PARTE PRIMA

 

Maggio 1860

 

"Nunc et in bora mortis nostrae. Amen."

La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'oнra la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste avevano tesнsuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.

Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi l'alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un'Andromeda cui la tonaca di Padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedì per un bei po' di rivedere l'argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.

Nell'affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d'Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languiнda, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. Essi sapevaнno che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.

Al di sotto di quell'Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da più di un mese, dal giorno dei "moti" del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l'intimità collettiva del Salvatore. I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagiнne di S. Francesco di Paola; il primogenito, l'erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva: "Guiscardo," il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore? La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso.

Lui, il Principe, intanto si alzava: l'urto del suo peso da gigante faceva tremare l'impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l'orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. Adesso posava o smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva posato il ginocchio, e un po' di malumore intorbiнdò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto.

Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocнciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e "cercatori di comete" che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l'origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben più incomode per quell'aristocratico siciliano nell'anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell'habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano.

Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l'addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste all'astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l'illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli (come di fatto sembravano fare) e die i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati più una profezia che un'adulazione.

Sollecitato da una parte dall'orgoglio e dall'intellettualismo materno, dall'altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.

Quella mezz'ora fra il Rosario e la cena era uno dei momenti meno irritanti della giornata, ed egli ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.

Preceduto da un Bendicò eccitatissimo discese la breve scala che conduceva al giardino. Racchiuso com'era questo fra tre mura e un lato della villa, la reclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale accentuato dai monticciuoli paralleli delimitanti i canaletti d'irrigazione e che sembravano tumuli di smilzi giganti. Sul terreno rossiccio le piante crescevano in fitto disordine, i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano disposte per impedire più che per dirigere i passi. Nel fondo una flora chiazzata di lichene giallonero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari; ai lati due panche sostenevano cuscini ravvoltolati e trapunti, anch'essi di marmo grigio, e in un angolo l'oro di un albero di gaggia intrometteva la propria allegria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccaнto dalla pigrizia.

Ma il giardino, costretto e macerato fra le sue barriere, esalava profumi untuosi, carnali e lievemente putridi come i liquami aromatici distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello protocollare delle rose ed a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche u profumo della menta misto a quello infantile della gaggìa ed a quello confetturiero della mortella, e da oltre il muro l'agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle prime zàgare.

Era un giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa ma l'odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Le rose Paul Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi erano degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un denso aroma quasi turpe che nessun allevatore francese avrebнbe osato sperare. Il Principe se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell'Opera. Bendicò, cui venne offerta pure, si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte.

Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni d'idee. "Adesso qui c'è buon odore, ma un mese fa..."

Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del 5░ Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl'intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a nascondere il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde verdi del cappottone; sputando continuamente per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. tutto con preoccupante perizia. "Il fetore di queste carogne non cessa neppure quando sono morte," diceva. Era stato tutto quanto avesse commemorato quella morte derelitta. Quando i commilitoniа imbambolati lo ebbero poi portato via (e, sì, lo avevano trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo) un De Profundis per lТanima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale; e non se ne parlò più, la coscienza delle donne di casa essendosi dichiarata soddisfatta.

Don Fabrizio andò a grattar via un po' di lichene dai piedi della Flora e si mise a passeggiare su e giù. Il sole basso proiettava immane l'ombra sua sulle aiuole funeree. Del morto non si era parlato più, infatti; ed, alla fin dei conti, i soldati sono soldati appunto per morire in difesa del Re. L'immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale. Perché morire per qualche d'uno o per qualche cosa, va bene, è nell'ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.

"Ma è morto per il Re, caro Fabrizio, è chiaro" gli avrebbe risposto suo cognato Màlvica se Don Fabrizio lo avesse interroнgato, quel Màlvica scelto sempre come portavoce della folla degli amici. "Per il Re, che rappresenta l'ordine, la continuità, la decenza, il diritto, l'onore; per il Re che solo difende la Chiesa, che solo impedisce il disfacimento della proprietà, mèta ultima della 'setta'."

Parole bellissime queste, che indicavano tutto quanto era caro al Principe sino alle radici del cuore. Qualcosa però strideva ancora. Il Re, va bene. Lo conosceva bene il Re, almeno quello che era morto da poco; l'attuale non era che un seminarista vestito da generale. E davvero non valeva molto. "Ma questo non è ragionare, Fabrizio," ribatteva Màlvica "un singolo sovrano può non essere all'altezza, ma l'idea monarchica rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle persone." "Vero anche questo; ma i Re che incarnano un'idea non possono, non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no, caro cognato, anche l'idea patisce."

Seduto su un banco se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò operava nelle aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano. "Buono Bendicò, vieni qui." E la bestia accorreva, gli posava le froge terrose sulla mano, ansiosa di mostrargli che la balorda interruzione del bei lavoro compiuto gli veniva perdonata.

Le udienze, le molte udienze che Re Ferdinando gli aveva concesse, a Casetta, a Napoli, a Capodimonte, a Portici, a casa del diavolo...

A fianco del ciambellano di servizio che lo guidava chiacнchierando, con la feluca sotto il braccio e le più fresche volgarità napoletane sulle labbra, si percorrevano interminabili sale di architettura magnifica e di mobilio stomachevole (proнprio come la monarchia borbonica), ci s'infilava in anditi sudicetti e scalette mal tenute e si sbucava in un'anticamera dove parecchia gente aspettava: facce chiuse di sbirri, facce avide di questuanti raccomandati. Il ciambellano si scusava, faceva superare l'ostacolo della gentaglia, e lo pilotava verso un'altra anticamera, quella riservata alla gente di Corte: un ambientino azzurro e argento; e dopo una breve attesa un servo grattava alla porta e si era ammessi alla Presenza Augusta.

Lo studio privato era piccolo e artificiosamente semplice: sulle pareti imbiancate un ritratto del Re Francesco I e uno dell'attuale Regina, dall'aspetto inacidito; al di sopra del camiнnetto una Madonna di Andrea del Sarto sembrava stupita di trovarsi contornata da litografie colorate rappresentanti santi di terz'ordine e santuari napoletani; su di una mensola un Bambino Gesù in cera col lumino acceso davanti; e sulla immensa scrivania carte bianche, carte gialle, carte azzurre: tutta l'amministrazione del Regno giunta alla sua fase finale, quella della firma di Sua Maestà (D.G.).

Dietro questo sbarramento di scartoffie, il Re. Già in piedi per non essere costretto a mostrare che si alzava; il Re col faccione smorto fra le fedine biondiccie, con quella giubba militare di ruvido panno da sotto la quale scaturiva la cateratta violacea dei pantaloni cascanti. Faceva un passo avanti con w destra già inclinata per il baciamano che avrebbe poi rifiutaнto. 'Ne', Salina, beate quest'uocchie che tè vedono." L'accenнto napoletano sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano. "Prego la Vostra Real Maestà di voler scusarmi se non indosso la divisa di Corte; sono soltanto di passaggio a Napoli e non volevo tralasciare di venire a riverire la Vostra Persona." "Salina, tu vo' pazziare; lo sai che a Casetta sei come a casa tua. A casa tua, sicuro" ripeteva sedendo dietro la scrivania e indugiando un attimo a far sedere l'ospite.

