Carlo Emilio Gadda

Manovre di artiglieria da campagna

 

Tiri di batteria: da 75 e da 100. Descrizione magnificata da due ipotiposi mitologiche e da diverse locuzioni dell'uso raro.

La macchia, finalmente, si diradò: c'erano, li nella radura, delle gran belle ragazze: più discosto un gruppo, dove doveva esserci il generale.

Difatti, ecco: lo ravvisai.

Mi feci più presso: parlava gravemente agli ufficiali. Carletto mi segui, felice.

Il generale, tratto tratto, sbirciava a sinistra: inosservanti le cure dell'alto ministero, sul fondo della sua retina, passavano, come dolci fantasmi, quelle vesti chiare.

Un bel sergente era proprio nel folto fragrante delle ragazze e galantemente diceva degli obbiettivi da raggiungere, del soggetto di quella manovra.

Conoscevo anche il tenente Tolla: ma quella mattina, caro Tolla, dovevi aver combinato qualche asinata (1): perché il generale, risalito a cavallo, gli disse, proprio a lui: “.... E lei, tenente, ricordi che una pariglia è fin troppo.... sotto i tiri di smonto dell'avversario. E, soprattutto, non pretenda di insegnare a chi ne sa più di lei....”

Quel cavallo non stava fermo un momento: le ultime parole il generale le disse che il cavallo volgeva a Tolla la sua coda stupenda e Tolla stava sull'attenti davanti alla coda. Non appena il generale scomparve nella boschina, col codazzo de' suoi consiglieri, allora ciascuno dei rimasti si disinvolse dal cerimoniale per por mente agli obblighi.

“ Adesso, che fanno? ”, insisteva Carletto.

Ah! ricordo che litigai con un borghese che c'era li. Piccolo, pallido, isterico, vestito di nero, con l'“Avanti!” e l'“Umanità Nova” tra mano, con uno svolazzo nero della cravatta, col colletto pieno di fórfora, con delle scarpe gialle mica mal fradicie e scalcagnate; prima lo presi per un agente investigativo o scrivano alla sottoricevitoria delle imposte; ma era invece un temibile anarchico. Ci litigai perché, con quella parlata albanese, e dopo mille sarcasmi da antimilitarista abusato, fini per concludere che il generale aveva una faccia da minchione.

Ma vi pare?

Quel generale era stato, in altre circostanze, il mio generale. Un formidabile “ organizzatore ”.

Certi elenchi, certe scritture, su certi fogli di carta, dovevano redigersi a puntino, come lui soltanto sapeva: (e non c'era nessuno nell'Esercito che sapesse quanto lui come dovessero venir redatti quei fogli). Alcuni imboscati pagavano caro il loro alloggio presso il Comando del Corpo, a Villa D'Ormibene. Le sfuriate napoleoniche di Sua Eccellenza, che non facevano presa alcuna sulla piattezza dei beoti attendenti, perché, se pure a bocca semiaperta, essi ave-van già guardato un poco la vita per conto loro, le sfuriate che mettevano in risa gli sguatteri risciacquanti giù fra le mura ammuffate delle cantine, gli avevano procurato la fama di “ vecchio soldato ”.

Alcuni compiacenti e zelanti subalterni avevano addobbato questa fama con ulteriori designazioni: “ Vecchio soldato, tutto d'un pezzo ”, “ Vecchio soldato, dall'aspetto burbero, si, ma dal cuor d'oro ”.

Era il cuore d'un alunno di Marte. L'alunno, a ogni scendere d'un qualche pisolino sugli occhi dell'institutore, non avea disdegnato discingere spada e lorica; e, inseguendo fra gli oleandri ed i mirti la traccia luminosa della di lui consorte, dicevano che la Dea, lusingata, lo avesse preso a careggiare e dimolto protetto: e affidato alle ancelle.

Queste, coi loro unguenti, gli avevano impomatato i baffi.

