Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 1896-1957),
di famiglia aristocratica, trascorse la sua vita
coltivando í suoi interessi letterari, viaggiando
a lungo per l'Europa, dedicandosi a quell'otium -
fatto di molteplici curiosità - che la sua
condizione gli permetteva. Partecipò alle due
guerre mondiali. Cominciò a scrivere con precise
intenzioni narrative solo negli ultimi anni della
sua vita; il suo romanzo II Gattopardo venne
pubblicato postumo da Feltrinelli, per volontà di
Giorgio Bassani, nel 1958 e diventò subito un best
seller e un "caso letterario". Contribuì ad
alimentare il dibattito, fra l'altro, il fatto che Vittorini, consulente della Einaudi, aveva
rifiutato la pubblicazione: decisione
comprensibile, se si pensa al fervore dì ricerca
letteraria cui la sua azione di organizzatore di
cultura si era sempre ispirata (e anche
all'ideologia che percorre l'intero romanzo).
Postumi uscirono anche i Racconti (1961) e le
pagine saggistiche delle Lezioni su Stendhal
(1971) e di Invito alle lettere francesi del
Cinquecento (1979).
Questo era il paese degli accomodamenti [Il
Gattopardo]
Nelle pagine che riportiamo - siamo all'inizio de
Il Gattopardo - domina, come d'altra parte nelle
parti più vive e affascinanti di questo fortunato
romanzo, la figura di Don Fabrizio Corbera,
principe di Salina (il Gattopardo, appunto), a
colloquio prima col nipote Tancredi e poi con
alcuni suoi dipendenti. Alla notizia dello sbarco
di Garibaldi e del suo approssimarsi a Palermo, Tancredi decide di unirsi ai garibaldina; non per
spirito patriottico o perché condivida un bisogno
di rinnovamento, bensì proprio per evitare ogni
cambiamento, per imbrigliare entro l'alveo della
conservazione la carica potenzialmente
rivoluzionaria di quanto sta accadendo. Dietro le
sollecitazioni delle poche ma essenziali battute
con le quali il giovane Tancredi motiva le sue
decisioni; il principe medita sulle cose umane,
sulla storia, sui suoi protagonisti che non riesce
a vedere altrimenti che come autentiche e
inconsapevoli mosche cocchiere.
Il brano costituisce sul piano ideologico uno dei
punti chiave del Gattopardo (l'altro, circa verso
la metà, è il famoso dialogo tra il protagonista e Chevalley) e dimostra in modo esemplare come la
vicenda storica sia in quest'opera solo un
pretesto, un motivo accessorio e caduco
continuamente sopraffatto da quello più autentico
e fertile di esiti poetici: il lamento sulla
sterilità delle illusioni e dell'agire umano, il
senso dell'inevitabile decadere delle cose e degli
uomini.
IL GATTOPARDO
Il soggetto
Il Gattopardo è ambientato in Sicilia tra il 1860
e il 1910 esegue le vicende di una illustre casata
siciliana, privilegiando decisamente la figura del
principe di Salina, don Fabrizio. Sebbene gli
eventi storici (lo sbarco dei garibaldini,
l'annessione della Sicilia) costituiscano uno
sfondo ben presente e talvolta interagente, le
vicende del romanzo sono essenzialmente "private",
come si può già notare scorrendo la precisa
scansione degli episodi indicata dallo scrittore.
Pranzi, cene, rosari, balli, vacanze estive a Donnafugata: di tal genere sono gli "avvenimenti"
del Gattopardo, espressione, nel loro ritualismo,
di un mondo statico, atemporale. Solo Tancredi, il
nipote prediletto dal protagonista, rompe questo
universo chiuso e immobile con la sua giovanile
vitalità e la sua spregiudicatezza ideologica. A
differenza dello zio, osservatore distaccato e
scettico degli eventi politici che turbano la
Sicilia. Tancredi si getta nel fiume della Storia
che avanza. Entra così senza esitazioni prima
nelle file dei garibaldini, poi nell'esercito
regolare dei "Piemontesi", pensando, da una parte
di trarne dei vantaggi personali, dall'altra di
contribuire ad arginare i pericoli che il nuovo
corso politico potrebbe portare alla sua classe
sociale. Con la stessa spregiudicatezza corteggia;
lui nobile, la figlia di un rozzo contadino
enormemente arricchitosi, la bellissima Angelica.