"E le 'ppeccerelle che fanno?" Il Principe capiva che a questo punto occorreva piazzare l'equivoco salace e bigotto insieme. "Le peccerelle, Maestà? alla mia età e sotto il sacro vincolo del matrimonio?" La bocca del Re rideva mentre le mani riordinavano stizzosamente le carte. "Non mi sarei mai permesso, Salina. Io domandavo d'e 'ppeccerelle toie, d'e Principessine. Concetta, la cara figlioccia nostra, dev'essere granne ora, 'na signorina."

Dalla famiglia si passò alla scienza. "Tu, Salina, fai onore non solo a tè stesso, ma a tutto il Regno! Gran bella cosa la scienza quando non le passa p'a capa di attaccare la religione!" Dopo, però la maschera dell'amico veniva posta da patte e si assumeva quella del Sovrano Severo. "E dimmi, Salina, che si dice in Sicilia di Castelcicala?" Don Fabrizio si schermiva: ne aveva inteso dir corna tanto da patte regia come da patte liberale, ma non voleva tradire l'amico, si manteneva sulle generalità. "Gran signore, gloriosa ferita, forse un po' anziano per le fatiche della Luogotenenza." Il Re si rabbuiava: Salina non voleva far la spia, Salina quindi non valeva niente per lui. Appoggiate le mani alla scrivania, si preparava a dar congedo. "Aggio tanto lavoro; tutto il Regno riposa su queste spalle." Era tempo di dare lo zuccherino; la maschera amichevole rispuntò fuori dal cassetto: "Quanno ripassi da Napoli, Salina, vieni a far vedere Concetta alla Regina. Lo saccio è troppo giovane pe' esse presentata a Cotte, ma un pranzetto privato non ce l'impedisce nisciuno. Maccarrune e belle guaglione, come si dice. Salutarne, Salina, statte bbuono."

Una volta però il congedo era stato cattivo. Don Fabrizio aveva già fatto il secondo inchino a ritroso quando il Re lo richiamò: "Salina, starnine a sentere. Mi hanno detto che a Palermo hai cattive frequentazioni. Quel tuo nipote Falconeri... perché non gli rimetti la testa a posto?" "Maestà, ma Tancredi non si occupa che di donne e di carte." Il Re perse la pazienza. "Salina, Salina, tu pazzii. Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca si guardasse 'o cuollo. Salutame."

Ripercorrendo l'itinerario fastosamente mediocre per anнdare a firmare sul registro della Regina, lo scoramento l'invadeнva. La cordialità plebea lo aveva depresso quanto il ghigno poliziesco. Beati quei suoi amici che volevano interpretare la familiarità come amicizia, la minaccia come possanza regale. Lui non poteva. E mentre palleggiava pettegolezzi con l'impecнcabile ciambellano andava chiedendosi chi fosse destinato a succedere a questa monarchia che aveva i segni della morte sul volto. Il Piemontese, il cosidetto Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletaнno; e basta.

Si era giunti al registro. Firmava: Fabrizio Corbera, Principe di Salina.

Oppure la Repubblica di don Poppino Mazzini? "Grazie. Diventerei il signor Corbera."

E la lunga tappa del ritorno non lo calmò. Non poté consolarlo neppure l'appuntamento già preso con Cora Danòlo.

Stando cosi le cose, che restava da fare? Aggrapparsi a quel che c'è senza far salti nel buio? Allora occorrevano i colpi secchi delle scariche, cosi come erano rintronati poco tempo fa in una squallida piazza di Palermo; ma le scariche anch'esse a cosa servivano? "Non si conchiude niente con i 'pum! pum!' È vero, Bendicò?"

"Ding, ding, ding!" faceva invece la campana che annunziava la cena. Bendicò correva con l'acquolina in bocca per il pasto pregustato. "Un Piemontese tale e quale!" pensava Salina risalendo la scala.

La cena a villa Salina era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie. Il numero dei commensali (quattordici erano fra padroni di casa, figli, governanti e precettori) bastava da solo a conferire imponenza alla tavola. Ricoperta da una rattoppata tovaglia finissima, essa fendeva sotto la luce di una potente "carsella" precariamente appesa sotto la "ninfa," sotto il lampadario di Murano. Dalle finestre entrava ancora luce ma le figure bianche sul fondo scuro delle sovrappone, simulanti dei bassorilievi, si perdevano già nell'ombra. Massiccia l'argenteria e splendidi i bicchieri recanti sul medaglione liscio fra i bugnati di Boemia le cifre F.D. (Ferdinandus dedit) in ricordo di una munificenza regale, ma i piatti, ciascuno segnato da una sigla illustre, non erano che dei superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri e provenivano da servizi disparati. Quelli di formato più grande, Capodimonte vaghissimi con la larga bordura verde-mandorla segnata da ancorette dorate, erano riservati al Princiнpe cui piaceva avere intorno a sé ogni cosa in scala, eccetto la moglie. Quando entrò in sala da pranzo tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro I alle loro sedie. Davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell'enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante. Il Principe scodellava lui stesso la minestra, fatica grata simboнlo delle mansioni altrici del pater familias. Quella sera però, come non era avvenuto da tempo, si udì minaccioso il tinnire del mescolo contro la parete della zuppiera: segno di collera grande ancor contenuta, uno dei rumori più spaventevoli che esistessero; come diceva ancora quarant'anni dopo un figlio sopravvissuto: il Principe si era accorto che il sedicenne Francesco Paolo non era al proprio posto. Il ragazzo entrò subito ("scusatemi, papa") e sedette. Non subì rimprovero ma padre Pirrone che aveva più o meno le funzioni di cane da mandria, chinò il capo e si raccomandò a Dio. La bomba non era esplosa ma il vento del suo passaggio aveva raggelato la tavola e la cena era rovinata lo stesso. Mentre si mangiava in silenzio, gli occhi azzurri del Principe, un po' ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li ammutolivano di timore.

Invece! "Bella famiglia" pensava. Le femmine grassoccie, fiorenti di salute, con le loro fossette maliziose e, fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio, quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti maneggiavano le posate con sorvegliata violenza. Uno di essi mancava da due anni, quel Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso. Un bel giorno era scomparso da casa e di lui non si erano avute notizie per due mesi. Finché non giunse una rispettosa e fredda lettera da Londra nella quale si chiedeva scusa per le ansie causate, si rassicurava sulla propria salute e si affermava, stranamente, di preferire la modesta vita di commesso in una ditta di carboni anziché l'esistenza "troppo curata" (leggi: incatenata) fra gli agi palermitani. Il ricordo, l'ansietà per il giovinetto errante nella nebbia fumosa di quella città eretica, pizzicarono malvagiamente il cuore del Principe che soffrì molto. S'incupì ancora di più.

