PREMESSA
È noto che Giuseppe
Tomasi di Lampedusa non poté licenziaнre per le stampe le proprie
opere. Critico saltuario di letteratura francese e storia negli anni attorno al
1926-27 su Le Opere e i Giorni, un mensile culturale edito a Genova, le circostanze
della vita avevano poi interrotto questo primo approccio professionale alle
lettere. Rimase il conforto della lettura, la curiosità ed il piacere di
smontare pezzo a pezzo, quasi un giocattolo meraviglioнso, gli scritti altrui;
soprattutto la ricerca, autore per autore ed opera per opera, di una precisa
collocazione biografica ed ambientale. Per Lampedusa la letteratura era una
sorta di diaristica cifrata, e la diaristica la sola gnoseologia; l'opera
d'arte il mezzo attraverso cui una contingente esperienza umana, da individuale
ed egoistica, poteva cristallizzarsi in esperienza dureнvole, valida oltre
l'occasionalità delle circostanze.
Il letargo dello scrittore durò fino al convegno svoltasi a San Pellegrino Terme nell'estate del 1954. Vi aveva accompagnato il cugino Lucio Piccolo, che, presentato da Eugenio Montale, veniva ammesso nel salone del Kursaal alla repubblica delle lettere. A distanza ravvicinata quella repubblica non gli apparve composta da semidei. Fare il letterato può equivalere ad essere letterato, e non tutti gli ingegni raccolti a San Pellegrino avevano fatto gran che. L'attività poetica e la fortuna di Lucio Piccolo, un paio di giorni a San Pellegrino fuori dalla sua solitudine, le lezioni pomeridiane che impartiva a Francesco Orlando, anch'egli a quei tempi poeta e narratore, si tradussero in incentivi allТazione. Scriveva di già sul finire del 1954, e, nei trenta mesi che gli restarono da vivere, Lampedusa scrisse quasi ogni giorno, indipendentemente dal successo, quello che la sorte in vita gli negò. Quando morì nel luglio del 1957 aveva in cantiere un secondo romanzo, I gattini ciechi; forse avrebbe aggiunto uno o più capitoli al suo Gattopardo.
Il romanzo apparve nell'autunno del 1958 a cura di Giorgio
Bassani, e la correttezza dell'edizione non venne messa in dubbio fino all'anno
scorso, quando Carlo Muscetta annunzio di aver riscontrato centinaia di
divergenze, anche cospicue, fra il manoнscritto ed il testo stampato. Si pose
allora un problema concernenнte tanto la autenticità dell'edizione
Bassani, quanto l'autorità delle diverse fonti. La questione era
già stata sollevata da Francesco Orlando nel suo Ricordo di Lampedusa
(pag. 82). Come rammenta Orlando, esistono tre stesure del Gattopardo; una
prima stesura a mano raccolta in più quaderni (1955-1956), una stesura
in sei parti battuta a macchina da Orlando e corretta dall'autore (1956), una
ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: II
Gattopardo (completo). Adotнto la dizione parti, anziché capitoli,
perché cosi con proprietà si espresse l'autore nell'indice
analitico posto a compimento del manoscritto "completo"; ogni sezione
del Gattopardo è infatti propriamente una parte, cioè la
trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiuta, della
condizione siciliana.
Fra
le tre stesure la prima va senz'altro scartata quale testo definitivo. Essa
è superata dalla trasposizione dattiloscritta con cui l'autore
cercò di ottenere la pubblicazione del romanzo fin dal maggio 1956.
Prima cinque e poi sei parti dattiloscritte furono inoltrate al conte Federici
della Mondadori con una lettera di accompagnamento di Lucio Piccolo. Il
dattiloscritto, anche se provvisoriamente, riscosse quindi il
"placet" dell'autore. È corretto accuratamente e presenta
alcune aggiunte autografe numerazione delle pagine e delle parti; apposizione
dell'ambientazione temporale con l'indicazione del mese e dell'anno premesнsa
ad ogni parte; non manca la sostituzione di qualche vocabolo. faccio queste
osservazioni sulla copia in mio possesso. Essa mi venne restituita dal barone
Enrico Merlo, dopo la morte di Lampedusa, unitamente ad una lettera in cui
l'autore dava la chiave di alcuni riferimenti precisi (o da lui ritenuti tali)
infiltratisi nella trama del romanzo. Merlo, alto funzionario della Corte dei
Conti, aveva una visione storica dell"'annessione" non dissimile da
quella espressa nel romanzo, e lo troviamo ricordato accanto all'autore del
Gattopardo nella dedica premessa da Virgilio Tifone al suo Storia mafia e costume
in Sicilia. Lo storico ha inteso cosi riconoscere, "agli amici scomparsi
del Caffè Mazzara, agli amici che avrebbero compreso, "
l'assistenza ricevuta da questi due siciliani consapevoli, pronti a confortare
con la propria esperienza personale i risultati delle sue ricerche.
