PARTE SECONDA
Agosto 1860
"Gli
alberi! ci sono gli alberi!"
Il grido partito dalla prima
delle carrozze percorse a ritroso la fila delle altre quattro pressoché
invisibili nella nuvola di polvere bianca, e ad ognuno degli sportelli volti
sudati espresseнro una soddisfazione stanca.
Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli "eucaliptus" i più sbilenchi figli di Madre Natura; ma erano anche i primi che si avvistassero da quando alle sei del mattino, la famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente nelle discese; passo e trotto, del resto, egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere che ormai non si percepiva più se non come manifestazione sonora dell'ambiente arroventato. Si erano atнtraversati paesi dipinti in azzurro tenero, stralunati; su ponti di bizzarra magnificenza si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia d'acqua: sole e polverone. All'interno delle vetture, chiuse appunto per quel sole e quel polverone, la temperatura aveva certamente raggiunto i cinquanta gradi. Quegli alberi assetati che si sbracciavano sul cielo sbiancato annunziavano parecchie cose: che si era giunti a meno di due ore dal termine del viaggio; che si entrava nelle terre di casa Salina; che si poteva far colazione e forse anche lavarsi la faccia con l'acqua verminosa di un pozzo.
Dieci minuti dopo si era giunti alla fattoria di Rampinzèri: un enorme fabbricato, abitato soltanto durante un mese dell'anнno da braccianti, muli ed altro bestiame che vi si radunava per il raccolto. Sulla porta solidissima ma sfondata un Gattoнpardo di pietra danzava benché una sassata gli avesse stroncato proprio le gambe; accanto al fabbricato un pozzo profondo, vigilato da quei tali eucaliptus, offriva muto i vari servizi dei quali era capace: sapeva far da piscina, da abbeveratoio, da carcere, da cimitero. Dissetava, propagava il tifo, custodiva cristiani sequestrati, occultava carogne di bestie e di uomini sinché si riducessero a levigati scheletri anonimi.
Tutta la famiglia Salina
discese dalle vetture. Il Principe, rallegrato dalla prospettiva di giungere
presto alla sua Donnafugata prediletta, la Principessa irritata ad un tempo ed
inerte cui la serenità del marito, però, dava ristoro; le ragazze
stanche; i ragazzini eccitati dalla novità e che il caldo non aveva
potuto domare; mademoiselle Dombreuil, la governante francese, completamente
disfatta e che memore degli anni passati in Algeria presso la famiglia del
maresciallo Bugeaud andava gemendo: "Mon Dieu, mon Dieu, c'est pire
qu'en Afrique!" mentre si rasciugava il nasino all'insù; Padre
Pirrone cui l'iniziata lettura del Breviario aveva conciliato un sonno che gli
aveva fatto sembrare breve il tragitto, e che era il più arzillo di
tutti; una cameriera e due servitori, gente di città irritata dagli
aspetti inconsueti della campagna; e Bendicò che, preciнpitatesi fuori
dall'ultima vettura, inveiva contro i suggerimenti funerei delle cornacchie che
roteavano basse nella luce.
Tutti erano bianchi di
polvere fin sulle ciglia, le labbra o. le code; nuvolette biancastre si alavano
attorno alle persone che giunte alla tappa si spolveravano l'un l'altra.
Tanto più brillava
fra il sudiciume la correttezza elegante di Tancredi. Aveva viaggiato a cavallo
e, giunto alla fattoria mezz'ora prima della carovana, aveva avuto il tempo di
spolverarsi, ripulirsi e cambiare la cravatta bianca. Quando aveva tirato fuori
l'acqua dal pozzo a molti usi si era guardato un momento nello specchio del
secchio e si era trovato a posto, con quella benda nera sull'occhio destro che
ormai serviva a ricordare più che a curare la ferita al sopracciglio
buscata tre mesi fa ai combattimenti di Palermo; con quell'altro occhio azzurro
che sembrava aver assunto l'incarico di esprimere la malizia anche di quello
temporaneamente eclissato; col filetto scarlatto al di sopra della cravatta che
discretamente alludeva alla camicia rossa che aveva portato. Aiutò la
Principessa a scendere dalla vettura, spolverò con la manica la tuba
dello zio, distribuì caramelle alle cugine e frizzi ai cuginetti, si
genuflesse quasi dinanzi al Gesuita, ricambiò gli impeti passioнnali di
Bendicò, consolò mademoiselle Dombreuil, prese in giro tutti,
incantò tutti.
I cocchieri facevano lentamente passeggiare in giro i cavalнli per rinfrescarli prima dell'abbeverata, i camerieri stendevano le tovaglie sulla paglia avanzata dalla trebbiatura, nel rettangolino d'ombra proiettato dalla fattoria. Vicino al pozzo premuroso incominciò la colazione. Intorno ondeggiava la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate; il lamento delle cicale riempiva il cielo; era come il rantolo della Sicilia , arsa che alla fine di agosto aspetta invano la pioggia.
