PARTE PRIMA
Maggio 1860
"Nunc
et in bora mortis nostrae. Amen."
La
recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'oнra la voce pacata del
Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz'ora altre voci,
frammiste avevano tesнsuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati
i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre
durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto;
financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano
apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una
penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali
sogni, come la si vedeva sempre.
Adesso,
taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine, consueto. Dalla
porta attraverso la quale erano usciti i servi l'alano Bendicò,
rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le
donne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire delle loro sottane
lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano
sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un'Andromeda cui la
tonaca di Padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedì
per un bei po' di rivedere l'argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava
al soccorso ed al bacio.
Nell'affresco
del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di
Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si
precipitavano verso una trasfigurata Conca d'Oro per esaltare la gloria di casa
Salina, apparvero di subito colme di tanta esultanza da trascurare le
più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli
Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languiнda, che avevano
preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col
Gattopardo. Essi sapevaнno che per ventitré ore e mezza, adesso,
avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a
far sberleffi ai cacatoés.
Al di
sotto di quell'Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano
in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe
delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da
più di un mese, dal giorno dei "moti" del Quattro Aprile, le
avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori
a baldacchino e l'intimità collettiva del Salvatore. I ragazzini si
accapigliavano di già per il possesso di una immagiнne di S. Francesco
di Paola; il primogenito, l'erede, il duca Paolo, aveva già voglia di
fumare e timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso
la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si
affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva:
"Guiscardo," il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena,
e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito
bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il
Redentore? La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il
rosario nella borsa trapunta di jais mentre gli occhi belli e maniaci
sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo
minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso.
Lui,
il Principe, intanto si alzava: l'urto del suo peso da gigante faceva tremare
l'impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l'orgoglio di
questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati.
Adesso posava o smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata
dinanzi durante la recita del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva
posato il ginocchio, e un po' di malumore intorbiнdò il suo sguardo
quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito
interrompere la vasta bianchezza del panciotto.
Non
che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava
(nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le
sue dita potevano accartocнciare come carta velina le monete da un ducato; e
fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la
riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli
faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche
essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si
ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i
bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e "cercatori di
comete" che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo
osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I
raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito
roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l'origine
tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva
congelato, trent'anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel
sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben più incomode per
quell'aristocratico siciliano nell'anno 1860, di quanto potessero essere
attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri
e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale,
una propensione alle idee astratte che nell'habitat molliccio della
società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui
scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava
andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano.
Primo
(ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure
l'addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva
forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste
all'astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e
gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica
si erano a tal punto associati da dargli l'illusione che gli astri obbedissero
ai suoi calcoli (come di fatto sembravano fare) e die i due pianetini che aveva
scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco
indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra
Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati più
una profezia che un'adulazione.
Sollecitato
da una parte dall'orgoglio e dall'intellettualismo materno, dall'altra dalla
sensualità e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio viveva
in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la
rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività
ed ancora minor voglia di porvi riparo.
Quella
mezz'ora fra il Rosario e la cena era uno dei momenti meno irritanti della
giornata, ed egli ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.
Preceduto
da un Bendicò eccitatissimo discese la breve scala che conduceva al
giardino. Racchiuso com'era questo fra tre mura e un lato della villa, la
reclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale accentuato dai monticciuoli
paralleli delimitanti i canaletti d'irrigazione e che sembravano tumuli di
smilzi giganti. Sul terreno rossiccio le piante crescevano in fitto disordine,
i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano disposte
per impedire più che per dirigere i passi. Nel fondo una flora chiazzata
di lichene giallonero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari;
ai lati due panche sostenevano cuscini ravvoltolati e trapunti, anch'essi di
marmo grigio, e in un angolo l'oro di un albero di gaggia intrometteva la
propria allegria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio
di bellezza presto fiaccaнto dalla pigrizia.
Ma il
giardino, costretto e macerato fra le sue barriere, esalava profumi untuosi,
carnali e lievemente putridi come i liquami aromatici distillati dalle reliquie
di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello
protocollare delle rose ed a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano
negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche u profumo della menta misto a
quello infantile della gaggìa ed a quello confetturiero della mortella,
e da oltre il muro l'agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle
prime zàgare.
Era un
giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa ma l'odorato poteva
trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Le rose Paul
Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi erano
degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti
della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una
sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un denso aroma quasi
turpe che nessun allevatore francese avrebнbe osato sperare. Il Principe se ne
pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una
ballerina dell'Opera. Bendicò, cui venne offerta pure, si ritrasse
nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il
concime e certe lucertoluzze morte.
Per il
Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni
d'idee. "Adesso qui c'è buon odore, ma un mese fa..."
Ricordava
il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima
che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del 5░
Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre
dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano
trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito,
le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere
gl'intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante,
a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a nascondere il volto col suo
fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio
del ventre, a coprire poi la ferita con le falde verdi del cappottone; sputando
continuamente per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma.
tutto con preoccupante perizia. "Il fetore di queste carogne non cessa
neppure quando sono morte," diceva. Era stato tutto quanto avesse
commemorato quella morte derelitta. Quando i commilitoniа imbambolati lo ebbero poi portato via (e,
sì, lo avevano trascinato per le spalle sino alla carretta
cosicché la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo) un De
Profundis per lТanima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale; e
non se ne parlò più, la coscienza delle donne di casa
essendosi dichiarata soddisfatta.
Don
Fabrizio andò a grattar via un po' di lichene dai piedi della Flora e si
mise a passeggiare su e giù. Il sole basso proiettava immane l'ombra sua
sulle aiuole funeree. Del morto non si era parlato più, infatti; ed,
alla fin dei conti, i soldati sono soldati appunto per morire in difesa del Re.
L'immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi
come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe:
superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità
generale. Perché morire per qualche d'uno o per qualche cosa, va bene,
è nell'ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi
che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella
faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.
"Ma
è morto per il Re, caro Fabrizio, è chiaro" gli avrebbe
risposto suo cognato Màlvica se Don Fabrizio lo avesse interroнgato,
quel Màlvica scelto sempre come portavoce della folla degli amici.
"Per il Re, che rappresenta l'ordine, la continuità, la decenza, il
diritto, l'onore; per il Re che solo difende la Chiesa, che solo impedisce il
disfacimento della proprietà, mèta ultima della 'setta'."
Parole
bellissime queste, che indicavano tutto quanto era caro al Principe sino alle
radici del cuore. Qualcosa però strideva ancora. Il Re, va bene. Lo
conosceva bene il Re, almeno quello che era morto da poco; l'attuale non era
che un seminarista vestito da generale. E davvero non valeva molto. "Ma
questo non è ragionare, Fabrizio," ribatteva Màlvica
"un singolo sovrano può non essere all'altezza, ma l'idea
monarchica rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle
persone." "Vero anche questo; ma i Re che incarnano un'idea non possono,
non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no,
caro cognato, anche l'idea patisce."
Seduto
su un banco se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò
operava nelle aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti
come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza
siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano.
"Buono Bendicò, vieni qui." E la bestia accorreva, gli posava
le froge terrose sulla mano, ansiosa di mostrargli che la balorda interruzione
del bei lavoro compiuto gli veniva perdonata.
Le
udienze, le molte udienze che Re Ferdinando gli aveva concesse, a Casetta, a
Napoli, a Capodimonte, a Portici, a casa del diavolo...