L'esame del dattiloscritto conferma i miei ricordi circa l'ordiнne di stesura. Quando aveva cominciato, Lampedusa mi disse: "saranno 24 ore della vita di mio bisnonno il giorno dello sbarco di Garibaldi"; e, dopo qualche tempo, "non so fare lТUlysses. " Avrebbe voluto allora ripiegare sullo schermo di tre tappe di 25 anni: 1860 sbarco di Marsala; 1885 morte del principe (la vera data di morte del bisnonno, non so perché poi anticipata al 1883); 1910 fine di tutto. Il dattiloscritto rivela che "la morte del Principe" era originariamente la parte III, e la "fine di tutto" la IV e conclusiva. La numerazione dei fogli passa infatti da un 63 a chiusura della seconda parte ad un 64, cancellato ma leggibile, in apertura de "la morte del Principe"; e ricordo d'altronde distintamente la lettura di questa anteriormente alle altre due parti ambientate a Donnafugata. Son sicuro anche che I luoghi della mia prima infanzia furono iniziati dopo il Gattopardo, e probabilmente la ricchezza di memorie suscitate dalla ricostruzione mentale di Santa Margherita, l'urgenza di narrare, avranno fatto dilagare la materia oltre gli argini di uno schema precostituito. La correzione della numerazione, tanto delle parti che delle pagine, da "la morte del Principe" in poi, indica l'aggiunta prima della parte III e quindi della IV (quest'ultima è quella che venne spedita a Federici in un secondo tempo), cosicché l'intestazione de "la morte del Principe", passa da un III baffuto a macchina ad un IV a penna, corretto infine (sempre a penna) in V. Ed altrettanto dicasi per l'ultima parte, passata da IV a V, e poi a VI.
Le traversie della
pubblicazione hanno fornito nuova esca al mito romantico del genio incompreso.
Per la verità i lettori della Mondadori e lo stesso Elio Vittorini, che
scorse il dattiloscritto prima per la Mondadori e poi per la Einaudi, commisero
un madornale errore commerciale piuttosto che critico: essi infatti riconobbero
nel Gattopardo il talento di uno scrittore. La risposta personale di Vittorini
raggiunse Giuseppe Tornasi a Roma: "come recensione non c'è male,
ma pubblicazione nienнte, " mi disse il giorno prima della sua morte. Se
Vittorini era un letterato in grado di riconoscere un avversario degno di
considerazione, sosteneva anche di non essere l'uomo fatto per proteggerlo.
Eppure non osteggiò il Gattopardo. Segnalò alla Mondadori di
tenerlo d'occhio, ma, come mi ha riferito Vittorio Sereni, sfortuna volle che
il burocrate di turno, invece di rispondeнre all'autore con una lettera
interlocutoria, restituisse il dattiloнscritto al mittente con le generiche
frasi d'uso. I 18 mesi intercorsi fra l'invio del dattiloscritto ad Elena Croce
e la sua pubblicazione nei "Contemporanei" della Feltrinelli non
sarebbero poi stati troppi se la morte non fosse stata più lesta. La
tragedia è affatto umana, non letteraria.