Il fatto è che il caldo ferro arriccia-baffi era oggimai impotente a ridare l'arzillo ricciolo a quei peli risecchi ed irti che, sopra la fessura della bocca, imboschivano una cartapecora gialla. Parevano i secchi sterpi che la boscaglia serba al febbraio, che il piede del contrabbandiere frantuma, nella nebbia del primo mattino.

Si compiaceva di allocuzioni solenni e vi mescolava i gelidi lirismi circa il dovere, cavati dal regolamento di disciplina, a frasi che riteneva pregevoli e rare, dell'ultima moda giornalistica, venutegli ad orecchio nel leggere i quotidiani. E vi accozzava il ricordo di alcuni fatti storici, noti ai maestri elementari, con quello di alcuni episodi non meno storici, noti a lui solo, che ne era stato il consapevole protagonista.

E vi legava alcuni stenti di parola, da piccolo borghese in sussiego domenicale, con alcune volute magniloquenti da celebratore ufficiale di anniversari. Il tutto era tenuto in sesto da potenti e imprevedibili strafalcioni: e nel groviglio spiraloide degli anacoluti e delle consecutive sbagliate e nell'intrico delle concordanze ad sensum gli veniva combinato d'involgere siffattamente gli ascoltatori, che questi, fidenti in un migliore domani, li per li si davan per vinti, rinunciavano al significato generale, si contentavano di afferrare, passo passo, le bellezze dei dettagli. La sua perizia di manovratore di masse era stata tale che, nel diramare ai reparti dipendenti certo ordine d'operazioni, una certa sera, trascurò di demandare alla Compagnia Genio del Corpo d'Armata il brillamento d'un certo ponte, sopra una certa forra, nel cui fondo ululava un certo torrente.

Il capitano del genio era in permesso: il tenente del genio, ferito a mezzodì, viaggiava in barella verso l'etere e il cloroformio: l'aspirante, da quanto si potè constatare, era un liceale di “scarsa iniziativa ”. Sicché il vecchio ponte rimase in sesto.

Di tali fortunate concomitanze rapidamente si avvalse il colonnello Vanetti; radunò tre battaglioni d'assalto e, per il ponte, diede il passo a tre someggiate da sessantacinque e a diversi pacchi di ballerine. Nella buia notte latravano folgori pazze e quel buio pareva la porta dell'eternità.

Vanetti non fu più veduto tornare. Quattordici colpi, a quaranta metri dalla fiamma rossa dell'inaffiatoio. Cosi nessun cannone fu mollato, cosi ogni sasso fu duramente tenuto.

Mentre, in sul primo levare del crepuscolo, tra fioche voci e lividi volti, tirandolo dai piedi di sotto un groviglio di quelli scartafacci che è inutile che vi descriva, cercavano di adagiarlo un po' da cristiano: ecco arriva l'ordine, che il ponte deve saltare.

Ma nessuno gli diede ascolto. Bravo!... Proprio adesso che ci passa la “corvée” delle marmitte e dei sacchi!

Una delle più care certezze del mio generale era quella di essere un “vero padre” per i suoi soldati. I suoi soldati lo adoravano, lo volevan sempre fra loro.

Quando l'alba arrivò e arrivò, come Dio sa, quel rancio (della sera avanti), i soldati sentii che proruppero una volta di più nello sfogo della loro tenerezza filiale.

Il rancio aveva percorso quattro ore di sassonia a dorso di mulo. Vanetti e tanti altri avevano finito di arrabattarsi.

I previdenti cucinieri avevano tenuto il riso “ un po' indietro ”, perché, dopo, doveva viaggiare: e cosi avrebbe finito di cuocere in viaggio e sarebbe arrivato una minestra da leccarsi i baffi. Difatti, mentre i conducenti cercavano di tener quatti i muli nella sinistra penembra, cui lampi improvvisi avrebbero potuto ravvivare, si scodellava una emulsione amidacea, con lastre di manzo sardanapalesco. E fu allora proprio che l'“adorazione per il loro generale” e per tutti i superiori, me compreso, l'Onnipotente compreso, sgorgò da quei trivialoni mentre, ventitreenni, con canini diciassettenni, accudivano a dilacerare, a sbranare quel manzo.