A
fianco del ciambellano di servizio che lo guidava chiacнchierando, con la
feluca sotto il braccio e le più fresche volgarità napoletane
sulle labbra, si percorrevano interminabili sale di architettura magnifica e di
mobilio stomachevole (proнprio come la monarchia borbonica), ci s'infilava in
anditi sudicetti e scalette mal tenute e si sbucava in un'anticamera dove
parecchia gente aspettava: facce chiuse di sbirri, facce avide di questuanti
raccomandati. Il ciambellano si scusava, faceva superare l'ostacolo della
gentaglia, e lo pilotava verso un'altra anticamera, quella riservata alla gente
di Corte: un ambientino azzurro e argento; e dopo una breve attesa un servo
grattava alla porta e si era ammessi alla Presenza Augusta.
Lo
studio privato era piccolo e artificiosamente semplice: sulle pareti imbiancate
un ritratto del Re Francesco I e uno dell'attuale Regina, dall'aspetto
inacidito; al di sopra del camiнnetto una Madonna di Andrea del Sarto sembrava
stupita di trovarsi contornata da litografie colorate rappresentanti santi di
terz'ordine e santuari napoletani; su di una mensola un Bambino Gesù in
cera col lumino acceso davanti; e sulla immensa scrivania carte bianche, carte
gialle, carte azzurre: tutta l'amministrazione del Regno giunta alla sua fase
finale, quella della firma di Sua Maestà (D.G.).
Dietro
questo sbarramento di scartoffie, il Re. Già in piedi per non essere
costretto a mostrare che si alzava; il Re col faccione smorto fra le fedine
biondiccie, con quella giubba militare di ruvido panno da sotto la quale scaturiva
la cateratta violacea dei pantaloni cascanti. Faceva un passo avanti con w
destra già inclinata per il baciamano che avrebbe poi rifiutaнto. 'Ne',
Salina, beate quest'uocchie che tè vedono." L'accenнto napoletano
sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano. "Prego la
Vostra Real Maestà di voler scusarmi se non indosso la divisa di Corte;
sono soltanto di passaggio a Napoli e non volevo tralasciare di venire a
riverire la Vostra Persona." "Salina, tu vo' pazziare; lo sai che a
Casetta sei come a casa tua. A casa tua, sicuro" ripeteva sedendo dietro
la scrivania e indugiando un attimo a far sedere l'ospite.
"E
le 'ppeccerelle che fanno?" Il Principe capiva che a questo punto
occorreva piazzare l'equivoco salace e bigotto insieme. "Le peccerelle,
Maestà? alla mia età e sotto il sacro vincolo del
matrimonio?" La bocca del Re rideva mentre le mani riordinavano
stizzosamente le carte. "Non mi sarei mai permesso, Salina. Io domandavo
d'e 'ppeccerelle toie, d'e Principessine. Concetta, la cara figlioccia nostra,
dev'essere granne ora, 'na signorina."
Dalla
famiglia si passò alla scienza. "Tu, Salina, fai onore non solo a
tè stesso, ma a tutto il Regno! Gran bella cosa la scienza quando non le
passa p'a capa di attaccare la religione!" Dopo, però la maschera
dell'amico veniva posta da patte e si assumeva quella del Sovrano Severo.
"E dimmi, Salina, che si dice in Sicilia di Castelcicala?" Don
Fabrizio si schermiva: ne aveva inteso dir corna tanto da patte regia come da
patte liberale, ma non voleva tradire l'amico, si manteneva sulle
generalità. "Gran signore, gloriosa ferita, forse un po' anziano
per le fatiche della Luogotenenza." Il Re si rabbuiava: Salina non voleva
far la spia, Salina quindi non valeva niente per lui. Appoggiate le mani alla
scrivania, si preparava a dar congedo. "Aggio tanto lavoro; tutto il Regno
riposa su queste spalle." Era tempo di dare lo zuccherino; la maschera
amichevole rispuntò fuori dal cassetto: "Quanno ripassi da Napoli,
Salina, vieni a far vedere Concetta alla Regina. Lo saccio è troppo
giovane pe' esse presentata a Cotte, ma un pranzetto privato non ce l'impedisce
nisciuno. Maccarrune e belle guaglione, come si dice. Salutarne, Salina, statte
bbuono."
Una
volta però il congedo era stato cattivo. Don Fabrizio aveva già
fatto il secondo inchino a ritroso quando il Re lo richiamò:
"Salina, starnine a sentere. Mi hanno detto che a Palermo hai cattive
frequentazioni. Quel tuo nipote Falconeri... perché non gli rimetti la
testa a posto?" "Maestà, ma Tancredi non si occupa che di
donne e di carte." Il Re perse la pazienza. "Salina, Salina, tu
pazzii. Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca si guardasse 'o cuollo.
Salutame."
Ripercorrendo
l'itinerario fastosamente mediocre per anнdare a firmare sul registro della
Regina, lo scoramento l'invadeнva. La cordialità plebea lo aveva
depresso quanto il ghigno poliziesco. Beati quei suoi amici che volevano
interpretare la familiarità come amicizia, la minaccia come possanza
regale. Lui non poteva. E mentre palleggiava pettegolezzi con l'impecнcabile
ciambellano andava chiedendosi chi fosse destinato a succedere a questa
monarchia che aveva i segni della morte sul volto. Il Piemontese, il cosidetto
Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano?
Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletaнno; e basta.
Si era
giunti al registro. Firmava: Fabrizio Corbera, Principe di Salina.
Oppure
la Repubblica di don Poppino Mazzini? "Grazie. Diventerei il signor
Corbera."
E la
lunga tappa del ritorno non lo calmò. Non poté consolarlo neppure
l'appuntamento già preso con Cora Danòlo.
Stando
cosi le cose, che restava da fare? Aggrapparsi a quel che c'è senza far
salti nel buio? Allora occorrevano i colpi secchi delle scariche, cosi come
erano rintronati poco tempo fa in una squallida piazza di Palermo; ma le
scariche anch'esse a cosa servivano? "Non si conchiude niente con i 'pum!
pum!' È vero, Bendicò?"
"Ding,
ding, ding!" faceva invece la campana che annunziava la cena.
Bendicò correva con l'acquolina in bocca per il pasto pregustato.
"Un Piemontese tale e quale!" pensava Salina risalendo la scala.
La
cena a villa Salina era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile
del Regno delle Due Sicilie. Il numero dei commensali (quattordici erano fra
padroni di casa, figli, governanti e precettori) bastava da solo a conferire
imponenza alla tavola. Ricoperta da una rattoppata tovaglia finissima, essa
fendeva sotto la luce di una potente "carsella" precariamente appesa
sotto la "ninfa," sotto il lampadario di Murano. Dalle finestre
entrava ancora luce ma le figure bianche sul fondo scuro delle sovrappone,
simulanti dei bassorilievi, si perdevano già nell'ombra. Massiccia
l'argenteria e splendidi i bicchieri recanti sul medaglione liscio fra i
bugnati di Boemia le cifre F.D. (Ferdinandus dedit) in ricordo di una
munificenza regale, ma i piatti, ciascuno segnato da una sigla illustre, non
erano che dei superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri e provenivano da
servizi disparati. Quelli di formato più grande, Capodimonte vaghissimi
con la larga bordura verde-mandorla segnata da ancorette dorate, erano
riservati al Princiнpe cui piaceva avere intorno a sé ogni cosa in
scala, eccetto la moglie. Quando entrò in sala da pranzo tutti erano
già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro I
alle loro sedie. Davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti,
si slargavano i fianchi argentei dell'enorme zuppiera col coperchio sormontato
dal Gattopardo danzante. Il Principe scodellava lui stesso la minestra, fatica
grata simboнlo delle mansioni altrici del pater familias. Quella sera
però, come non era avvenuto da tempo, si udì minaccioso il
tinnire del mescolo contro la parete della zuppiera: segno di collera grande
ancor contenuta, uno dei rumori più spaventevoli che esistessero; come
diceva ancora quarant'anni dopo un figlio sopravvissuto: il Principe si era
accorto che il sedicenne Francesco Paolo non era al proprio posto. Il ragazzo
entrò subito ("scusatemi, papa") e sedette. Non subì
rimprovero ma padre Pirrone che aveva più o meno le funzioni di cane da
mandria, chinò il capo e si raccomandò a Dio. La bomba non era
esplosa ma il vento del suo passaggio aveva raggelato la tavola e la cena era rovinata
lo stesso. Mentre si mangiava in silenzio, gli occhi azzurri del Principe, un
po' ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li
ammutolivano di timore.