S'incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampacela che riposava sulla tovaglia. Gesto improvvido che scatenò una serie di sensazioni: irritazione per esser compianto, sensualità risvegliaнta ma non più diretta verso chi l'aveva ridestata. In un lampo al Principe appari l'immagine di Mariannina con la testa affondata nel guanciale. Alzò seccamente la voce: "Domeniнco" disse a un servitore "vai a dire a don Antonino di attaccare i bai al coupé; scendo a Palermo subito dopo cena." Guardando gli occhi della moglie che si erano fatti vitrei si pentì di quanto aveva ordinato, ma poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data, insistette, unendo anzi la beffa alla crudeltà: "Padre Pirrone, venga con me, saremo di ritorno alle undici; potrà passare due ore a Casa Professa con i suoi amici."

Andare a Palermo la sera, ed in quei tempi di disordini, appariva manifestamente senza scopo, se si eccettuasse quello di un'avventura galante di basso rango: il prendere poi come compagno l'ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza. Almeno padre Pirrone lo sentì cosi, e se ne offese; ma, naturalmente, cedette.

L'ultima nespola era stata appena ingoiata che già si udiva u rotolare della vettura sotto l'androne; mentre in sala un cameriere porgeva la tuba a don Fabrizio e il tricorno al Gesuita, la Principessa ormai con le lagrime agli occhi, fece un ultimo tentativo, quanto mai vano: "Ma, Fabrizio, di questi tempi... con le strade piene di soldati, piene di malandrini... può succedere un guaio." Lui ridacchiò. "Sciocchezze, Stella, sciocchezze; cosa vuoi che succeda; mi conoscono tutti: uomini alti una canna ce ne sono pochi a Palermo. Addio." E baciò frettolosamente la fronte ancor liscia che era al vello del suo mento. Però, sia che l'odore della pelle della Principessa avesse richiamato teneri ricordi, sia che dietro li lui il passo penitenziale di padre Pirrone avesse destato ammonimenti pii, quando giunse dinanzi al coupé si trovò di nuovo sul punto di disdire la gita. In quel momento, mentre priva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo "Fabrizio, Fabrizio mio!" giunse dalla finestra di opra, seguito da strida acutissime. La Principessa aveva una delle sue crisi isteriche. "Avanti!" disse al cocchiere, che se le stava a cassetta con la frusta in diagonale sul ventre. УAvanti, andiamo a Palermo a lasciare il Reverendo a Casa Professa." E sbatté lo sportello prima che il cameriere potesse chiuderlo.

 

Non era ancora notte chiusa e incassata fra le alte mura la strada si dilungava bianchissima. Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d'argento dei galloni delle livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell'orfano allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era divenuto varissimo all'irritabile Principe che scorgeva in lui un'allegria riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da imнprovvise crisi di serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a vent'anni Tancredi si dava bei tempo con i quattrini che il tutore non gli lesinava rimettendoci anche di tasca propria. "Quel ragazzaccio chissà cosa sta combinanнdo per ora" pensava il Principe mentre si rasentava villa Falconeri cui l'enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell'oscurità un aspetto abusivo di fasto.

"Chissà cosa sta combinando." Perché Re Ferdinando, quando aveva parlato delle cattive frequentazioni del giovanotнto, aveva fatto male a dirlo ma aveva avuto, nei fatti, ragione. Preso in una rete di amici giocatori, di amiche, come si diceva, "scondottate" che la sua esile attrattiva dominava, Tancredi era giunto al punto di aver simpatie per le "sette," relazioni col Comitato Nazionale segreto; forse prendeva anche dei quattrini da lì, come ne prendeva, d'altronde, dalla Cassetta Reale. E c'era voluto del bello e del buono, c'erano volute visite a Castelcicala scettico ed a Maniscalco troppo cortese per evitare al ragazzo un brutto guaio dopo il Quattro Aprile. Non era bello tutto ciò; d'altra parte Tancredi non poteva mai aver torto per lo zio, la colpa vera quindi era dei tempi, di questi tempi sconclusionati durante i quali un giovanotto di buona famiglia non era libero di fare una partita a "faraone" senza inciampare in amicizie compromettenti. Brutti tempi.

"Brutti tempi, Eccellenza." La voce di padre Pirrone risuonò come un'eco dei suoi pensieri. Compresso in un cantuccio del coupé, premuto dalla massa del Principe, piegato dalla prepotenza del Principe, il Gesuita soffriva nel corpo e nella coscienza e, uomo non mediocre qual'era, trasferiva subito le proprie pene effimere nel mondo durevole della storia. "Guardi, Eccellenza" e additava i monti scoscesi della Conca d'Oro ancor chiari in quell'ultimo crepuscolo. Ai loro fianchi e sulle cime ardevano diecine di fuochi, i falò che le "squadre" ribelli accendevano ogni notte, silenziosa minaccia alla città regia e conventuale. Sembravano quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi durante le estreme nottate.

"Vedo, Padre, vedo" e pensava che forse Tancredi era attorno a uno di quei fuochi malvagi ad attizzare con le mani aristocratiche la brace che ardeva appunto per svalutare le mani di quella sorta. "Veramente son un bel tutore, col pupillo che fa qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa."

La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi; di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso associati in gruppi di due o di tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di Gesuiti, di Benedettini, di Francescani, di Cappuccini, di carmelitani, di Liguorini, di Agostiniani... Smunte cupole alle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più in alto, ma erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro e insieme senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere. A quell'ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che n realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com'è l'uso, di ozio.

Questo pensava il Principe, mentre i bai procedevano al )asso nella discesa; pensieri in contrasto con la sua essenza 'era, partoriti dall'ansia sulla sorte di Tancredi e dallo stimolo sensuale che lo induceva a rivoltarsi contro le costrizioni che conventi incarnavano.

Adesso infatti la strada attraversava gli aranceti in fiore e 'aroma nuziale delle zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio: l'odore dei cavalli sudati, 'odore di cuoio delle imbottiture, l'odor di Principe e l'odor li Gesuita, tutto era cancellato da quel profumo islamico che evocava urì e carnali oltretomba.

Padre Pirrone ne fu commosso anche lui. "Che bei paese sarebbe questo, Eccellenza, se..." "Se non vi fossero tanti Gesuiti" pensò il Principe che dalla voce del prete aveva avuto interrotti presagi dolcissimi. E subito si pentì della villanìa non consumata e con la grossa mano batté sul tricorno del vecchio amico.