Tutti i cannoni erano salvi. Quale non fu la gioia del generale quando seppe che ad altri cannoni, di altri corpi d'armata, era toccata sorte diversa. Ciò significava con evidenza, anche a chi fosse del tutto digiuno di cose militari, che i capi di quei corpi non erano capi della sua fatta.

Vi sono certi, per cui la notizia di un cannone perduto, dovunque e da qualunque corpo venga perduto, è una goccia che la Morte versa nel cuore. E se i cannoni son cento? Cento gocce avvelenano un debole cuore.

Il mio generale non disperò mai: “ Ci sono tanti imboscati! ” diceva. Dopo di ciò era soddisfatto, perché aveva la certezza di aver proferito una gran verità.

Nelle riviste, l'ho guardato, fa una discreta figura. Ma il grosso bajo su cui siede per solito, si dimena troppo, con irrequieti cosciotti. Si mette sghembo, semina polpette quando meno bisogna, turba le complesse simmetrie della parata. Non si può castigarlo, perché farebbe peggio: è un libertario.

Cosi, sulla greca ci sono due righe. Sono le righe, sopra la greca, quelle a cui bisogna badare per capire, uno, che generale è.

Dal profondo del fervido cuore, noi leviamo all'amato e graziosissimo nostro Sovrano un voto, augurale di prosperità. Che una pace feconda di nobili opere segua agli atti inimitabili degli eroi e dei martiri: se pure ombra, questa sia degna della fiamma che l'ha preceduta. Marte, splendendo di una terribile luce rossa, e ciò in concomitanza di vapori assai densi e di emanazioni sulfuree promosse dal vertice nero di Encelado, cessi dal proporci sinistri presagi. Ora si determinino propositi sereni e avvengano atti con-solatori.

Questo voto è tanto più fervido, in quanto attendiamo che nel frattempo il generale Bartolotti raggiunga quei limiti di età e acquisti quel portamento cosi venerando, al di là dei quali nessun richiamo in servizio sia pensabile nei suoi riguardi, neppure al più meccanistico ordegno dell'apparato di mobilitazione.

Al “ Sorgi e cammina ”, che rivolgiamo fidenti ad ogni giovane anima, è correlato un “ arrivederci e grazie ”, con cui siamo impazienti di dar la buona notte a questo pezzo di vecchio soldato.

Il telefonista ripete i numeri della dirczione, del sito e dell'alzo, che il tenente ripete, che il puntatore verifica. Il capopezzo ricanta il suo ritornello: “ parte il colpo ”. E il terzo pezzo ha un soprassalto, con una fiammata e uno schianto metallico. Il sibilo del proietto da cento si smarrisce tosto nell'aria, come d'uno che fugga e faccia perder sua traccia.

Il cielo nuvolate e le rotondezze verdi di questa collina nascondono clivi invisibili, gli altri monti.

Ma, da ignote plaghe, ecco un tonfo cupo e quadrato, come d'un cassetto che con violenza si chiuda, negli archivi lontani e misteriosi del monte.

L'osservatorio protocolla la pratica e dopo le correzioni il telefono di batteria trasmette numeri perfetti.

Le laceranti granate certo sovvertono un prativo lontano. Ecco gli emunti, i sudati, che avanzano: ansimano, gocciano, logori dalla fatica. Anche il fucile e cinque limoni sono un peso. Dalle occhiaie profonde e cave le pupille guardano il termine della salita. La breve lusinga dileguasi, e tutti i sorrisi. Certo è il dovere, imminente l'oscurità.

I cassettoni del monte'si chiudono, rabbiose porte. A poco volo sono nuvolette rosse, come nei quadri dei martiri. A poco volo sono nuvolette bianche, laceranti scoppi e sibili di cose nemiche.