Invece!
"Bella famiglia" pensava. Le femmine grassoccie, fiorenti di salute,
con le loro fossette maliziose e, fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio,
quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti maneggiavano le
posate con sorvegliata violenza. Uno di essi mancava da due anni, quel
Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso.
Un bel giorno era scomparso da casa e di lui non si erano avute notizie per due
mesi. Finché non giunse una rispettosa e fredda lettera da Londra nella
quale si chiedeva scusa per le ansie causate, si rassicurava sulla propria
salute e si affermava, stranamente, di preferire la modesta vita di commesso in
una ditta di carboni anziché l'esistenza "troppo curata"
(leggi: incatenata) fra gli agi palermitani. Il ricordo, l'ansietà per
il giovinetto errante nella nebbia fumosa di quella città eretica, pizzicarono
malvagiamente il cuore del Principe che soffrì molto. S'incupì
ancora di più.
S'incupì
tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e
carezzò la potente zampacela che riposava sulla tovaglia. Gesto
improvvido che scatenò una serie di sensazioni: irritazione per esser
compianto, sensualità risvegliaнta ma non più diretta verso chi
l'aveva ridestata. In un lampo al Principe appari l'immagine di Mariannina con
la testa affondata nel guanciale. Alzò seccamente la voce: "Domeniнco"
disse a un servitore "vai a dire a don Antonino di attaccare i bai al coupé;
scendo a Palermo subito dopo cena." Guardando gli occhi della moglie che
si erano fatti vitrei si pentì di quanto aveva ordinato, ma
poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data,
insistette, unendo anzi la beffa alla crudeltà: "Padre Pirrone,
venga con me, saremo di ritorno alle undici; potrà passare due ore a
Casa Professa con i suoi amici."
Andare
a Palermo la sera, ed in quei tempi di disordini, appariva manifestamente senza
scopo, se si eccettuasse quello di un'avventura galante di basso rango: il
prendere poi come compagno l'ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza.
Almeno padre Pirrone lo sentì cosi, e se ne offese; ma, naturalmente,
cedette.
L'ultima
nespola era stata appena ingoiata che già si udiva u rotolare
della vettura sotto l'androne; mentre in sala un cameriere porgeva la tuba a
don Fabrizio e il tricorno al Gesuita, la Principessa ormai con le lagrime agli
occhi, fece un ultimo tentativo, quanto mai vano: "Ma, Fabrizio, di questi
tempi... con le strade piene di soldati, piene di malandrini... può succedere un guaio." Lui
ridacchiò. "Sciocchezze, Stella, sciocchezze; cosa vuoi che
succeda; mi conoscono tutti: uomini alti una canna ce ne sono pochi a Palermo.
Addio." E baciò frettolosamente la fronte ancor liscia che era al
vello del suo mento. Però, sia che l'odore della pelle della Principessa
avesse richiamato teneri ricordi, sia che dietro li lui il passo penitenziale di
padre Pirrone avesse destato ammonimenti pii, quando giunse dinanzi al coupé
si trovò di nuovo sul punto di disdire la gita. In quel momento,
mentre priva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo
"Fabrizio, Fabrizio mio!" giunse dalla finestra di opra, seguito da
strida acutissime. La Principessa aveva una delle sue crisi isteriche.
"Avanti!" disse al cocchiere, che se le stava a cassetta con la
frusta in diagonale sul ventre. УAvanti, andiamo a Palermo a lasciare il
Reverendo a Casa Professa." E sbatté lo sportello prima che il
cameriere potesse chiuderlo.
Non
era ancora notte chiusa e incassata fra le alte mura la strada si dilungava
bianchissima. Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a
sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote
e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva
dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine
totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d'argento dei galloni delle
livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell'orfano
allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era
divenuto varissimo all'irritabile Principe che scorgeva in lui un'allegria
riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da imнprovvise crisi di
serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver
lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a
vent'anni Tancredi si dava bei tempo con i quattrini che il tutore non gli
lesinava rimettendoci anche di tasca propria. "Quel ragazzaccio
chissà cosa sta combinanнdo per ora" pensava il Principe mentre si
rasentava villa Falconeri cui l'enorme bougainvillea che faceva straripare
oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva
nell'oscurità un aspetto abusivo di fasto.
"Chissà
cosa sta combinando." Perché Re Ferdinando, quando aveva parlato
delle cattive frequentazioni del giovanotнto, aveva fatto male a dirlo ma aveva
avuto, nei fatti, ragione. Preso in una rete di amici giocatori, di amiche,
come si diceva, "scondottate" che la sua esile attrattiva dominava,
Tancredi era giunto al punto di aver simpatie per le "sette,"
relazioni col Comitato Nazionale segreto; forse prendeva anche dei quattrini da
lì, come ne prendeva, d'altronde, dalla Cassetta Reale. E c'era voluto
del bello e del buono, c'erano volute visite a Castelcicala scettico ed a
Maniscalco troppo cortese per evitare al ragazzo un brutto guaio dopo il
Quattro Aprile. Non era bello tutto ciò; d'altra parte Tancredi non
poteva mai aver torto per lo zio, la colpa vera quindi era dei tempi, di questi
tempi sconclusionati durante i quali un giovanotto di buona famiglia non era
libero di fare una partita a "faraone" senza inciampare in amicizie compromettenti.
Brutti tempi.
"Brutti
tempi, Eccellenza." La voce di padre Pirrone risuonò come un'eco
dei suoi pensieri. Compresso in un cantuccio del coupé, premuto
dalla massa del Principe, piegato dalla prepotenza del Principe, il Gesuita
soffriva nel corpo e nella coscienza e, uomo non mediocre qual'era, trasferiva
subito le proprie pene effimere nel mondo durevole della storia. "Guardi,
Eccellenza" e additava i monti scoscesi della Conca d'Oro ancor chiari in
quell'ultimo crepuscolo. Ai loro fianchi e sulle cime ardevano diecine di
fuochi, i falò che le "squadre" ribelli accendevano ogni
notte, silenziosa minaccia alla città regia e conventuale. Sembravano
quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi durante le
estreme nottate.
"Vedo,
Padre, vedo" e pensava che forse Tancredi era attorno a uno di quei fuochi
malvagi ad attizzare con le mani aristocratiche la brace che ardeva appunto per
svalutare le mani di quella sorta. "Veramente son un bel tutore, col
pupillo che fa qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa."
La
strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente
al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei
conventi; di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso associati in
gruppi di due o di tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi conventi
poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di Gesuiti, di Benedettini,
di Francescani, di Cappuccini, di carmelitani, di Liguorini, di Agostiniani...
Smunte cupole alle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano
ancora più in alto, ma erano essi, i conventi, a conferire alla
città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro e insieme senso
di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere. A
quell'ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era
contro di essi che n realtà erano accesi i fuochi delle montagne,
attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano,
fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè,
com'è l'uso, di ozio.
Questo
pensava il Principe, mentre i bai procedevano al )asso nella discesa; pensieri
in contrasto con la sua essenza 'era, partoriti dall'ansia sulla sorte di
Tancredi e dallo stimolo sensuale che lo induceva a rivoltarsi contro le
costrizioni che conventi incarnavano.