All'ingresso dei sobborghi della città, a villa Airoldi, una pattuglia fermò la vettura. Voci pugliesi, voci napoletane intimarono l'"alt," smisurate baionette balenarono sotto l'oнscillante luce di una lanterna; ma un sottufficiale riconobbe presto don Fabrizio che se ne stava con la tuba sulle ginocchia. "Scusate, Eccellenza, passate." E anzi fece salire a cassetta un soldato perché non venisse disturbato dagli altri posti di blocco. Il coupé appesantito andò più lento, contornò villa Ranchibile, oltrepassò Terrerosse e gli orti di Villafranca, entro in città per Porta Maqueda. Al caffè Romeres ai Quattro Canti di Campagna gli ufficiali dei reparti di guardia scherzavano e sorbivano granite enormi. Ma fu il solo segno di vita della città: le strade erano deserte, risonanti solo del passo cadenzato delle ronde che andavano passando con le bandoliere bianche incrociate sul petto. Ai lati il basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i Teatini, pachidermici, neri come la pece, immersi in un sonno che rassomigliava al nulla.

"Fra due ore ripasserò a prendervi, Padre. Buone orazioni." Ed il povero Pirrone bussò confuso alla porta del convento, mentre il coupé si allontanava per i vicoli.

Lasciata la vettura al palazzo il Principe si diresse a piedi là dove era deciso ad andare. La strada era breve, ma il quartiere malfamato. Soldati in completo equipaggiamento, cosicché si capiva subito che si erano allontanati furtivamente dai reparti bivaccanti nelle piazze, uscivano con gli occhi smerigliati dalle casette basse sui cui gracili balconi una pianta di basilico spiegava la facilità con la quale erano entrati. Giovinastri sinistri dai larghi calzoni litigavano nelle tonalità basse dei siciliani arrabbiati. Da lontano giungeva il rumore di schioppettate sruggite a sentinelle nervose. Superata questa contrada la strada costeggiò la Cala: nel vecchio porto pescheнreccio le barche semiputride dondolavano, con l'aspetto desoнlato dei cani rognosi.

"Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanнzi alla legge divina e dinanzi all'affetto umano di Stella. Non vi e dubbio e domani mi confesserò a padre Pirrone." Sorrise dentro di sé pensando che forse sarebbe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita dei suoi trascorsi di oggi; poi lo spirito di arzigogolio riprese il sopravvento: "Pecco, è vero, "m pecco per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per non esser trascinato in guai maggiori. Questo il Signore lo sa." Fu sopraffatto da un intenerimento verso sé stesso: mentalmente, piagnucolava. "Sono un pover'uomo debole," pensava mentre il passo poderoso comprimeva l'acciottolato sudicio "sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent'anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche." Il senso di debolezza gli era passato. "Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: 'Gesummaria!'. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?" Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. "È giusto? Lo chiedo a voi tutti!" E si rivolgeva al portico della Catena. "La vera peccatrice è lei!"

La rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina.

Due ore dopo era già in coupé sulla via del ritorno insieme con padre Pirrone. Questi era emozionato: i suoi confratelli lo avevano messo a giorno della situazione politica che era molto più tesa di quanto non apparisse nella calma distaccata di villa Salina. Si temeva uno sbarco dei Piemontesi nel sud dell'isola, dalle parti di Sciacca; e le autorità avevano notato nel popolo un muto fermento: la teppa cittadina aspettava il primo segno di affievolimento del potere, voleva buttarsi al saccheggio e allo stupro. I Padri erano allarmati e tre di essi, i più vecchi, erano stati fatti partire per Napoli, col "pacchetto" del pomeriggio, recando con sé le carte della i Casa. "Il Signore ci protegga e risparmi questo Regno santissimo."

Don Fabrizio lo ascoltava appena, immerso com'era in una serenità sazia maculata di ripugnanza. Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole. Una specie di Bendicò in sottanino di seta. In un istante di particolare deliquescenza le era anche occorso di esclamare: "Principone!" Lui ne sorrideva ancora, soddisfatto. Meglio questo, certo, che i "mon chat" od i "mon singe blond" che rivelavano i momenti omologhi di Sarah, la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre anni fa quando per il Congresso d'Astronomia gli avevano consegnato in Sorbona una medaglia d'argento. Meglio di "mon singe blond" senza dubbio; molto meglio poi di "Gesummaria"; niente sacrilegio, almeno. Era una buona figliuola Mariannina: le avrebbe portato tre canne di seta ponzò, la prossima volta.

Ma che tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro. Gli ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di Parigi sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina pari, e riudiva i versi che stavano li a conchiudere una poesia strampalata:

Seigneur, donnez-moi la force et le courage

de regarder mon coeur et mon corps sans dégout!

E mentre padre Pirrone continuava a occuparsi di un certo La Farina e di un certo Crispi, il "Principone" si addormentò, in una sorta di disperata euforia, cullato dal trotto dei bai sulle cui natiche grasse i lampioncini della vettura facevano oscillare la luce. Si risvegliò alla svolta dinanzi alla villa Falconeri. "Quello lì pure, che alimenta i tizzoni che lo divoreranno!"

Quando si trovò nella camera matrimoniale, il vedere la povera Stella con i capelli ben ravviati sotto la cuffietta, dormire sospirando nel grandissimo, altissimo letto di rame, lo commosse e intenerì. "Sette figli mi ha dato, ed è stata mia soltanto." Un odore di valeriana vagava per la camera, ultima vestigio della crisi isterica. "Povera Stelluccia mia" si rammaricava scalando il letto. Le ore passarono e non poteva dormire: "lo, con la mano possente mescolava nei suoi pensieri tre лlochi: quello delle carezze di Mariannina, quello dei versi All'ignoto, quello iracondo dei roghi sui monti.

Verso l'alba però, la Principessa ebbe occasione di farsi il segno della croce.

 

La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con un'espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. "Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?" "Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo." Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l'asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. "E chi erano queste conoscenze, si può sapere?" "Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!" Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l'animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. "Ma perché sei vestito così? Cosa c'è? Un ballo in maschera di mattina?" Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. "Parto, zione, parto fra mezz'ora. Sono venuto a salutarti." Il povero Salina si senti stringere il cuore. "Un duello?" "Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restasнsi." Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. "Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente!, Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev'essere con noi, per il Re." Gli occhi ripresero a sorridere. "Per il Re, certo, ma per quale Re?" Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. "Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?" Abbracciò lo zio un po' commosso. "Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore." La retorica degli amici aveva stinto un po' anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l'enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di "Guiscardo!" Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l'asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. "Tancredi, Tancredi, aspetta," corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di "onze" d'oro, gli premette la spalla. Quello rideva: "Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia." E si precipitò giù per le scale.

Venne richiamato Bendicò che inseguiva l'amico riemнpiendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare il Principe. "Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, cosi brutta in confronto alla nostra bandiera candida con l'oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro sperare quest'accozzaglia di colori stridenti?" Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino. "Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?" Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto. Le chiavi, lТorologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c'era da dire era ancora un bellТuomo. "'Rudere libertino!' Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come è luiФ.а

II passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa era serena, luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì. "Se vogliamo che tutto rimanga com'è..." Tancredi era un grand'uomo: lo aveva sempre pensato.