Quando
nel maggio del 1958 Giorgio Bassani venne a Palermo sulle orme del Gattopardo
il dattiloscritto era già stato composto, e cosi pure il capitolo del
ballo, trasmessogli in una copia dattiloscritta fatta redigere dalla
principessa vedova. Bassani aveva il sospetto di avere un testo incompiuto,
forse scorretto, e scopo precipuo della visita siciliana era quello di risalire
alle fonti. Gli affidai allora il manoscritto del С57. Egli se ne servi per ritoccare
qua e là le bozze delle sette parti già composte, e quale fonte
esclusiva per la parte V, le vacanze di padre Pirrone. La principessa non gli
aveva affidato questo intermezzo contadino, in quanto, basandosi su un
ripensamento verbale dell'autore, riteneva che dovesse essere espunto dal
romanzo. Effettivamente Giuseppe Tornasi non era interamente soddisfatto
dell'apologia di un aristocratico fatta da padre Pirrone all'erbuario
appisolato: essa introduceva, a suo avviso, una glossa al comportamento di don
Fabrizio invece di giustificarlo sempliceнmente nei fatti, un momentaneo
passaggio all' "esplicito", su cui l'autore era perplesso, in quanto
egli era il primo ad ammettere, secondo la propria estetica e la preferenza per
l'implicito, la debolezza del passo. Il Gattopardo dell'edizione Feltrinelli
è pertanto condotto sui dattiloscritti, ad eccezione delle vacanze di
padre Pirrone; controllato sul manoscritto del С57 per poche varianti;
integrato premettendo i sommari dell'indice analitico alle singole parti;
rivisto radicalmente dal curatore nella puntegнgiatura.
Sorge
a questo punto il problema di sapere che cosa i lettori del romanzo hanno letto
e quanto genuino esso sia. Ebbene, a conferma di quanto ho già scritto
su La Fiera Letteraria nel vivo della polemica sulla autenticità del
testo, posso dire che i lettori hanno avuto un testo autentico, rivisto con
competenza, privo di sostanziali alterazioni. Le divergenze fra il manoscritto
del С57 e l'edizione a stampa sono si migliaio, ma salvo una trentina,
irrilevanti, e salvo due casi, di limitata importanza. D'altra parte le
divergenze esistono, e giova qui fornire una guida alla loro interpretazione.
Le
centinaia di sostituzioni di Don Fabrizio a il Principe, la inversione
nell'ordine delle parole, si giustificano sul piano dell'eufonia. Varianti
anche più ampie, quali la soppressione od inserzione di un inciso,
appartengono sovente alla sovrastruttura narrativa senza pertanto alterare il
messaggio, la poetica o la poesia del testo. Ad esempio, la frase di
Màlvica: "un singolo sovrano può non essere all'altezza, ma
l'idea monarchica rimane lo stesso quella che è.", è
completata nel manoscritto da un: "essa è svincolata dalle
persone.", spiegazione ovvia di quanto già detto, introdotta
pleonasticamente per render più naturale, o forse, trattandosi di
Màlvica, più banale il discorso diretto. Non sempre poi queste
varianti sono, anche nei limiti di cui s'è detto, letterariamente
valide. "La peccatrice è lei!" impreca don Fabrizio nel
dattiloscritto, rivolto al portico della Catena; corretto in "La vera
peccatrice è lei!". Correzione che riduce l'incisività di
una scansione in anacrusi sul "lei", convalidata dall'ammicco ad una
costruzione dialettale corrente nell'invettiva di ritorsione ("u fissa si'
ttu!"), in una imprecazioнne meno spontanea e più letteraria. Forse
l'autore ebbe un momento timore del vernacolo e delle frasi fatte, fu
sopraffatto dall'odio per il color locale. Le stesse motivazioni adduco per la
sostituzione di "lo avevo detto" con "la colpa è
tua!" nella scenata notturna di Maria Stella. Quante volte abbiamo riso
assieme su questa frase ricorrente delle tante Cassandre che hanno
"allietato" le nostre famiglie; ed inoltre la sostituzione è
psicologicamente infelice: le nostre donne martiri non accusano direttamente il
maschio despota; non mettono in dubbio la legittimità
dell'autorità, si lagnano soltanto di non averla potuta guidare.
Sconfino
cosi nell'interpretazione psicologica delle varianti, e, in effetti, vista la
mia incapacità a trovare una reale differenza letteraria fra i due
testi, colgo nel loro raffronto l'occasione per un ultimo dialogo con
Lampedusa, per far rivivere l'uomo attraverso le varianti. Spesso la sola
grafia lo tradisce. Anche se la grafia maiuscola o minuscola dei titoli
personali non è rigorosamente unificata, e la presente edizione rispetta
le incongruenze del manoscritto, la preferenza per l'una o per l'altra forma
rispecchia, potrei dire se non altro affettivamente, le gerarchie sociali.