Adesso
infatti la strada attraversava gli aranceti in fiore e 'aroma nuziale delle
zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio: l'odore dei
cavalli sudati, 'odore di cuoio delle imbottiture, l'odor di Principe e l'odor
li Gesuita, tutto era cancellato da quel profumo islamico che evocava
urì e carnali oltretomba.
Padre
Pirrone ne fu commosso anche lui. "Che bei paese sarebbe questo, Eccellenza,
se..." "Se non vi fossero tanti Gesuiti" pensò il
Principe che dalla voce del prete aveva avuto interrotti presagi dolcissimi. E
subito si pentì della villanìa non consumata e con la grossa mano
batté sul tricorno del vecchio amico.
All'ingresso
dei sobborghi della città, a villa Airoldi, una pattuglia fermò
la vettura. Voci pugliesi, voci napoletane intimarono l'"alt,"
smisurate baionette balenarono sotto l'oнscillante luce di una lanterna; ma un
sottufficiale riconobbe presto don Fabrizio che se ne stava con la tuba sulle
ginocchia. "Scusate, Eccellenza, passate." E anzi fece salire a
cassetta un soldato perché non venisse disturbato dagli altri posti di
blocco. Il coupé appesantito andò più lento,
contornò villa Ranchibile, oltrepassò Terrerosse e gli orti di
Villafranca, entro in città per Porta Maqueda. Al caffè Romeres
ai Quattro Canti di Campagna gli ufficiali dei reparti di guardia scherzavano e
sorbivano granite enormi. Ma fu il solo segno di vita della città: le
strade erano deserte, risonanti solo del passo cadenzato delle ronde che
andavano passando con le bandoliere bianche incrociate sul petto. Ai lati il
basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i
Teatini, pachidermici, neri come la pece, immersi in un sonno che rassomigliava
al nulla.
"Fra
due ore ripasserò a prendervi, Padre. Buone orazioni." Ed il povero
Pirrone bussò confuso alla porta del convento, mentre il coupé
si allontanava per i vicoli.
Lasciata
la vettura al palazzo il Principe si diresse a piedi là dove era deciso
ad andare. La strada era breve, ma il quartiere malfamato. Soldati in completo
equipaggiamento, cosicché si capiva subito che si erano allontanati
furtivamente dai reparti bivaccanti nelle piazze, uscivano con gli occhi
smerigliati dalle casette basse sui cui gracili balconi una pianta di basilico
spiegava la facilità con la quale erano entrati. Giovinastri sinistri
dai larghi calzoni litigavano nelle tonalità basse dei siciliani
arrabbiati. Da lontano giungeva il rumore di schioppettate sruggite a
sentinelle nervose. Superata questa contrada la strada costeggiò la
Cala: nel vecchio porto pescheнreccio le barche semiputride dondolavano, con
l'aspetto desoнlato dei cani rognosi.
"Sono
un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanнzi alla legge divina e
dinanzi all'affetto umano di Stella. Non vi e dubbio e domani mi
confesserò a padre Pirrone." Sorrise dentro di sé pensando
che forse sarebbe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita dei
suoi trascorsi di oggi; poi lo spirito di arzigogolio riprese il sopravvento:
"Pecco, è vero, "m pecco
per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per non esser
trascinato in guai maggiori. Questo il Signore lo sa." Fu sopraffatto da
un intenerimento verso sé stesso: mentalmente, piagnucolava. "Sono
un pover'uomo debole," pensava mentre il passo poderoso comprimeva
l'acciottolato sudicio "sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si
fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent'anni. Ma
lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche." Il senso di
debolezza gli era passato. "Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad
accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di
ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che:
'Gesummaria!'. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma
adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo
ombelico. È giusto questo?" Gridava quasi, eccitato dalla sua
eccentrica angoscia. "È giusto? Lo chiedo a voi tutti!" E si
rivolgeva al portico della Catena. "La vera peccatrice è lei!"
La rassicurante scoperta lo confortò e
bussò deciso alla porta di Mariannina.
Due
ore dopo era già in coupé sulla via del ritorno insieme
con padre Pirrone. Questi era emozionato: i suoi confratelli lo avevano messo a
giorno della situazione politica che era molto più tesa di quanto non
apparisse nella calma distaccata di villa Salina. Si temeva uno sbarco dei
Piemontesi nel sud dell'isola, dalle parti di Sciacca; e le autorità
avevano notato nel popolo un muto fermento: la teppa cittadina aspettava il
primo segno di affievolimento del potere, voleva buttarsi al saccheggio e allo
stupro. I Padri erano allarmati e tre di essi, i più vecchi, erano stati
fatti partire per Napoli, col "pacchetto" del pomeriggio, recando con
sé le carte della i Casa. "Il Signore ci protegga e risparmi questo
Regno santissimo."
Don
Fabrizio lo ascoltava appena, immerso com'era in una serenità sazia
maculata di ripugnanza. Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di
contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole.
Una specie di Bendicò in sottanino di seta. In un istante di particolare
deliquescenza le era anche occorso di esclamare: "Principone!" Lui ne
sorrideva ancora, soddisfatto. Meglio questo, certo, che i "mon
chat" od i "mon singe blond" che rivelavano i momenti
omologhi di Sarah, la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre anni fa
quando per il Congresso d'Astronomia gli avevano consegnato in Sorbona una
medaglia d'argento. Meglio di "mon singe blond" senza dubbio;
molto meglio poi di "Gesummaria"; niente sacrilegio, almeno. Era una
buona figliuola Mariannina: le avrebbe portato tre canne di seta ponzò,
la prossima volta.
Ma che
tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia
rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro. Gli
ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di
Parigi sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti
che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna
giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina pari, e riudiva
i versi che stavano li a conchiudere una poesia strampalata:
Seigneur, donnez-moi
la force et le courage
de regarder mon coeur
et mon corps sans dégout!
E
mentre padre Pirrone continuava a occuparsi di un certo La Farina e di un certo
Crispi, il "Principone" si addormentò, in una sorta di
disperata euforia, cullato dal trotto dei bai sulle cui natiche grasse i
lampioncini della vettura facevano oscillare la luce. Si risvegliò alla
svolta dinanzi alla villa Falconeri. "Quello lì pure, che alimenta
i tizzoni che lo divoreranno!"
Quando
si trovò nella camera matrimoniale, il vedere la povera Stella con i
capelli ben ravviati sotto la cuffietta, dormire sospirando nel grandissimo,
altissimo letto di rame, lo commosse e intenerì. "Sette figli mi ha
dato, ed è stata mia soltanto." Un odore di valeriana vagava per la
camera, ultima vestigio della crisi isterica. "Povera Stelluccia mia"
si rammaricava scalando il letto. Le ore passarono e non poteva dormire:
"lo, con la mano possente mescolava nei suoi pensieri tre лlochi: quello
delle carezze di Mariannina, quello dei versi All'ignoto, quello iracondo dei
roghi sui monti.
Verso
l'alba però, la Principessa ebbe occasione di farsi il segno della
croce.
La
mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il
caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba
dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua
pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la
sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con un'espressione di
timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi.
"Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?" "Buon giorno,
zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte
santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo."
Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso
fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale
carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi,
però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l'asciugamano
sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba
attillata e gambaletti alti. "E chi erano queste conoscenze, si può
sapere?" "Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di
blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua
età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!" Era
davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le
strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua
madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì
offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva
l'animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. "Ma perché
sei vestito così? Cosa c'è? Un ballo in maschera di mattina?"
Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata
espressione virile. "Parto, zione, parto fra mezz'ora. Sono venuto a
salutarti." Il povero Salina si senti stringere il cuore. "Un
duello?" "Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi.
Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a
Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa,
dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restasнsi." Il Principe
ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia,
schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel
disgraziato soldato. "Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella
gente!, Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev'essere con noi, per
il Re." Gli occhi ripresero a sorridere. "Per il Re, certo,
ma per quale Re?" Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà
che lo rendevano impenetrabile e caro. "Se non ci siamo anche noi, quelli
ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?" Abbracciò lo zio un po'
commosso. "Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore." La
retorica degli amici aveva stinto un po' anche su suo nipote; eppure no. Nella voce
nasale vi era un accento che smentiva l'enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e
nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo
momento stava certo a sorvegliare la digestione di "Guiscardo!"
Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si
strappò l'asciugamani dal collo, frugò in un cassetto.
"Tancredi, Tancredi, aspetta," corse dietro al nipote, gli mise in
tasca un rotolino di "onze" d'oro, gli premette la spalla. Quello
rideva: "Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e
tanti abbracci alla zia." E si precipitò giù per le scale.
Venne
richiamato Bendicò che inseguiva l'amico riemнpiendo la villa di urla
gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a
vestire e calzare il Principe. "Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si
riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo
segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, cosi brutta in
confronto alla nostra bandiera candida con l'oro gigliato dello stemma? E che
cosa può far loro sperare quest'accozzaglia di colori stridenti?"
Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso
nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero
sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le
pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con
gli occhi di rubino. "Un gilet pulito. Non vedi che questo è
macchiato?" Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per
infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le
tre gocce di bergamotto. Le chiavi, lТorologio con catena, il portamonete se li
mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c'era da dire
era ancora un bellТuomo. "'Rudere libertino!' Scherza pesante quella
canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come
è luiФ.а
II passo vigoroso
faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa era serena,
luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì.
"Se vogliamo che tutto rimanga com'è..." Tancredi era un
grand'uomo: lo aveva sempre pensato.
Le
stanze dell'Amministrazione erano ancora deserte silenнziosamente illuminate
dal sole attraverso le persiane chiuse. Benché fosse quello il posto
della villa nel quale si compivano le maggiori frivolità, il suo aspetto
era di austerità severa. Dalle pareti a calce si riflettevano sul
pavimento tirato a cera gli enormi quadri rappresentanti i feudi di casa
Salina: spiccanti a colori vivaci dentro le cornici nere e oro si vedeva
Salina, l'isola dalle montagne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di
spuma, sul quale galere pavesate caracollavano; Querнceta con le sue case basse
attorno alla Chiesa Madre verso la quale procedevano gruppi di pellegrini
azzurrognoli; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo
nella smisuratezza della pianura frumentaria cosparsa di contadini operosi;
Donnafugata con il suo palazzo barocco, meta di cocchi scarlatti, di cocchi
verdini, di cocchi dorati, carichi a quanto sembrava di femmine di bottiglie e
di violini; molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo terso e rassicurante
dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. Ognuno festoso, ognuno
desideroso di esaltare l'illuminato imperio tanto "miнsto" che
"mero" di casa Salina. Ingenui capolavori di arte rustica del secolo
scorso; inatti però a delimitare confini, precisare aree, redditi; cose
che infatti rimanevano ignote. La ricchezza, nei molti secoli di esistenza si
era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri; soltanto in questo; l'abolizione
dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi, la
ricchezza come un vino vecchio aveva lasciato cadere in fondo alla botte le
fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare
soltanto l'ardore e il colore. Ed a questo modo finiva con l'annullare
sé stessa: questa ricchezza che aveva realizzato il proprio fine era
composta solo di oli essenziali e come gli oli essenziali evaporava in fretta.
Di già alcuni di quei feudi tanto festosi nei quadri avevano preso il
volo e permanevano soltanto nelle tele varioнpinte e nei nomi. Altri sembravano
quelle rondini settembrine ancor presenti ma di già radunate stridenti
sugli alberi, pronte a partire. Ma ve ne erano tanti; sembrava non potessero
mai finire.
Malgrado
quest'ultima considerazione, la sensazione proнvata dal Principe entrando nel
proprio studio fu, come sempre, sgradevole. Nel centro della stanza torreggiava
una scrivania con decine di cassetti, nicchie, incavi, ripostigli e piani incliнnati.
La sua mole di legno giallo e nero era scavata e truccata come un palcoscenico,
piena di trappole, di piani scorrevoli, di accorgimenti di segretezza che
nessuno sapeva più far funzionare all'infuori dei ladri. Era coperta di
carte e benché la previdenza del Principe avesse avuto cura che buona
parte di esse si riferisse alle atarassiche regioni dominate dall'astronoнmia,
quel che avanzava era sufficiente a riempire di disagio il cuore suo. Gli
tornò in mente ad un tratto la scrivania di Re Ferdinando a Caserta,
anch'essa ingombra di pratiche e di decisioni da prendere con le quali ci si
potesse illudere d'influire sul torrente delle sorti che invece irrompeva per
conto suo, in un'altra vallata.
Don
Fabrizio pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti
d'America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più
crudeli, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato questo
rozzo surrogato chimico dello stoicismo pagano, della rassegnazione cristiana.
Per il povero Re l'amministrazione fantomatica teneva luogo di morfina; lui,
Salina, ne aveva una di più eletta composizione: lТastronomia. Cacciando
le immagini di Ragattisi perduto e di Argivocale pencolante si tuffò
nella lettura del più recente numero del Journal des savants. "Les dernières observations de lТObservatoire de Greenwich
présentent un intéret tout particulierЕФ
Dovette però
esiliarsi presto da quei sereni regni stellari. Entrò don Ciccio Ferrara,
il contabile. Era un ometto asciutto che nascondeva l'anima illusa e rapace di
un liberale dietro occhiali rassicuranti e cravattini immacolati. Quella
mattina era più arzillo del consueto: appariva chiaro che quelle stesse
letizie che avevano depresso padre Pirrone avevano agito su di lui come un
cordiale. "Tristi tempi, Eccellenza" disse dopo gli ossequi rituali
"stanno per succedere grossi guai, ma dopo un po' di trambusto e di
sparatorie tutto andrà per il meglio,а
nuovi tempi gloriosi verranno per la nostra Sicilia; non Fosse che tanti
figli di mamma ci rimetteranno la pelle, non potremmo che essere
contenti." Il Principe borbottava senza esprimere un'opinione. "Don
Ciccio" disse poi "bisogna metнtere dell'ordine nella esazione dei
canoni di Querceta; sono due anni che da lì non si vede un
quattrino." "La contabilità è a posto,
Eccellenza." Era la frase magica. "Occorre soltanto scrivere a don
Angelo Mazza di eseguire le procedure; sottoнporrò oggi stesso la
lettera alla vostra firma" e se ne andò a rimestare fra gli enormi
registri nei quali, con due anni di ritardo, erano minutamente calligrafati
tutti i conti di casa Salina, meno quelli davvero importanti.
Rimasto
solo don Fabrizio ritardò il proprio tuffo nelle nebulose. Era irritato
non già contro gli avvenimenti che si preparavano ma contro la
stupidaggine di Ferrara nel quale aveva ad un tratto identificato una delle
classi che sarebbero divenute dirigenti. "Quel che dice il buon uomo
è proprio l'opposto della verità. Compiange i molti figli di mamma
che creperanno e questi saranno invece molto pochi, se conosco il carattere dei
due avversari; proprio non uno di più di quanto sarà necessario
alla compilazione di un bollettino di vittoria a Napoli o a Torino, che
è poi la stessa cosa. Crede invece ai 'tempi gloriosi per la nostra
Sicilia' come si esprime lui; il che ci è stato promesso in occasione di
ognuno dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e che non è mai successo. E,
del resto, perché avrebbe dovuto succedere? E allora che cosa
avverrà? Trattative punteggiate da schioppettate quasi innocue e, dopo,
tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato." Gli erano
tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però
comprendeva a fondo. Si rassicurò e tralasciò di sfogliare la
rivista. Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come
la miseria.