Le stanze dell'Amministrazione erano ancora deserte silenнziosamente illuminate dal sole attraverso le persiane chiuse. Benché fosse quello il posto della villa nel quale si compivano le maggiori frivolità, il suo aspetto era di austerità severa. Dalle pareti a calce si riflettevano sul pavimento tirato a cera gli enormi quadri rappresentanti i feudi di casa Salina: spiccanti a colori vivaci dentro le cornici nere e oro si vedeva Salina, l'isola dalle montagne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di spuma, sul quale galere pavesate caracollavano; Querнceta con le sue case basse attorno alla Chiesa Madre verso la quale procedevano gruppi di pellegrini azzurrognoli; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo nella smisuratezza della pianura frumentaria cosparsa di contadini operosi; Donnafugata con il suo palazzo barocco, meta di cocchi scarlatti, di cocchi verdini, di cocchi dorati, carichi a quanto sembrava di femmine di bottiglie e di violini; molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo terso e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. Ognuno festoso, ognuno desideroso di esaltare l'illuminato imperio tanto "miнsto" che "mero" di casa Salina. Ingenui capolavori di arte rustica del secolo scorso; inatti però a delimitare confini, precisare aree, redditi; cose che infatti rimanevano ignote. La ricchezza, nei molti secoli di esistenza si era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri; soltanto in questo; l'abolizione dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi, la ricchezza come un vino vecchio aveva lasciato cadere in fondo alla botte le fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare soltanto l'ardore e il colore. Ed a questo modo finiva con l'annullare sé stessa: questa ricchezza che aveva realizzato il proprio fine era composta solo di oli essenziali e come gli oli essenziali evaporava in fretta. Di già alcuni di quei feudi tanto festosi nei quadri avevano preso il volo e permanevano soltanto nelle tele varioнpinte e nei nomi. Altri sembravano quelle rondini settembrine ancor presenti ma di già radunate stridenti sugli alberi, pronte a partire. Ma ve ne erano tanti; sembrava non potessero mai finire.

Malgrado quest'ultima considerazione, la sensazione proнvata dal Principe entrando nel proprio studio fu, come sempre, sgradevole. Nel centro della stanza torreggiava una scrivania con decine di cassetti, nicchie, incavi, ripostigli e piani incliнnati. La sua mole di legno giallo e nero era scavata e truccata come un palcoscenico, piena di trappole, di piani scorrevoli, di accorgimenti di segretezza che nessuno sapeva più far funzionare all'infuori dei ladri. Era coperta di carte e benché la previdenza del Principe avesse avuto cura che buona parte di esse si riferisse alle atarassiche regioni dominate dall'astronoнmia, quel che avanzava era sufficiente a riempire di disagio il cuore suo. Gli tornò in mente ad un tratto la scrivania di Re Ferdinando a Caserta, anch'essa ingombra di pratiche e di decisioni da prendere con le quali ci si potesse illudere d'influire sul torrente delle sorti che invece irrompeva per conto suo, in un'altra vallata.

Don Fabrizio pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti d'America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più crudeli, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato questo rozzo surrogato chimico dello stoicismo pagano, della rassegnazione cristiana. Per il povero Re l'amministrazione fantomatica teneva luogo di morfina; lui, Salina, ne aveva una di più eletta composizione: lТastronomia. Cacciando le immagini di Ragattisi perduto e di Argivocale pencolante si tuffò nella lettura del più recente numero del Journal des savants. "Les dernières observations de lТObservatoire de Greenwich présentent un intéret tout particulierЕФ

Dovette però esiliarsi presto da quei sereni regni stellari. Entrò don Ciccio Ferrara, il contabile. Era un ometto asciutto che nascondeva l'anima illusa e rapace di un liberale dietro occhiali rassicuranti e cravattini immacolati. Quella mattina era più arzillo del consueto: appariva chiaro che quelle stesse letizie che avevano depresso padre Pirrone avevano agito su di lui come un cordiale. "Tristi tempi, Eccellenza" disse dopo gli ossequi rituali "stanno per succedere grossi guai, ma dopo un po' di trambusto e di sparatorie tutto andrà per il meglio,а nuovi tempi gloriosi verranno per la nostra Sicilia; non Fosse che tanti figli di mamma ci rimetteranno la pelle, non potremmo che essere contenti." Il Principe borbottava senza esprimere un'opinione. "Don Ciccio" disse poi "bisogna metнtere dell'ordine nella esazione dei canoni di Querceta; sono due anni che da lì non si vede un quattrino." "La contabilità è a posto, Eccellenza." Era la frase magica. "Occorre soltanto scrivere a don Angelo Mazza di eseguire le procedure; sottoнporrò oggi stesso la lettera alla vostra firma" e se ne andò a rimestare fra gli enormi registri nei quali, con due anni di ritardo, erano minutamente calligrafati tutti i conti di casa Salina, meno quelli davvero importanti.

Rimasto solo don Fabrizio ritardò il proprio tuffo nelle nebulose. Era irritato non già contro gli avvenimenti che si preparavano ma contro la stupidaggine di Ferrara nel quale aveva ad un tratto identificato una delle classi che sarebbero divenute dirigenti. "Quel che dice il buon uomo è proprio l'opposto della verità. Compiange i molti figli di mamma che creperanno e questi saranno invece molto pochi, se conosco il carattere dei due avversari; proprio non uno di più di quanto sarà necessario alla compilazione di un bollettino di vittoria a Napoli o a Torino, che è poi la stessa cosa. Crede invece ai 'tempi gloriosi per la nostra Sicilia' come si esprime lui; il che ci è stato promesso in occasione di ognuno dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e che non è mai successo. E, del resto, perché avrebbe dovuto succedere? E allora che cosa avverrà? Trattative punteggiate da schioppettate quasi innocue e, dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato." Gli erano tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo. Si rassicurò e tralasciò di sfogliare la rivista. Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria.

Poco dopo venne Russo il soprastante, l'uomo che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non senza eleganza nella лbunaca╗ di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequioso del resto e quasi sinceramente devoto poiché compiva le proprie ruberie convinto di esercitare un diritto. "Immagino quanto Vostra Eccellenza sarà seccato per la partenza del signorino Tancredi; ma la sua assenza non durerà molto, ne sono sicuro, e tutto andrà a finire bene." Ancora una volta il Principe si trovò di fronte a uno degli enigmi siciliani. In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono d'ignoнrare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede li sul colle a dieci minuti di strada, in quest'isola, malgrado l'ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito.