Abbiamo: Don Fabrizio, ma don Calogero e don Ciccio; a San Cono il Gesuita
è Padre Pirrone, ma altrove padre Pirrone, e cosi pure, minuscolo, in
bocca a Don Fabrizio nella chiusa delle vacanze. I commenti son superflui.
Altrove le varianti precisano l'ansia di realtà, di esporre un messaggio
vero, "magro," senza passioni diparte. Alcune correzioni ridimensioнnano
infatti numerali e superlativi. Le ceste di limoni occultate da Russo sono 150
anziché 300; i venti sacchetti portati in dote da Angelica contengono
1000 onze ciascuno anziché 10.000. Soprattutto il romanzo dev'essere
verosimile: il principe non ricorda più nelle prime righe del libro i
Misteri Gloriosi e Dolorosi, ma, correttamente, soltanto i secondi; Tancredi ha
vent'anni invece di ventuno (altrimenti che ci starebbe a fare un tutore);
Palermo è vicina e non vicinissima, quando il "coupé"
si avvia lungo la discesa che costeggia "La Favorita"; padre Pirrone
assolve con una formula invece che con una benedizione. Lampedusa non nomina il
nome di Dio invano, ed ancora una volta nel correggere si sovviene: "che
tutto finisce quaggiù." Scelgo a caso nella prima parte.
Anche la lingua dev'essere per quanto possibile scarna, corнrente,
essenziale: limare il testo alla ricerca dell'Тimplicito", del distacco
emotivo. Rettifica: ... continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi
momenti più sublimati in nei suoi momenti più astratti. Sublimato
appartiene al gorgo psicoanalitico, e Lampedusa ha in orrore l'appropriazione
giornalistica di una terminologia tecnica, inoltre questo romanzo costruito
sulle descrizioni deve convalidare la loro verità nell'esperienza
dell'auнtore. A questo erano serviti I luoghi della mia prima infanzia, mima di
affrontare le scorribande per Donnafugata ed il ballo dai Ponteleone. Le
rettifiche servono a definire ancor meglio le "cose," realtà
imperturbabili, statiche, che condizionano l'uomo all'immobilità. La
Sicilia, l'aristocrazia, i contadini, tè zitelle hanno ciascuno le
proprie "cose" e son definiti attraverso di esse. Gli uomini non si
differenziano dalle cose e come esse vanno alla deriva nel lento fiume
pragmatistico siciliano. Lampedusa è ancor più drastico di Verga.
Se in quest'ultimo la vittoria finale della "roba" è scontata,
purtuttavia i vinti hanno per un momenнto creduto di poterla possedere. Per
entrambi la "roba" e le "cose" son la totalità del
reale. Ma in Verga abbiamo l'inanità di una soluzione mercantile,
borghese; in Lampedusa l'annientaнmento dinastico dell'individuo, l'idolatria
del fidecommesso. Le "cose" di Lampedusa non possono esser
"maneggiate" meglio di come lo son sempre state, anzi saranno esse a
trasformare nel corso di tre generazioni efficienti cafoni in gentiluomini
indifesi, o a trascinare il "continentale," anche un sant'uomo come
il cardinale di Palermo, nella palude della disaffezione. Anche le due sole
essenziali discordanze fra dattiloscritto e manoscritto sono meticolose
descrizioni di oggetti. Soppressa la catalogazione, quasi una didascalia, dello
stanzino da bagno a Donnafugata (pag. 71 nota); sostanzialmente ampliata
l'elencaнzione dell'attrezzeria specifica nell'appartamento dei sadici (pag.
147). Nell'un caso ebbe forse ancora una volta timore che il quotidiano, la
cronaca di Santa Margherita, potesse invadere lo spazio narrativo; nell'altro
volle invece precisare quell'agognata perennità del fidecommesso, e si
servi della sua tecnica preferita, quella della contaminazione, sommando
ricordi amatissimi e letterari ad oggetti altrettanto amati e perduti: i
rotolini di corda di seta, le scatolucce, le bottigliate emergono con la patina
preziosa dei pezzi d'antiquariato, ed al tempo stesso ripercorrono l'emozione
del fanciullo a caccia di tesori nelle soffitte. È chiaro, ma ben poco
importante per il lettore, che Lampedusa non praticava l'invenzione pura, ma,
come ho detto, cercava negli scritti di cristallizzare la propria esperienza
umana. Tutto ciò è soltanto approssimativamente autobiografia.