Poco
dopo venne Russo il soprastante, l'uomo che il Principe trovava più
significativo fra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non senza eleganza nella
лbunaca╗ di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi,
era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequioso del resto
e quasi sinceramente devoto poiché compiva le proprie ruberie convinto
di esercitare un diritto. "Immagino quanto Vostra Eccellenza sarà
seccato per la partenza del signorino Tancredi; ma la sua assenza non
durerà molto, ne sono sicuro, e tutto andrà a finire bene."
Ancora una volta il Principe si trovò di fronte a uno degli enigmi
siciliani. In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini
dicono d'ignoнrare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede li
sul colle a dieci minuti di strada, in quest'isola, malgrado l'ostentato lusso
di mistero, la riservatezza è un mito.
Fece
cenno a Russo di sedere, lo guardò fisso negli occhi: "Pietro,
parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei immischiato in queste faccende?"
Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba
da giovanotti come il signorino Tancredi. "Si figuri se nasconderei
qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre." (Intanto, tre
mesi fa, aveva nascosto nel suo magazzino centocinquanta ceste di limoni del
Principe e sapeva che il Principe lo sapeva.) "Ma debbo dire che il mio
cuore è con loro, con i ragazzi arditi." Si alzò per
lasciare entrare Bendicò che faceva tremare la porta sotto il suo impeto
amichevole. Si risiedé. "Vostra Eccellenza lo sa; non se ne
può più: perquisizioni, interrogatoнri, scartoffie per ogni cosa,
uno sbirro a ogni cantone; un galantuomo non è libero di badare ai fatti
propri. Dopo, invece, avremo la libertà, la sicurezza, tasse più
leggere, la facilità, il commercio. Tutti staremo meglio: i preti soli
ci perderanno. Il Signore protegge i poveretti come me, non loro." Don
Fabrizio sorrideva: sapeva che era proprio lui, Russo, che attraverso
interposta persona desiderava comprare Argivocale. 'Ci saranno giorni di
schioppettate e di trambusti, ma villa salina sarà sicura come una
rocca; Vostra Eccellenza è il nostro padre, ed io ho tanti amici qui. I
Piemontesi entreranno solo col cappello in mano per riverire le Eccellenze
Vostre. E poi lo zio e il tutore di don Tancredi!" Il Principe si
sentì umiliato: adesso si vedeva disceso al rango di protetto degli
amici di Russo; il suo solo merito, a quanto sembrava, era di esser zio
di quel moccioso di Tancredi. "Fra una settimana andrà a finire che
avrò la vita salva perché tengo in casa Bendicò."
Stropicciava un orecchio del cane fra le dita con tanta forza che la povera
bestia guaiolava, onorata, senza dubbio, ma sofferente.
Poco
dopo alcune parole di Russo gli diedero sollievo. "Tutto sarà
meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti.
Il resto sarà come prima." Questa gente, questi liberalucoli di
campagna volevano soltanto avere il modo di approfittare più facilmente.
Punto e basta. Le rondini avrebbero preso il volo più presto, ecco
tutto. Del resto, ce n'erano ancora tante nel nido.
"Forse
hai ragione tu. Chi lo sa?" Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi:
le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma
rivelarne di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose
sarebнbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa,
romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. Questo
era il paese degli accoнmodamenti, non c'era la furia francese; anche in
Francia d'altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era
successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia
lo trattenne: "Ho capito benissiнmo: voi non volete distruggere noi, i
vostri 'padri'; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con
buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducaнti. È
così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sinceramente di essere
barone; e tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia,
mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso,
come proprio quel nome rivela. Tua figlia già prima avrà sposato uno
di noi, magari anche questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue
mani dinoccolate. Del resto è bella, e una volta che avrà
imparato a lavarsi... 'Perché tutto resti com'è.' Come è,
nel fondo: soltanto una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate di
gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno restare nel
cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo, ma i Salina
rimarranno i Salina; e magari qualche compenso lo avranno: il Senato di
Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio. Ciondoli questi, ciondoli
quelli."
Si
alzò: "Pietro, parla con i tuoi amici. Qui ci sono tante ragazze,
bisogna che non si spaventino." "Ero sicuro, Eccellenza; ho di
già parlato: villa Salina sarà tranquilla come una badia." E
sorrise affettuosamente ironico.
Don
Fabrizio uscì seguito da Bendicò; voleva salire a trovare padre
Pirrone ma lo sguardo implorante del cane lo costrinse invece ad andare in
giardino: Bendicò infatti conservava esaltati ricordi del bei lavoro
della sera prima e voleva compirlo a regola d'arte. Il giardino era ancor
più odoroso di ieri, e sotto il sole mattutino l'oro della gaggia
stonava meno. "Ma i Sovrani, i Sovrani nostri? E la legittimità
dove va a finire?" Il pensiero lo turbò un momento, non si poteva
eludere; per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi
Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori,
fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri Re. Ma le forze di difesa della calma
interiore, tanto vigilanti nel Principe, accorrevano già in aiuto, con
la moschetteria del giure, con l'artiglieria della storia. "E la Francia?
Non è forse illegittimo Napoleone III? E non vivono forse felici i
Francesi sotto questo Imperatore illuminato che li condurrà certo ai
più alti destini? Del resto intendiamoci bene. Carlo III lui era forse
perfettamente a posto? Anche la battaglia di Bitonto fu una specie di quella
battaglia di Corleone, o di Bisacquino o di che so io nella quale i Piemontesi
prenderanno a scoppole i nostri; una di quelle battaglie combattute
affinché tutto rimanga come è. Del resto neppure Giove era il
legittimo Re dell'Olimpo."
Era
ovvio che il colpo di stato di Giove contro Saturno dovesse richiamare le
stelle alla sua memoria.
Lasciò
Bendicò affannato dal proprio dinamismo, risali la scala,
traversò i saloni nei quali le figlie parlavano delle amiche del
Salvatore (al suo passaggio la seta delle loro sottane frusciò mentre
esse si alzavano), salì una lunga scaletta e sboccò nella grande
luce azzurra dell'Osservatorio. Padre Pirrone, con aspetto sereno del sacerdote
che ha detto la messa e preso caffè forte con i biscotti di Monreale,
sedeva ingolfato nelle formule algebriche. I due telescopi e i tre
cannocchiali, accecati dal sole, stavano accucciati buoni buoni, col tappo ero
sull'oculare, bestie bene avvezze che sapevano come il loro pasto venisse dato
solo la sera.
La
vista del Principe sottrasse il Padre ai suoi calcoli e gli [portò alla
mente la brutta figura della sera prima. Si alzò, salutò
ossequioso ma non poté fare a meno di dire: "Vostra eccellenza
viene a confessarsi?" Don Fabrizio, cui il sonno e conversazioni della
mattinata avevano fatto dimenticare episodio notturno, si stupì.
"Confessarmi? Ma non è Sabato, oggi." Dopo ricordò e
sorrise: "Veramente, Padre, non ce ne sarebbe neppur bisogno. Sapete
già tutto." Questo insistere nell'imposta complicità
irritò il Gesuita. "Eccellenza, l'efficacia della Confessione non
consiste solo nel raccontare le colpe ma nel pentirsi di quanto si è
commesso di male; e finché non o farete e non lo avrete dimostrato a me
resterete in peccato mortale, che io conosca le vostre azioni, o no."
Meticoloso soffiò via un peluzzo dalla propria manica e si
rituffò nelle astrazioni.