Fece cenno a Russo di sedere, lo guardò fisso negli occhi: "Pietro, parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei immischiato in queste faccende?" Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba da giovanotti come il signorino Tancredi. "Si figuri se nasconderei qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre." (Intanto, tre mesi fa, aveva nascosto nel suo magazzino centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva.) "Ma debbo dire che il mio cuore è con loro, con i ragazzi arditi." Si alzò per lasciare entrare Bendicò che faceva tremare la porta sotto il suo impeto amichevole. Si risiedé. "Vostra Eccellenza lo sa; non se ne può più: perquisizioni, interrogatoнri, scartoffie per ogni cosa, uno sbirro a ogni cantone; un galantuomo non è libero di badare ai fatti propri. Dopo, invece, avremo la libertà, la sicurezza, tasse più leggere, la facilità, il commercio. Tutti staremo meglio: i preti soli ci perderanno. Il Signore protegge i poveretti come me, non loro." Don Fabrizio sorrideva: sapeva che era proprio lui, Russo, che attraverso interposta persona desiderava comprare Argivocale. 'Ci saranno giorni di schioppettate e di trambusti, ma villa salina sarà sicura come una rocca; Vostra Eccellenza è il nostro padre, ed io ho tanti amici qui. I Piemontesi entreranno solo col cappello in mano per riverire le Eccellenze Vostre. E poi lo zio e il tutore di don Tancredi!" Il Principe si sentì umiliato: adesso si vedeva disceso al rango di protetto degli amici di Russo; il suo solo merito, a quanto sembrava, era di esser zio di quel moccioso di Tancredi. "Fra una settimana andrà a finire che avrò la vita salva perché tengo in casa Bendicò." Stropicciava un orecchio del cane fra le dita con tanta forza che la povera bestia guaiolava, onorata, senza dubbio, ma sofferente.

Poco dopo alcune parole di Russo gli diedero sollievo. "Tutto sarà meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima." Questa gente, questi liberalucoli di campagna volevano soltanto avere il modo di approfittare più facilmente. Punto e basta. Le rondini avrebbero preso il volo più presto, ecco tutto. Del resto, ce n'erano ancora tante nel nido.

"Forse hai ragione tu. Chi lo sa?" Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelarne di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebнbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. Questo era il paese degli accoнmodamenti, non c'era la furia francese; anche in Francia d'altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne: "Ho capito benissiнmo: voi non volete distruggere noi, i vostri 'padri'; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducaнti. È così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sinceramente di essere barone; e tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela. Tua figlia già prima avrà sposato uno di noi, magari anche questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue mani dinoccolate. Del resto è bella, e una volta che avrà imparato a lavarsi... 'Perché tutto resti com'è.' Come è, nel fondo: soltanto una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate di gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno restare nel cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo, ma i Salina rimarranno i Salina; e magari qualche compenso lo avranno: il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio. Ciondoli questi, ciondoli quelli."

Si alzò: "Pietro, parla con i tuoi amici. Qui ci sono tante ragazze, bisogna che non si spaventino." "Ero sicuro, Eccellenza; ho di già parlato: villa Salina sarà tranquilla come una badia." E sorrise affettuosamente ironico.

Don Fabrizio uscì seguito da Bendicò; voleva salire a trovare padre Pirrone ma lo sguardo implorante del cane lo costrinse invece ad andare in giardino: Bendicò infatti conservava esaltati ricordi del bei lavoro della sera prima e voleva compirlo a regola d'arte. Il giardino era ancor più odoroso di ieri, e sotto il sole mattutino l'oro della gaggia stonava meno. "Ma i Sovrani, i Sovrani nostri? E la legittimità dove va a finire?" Il pensiero lo turbò un momento, non si poteva eludere; per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori, fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri Re. Ma le forze di difesa della calma interiore, tanto vigilanti nel Principe, accorrevano già in aiuto, con la moschetteria del giure, con l'artiglieria della storia. "E la Francia? Non è forse illegittimo Napoleone III? E non vivono forse felici i Francesi sotto questo Imperatore illuminato che li condurrà certo ai più alti destini? Del resto intendiamoci bene. Carlo III lui era forse perfettamente a posto? Anche la battaglia di Bitonto fu una specie di quella battaglia di Corleone, o di Bisacquino o di che so io nella quale i Piemontesi prenderanno a scoppole i nostri; una di quelle battaglie combattute affinché tutto rimanga come è. Del resto neppure Giove era il legittimo Re dell'Olimpo."

Era ovvio che il colpo di stato di Giove contro Saturno dovesse richiamare le stelle alla sua memoria.

Lasciò Bendicò affannato dal proprio dinamismo, risali la scala, traversò i saloni nei quali le figlie parlavano delle amiche del Salvatore (al suo passaggio la seta delle loro sottane frusciò mentre esse si alzavano), salì una lunga scaletta e sboccò nella grande luce azzurra dell'Osservatorio. Padre Pirrone, con aspetto sereno del sacerdote che ha detto la messa e preso caffè forte con i biscotti di Monreale, sedeva ingolfato nelle formule algebriche. I due telescopi e i tre cannocchiali, accecati dal sole, stavano accucciati buoni buoni, col tappo ero sull'oculare, bestie bene avvezze che sapevano come il loro pasto venisse dato solo la sera.

La vista del Principe sottrasse il Padre ai suoi calcoli e gli [portò alla mente la brutta figura della sera prima. Si alzò, salutò ossequioso ma non poté fare a meno di dire: "Vostra eccellenza viene a confessarsi?" Don Fabrizio, cui il sonno e conversazioni della mattinata avevano fatto dimenticare episodio notturno, si stupì. "Confessarmi? Ma non è Sabato, oggi." Dopo ricordò e sorrise: "Veramente, Padre, non ce ne sarebbe neppur bisogno. Sapete già tutto." Questo insistere nell'imposta complicità irritò il Gesuita. "Eccellenza, l'efficacia della Confessione non consiste solo nel raccontare le colpe ma nel pentirsi di quanto si è commesso di male; e finché non o farete e non lo avrete dimostrato a me resterete in peccato mortale, che io conosca le vostre azioni, o no." Meticoloso soffiò via un peluzzo dalla propria manica e si rituffò nelle astrazioni.

La quiete che le scoperte politiche della mattinata avevano instaurata nell'anima del Principe era tale che egli non fece se non sorridere di ciò che in altro momento gli sarebbe sembrato insolenza. Aprì una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito lei forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibili, piene di agguati, sembravano ammassi di vapore sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata intorno ai Conventi come un gregge ai piedi dei pastori. Nella rada le navi straniere all'ancoнra, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma stupefatta. Il sole, che tuttavia era ben lontano in quel mattino del 15 Maggio dalla massima sua foga, si rivelava come l'autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell'arbitrarietà dei sogni.

"Ce ne vorranno di Vittori Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci viene versata!"

Padre Pirrone si era alzato, aveva raggiustato la propria cintura, e si era diretto verso il Principe con la mano tesa: "Eccellenza, sono stato troppo brusco; conservatemi la vostra benevolenza ma, date retta a me, confessatevi."