Oh! primavera! La tempesta di alcune batterie da cento è un tenue preludio.

Un più orrido sibilo si tramuta repentinamente in una folgore cagna. Spring-granata, saltimbanco del rosso demonio!

Spaventosi ululati apparvero dal remoto. Orribili esplosioni avvennero nella valle e nel monte. Altre, celeri e fitte, a mezz'aria, nere, bianche, implacabili. La terra succhia i granelli degli shrapneis e dai crateri dei trecentocinque prorompono mostruosi proietti: cinerei trapassano l'ombre d'altre esplosioni, chiari la luce, tetraedri e romboedri di dolomia, cubi dal bianco calcare.

Le colonne rifornitrici si rompono, come tendini recisi dal coltello: i muli si spargono, le casse si sventrano, mani disperate si levano a difendere gli occhi e la fronte.

La severità e l'ira terribile di un io non più nostro determina ora ogni attimo della conoscenza: la continuità legatrice delle rappresentazioni sembra smarrirsi: non esiste il volere, sola vigendo una necessità ignorata.

Che cosa portate, portantini esausti, invidiando alla forma distesa la sua pesante immobilità?

Perché siete lividi come la morte, le mani con le nocche abràse che fanno sangue, con vesti lacere, col colletto slacciato?

Il regolamento di disciplina vieta questa trasandatezza.

Quali gocce cadono lungo il sentiero?

I muli marci puzzano maledettamente.

Ecco: a tutto il monte invisibili marre sovvertono la groppa inferace, fra tuoni furibondi è deposto il seme dei cumuli bianchi, o neri. Sotto la grandine dei sassi e delle schegge di ferro, ogni uomo è in ascolto della propria destinazione. Sotto il funebre sole aleggiano calabroni ignorati e chiedono a suggere compatti lacerti, delicate meningi.

Molti ragazzi non si sa bene che cosa facciano. Che diavolo fanno? Poiché una nebbia nasconde ogni cosa. Reclinato, chi suda un filo di rosso sudore, altri sono come infarinati mugnai. Farina è sui nostri calzoni, sul viso e sulle mani aride: due màdidi guardiani!, con incespichi e salti, sorpassano l'intrico delle cose divelle e schiantate per veri-ficare se il nero, esile nervo della battaglia comanda ancora la massa delle pigre possibilità:

“ Dammi una macedonia, va là.... ”

“ Ma dov'è questo camminamento della malora? ”

“ Doveva stare qui sotto.... è questo.... ”

“ No, che non è questo.... non ti ricordi che quello era pieno di m...? ”

“ Ah! a quest'ora.... anche quella.... ”

Schianti irriproducibili li fanno chinare: rapidi accocco-lamenti, riprese di salti. Seguono il filo, nel dèdalo e nella fumana si perdono.

Una nebbia nasconde i compagni e il tossico dei preparati trinitrici cerchia di arsura la gola. Qualche mostro mal morto rivela l'anima vigliacca, che ebbe: un cilindro, pare del parmigiano, di gialla e granulosa cheddite.

Ma, fra i cubi della roccia divelta, atroci brandelli, maschere tumefatte, costringono i nostri occhi in una fissità perversa ed orrenda. Oh, madri!

Sogni delle notti più tetre, questo sole vi supera: è il nucleo dell'impensabile, il sostegno irreale della impossibilità.

Infarinati e laceri, portate i pacchi, aprite, fate passare: ma badate, dolina Como è qui presso: la cercano, la cercano! Salvadanaio maledetto, gonfio di ottocento bombarde. Il camminamento del Cavallo Morto è ostruito. Saltiamo. Avanti.

Nella cava sua tana, il curvo chirurgo non ha più pace. Ad ogni tonfo di fuori, la candela si spegne per un soffio feroce, fra imprecazioni abominevoli. Una implorazione straziante ed inutile esala dalla bocca contratta degli abbandonati. Il loro viso si soffonde già del cianore, che prelude alla notte.

