralice e Fiordiligi e Fiammetta cosi fervidi ebbero sulla lor bocca, dai donzelli loro: e sono gioia o pianto o sogno o canto infinito nella dedàlèa fuga de' meravigliosi poemi.
“Un'americana avrebbe il coraggio di sposarmi. Maria,.... e lei questo non l'ha,... Io credo che guarirei, se lei avesse questo coraggio....”
“Lei, ingegnere, dev'essere un po' distratto.... ” (Nella voce della bimba quasi il pianto tremava) “ .... Mi risponde sempre con mezz'ora di ritardo.... Adesso stavamo parlando della fortuna e non più dell'America, e tanto meno del mio coraggio....”
“Appunto, della fortuna....” disse Baronfo. “Maria, se la fortuna è un pensiero, mi lasci almeno pensare che.... che....”
“Pensi, pensi fin che vuole!”, e di tra le lacrime rise, a veder fiorire cosi stento quel madrigale. Baronfo, a' madrigali riparatorii, non era menomamente tagliato.
Alle gaffes però si. Dalla notte della serenata, del Naviglio e delle glicine non s'era sentito più lui. Il mondo, invece, era più che mai quello, era tutto una interminabile via Pedrazzini: e la “ civiltà mediterranea ” uno spropositato fischiar di grammofoni e, con presuntuoso gracchiar di cornette, uno sparare di scappamenti de' cafoni pervenutissi-mi: e, dentro, sdraiate, le femmine loro: analfabete, satolle. Ma nel castello delli antichi Signori, dopo il veleno antico, il ferro, e i libri del male, erano dolci, nobili donne: ed era la bimba che tanto aveva sognato, e cosi amaramente pianto: e l'immagine benedicente di Lei, che a ognuno sovviene: e nell'ora di male e di guerra e nell'ora che ha morte, stanco, il nostro pensiero mortale.
Lunga sosta a Somma Lombarda. La pioggia furente ed i tuoni li accompagnarono nelle deserte strade della pianura. Passati quasi a Milano e rivoltisi, i lor occhi errarono un istante nel sogno de' bagliori ultimi, lontanissimi, e la macchina nel dèdalo delle strade fradice, con ali di mota liquida e livida ne' soprassalti. Da Boffalora erano vicini ornai al Castello e la notte era scesa. Le raganelle cantavano melanconiosi poemi, e i grilli, ingemmando le silenti rive.
Fu allora, di tra i vecchi alberi, che apparve a Baronfo, come il lumicino del bimbo sperduto, il lume rosso che tremolava davanti alla Madonna del Borromeo; quella così soavemente dipinta nel castello delli antichi Signori. (Sulla di cui torre e sull'arco il riquadro bianco accolse la vipera, suggello di lor dominio, nel mondo terreno).
Fu allora che Baronfo ripetè per la terza volta lo stesso discorso e questa volta capi finalmente che non c'era bisogno di ripeterlo ancora una quarta.
Fu allora anche però, mi duole di non poter omettere , d'un cosi volgare incidente, che ne' tamburi de' freni le potenti molle schiacciarono dilatandosi le ciabatte loro contro il cavo della puleggia, e inchiodaron le razze. Dopo una curva e poco avanti la diramazione per il Castello, un'altra automobile, con la capate riabbassata, era ferma all'incontro e ingombrava senza dar passo. Dalla strada del Castello giungevano voci alterate, confuse. Il faro mobile di Maria bersagliò i viaggiatori della strana macchina: Baronfo si sporse e, con una certa sorpresa, conobbe di colpo ch'era il suo bimbo, e la di lui cara ed affezionata madre, Emma Renzi: e stava pensando che al bimbo fosse accaduto qualcosa, che ci volesse qualche medicina speciale, o qualche carta del municipio, quando Emma Renzi già era scesa e gli si era appressata.
“Ah! il filosofo! Eccolo qui quel caro filosofo! Eccolo qui l'ingegnere.... quella perla d'un ingegnere, buono di pianger soltanto miseria.... per non pagar la minestra.... e poi li fai fuori da principe con ogni puttana che ti rimorchi a letto.... Buonasera, ladro!.... Ci siamo finalmente trovati!”
Un'ira paurosa era nella cecità dei modi e nel tono di quel ributtante dileggio. Nella notte umida il bimbo disperatamente piangeva; il guidatore, un ragazzo, parve allibito.
“Lettere, non le ricevi.... Avvocati, sei fuori di casa! ma tuo figlio, che cosa devo farne del figlio? Vuoi che lo strozzi?.... Vigliacco sei stato abbastanza, adesso non pensar però di cavartela cosi da vigliacco.... ” (Certe donne, forse malate, fanno uso dolorosissimo e cupido di questo epiteto, cui trasfigurate nell'ira prediligono sopra ogni altro). “ Non sono quello che dici.... ”, gridò l'ingegnere. “ II mio dovere lo so e non hai da insegnarmelo.... Ma bada, non insultare a nessuno.... fatti sposare da chi vuoi; lasciami in pace!”
“Sei tu, tu, che hai da sposarmi.... Perché non devi sposarmi, perché? ”, diceva Emma Renzi avvicinandoglisi sempre di più. “Perché, porco rognoso?”. (Cosi proprio gli disse, come risulta dagli atti processuali).
“ Perché si sposa la sua donna, non la donna di tutti.... da' qua il bambino.... va' via....”
Una corta detonazione, ed un'altra subito, fu la risposta.
“ Tiéntele, vagabondo porcello!.... ”
“Assassina!....”, gridò allora Maria fra orribili lacrime. “....Dio, Dio!.... ”
“ Non è nulla. Maria ”, disse Baronfo accasciandosi.