Il ghiaccio era rotto e il Principe poté informare padre Pirrone delle proprie intuizioni politiche. Il Gesuita però fu ben lontano dal condividere il sollievo di lui, anzi ridiventò pungente. "In poche parole voi signori vi mettete d'accordo coi liberali, che dico con i liberali! con i massoni addirittura, a nostre spese, a spese della Chiesa. Perché è chiaro che i nostri beni, quei beni che sono il patrimonio dei poveri, saranno arraffati e malamente divisi fra i caporioni più impudenti; e chi, dopo, sfamerà le moltitudini d'infelici che ancora oggi la Chiesa sostenta e guida?" Il Principe taceva. "Come si farà allora per placare quelle turbe disperate? Ve lo dirò subito, Eccellenza. Si getterà loro in pasto prima una pane, poi una seconda ed alla fine la totalità delle vostre terre. E cosi Dio avrà compiuto la Sua Giustizia, sia pure per tramite dei massoni. Il Signore guariva i ciechi del corpo; ma i ciechi di spirito dove finiranno?"

L'infelice Padre aveva il fiato grosso: un sincero dolore per il previsto sperpero del patrimonio della Chiesa si univa in lui al rimorso per essersi di nuovo lasciato trascinare, al timore di offendere il Principe cui voleva bene e del quale aveva sperimentato la collera rumorosa ma anche l'indifferente bontà. Sedeva quindi guardingo e sogguardava Don Fabrizio che con uno spazzolino ripuliva i congegni di un cannocchiale e sembrava assorto nella meticolosa sua attività; dopo un po' si alzò, si pulì a lungo le mani con uno straccetto: il volto era privo di qualsiasi espressione, i suoi occhi chiari sembravano intenti soltanto a rintracciare qualche macchiolina di grasso rifugiatasi alla radice delle unghia. Giù, intorno alla villa il silenzio luminoso era profondo, signorile all'estremo; sottoliнneato più che disturbato da un lontanissimo abbaiare di Bendicò che insolentiva il cane del giardiniere in fondo all'agrumeto, e dal battere ritmico, sordo del coltellaccio di un cuoco che sul tagliere laggiù in cucina triturava della carne per il pranzo non lontano. Il gran sole aveva assorbito la turbolenza degli uomini quanto l'asprezza della terra. Don Fabrizio poi si avvicinò al tavolo del Padre, sedette e si mise a disegnare puntuti gigli borbonici con la matita ben tagliata che il Gesuita nella sua collera aveva abbandonata. Aveva l'aria seria ma tanto serena che in padre Pirrone svanirono subito i crucci.

"Non siamo ciechi, caro Padre, siamo soltanto uomini. Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare. Alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l'immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no. Per noi un palliativo che promette di durare cento anni equivale all'eternità. Potremo magari preoccuparci per i nostri figli, forse per i nipotini; ma al di là di quanto possiamo sperare di accarezzare con queste mani non abbiamo obblighi; ed io non posso preoccuparmi di ciò che saranno i miei eventuali discendenti nell'anno 1960. La Chiesa sì, se ne deve curare, perché è destinata a non morire. Nella sua disperazione è implicito il conforto. E credete voi che se potesse adesso o se potrà in futuro salvare sé stessa con il nostro sacrificio non lo farebbe? Certo che lo farebbe, e farebbe bene."

Padre Pirrone era talmente contento di non avere offeso il Principe che non si offese neppure lui. Quella espressione "disperazione" in relazione alla Chiesa era inammissibile, ma la lunga abitudine del confessionale lo rendeva capace di apprezzare l'umore disilluso di Don Fabrizio. Non bisognava però lasciar trionfare l'interlocutore. "Avrete due peccati da confessarmi Sabato, Eccellenza: uno della carne di ieri, uno dello spirito, di oggi. Ricordatevene."

Ambedue placati, discussero di una relazione che occorreнva inviare presto a un osservatorio estero, quello di Arcetri. Sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili in quelle ore ma presenti gli astri rigavano l'etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi come Stella credeva: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli. "Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All'altezza di quest'osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell'altro si fondono in una tranquilla armonia. Il problema vero, l'unico, è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte."

Così ragionava il Principe, dimenticando le proprie ubbie di sempre, i propri capricci carnali di ieri. E per quei momenti di astrazione egli venne, forse, più intimamente assolto, cioè ricollegato con l'universo, di quanto avrebbe potuto fare la formula di Padre Pirrone. Per mezz'ora quella mattina gli dei del soffitto e le bertucce del parato furono di nuovo posti al silenzio. Ma nel salone non se ne accorse nessuno.

Quando la campanella del pranzo li richiamò giù, tutti e due erano rasserenati, tanto dalla comprensione delle congiunнture politiche come dal superamento di questa comprensione stessa e un'atmosfera di distensione inconsueta si diffuse nella villa. Il pasto di mezzogiorno era quello principale e andò, grazie a Dio, del tutto liscio. Figurarsi che a Carolina, la figlia ventenne, accadde che uno dei boccoli che le incorniciavano il volto, sorretto da una forcina a quanto pare malsicura, scivolasse e andasse a finire sul piatto. L'incidente che un altro giorno avrebbe potuto essere increscioso questa volta aumentò soltanto l'allegria; quando il fratello che era seduto vicino alla ragazza prese il ricciolo e se lo appuntò al collo, sicché pendeva li come uno scapolare, perfino Don Fabrizio acconsenti a sorridere. La partenza, la destinazione, gli scopi di Tancredi erano ormai noti a tutti e ognuno ne parlava tranne Paolo che mangiava in silenzio. Nessuno del resto era preoccupato, meno il Principe che nascondeva l'ansia non grave nella profondità del cuore, e Concetta che era la sola a conservare un'ombra sulla bella fronte. "La ragazza deve avere un sentimentuccio per quel briccone. Sarebbe una bella coppia, ma temo che Tancredi debba mirare più in alto, intendo dire più in basso." Oggi, poiché il rasserenamento politico aveva fugato le nebbie che in generale la oscuravano, la fondaнmentale bonomia di Don Fabrizio riappariva alla superficie. Per rassicurare la figlia si mise a spiegare la scarsa efficacia dei fucili dell'esercito regio: parlò della mancanza di rigatura delle canne di quegli enormi schioppi e di quanta scarsa forza di penetrazione fossero dotati i proiettili che da essi uscivano; spiegazioni tecniche in mala fede per giunta, che pochi capiroнno e dalle quali nessuno fu convinto ma che consolarono tutti perché erano riuscite a trasformare la guerra in un pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è.