La
quiete che le scoperte politiche della mattinata avevano instaurata nell'anima
del Principe era tale che egli non fece se non sorridere di ciò che in
altro momento gli sarebbe sembrato insolenza. Aprì una delle finestre
della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito
lei forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una
macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibili, piene
di agguati, sembravano ammassi di vapore sul punto di dissolversi, e la torva
Palermo stessa si stendeva acquetata intorno ai Conventi come un gregge ai
piedi dei pastori. Nella rada le navi straniere all'ancoнra, inviate in
previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella
calma stupefatta. Il sole, che tuttavia era ben lontano in quel mattino del 15
Maggio dalla massima sua foga, si rivelava come l'autentico sovrano della
Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che
annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità
servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano
dell'arbitrarietà dei sogni.
"Ce
ne vorranno di Vittori Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci
viene versata!"
Padre
Pirrone si era alzato, aveva raggiustato la propria cintura, e si era diretto
verso il Principe con la mano tesa: "Eccellenza, sono stato troppo brusco;
conservatemi la vostra benevolenza ma, date retta a me, confessatevi."
Il
ghiaccio era rotto e il Principe poté informare padre Pirrone delle
proprie intuizioni politiche. Il Gesuita però fu ben lontano dal
condividere il sollievo di lui, anzi ridiventò pungente. "In poche
parole voi signori vi mettete d'accordo coi liberali, che dico con i liberali!
con i massoni addirittura, a nostre spese, a spese della Chiesa. Perché è
chiaro che i nostri beni, quei beni che sono il patrimonio dei poveri, saranno
arraffati e malamente divisi fra i caporioni più impudenti; e chi, dopo,
sfamerà le moltitudini d'infelici che ancora oggi la Chiesa sostenta e
guida?" Il Principe taceva. "Come si farà allora per placare
quelle turbe disperate? Ve lo dirò subito, Eccellenza. Si getterà
loro in pasto prima una pane, poi una seconda ed alla fine la totalità
delle vostre terre. E cosi Dio avrà compiuto la Sua Giustizia, sia pure
per tramite dei massoni. Il Signore guariva i ciechi del corpo; ma i ciechi di
spirito dove finiranno?"
L'infelice
Padre aveva il fiato grosso: un sincero dolore per il previsto sperpero del
patrimonio della Chiesa si univa in lui al rimorso per essersi di nuovo
lasciato trascinare, al timore di offendere il Principe cui voleva bene e del
quale aveva sperimentato la collera rumorosa ma anche l'indifferente
bontà. Sedeva quindi guardingo e sogguardava Don Fabrizio che con uno
spazzolino ripuliva i congegni di un cannocchiale e sembrava assorto nella
meticolosa sua attività; dopo un po' si alzò, si pulì a
lungo le mani con uno straccetto: il volto era privo di qualsiasi espressione,
i suoi occhi chiari sembravano intenti soltanto a rintracciare qualche macchiolina
di grasso rifugiatasi alla radice delle unghia. Giù, intorno alla villa
il silenzio luminoso era profondo, signorile all'estremo; sottoliнneato
più che disturbato da un lontanissimo abbaiare di Bendicò che
insolentiva il cane del giardiniere in fondo all'agrumeto, e dal battere
ritmico, sordo del coltellaccio di un cuoco che sul tagliere laggiù in
cucina triturava della carne per il pranzo non lontano. Il gran sole aveva
assorbito la turbolenza degli uomini quanto l'asprezza della terra. Don
Fabrizio poi si avvicinò al tavolo del Padre, sedette e si mise a
disegnare puntuti gigli borbonici con la matita ben tagliata che il Gesuita
nella sua collera aveva abbandonata. Aveva l'aria seria ma tanto serena che in
padre Pirrone svanirono subito i crucci.
"Non
siamo ciechi, caro Padre, siamo soltanto uomini. Viviamo in una realtà
mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la
spinta del mare. Alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa
l'immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no. Per noi un
palliativo che promette di durare cento anni equivale all'eternità.
Potremo magari preoccuparci per i nostri figli, forse per i nipotini; ma al di
là di quanto possiamo sperare di accarezzare con queste mani non abbiamo
obblighi; ed io non posso preoccuparmi di ciò che saranno i miei
eventuali discendenti nell'anno 1960. La Chiesa sì, se ne deve curare,
perché è destinata a non morire. Nella sua disperazione è
implicito il conforto. E credete voi che se potesse adesso o se potrà in
futuro salvare sé stessa con il nostro sacrificio non lo farebbe? Certo
che lo farebbe, e farebbe bene."
Padre
Pirrone era talmente contento di non avere offeso il Principe che non si offese
neppure lui. Quella espressione "disperazione" in relazione alla
Chiesa era inammissibile, ma la lunga abitudine del confessionale lo rendeva
capace di apprezzare l'umore disilluso di Don Fabrizio. Non bisognava
però lasciar trionfare l'interlocutore. "Avrete due peccati da
confessarmi Sabato, Eccellenza: uno della carne di ieri, uno dello spirito, di
oggi. Ricordatevene."
Ambedue
placati, discussero di una relazione che occorreнva inviare presto a un
osservatorio estero, quello di Arcetri. Sostenuti, guidati, sembrava, dai
numeri, invisibili in quelle ore ma presenti gli astri rigavano l'etere con le
loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze
a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed
esse non erano messaggere di catastrofi come Stella credeva: la loro
apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava
e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli. "Lasciamo che
qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio
del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All'altezza di quest'osservatorio
le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell'altro si fondono in una
tranquilla armonia. Il problema vero, l'unico, è di poter continuare a
vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti,
più simili alla morte."
Così
ragionava il Principe, dimenticando le proprie ubbie di sempre, i propri
capricci carnali di ieri. E per quei momenti di astrazione egli venne, forse,
più intimamente assolto, cioè ricollegato con l'universo, di
quanto avrebbe potuto fare la formula di Padre Pirrone. Per mezz'ora quella
mattina gli dei del soffitto e le bertucce del parato furono di nuovo posti al
silenzio. Ma nel salone non se ne accorse nessuno.
Quando
la campanella del pranzo li richiamò giù, tutti e due erano
rasserenati, tanto dalla comprensione delle congiunнture politiche come dal
superamento di questa comprensione stessa e un'atmosfera di distensione
inconsueta si diffuse nella villa. Il pasto di mezzogiorno era quello
principale e andò, grazie a Dio, del tutto liscio. Figurarsi che a Carolina,
la figlia ventenne, accadde che uno dei boccoli che le incorniciavano il volto,
sorretto da una forcina a quanto pare malsicura, scivolasse e andasse a finire
sul piatto. L'incidente che un altro giorno avrebbe potuto essere increscioso
questa volta aumentò soltanto l'allegria; quando il fratello che era
seduto vicino alla ragazza prese il ricciolo e se lo appuntò al collo,
sicché pendeva li come uno scapolare, perfino Don Fabrizio acconsenti a
sorridere. La partenza, la destinazione, gli scopi di Tancredi erano ormai noti
a tutti e ognuno ne parlava tranne Paolo che mangiava in silenzio. Nessuno del
resto era preoccupato, meno il Principe che nascondeva l'ansia non grave nella
profondità del cuore, e Concetta che era la sola a conservare un'ombra
sulla bella fronte. "La ragazza deve avere un sentimentuccio per quel
briccone. Sarebbe una bella coppia, ma temo che Tancredi debba mirare
più in alto, intendo dire più in basso." Oggi, poiché
il rasserenamento politico aveva fugato le nebbie che in generale la
oscuravano, la fondaнmentale bonomia di Don Fabrizio riappariva alla
superficie. Per rassicurare la figlia si mise a spiegare la scarsa efficacia
dei fucili dell'esercito regio: parlò della mancanza di rigatura delle
canne di quegli enormi schioppi e di quanta scarsa forza di penetrazione
fossero dotati i proiettili che da essi uscivano; spiegazioni tecniche in mala
fede per giunta, che pochi capiroнno e dalle quali nessuno fu convinto ma che
consolarono tutti perché erano riuscite a trasformare la guerra in un
pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa
in realtà è.