Nella tana buia l'etere e il sangue non turbano il bianco chirurgo. Non sei ancora impazzito, caparbio macellaio?

Cosi è che il monte, al confine della terra, si beve il suo farmaco tepido, si beve il suo farmaco rosso. Cosi è, come già fu, che nostra terra ci porta.

Come già fu, come in eterno sarà.

Batteria in manovra.

Carletto volle vedere anche una batteria da settantacinque e mi offerse un pezzo di cioccolato: “ Così, anche se tardiamo un po', la zia non mi sgrida”. Gira e rigira per quel bosco, finalmente potemmo scorgere il lontano bersaglio. Una scoscenditura della parete rocciosa, un canalone, figurava l'appostamento nemico. Era una stretta fessura, dove freschi licheni e ciuffi di capelvenere dovevano abbellire la villeggiatura delle salamandre.

Il primo pezzo iniziò l'aggiustamento con granate a percussione, la cui lieve traccia cinerea fumò via dalla roccia, come se uno scarpello la percotesse. Il cristallo dei prismi e delle lenti definisce ed approssima il campo: però fa un velo, che non lascia ben percepire quel lieve esalare di polvere, ad ogni scarpellata del settantacinque.

Meglio scorge l'occhio da solo.

Qualche granata battè sotto, nel conoide gretoso della deiezione, e allora un cumulo bianco fumò; qualcuna sopra, nel terriccio del prato: allora un cumulo nerastro e pieno.

Il comandante trasmetteva le correzioni al telefono, ma il telefonista crapotti capiva male. Allora prese con rabbia il megàfono, un cono di latta con un boccale, e trombone numeri a tutta la montagna.

Poi il secondo pezzo fece la sua prova, poi il terzo, poi il quarto: identici i dati della dirczione, del sito e dell'alzo, ma ciascun pezzo la sua divergenza.

Quando venne dato il comando: “ fuoco celere ”, allora da mano a mano passò il biscotto e avvennero balzi selvaggi. I quattro pezzi alternavano ritmicamente gli schianti dei freni e il rosso urlo di là dallo scudo, mentre i castani giovinetti piegavano, fronde in quella tempesta. Con ritmo eguale del dorso, ad ogni colpo il puntatore riosserva le bolle, verifica la punteria. La groppa della collina era fustigata da folgori pazze e da sibilanti minacce e tutte le fronde ritmicamente si riavevano e si ripiegavano, con un forsennato sgomento.

Il soprassalto dell'affusto e gli scatti del ricupero pronto, la diligenza dei serventi e le furibonde sfiammate si alternavano ai quattro pezzi come il giucco degli steli di comando sull'albero a camme di una motrice. Pareva che un asse invisibile legasse i quattro pezzi selvaggi in una successione matematica di fasi. Ed era un comando.

Sul lontano monte apparvero fatue nuvolette, che ne fiorivano lo spalto, quasi un mazzo di biòccoli bianchi il porfido grigio dell'altare. L'ombra segreta della roccia fu contaminata da sgangherate risate. Il monte rimandò cupi tuoni, che rotolavano fuori l'uno dall'altro, come se si applicassero nel figurare una successione causale.

Immobili monti! Cosi nei vostri spalti risuonano i segni della vita deformantesi: cavalli, vampe, uomini sudati, anima e rabbia nella vostra sterilità. Le riviere sono raccolte come una ricchezza trionfale. Le scarpellate del settantacinque sbozzano le tempie dei fantasmi rupestri e rintronano di rovinosi ululati le metropoli ipogaie dei pipistrelli. Gli uffici statistica di questi mammiferi registrano numerosissimi casi di cardiopalma.

Nelle valli lontane vengono deposte accuratamente tutte le pratiche delle batterie. Le carte di tiro recano gli òvuli rossi, intersezioni del conoide lungispruzzante con la falda della pianura, o del monte.