Per esperienza s intende il particolare rapporto dell'individuo con la
realtà circostante, il significato che egli attribuisce al mondo
esterno, la sua presa di coscienza, piuttosto che la cronaca di com'egli vi
abbia vissuto dentro. Compito del narratore Lampedusa è di riferire
sulle cose più che su di se stesso, sua tecnica la contaminaнzione e
sovrapposizione di tempo e di luogo. Non vi è dubbio per me che ogni
oggetto del romanzo emerga da associazioni di ricordi strettamente personali,
che la loro qualità artistica dipenнda da come Lampedusa riesce a
giustificare il loro estremo patire in una necessità generale. Non che
io possa spiegarli tutti; ma mi basta a volte ricordare l'inflessione emotiva
della sua voce nel descrivere un oggetto per ritrovarlo poi nel romanzo. Ad
esempio, l'aggiunta del С57, le scatolucce di argento impudicaнmente ornate,
rinvenute nell'armadio dei sadici, giurerei che rammentano le scene mitologiche
scolpite sulle placche di una cornice di ambra, tanto impudiche, secondo le sue
parole, lascive e discrete ad un tempo; esemplari amati, ed un giorno
posseduti, di una cultura settecentesca dell'implicito, tanto riservata che
poteva burlarsi della insensibilità di un suo antenato, il quale se ne
era servito per incorniciarvi una madonna.
Direi anzi che la garanzia del risultato artistico
consiste nell'autenticità del ricordo originale. Quanto vi è di
"oleografiнco" nel romanzo, secondo la definizione più
negativa contenuta nella risposta personale di Vittorini, dipende proprio da
una ambientazione storica di seconda mano. La individuerei princiнpalmente in
certi discorsi in prima persona di Tancredi. Nel personaggio confluiscono
esperienze dirette, alcuni tratti del mio gestire-fisico e il legame affettivo
strettosi fra noi negli ultimi anni della sua vita, ma la traccia storica
è fornita da alcuni precisi riferimenti genealogici e topografici e da
una esauriente conoscenza della diaristica contemporanea; ed in particolare
l'esteriorità del comportamento di Tancredi, il suo modo brioso di far
la rivoluzione, si rinvengono nei tre mesi nella Vicaria di Palermo nel 1860 di
Francesco Brancaccio di Carpino. È questo uno fra i testi meno eroici,
della diaristica garibaldina. Brancaccio ed i suoi amici affrontano la
rivoluzione del '60 come i giovanotti di buona famiglia si sentono oggi
stuzzicati dalle motociclette da un litro: qualche avventura, poche battaglie, niente
disciplina; e, nel caso di Brancaccio, il libro è l'occasione per poter
nominare fra i suoi fraterni amici gran parte dei titolati dell'isola, che non
sono davvero pochi. Ma inevitabilmente la realtà di Brancaccio è
artefatta, quanto quella di Lampedusa è empirica. Frasi come
"Ritornerò col tricolore" sono del Tancredi secondo
Brancaccio, tanto che l'autore sente a più riprese il bisogno di
denunziarne l'enfasi, e la giustifica con l'opportuniнsmo. Tancredi e Angelica,
quando agiscono politicamente in prima persona, sono i soli personaggi
parzialmente costruiti fuori della cronaca e della memoria, ma in un tenace
pragmatista come Lampedusa l'esperienza è insostituibile. Lampedusa era
capace di sceneggiare perfettamente gli sciapi, ma veri, appunti di diario di
suo nonno, Giuseppe Tornasi (vi si ritrova la giornata incorniciata da rosari e
pratiche di devozione, la passione dei cavalli, e, diciamo pure, il grigiore
del primogenito Paolo), questi erano esperienza che poteva far vera, la
baldanza spadaccino di Brancaccio, no. Quando essa permea il comportamento di
Tancredi, la fa seguire da una didascalia. Agli orecchi di questo grande
realista il suono è cioccato ed occorre porvi rimedio. Soccorre a questo
proposito il raffronto proposto da Moravia fra il Gattopardo e Le confessioni
di un italiano, entrambi descrivono affettivamente una civiltà al
tramonto; ma Lampeduнsa fa suonare il campanello di allarme non appena la
volontà di descrivere è sostituita dalla volontà di
sembrare, mentre Nievo può abbandonarsi alla retorica della patria e
dell'amore per interi capitoli. Letterariamente Nievo è un grande
cittadino veneto e un cattivo italiano; Lampedusa stava all'erta di non esserlo
mai.