Alla fine del pranzo venne servita la gelatina al rhum. Questo era il dolce preferito di don Fabrizio e la Principessa, riconoscente delle consolazioni ricevute, aveva avuto cura di ordinarlo la mattina di buon'ora. Si presentava minacciosa, i. con quella sua forma di torrione appoggiato su bastioni e scarpate, dalle pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde di ciliegie e diа pistacchi; era però trasparente e tremolante ed il cucchiaioа vi si affondava con stupefacente agio. Quando la roccaforte ambrata giunse a Francesco Paolo, il ragazzo sedicenne ultimo i servito essa non consisteva più che di spalti cannoneggiati e di blocchi divelti. Esilarato dall'aroma del liquore e dal gusto delicato della guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allo smantellamento della fosca rocca sotto l'assalto degli appetiti. Uno dei suoi bicchieri era rimasto a metà pieno di Marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo più a lungo sugli occhi azzurri di Concetta e "alla salute del nostro caro Tancredi" disse. Bevve il vino in un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più.

In Amministrazione dove Don Fabrizio discese di nuovo dopo il pranzo la luce entrava adesso di traverso e dai quadri dei feudi, ora in ombra, non ebbe a subire rimproveri. "Voscenza benedica" mormorarono Pastorello e Lo Nigro i due affittuari che avevano portato i "carnaggi," quella parte del canone che si pagava in natura. Se ne stavano ben ritti, con gli occhi stupiti nei volti perfettamente rasati e stracotti dal sole. Diffondevano odor di mandria. Il Principe parlò loro con cordialità, nel suo dialetto stilizzatissimo, s'informò delle loro famiglie, dello stato del bestiame, delle previsioni per il raccolнto. Poi chiese: "Avete portato qualche cosa?" e mentre i due dicevano che si, che la roba era nella stanza vicina, il Principe si vergognò un poco perché si era accorto che il colloquio era stato una ripetizione delle udienze di Re Ferdinando. "Aspettate cinque minuti e Ferrara vi darà le ricevute." Pose loro in mano un paio di ducati ciascuno, il che era più forse del valore di ciò che avevano portato. "Bevete un bicchiere alla nostra salute." E andò a guardare i "carnaggi": vi erano per terra quattro caci "primosale" di dodici rotoli, dieci chili ciascuno; li osservò con indifferenza: detestava questo formaggio; vi erano sei agnellini, gli ultimi dell'annata, con le teste pateticamente abbandonate al disopra della larga piaga dalla quale la loro vita era uscita poche ore prima; anche i loro ventri erano stati squartati e gli intestini iridati pendevano fuori. "Il Signore abbia l'anima sua" pensò, ricordando lo sbudellato di un mese fa. Quattro paia di galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso inquirente di Bendicò. "Anche questo un esempio d'inutile timore" pensava "il cane non rappresenta per loro nessun pericolo; neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla pancia." Lo spettacolo di sangue e di terrore, però, lo disgustò. "Tu, Pastorello, porta le galline al pollaio, per ora non ce n'è bisogno in dispensa, e un'altra volta gli agnelli portali direttamente in cucina; qui sporcano. E tu, Lo Nigro, vai a dire a Salvatore che venga a far pulizia ed a portar via i formaggi. E apri la finestra per fare uscire l'odore." Poi entrò Ferrara con le ricevute.

Quando risalì Don Fabrizio trovò Paolo, il primogenito, il duca di Querceta che lo aspettava nello studio sul cui divano rosso egli soleva far la siesta. Il giovane aveva raccolto tutto il proprio coraggio e desiderava parlargli. Basso, esile, olivastro, sembrava più anziano di lui. "Volevo chiederti, papa, come dovremo comportarci con Tancredi quando lo rivedremo." Il padre capì subito e cominciò ad irritarsi. "Che intendi dire? cosa c'è di cambiato?" "Ma, papà, certo tu non puoi approvare: è andato a unirsi a quei farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio; queste sono cose che non si fanno."

La gelosia personale, il risentimento del bigotto contro il cugino spregiudicato, del tonto contro il ragazzo di spirito si erano travestiti in argomentazione politica. Don Fabrizio ne i tanto indignato che non fece neppure sedere il figlio: УMeglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la acca dei cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non ano sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con duca di Querceta sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a Tancredi ed agli altri come lui. Vai via, non ti permetto più di parlarmene! qui comando io solo." Poi si rabbonì e sostituì l'ironia all'ira. "Vai, figlio mio, voglio dormire. Vai a parlare di politica con 'Guiscardo,' v'intenderete bene." E mentre Paolo raggelato richiudeva la porta, Don Fabrizio si tolse la redingote e gli stivaletti, fece gemere il divano sotto il proprio peso e si addormentò tranquillo.

Quando si risvegliò il suo cameriere gli recò su un vassoio n giornale e un biglietto. Erano stati inviati da Palermo da io cognato Màlvica con un servo a cavallo. Ancora un po' ordito il Principe apri la lettera: "Caro Fabrizio, mentre :rivo sono in uno stato di prostrazione estrema. Leggi le terribili notizie che sono sul giornale. I Piemontesi sono sbarcati. Siamo tutti perduti. Questa sera stessa io con tutta la famiglia ci rifugieremo sui legni inglesi. Certo vorrai fare lo esso; se lo credi ti farò riservare qualche posto. Il Signore salvi ancora il nostro amato Re. Un abbraccio. Tuo Ciccio."

Ripiegò il biglietto, se lo pose in tasca e si mise a ridere forte. Quel Màlvica! Era stato sempre un coniglio. Non aveva impreso niente, e adesso tremava. E lasciava il palazzo in alfa dei servi: questa volta si che lo avrebbe ritrovato vuoto! A proposito bisogna che Paolo vada a stare a Palermo; case abbandonate, in questi momenti, sono case perdute. Gliene parlerò a cena."

Aprì il giornale. "Un atto di pirateria flagrante veniva consumato l'11 Maggio mercé lo sbarco di gente armata allaа marina di Marsala. Posteriori rapporti hanno chiarito esser la banda disbarcata di circa ottocento, e comandata da Garibaldi. Appena quei filibustieri ebbero preso terra evitarono con ogni cura lo scontro delle truppe reali, dirigendosi per quanto ci viene riferito a Castelvetrano, minacciando i pacifici cittadini e non risparmiando rapine e devastazioni... etc. etc..."

Il nome di Garibaldi lo turbò un poco. Quell'avventuriero tutto capelli e barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinaнto dei guai. "Ma se il Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuoi dire che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno."

Si rassicurò, si pettinò, si fece rimettere le scarpe e la redingote. Cacciò il giornale in un cassetto. Era quasi l'ora del Rosario, ma il salone era ancora vuoto. Sedette su un divano e mentre aspettava notò come il Vulcano del soffitto rassomiнgliasse un po' alle litografie di Garibaldi che aveva visto a

Torino. Sorrise. "Un cornuto."

La famiglia si andava riunendo. La seta delle gonne frusciaнva. I più giovani scherzavano ancora fra loro. Si udì da dietro l'uscio la consueta eco della controversia fra i servi e Bendicò che voleva ad ogni costo prender parte. Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminò le bertucce maligne.

S'inginocchiò: "Salve, Regina, Mater misericordiae..."



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