Sulle montagne verdi appaiono chiazze gretose. Gli angoli diedri dei colmi, i piani dei pioventi, uno luce, uno ombra, sono come le groppe angoloidi di magre, di povere bestie. E, nel vello dei cespugli, le chiazze biancastre figurano dapprima come una rogna; una rogna che mangia e mangia la verde pelle del monte.

I grandi e nobili cavalli, sul sinistro pesantemente il forte artigliere, avanzarono fra gli arbusti e le rocce affioranti, col collo robusto dicendo: Si, sì. Sollevavano potentemente le zampe barbute allo zoccolo e le lasciavano ricadere con uno scatto sicuro, fra uno sterpo, una lama di roccia, un tronco divelto, dove difficilmente noi uomini avremmo eletto con tanta rapidità. E l'artigliere quasi portava, nel mentre era portato: sollevava ritmicamente le braccia, molleggiando le redini, guidando i due musoni generosi tra la sferza dei rami selvatichi e poi i due grossi, caldi, neri corpi. Le tirelle le attaccano al cassoncello vuoto dell'avantreno, che han già chiuso e rilevato: il timone, che turco!, è preso con fibbie. Le cosce calde erano vestite di tutte le loro bretelle e il petto nodoso delle fasce di cuoio grasso, sudato. Tutto finiva nelle corde dall'occhiello cuoiaio, tese a tiro dal leggero avantreno.

L'artigliere li fece rinculare un poco e i cavalli obbedirono, nel mentre continuavano a dire: Si, si. Poiché il culo di uno non andava al suo posto, prese una stangata dal capopezzo: non disse nulla, andò a posto.

Agganciarono l'avantreno al pezzo e la molla di fermo si richiuse sul gancio. Così il cannone violento era legato, doveva obbedire alla forza de' cavalli, prendere la strada che volevano gli uomini.

Allora fu dato il comando di passo: ogni pezzo, cercarono di prender cammino.

Ma la strada fra i castani selvatici e le schegge di roccia era malamente. Poi, qualche giovane tronco era stato spezzato, la traversava, era un incespico di fronde e di rami.

Il caldo faceva sudare tutti e il comando fu dato.

E il terzo pezzo, anche, cominciarono a tirare.

“ Uh! forza! ”, grida il sergente.

La folle, selvatica strada disegnò i muscoli dei potenti cavalli; gli artiglieri fecero forza alle ruote. Sulle groppe piatte e piene andarono tempestose legnate. “ Tira Gorgo! Tira broccone! ”

La strada era molto carogna.

Uno scheggione la traversava placidamente, facendo un bei gradino di dodici centimetri alla ruota di destra.

“Tira, Gorgo!”: e legnate; e la bestia si avventava disperatamente nella prigione delle sue tirelle e la seguiva il compagno e l'artigliere col manico della corta sua frusta le dava di piatto. E legnate: le bestie si avventavano; e legnate. “ Tira brocco, uh! forza! uh! tira, porcone ”.

Il pezzo non si muoveva. Non è possibile alle ruote di valicare gradini acutangoli: occorre chiamarle con inviti e blandizie. Ma i soldati sbadigliavano dal sonno sotto il torrido mezzogiorno. Facevano forza, ma non volevano pensare, perché dover pensare e risolvere costa più che fare una fatica da manzi.

Intanto, per ordine del generale, le altre pariglie erano state mandate avanti. Solo Gorgo e Tubone dovevano tirare: questo era il loro dovere. Ne vi si rifiutavano: anzi, erano solerti nella volontà di adempimento. Ma gli uomini sembrava loro che fossero un po' ottusi, un po' stanchi: forse era il gran sole. Gorgo allora, anche per consiglio del compagno, decise di ridestarli e di ammonirli, richiamandoli a una doverosa coerenza fra lo immaginare e l'agire, fra i facili comandi dell'anima e l'indugio pesante della realtà.