Don Fabrizio invece, con motivazioni dettate dalla
sua visione fatalistica e scettica della Storia,
rifiuta la nomina a senatore offertagli dal nuovo
regno. Egli rimane a tutelare i ricordi e le
reliquie del passato, pur lucidamente consapevole
del necessario mutamento dei tempi, della
irreversibile decadenza della classe nobiliare e
della sua stessa casata, che sa destinata a finire
con lui.
Genesi e struttura
Il Gattopardo è l'opera di uno scrittore
esordiente (alle soglie però dei sessant'anni e da
tempo raffinato cultore di letteratura,
soprattutto straniera). Il romanzo ebbe una genesi
complessa e faticosa. Lo spunto iniziale era
biografico: lo scrittore intendeva infatti
raccontare una giornata del suo bisnonno, principe
Giulio, in occasione dello sbarco dei garibaldini
a Marsala. Questa materia occupò però solo la
prima delle otto parti di cui si compone il
romanzo nella sua stesura definitiva (marzo 1957).
Da ricordo familiare Il Gattopardo divenne dunque
molto presto qualcosa di diverso e più complesso:
anzitutto in rapporto alla notevole dilatazione
dei confini temporali (1860-1862 le prime sei
parti; 1883 la settima: 1910 L'ultima), e quindi
all'ampliamento della materia narrativa;
arricchita via via di nuovi episodi. Le otto
sezioni del romanzo risultano sostanzialmente
autonome, quasi dotate di vita propria e non del
tutto finalizzate alla costruzione di un organismo
narrativo unitario. Gli squilibri strutturali e le
disomogeneità di tono che alcuni critici hanno
notato nell'opera si devono probabilmente al fatto
che il Gattopardo, pubblicato postumo, non
ricevette dall'autore l'ultima revisione. L'unica
coesione del romanzo, a ben vedere, è nella
costante rifrazione dei fatti nella coscienza del
protagonista: forse questo spiega il senso di
disomogeneità e quasi di estraneità all'intima
natura del libro che il lettore avverte nelle
parti i e viri, in cui il protagonista o non
figura o è ormai uscito di scena.
Tecniche narrative
Se il soggetto e l"ambientazione, la stessa
ideologia del Gattopardo. sembrano a prima vista
riconducibili all'influenza di Verga e De Roberto,
le tecniche narrative segnalano la distanza del
romanzo da questi presunti modelli (e non bisogna
dimenticare la vocazione "europea" di Tomasi di
Lampedusa, il suo prevalente interesse per autori
come Proust e Joyce). Nel Gattopardo la narrazione
non costruisce un intreccio consequenziale, ma
avanza a blocchi, con estrema libertà, a volte
esclusivamente sulla base delle associazioni
mentali del protagonista, dalla cui soggettività
sono filtrati eventi e situazioni. Inoltre, a
differenza dei romanzi naturalisti, l'autore è ben
presente e tutt'altro che "impassibile". Il
narratore (esterno e "onnisciente") introduce
infatti nel romanzo il proprio commento. razionale
o ironico-polemico nei confronti del mondo
rappresentato (utilizzando spesso a tal fine lo
spazio "neutro" della parentesi) e conferisce
talvolta un carattere "giudicante" alla stessa
aggettivazione. Per contro non manca una commossa
identificazione del narratore nel protagonista
(soprattutto nelle parti a più marcata
focalizzazione interna, nei monologhi interiori),
un impercettibile fluttuare tra il punto di vista
dell'uno e dell'altro.