A
volte ancora Brancaccio fornisce una quinta ambientale, ad esempio La bella
Gigugì cantata in Brancaccio dai garibaldini alla presa di Milazzo torna
nel Gattopardo intonata dai galoppini continentali durante la campagna per il
plebiscito; ma le commoнzioni ottocentesche possono entrare nel Gattopardo
soltanto a patto di esser derise: la canzone descritta da Brancaccio come inno
di concordia nazionale è a Donnafugata un altro emblema
dell'inconciliabilità fra siciliani ed invasori. Ridotte a schemi le
emozioni positive permangono soltanto nelle strutture della forma romanzo, ed
interferiscono assai di rado con la descrizione minuziosa di quel regno
minerale, fatto di fossili animati ed inanimati, in cui Lampedusa identifica la
condizione siciliana. La scoperta di Bassani e il diniego di Vittorini non sono
bizze di letterati. Bassani è anche egli un notomista dei vinti; mentre
il rifiuto della trascendenza, anche a livello di ideologia, è
attivamente sgradevole a chi pensi di poter contribuire al progresнso del
mondo.
Ho accennato di sfuggita alla difficoltà di
accordare una preferenza al testo dattiloscritto o alla ricopiatura
manoscritta. Da un lato si può tendere a considerare le stesure
successive munite della clausola "annullans, irritans, omne aliud
testamentum" (mi permetto, a dispetto dell'autore, di farmi forte sul
melodramma, e per di più sul Gianni Schicchi), dall'altro l'opera di
Lampedusa mancherà sempre della rifinitura ultima, quella che soltanto
lui avrebbe potuto darle. Non che si possa parlare di fonti che hanno bisogno
di integrazioni. Esse sono entrambe assai prossime ad un testo definitivo,
entrambe leggibiнli, con un numero esiguo di sviste. Entro questi limiti
angusti non mi sentirei di affermare che il manoscritto sia preferibile al
dattiloscritto; lo è spesso, non sempre. Ciò premesso sarebbe
stato fuori luogo correggere il manoscritto anche limitandosi alle sole
consuetudini editoriali. Ho aggiunto soltanto la parola cane, a pag. 49, riga
37, saltata nella fretta della ricopiatura e integrato qualche parola rimasta
tronca. Per il resto ho rispettato integralнmente la grafia e la punteggiatura,
anche lì dove essa è tanto anomala da apparire scorretta.
Così a pag. 101 si troverà qualunqui (ma questo plurale è
confermato dal dattiloscritto ed è stato corretto da Bassani); qualche
d'uno invece di qualcheduno; sé stesso invece di se stesso; la grafia
all'italiana "frack" invece di frac. Cosi pure è stata
rispettata la punteggiatura dell'originale, più scarna di quella del
dattiloscritto, e già questa era stata estesamente rivista da Bassani.
Essa presenta alcune caratteristiнche tipiche ed in un certo senso moderne.
Lampedusa adopera il punto soltanto quando ha esaurito per intero un tema.
Altrimenti preferisce separare i periodi col punto e virgola. Il suo uso della
virgola è poi musicale piuttosto che grammaticale; la virgola indica la
ripresa di fiato, e non sempre coincide con l'inizio di una coordinata o
incidentale, anzi queste ultime sono sovente ignorate dalla punteggiatura. La
presente edizione appare quindi con quel minimo di incompiutezza in cui l'autore
ha lasciato l'opera sua. Da essa, come ho accennato, si posson trarre varie
considerazioni psicologiche sul procedere creativo. Rettificarla avrebbe
significato compromettere l'originalità della ricopiatura del 1957, la
quale si distingue dalla precedente edizione a stampa più per la
fragranza dell'appena incompiuto, che per sostanziali apporti alla
qualità e alla definizione dell'opera. Possa questa edizione restituire
al lettore l'uomo Lampedusa un pochino più vivo, ed un'opera letteraria
meno levigata, senza l'ultima patina editoriale, quella che Bassani le aveva
concesso.
Gioacchino Lanza Tomasi
Palermo,
settembre 1969