“Ma che fate voi?.... ”, implorò angosciosamente Maria, rivolta al guidatore di Emma, che con un balzo scavalcò la fiancata della macchina: “....Prendetela, non vedete che è un'assassina? tenetela!.... Dove andate?” E sorreggeva con le due mani il compagno, che pareva smarrirsi.
“Non è nulla....”, ripetè Baronfo; “la tua Protettrice.... ci aiuterà.... ”
“Dove andate?.... Fermatevi!.... Aiutateci!”, gridò piangendo e tremando convulsamente Maria al guidatore che si allontanava nel buio. L'altra s'era data febbrilmente a lavorar d'unghie nell'arma, che s'era ingranata: “Devi morire....”, ruggiva; “....morire devi, ti dico....”.
“Papà, Mamma!”, urlava piangendo Maria, “....Salvateci, scendete!....”: e voleva scendere a terra come per affrontar quella, e non voleva lasciar di reggere con la sinistra il capo del compagno, che le pareva pesante, pesante, come deve essere la testa dei soldati morti.
Il bimbo strillava piangendo: “ ....No.... no ”.
II coraggio della purissima donna giudicò ch'era ormai vana ogni lotta: “.... Madre di Dio.... prega per noi!”
Una detonazione orribile poco avanti e un lampo, dov'era fuggito quel ragazzo, e uno straziante grido, poi voci d'uomo violente. .
“Aspetta a far fuoco, porco il tuo dio! ” “ Fermati, ho detto.... fermatevi, o sparo!” Alte ombre sbucarono dalla buia boscaglia, con bandoliere bianche di pelle, con moschetti imbracciati. “ È una donna! ”, esclamò la voce più forte e l'agente con un balzo fu sopra alla femmina: “ Cosa fa? Cosa fa? ” Presala per il collo la strascinava e rivolto gridava: “ Gli avete presi quegli altri?.... Chi sono?.... ”
“Papa, papa....”, chiamava ancora Maria fra lacrime brucianti e, sedutasi, cercava ora con la destra di aprire il gilè, tra il groviglio della catenina d'oro. “Sono stanco.... Maria.... Mi perdoni!.... Forse è la testa, non qui.... ”, mormorò ancora il ferito.
Arrivarono altri, ansimando, carabinieri, famigli: Maria, esanimata quasi, volle riavere la sua volontà, riessere, vincere: il motore pulsò nuovamente: e anche l'altro motore. “ Andiamo.... andiamo subito su.... ” La macchina la prese il loro meccanico: Antonio e altri adagiarono l'ingegnere, dietro: viveva. Poco più là il ragazzo, atrocemente ferito alle gambe dalla mitraglia, disteso come un morente per terra, diceva nello spasimo strazianti lamenti e ne' triangoli luce e ombra delle lanterne alcuni inginocchiati, ancora ansimando, lo palpavano e dislacciavano e altri guardavano inorriditi dando consigli, e chi comandava. Il bimbo seguitava a piangere dimenticato. Il brigadiere, strappatale via l'arma, teneva ancora pel collo Emma Renzi, che rivomitava ancora ingiurie ed ingiurie: e le dava ogni tanto una strizzatina, con una mano di ferro, perché aveva sentito dire, per certi convulsi, che è la meglio medicina che sia.
Tutti ansimavano dalla corsa, pensando ancora con una idea fissa ai banditi: poi i pochi rimasti, a furia di ricostruzioni, commenti, riferimenti, meraviglie e illazioni, pervennero a illuminarsi e capire: congratulandosi che fu un vero miracolo non essersi ammazzati gli uni con gli altri, perché nella notte, nel buio, moschetti carichi, la prima cosa che viene in mente è far fuoco; e quel fuoco è mitraglia.
Quando fu tutto finito, convalescenza, processo, pubblicazioni, il bimbo trovò una, in una grande campagna, che gli disse che mamma era partita e gli fece vedere i tacchini. C'è un'aria buona, viva: è la terra delle argentate balie de' nonni.
E così cominciò anche lui la sua vita, fra i tacchini, e veli tenui di nebbie.
A Rouen, con una sigaretta d'oro fra le labbra di corallo, gli occhi socchiusi come in una comparazione di lontani toni, Boffalora, Giamaica, M.lle Delanay ebbe occasione di commentare questo finale “ si bourgeois ”:
“ Que voulez-vous, mes mignonnes? On ne le dirait pas de ces rustres, mais c'était bien meublé sur le Naviglio et au Castelletto. Elle avait de l'argenterie, elle avait du lin-ge. Et puis je l'ai quelque peu déniaisée. Et puis alors cet éberlué s'est finalement éveillé. Il a ronronné comme un matou en jouant le malade. Elle avait du linge, la petite! On ne s'imagine pas les tas de nappes pour vingt-quatre qu'ils avaient coffré là dedans, dans leurs épouvantables ar-moires! Depuis seize-cent qu'ils sont nichés dans cette tour a hiboux, dans cette bicoque a chauves-souris, ils n'ont fait autre chose qu'entasser des draps-de-lit et des serviettes par douzaines, dans des apothèques de chéne et de noix massif, lourdes et noires. Mon Dieu, ce qu'elles sentent la sacristie du barocco!
“Alors, pensez vous,.... la roucoulade est aisée:.... voyons, mes mignonnes! ”
Parve, socchiusi gli occhi, dilontanar lo sguardo di là dalle volute del fumo, non so se verso le Argonne o la Beresina.
“Tandis que nos gens”, mormorò, “se faisaient tuer à la vendange des siècles.... ”
NOTE