Alla fine del pranzo
venne servita la gelatina al rhum. Questo era il dolce preferito di don
Fabrizio e la Principessa, riconoscente delle consolazioni ricevute, aveva
avuto cura di ordinarlo la mattina di buon'ora. Si presentava minacciosa, i.
con quella sua forma di torrione appoggiato su bastioni e scarpate, dalle
pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione
rossa e verde di ciliegie e diа
pistacchi; era però trasparente e tremolante ed il cucchiaioа vi si affondava con stupefacente agio.
Quando la roccaforte ambrata giunse a Francesco Paolo, il ragazzo sedicenne
ultimo i servito essa non consisteva più che di spalti cannoneggiati e
di blocchi divelti. Esilarato dall'aroma del liquore e dal gusto delicato della
guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allo
smantellamento della fosca rocca sotto l'assalto degli appetiti. Uno dei suoi
bicchieri era rimasto a metà pieno di Marsala; egli lo alzò,
guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo più a lungo sugli
occhi azzurri di Concetta e "alla salute del nostro caro Tancredi"
disse. Bevve il vino in un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano
distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro
più.
In
Amministrazione dove Don Fabrizio discese di nuovo dopo il pranzo la luce
entrava adesso di traverso e dai quadri dei feudi, ora in ombra, non ebbe a
subire rimproveri. "Voscenza benedica" mormorarono Pastorello e Lo
Nigro i due affittuari che avevano portato i "carnaggi," quella parte
del canone che si pagava in natura. Se ne stavano ben ritti, con gli occhi
stupiti nei volti perfettamente rasati e stracotti dal sole. Diffondevano odor
di mandria. Il Principe parlò loro con cordialità, nel suo
dialetto stilizzatissimo, s'informò delle loro famiglie, dello stato del
bestiame, delle previsioni per il raccolнto. Poi chiese: "Avete portato
qualche cosa?" e mentre i due dicevano che si, che la roba era nella
stanza vicina, il Principe si vergognò un poco perché si era
accorto che il colloquio era stato una ripetizione delle udienze di Re
Ferdinando. "Aspettate cinque minuti e Ferrara vi darà le
ricevute." Pose loro in mano un paio di ducati ciascuno, il che era
più forse del valore di ciò che avevano portato. "Bevete un
bicchiere alla nostra salute." E andò a guardare i
"carnaggi": vi erano per terra quattro caci "primosale" di
dodici rotoli, dieci chili ciascuno; li osservò con indifferenza:
detestava questo formaggio; vi erano sei agnellini, gli ultimi dell'annata, con
le teste pateticamente abbandonate al disopra della larga piaga dalla quale la
loro vita era uscita poche ore prima; anche i loro ventri erano stati squartati
e gli intestini iridati pendevano fuori. "Il Signore abbia l'anima
sua" pensò, ricordando lo sbudellato di un mese fa. Quattro paia di
galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso
inquirente di Bendicò. "Anche questo un esempio d'inutile
timore" pensava "il cane non rappresenta per loro nessun pericolo;
neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla
pancia." Lo spettacolo di sangue e di terrore, però, lo
disgustò. "Tu, Pastorello, porta le galline al pollaio, per ora non
ce n'è bisogno in dispensa, e un'altra volta gli agnelli portali
direttamente in cucina; qui sporcano. E tu, Lo Nigro, vai a dire a Salvatore
che venga a far pulizia ed a portar via i formaggi. E apri la finestra per fare
uscire l'odore." Poi entrò Ferrara con le ricevute.
Quando
risalì Don Fabrizio trovò Paolo, il primogenito, il duca di
Querceta che lo aspettava nello studio sul cui divano rosso egli soleva far la
siesta. Il giovane aveva raccolto tutto il proprio coraggio e desiderava
parlargli. Basso, esile, olivastro, sembrava più anziano di lui.
"Volevo chiederti, papa, come dovremo comportarci con Tancredi quando lo
rivedremo." Il padre capì subito e cominciò ad irritarsi.
"Che intendi dire? cosa c'è di cambiato?" "Ma,
papà, certo tu non puoi approvare: è andato a unirsi a quei
farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio; queste sono cose che non si
fanno."
La
gelosia personale, il risentimento del bigotto contro il cugino spregiudicato,
del tonto contro il ragazzo di spirito si erano travestiti in argomentazione politica.
Don Fabrizio ne i tanto indignato che non fece neppure sedere il figlio:
УMeglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la acca dei
cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non ano
sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con duca di Querceta
sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a
Tancredi ed agli altri come lui. Vai via, non ti permetto più di
parlarmene! qui comando io solo." Poi si rabbonì e sostituì
l'ironia all'ira. "Vai, figlio mio, voglio dormire. Vai a parlare di
politica con 'Guiscardo,' v'intenderete bene." E mentre Paolo raggelato
richiudeva la porta, Don Fabrizio si tolse la redingote e gli
stivaletti, fece gemere il divano sotto il proprio peso e si addormentò
tranquillo.
Quando
si risvegliò il suo cameriere gli recò su un vassoio n giornale e
un biglietto. Erano stati inviati da Palermo da io cognato Màlvica con
un servo a cavallo. Ancora un po' ordito il Principe apri la lettera:
"Caro Fabrizio, mentre :rivo sono in uno stato di prostrazione estrema.
Leggi le terribili notizie che sono sul giornale. I Piemontesi sono sbarcati.
Siamo tutti perduti. Questa sera stessa io con tutta la famiglia ci rifugieremo
sui legni inglesi. Certo vorrai fare lo esso; se lo credi ti farò
riservare qualche posto. Il Signore salvi ancora il nostro amato Re. Un
abbraccio. Tuo Ciccio."
Ripiegò
il biglietto, se lo pose in tasca e si mise a ridere forte. Quel
Màlvica! Era stato sempre un coniglio. Non aveva impreso niente, e
adesso tremava. E lasciava il palazzo in alfa dei servi: questa volta si che lo
avrebbe ritrovato vuoto! A proposito bisogna che Paolo vada a stare a Palermo;
case abbandonate, in questi momenti, sono case perdute. Gliene parlerò a
cena."
Aprì
il giornale. "Un atto di pirateria flagrante veniva consumato l'11 Maggio
mercé lo sbarco di gente armata allaа
marina di Marsala. Posteriori rapporti hanno chiarito esser la banda
disbarcata di circa ottocento, e comandata da Garibaldi. Appena quei
filibustieri ebbero preso terra evitarono con ogni cura lo scontro delle truppe
reali, dirigendosi per quanto ci viene riferito a Castelvetrano, minacciando i
pacifici cittadini e non risparmiando rapine e devastazioni... etc.
etc..."
Il
nome di Garibaldi lo turbò un poco. Quell'avventuriero tutto capelli e
barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinaнto dei guai. "Ma se il
Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuoi dire che è sicuro di
lui. Lo imbriglieranno."
Si
rassicurò, si pettinò, si fece rimettere le scarpe e la redingote.
Cacciò il giornale in un cassetto. Era quasi l'ora del Rosario, ma il
salone era ancora vuoto. Sedette su un divano e mentre aspettava notò
come il Vulcano del soffitto rassomiнgliasse un po' alle litografie di
Garibaldi che aveva visto a
Torino. Sorrise. "Un cornuto."
La famiglia si
andava riunendo. La seta delle gonne frusciaнva. I più giovani
scherzavano ancora fra loro. Si udì da dietro l'uscio la consueta eco
della controversia fra i servi e Bendicò che voleva ad ogni costo
prender parte. Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminò le
bertucce maligne.
S'inginocchiò: "Salve, Regina, Mater
misericordiae..."