Eros Thanatos
Nunc et in hora mortis nostrae...» ... «Poi tutto
trovò pace in un mucchietto di polvere livida.» Le
prime e le ultime parole del romanzo, possono
efficacemente simboleggiare l'importanza del tema
della morte nel Gattopardo (il che, ci sembra, ne
conferma la natura di romanzo psicologico-esistenziale più che storico). Alla
morte del protagonista è dedicato un intero,
struggente capitolo (il settimo), ma il tema si
era già ampiamente dispiegato nelle parti
precedenti, sia direttamente, sia attivando tutta
una rete simbolica. La morte è fonte per il
protagonista di ambivalenti sentimenti: orrore e
disgusto per la morte fisica. l'offesa e la
degradazione impudica del corpo, di cui non si
riesce a intravedere il senso (una stessa
inorridita pietà accomuna il soldato morto di p.
27, gli agnelli sbudellati di p. 53, il coniglio
ucciso durante la caccia di p. 102, lo spettacolo
sanguinoso dei buoi macellati di p. 211). Per
contro la morte può essere desiderata, in quanto
raggiungimento di pace , conquista di armonia,
purezza, ma soprattutto di lucida chiarezza
intellettuale. In questa prospettiva il motivo
della morte è frequentemente associato al
riferimento alle stelle (il principe Fabrizio è un
cultore di scienze matematiche e di astronomia): a
loro volta le stelle simboleggiano qualcosa di
stabile, di certo, in evidente contrapposizione
alla fallacia caotica e alla sostanziale bassezza
della vita umana e della Storia. Si veda questo
passo: «L'anima di don Fabrizio si slanciò verso
di loro, verso le intangibili, le
irraggiungibili... come tante altre volte
fantasticò di poter presto trovarsi in quelle
gelide distese, puro intelletto armato di un
taccuino per calcoli, per calcoli difficilissimi,
ma che sarebbero tornati sempre...». Il legame morte-stelle è fin troppo direttamente esplicitato
nel capitolo della morte di don Fabrizio, quando
le ore passate in osservatorio gli sembrano quasi
una «elargizione anticipata delle beatitudini
mortuarie». È questa la morte che don Fabrizio
«corteggia», secondo la celebre espressione usata
da Tancredi nel ballo. Ma il tema della morte si
configura poeticamente nel romanzo soprattutto
come dissoluzione, rovina, fluire corrosivo e
indifferente del tempo, che investe uomini,
oggetti, classi sociali. A ben vedere, lo stesso
scetticismo storico-politico, l'inerzia di don
Fabrizio, hanno la loro radice nella sua coscienza
della vanità dell'agire umano, travolto e
vanificato dal fluire inesorabile del tempo (si
veda il passo di pp. 102-3, con l'immagine
simbolica del vento e del suo «trascorrere
incurante» sulle sofferenze e sulle illusioni
degli esseri viventi). Alla morte e alla
dissoluzione del tutto si contrappone la forza
dell'eros, simboleggiato dalla figura sensuale di
Angelica: essa esercita la sua attrazione sullo
stesso don Fabrizio, vincendone i pensieri funerei
(p. 205). Il desiderio amoroso della coppia Angelica-Tancredi irrompe con la forza di un
«ciclone» sulla casa Salina, travolgendone la
funebre immobilità (Il ciclone amoroso, parte IV).
Nel loro viaggio nel "castello di Atlante" della
sensualità, nel labirinto dei desideri, i due
innamorati riscoprono l'Eros perduto, che si
annida, ormai dimenticato, nel cuore dell'antico
palazzo (l'appartamentino misterioso). Anche
l'amore è però transitoria illusione: agli occhi
disincantati di don Fabrizio lo spettacolo dei due
giovani che ballano, stringendo i «loro corpi
destinati a morire», appare «più patetico di ogni
altro». La sensualità stessa è dunque insidiata
dalla morte. La fusione dei due temi del romanzo è
ben evidenziata da certe descrizioni, soprattutto
paesaggistiche (si veda in particolare la celebre
raffigurazione iniziale del giardino). L'incontro
stesso del protagonista con la morte (nei panni di
una giovane donna) è rappresentato in termini di
scoperta sensualità.
2001 © Luigi De Bellis -
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