Frattanto, dalle bocche degli artiglieri, presero a dipartirsi altri e più tempestosi richiami, indirizzati a varie personalità delle gerarchle celesti, non escluso l'Onnipotente; a quest'ultimo vennero successivamente attribuiti i nomi di diversi mammiferi da allevamento. Per un caso singolarissimo, tali mammiferi erano scelti, quasi esclusivamente, fra i suini. Siffatti avvenimenti accadevano in dialetto bergamasco e bolognese e in lingua toscana.

A una legnata dunque più ladra, Gorgo si rivolse di scatto, con uno sguardo da far piangere: “Ragiona! ”, disse con il suo sguardo all'uomo che lo legnava e aveva la giacca slacciata, i calzoni un po' lenti. Ed era un soldato! sosteneva il compito giovenile della sua forte milizia. La cravatta bianca e madida gli usciva dal colletto slacciato, come una benda, e svolazzava per suo conto; aveva tra mano un suo palo, la bocca aperta come un fanciullo; un ciuffo di capelli madidi gli cadeva sulla tempia.

Il cannone, sardonico mostro, era li un po' inclinato e guardava tranquillamente in giù quel pendio, come se tutto il trambusto fosse affar d'altri. Ad ogni sussulto, il cannone rimaneva fermo e l'avantreno cadeva di là. Cosi che il convoglio, con le quattro ruote e lo snodo del gancio, pareva un coccodrillo zoppo, malamente adagiato sopra contropendenze e affaticato da una digestione laboriosa.

Il tenente Tolla vide il gradino, come l'avevano veduto i ragazzi. Solché, avendo maturato nel cammino degli anni il suo primo e puerile sogno d'azione, prese al morso Tubone e Gorgo e, rinculando lui, deviò il loro passo per modo che quella scheggia cattiva fu presa di costa. E colmò dei meritati rimproveri e di molti improperì quei ragazzi balordi, appesantiti dal sonno, dal caldo, dal frastuono scombussolato dei carri, dalla polvere, dalle scarpe, dai comandi, dalla fatica, dal sudore; e dalle lor proprie bestemmie e mannagge concomitanti e reciproche apostrofi e maledizioni.

Aggrappato alle briglie, Tolla inveiva ancora contro di loro, volgendosi a tratti e incespicando negli sterpi: ma i forti colli di Tubone e di Gorgo e la loro calda riconoscenza lo sostenevano. E quegli altri, con bocca aperta, spinsero le ruote: e, tirato per la coda, il coccodrillo si mosse. Allora Tubone e Gorgo con forti zampate schiacciarono tutti gli sterpi vani, dicendo: Si, sì: e mentre il forte artigliere molleggiava le redini grasse, il terzo pezzo s'ingolfò lui pure nella boscaglia selvatica.

Ogni nome terreno, o celeste, fu lasciato di proferire.

Il terzo pezzo discese, frenato e rattenuto da corde, se no rotolava addosso ai cavalli: proprio come una miseranda carogna.

Aveva soffiato tanto! E cosi bravamente!

Adesso, mentre i cavalli, a tirarlo, ci pensavano loro e con grumi di fatica dentro la testa gli uomini non pensavano più nulla, anche lui decise di lasciarsi tirare, che gli veniva un bei pisolino.

Cadetto, felice, dalla gioia del settantacinque aveva demolito l'intera provvista. Come fa piacere a vedere i ragazzi che trangugiano certi bocconi da farsi schioppare la gola! Il gnocco lo si vede andar giù per il collo, come allo struzzo, quando deglutisce la sua merenda di barbabiètole.

Quel pane diventa sangue: sangue rosso, giocondo. Nel quale vengono deposti e custoditi i germini di ogni speranza: e di quei cosi nobili atti, che il profondo futuro cela alla nostra nozione, ma non al nostro presagio.

Per Cadetto, intanto, datemi delle pagnotte, ma una via l'altra.

Un rotolamento ferrato e lontano indicava che, su buona strada, con treno di tutti i cavalli, le batterie erano al trotto.

 

NOTE

(1) In italiano “ asineria ”.



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