Un'ora
dopo tutti furono di nuovo in cammino rinfrancati. Benché i cavalli,
stanchi, andassero più adagio ancora, l'ultimo tratto del percorso
appariva breve; il paesaggio, non più sconosciuto, aveva attenuato i
propri aspetti sinistri. Si andavaнno riconoscendo luoghi noti, mete aride di
passeggiate passate e di spuntini durante gli anni scorsi; la forra della
Dragonara, il bivio di Misilbesi; fra non molto si sarebbe giunti alla Madonнna
delle Grazie che, da Donnafugata, era il termine delle più lunghe
passeggiate a piedi. La Principessa si era addormentata, Don Fabrizio, solo con
lei nell'ampia carrozza, era beato. Mai era stato tanto contento di andare a
passare tre mesi a Donnafugata quanto lo era adesso in questa fine di Agosto
1860. Non soltanto perché di Donnafugata amasse la casa, la gente, il
senso di possesso feudale che in essa era sopravvissuto, ma anche
perché, a differenza di altre volte, non aveva alcun Spianto per le
pacifìche serate in osservatorio, per le occasionali visite a
Mariannina. Per esser sinceri, lo spettacolo che aveva offerto Palermo negli
ultimi tre mesi lo aveva un po' nauseato. Avrebbe voluto aver l'orgoglio di
esser stato il solo ad aver compreso la situazione e ad aver fatto buon viso al
"bau-bau" in camicia rossa; ma si era dovuto render conto che la
chiaroveggenza non era monopolio di casa Salina. Tutti i palermitani sembravano
felici: tutti, tranne un pugno di minchioni: Màlvica, suo cognato, che
si era fatto beccare dalla polizia del Dittatore e che era rimasto dieci giorni
in gattabuia; suo figlio Paolo altrettanto malcontento ma più prudente e
che aveva lasciato a Palermo impigliato in chissà quali puerili
complotti. Tutti gli altri ostentavano la loro gioia, portavano in giro baveri
adorni di coccarde tricolori, facevano cortei da mattina a sera e, soprattutto,
parlavano, concionavaнno, declamavano; e se magari nei primissimi giorni
dell'occuнpazione tutto questo baccano aveva ricevuto un certo senso di
finalità dalle acclamazioni che salutavano i rari feriti che passavano
per le vie principali, e dai lamenti dei "sorci," degli agenti della
polizia sconfitta che venivano torturati nei vicoli, adesso che i feriti erano
guariti e i "sorci" superstiti si erano arruolati nella nuova
polizia, queste carnevalate, delle quali pur riconosceva la necessità
inevitabile, gli apparivano sciocche e sciape. Doveva, però, convenire
che tutto ciò era manifestazioнne superficiale di cattiva educazione; il
fondo delle cose, il trattamento economico e sociale era soddisfacente, tal e
quale l'aveva previsto. Don Pietro Russo aveva mantenuto le sue promesse e
vicino alla villa Salina non si era udita neppure una schioppettata; e se nel
palazzo di Palermo era stato rubato un grande servizio di porcellana cinese,
ciò si doveva soltanto alla balordaggine di Paolo che lo aveva fatto
imballare in due ceste che aveva poi lasciate in cortile durante il
bombardamento, vero e proprio invito affinché gli imballatori stessi
venissero a farlo sparire.
I Piemontesi (cosi
continuava a chiamarli il Principe per rassicurarsi, allo stesso modo che altri
li chiamavano Garibaldini per esaltarli o Garibaldeschi per vituperarli) i
Piemontesi si erano presentati a lui se non addirittura col cappello in
mano, come era stato predetto, per lo meno con la mano alla visiera di quei
loro berrettucci rossi stazzonati e gualciti quanto quelli degli ufficiali
borbonici.
Preannunziato
ventiquattr'ore prima da Tancredi, verso il venti Giugno si era presentato a
villa Salina un generale in giacchettino rosso con alamari neri. Seguito dal
suo ufficiale di ordinanza aveva urbanamente chiesto di essere ammesso ad
ammirare gli affreschi dei soffitti. Venne accontentato senz'altro
perché il preavviso era stato sufficiente per allontaнnare da un salotto
un ritratto di re Ferdinando II in pompa magna ed a farlo sostituire con una
neutrale "Probatica Pisciнna," operazione che univa i vantaggi
estetici a quelli politici.
Il generale era uno
sveltissimo toscano sui trent'anni, chiacchierone ed alquanto fanfaronesco;
beneducato peraltro e simpatico, si era comportato con il dovuto ossequio dando
financo dell'Eccellenza" a Don Fabrizio, in netta contradizioнne con uno
dei primi decreti del Dittatore; l'ufficiale di ordinanza, un pivellino di
diciannove anni, era un conte milanese che affascinò le ragazze con gli
stivali lucidi e con la "erre" moscia.
Erano venuti accompagnati da
Tancredi che era stato promosso anzi creato, capitano sul campo; un po' patito
per le sofferenze causate dalla sua ferita e che se ne stava lì,
rosso-vestito ed irresistibile a mostrare la propria intimità coi
vincitori; intimità a base di "tu" e di "mio prode
amico" reciproci che i "continentali" prodigavano con
fanciullesco fervore e che erano ricambiati da Tancredi, nasalizzati
però e resi, per Don Fabrizio, pieni di sottaciuta ironia. Il Principe
li aveva accolti dall'alto della propria inespugnabile cortesia, Ria da loro
era stato davvero divertito e pienamente rassicurato, tanto che tre giorni dopo
i due "Piemontesi" erano stati invitati a cena; ed era stato un bei
vedere quello di Carolina seduta al Pianoforte che accompagnava il canto del
generale che, in omaggio alla Sicilia, si era arrischiato al "Vi ravviso o
luoghi ameni" mentre Tancredi, compunto, voltava le pagine della Partitura
come se le stecche non esistessero in questo mondo. Il contino milanese
intanto, curvo su di un sofà, parlava di pagare a Concetta e le rivelava
l'esistenza di Aleardo Aleardi; essa faceva finta di ascoltare e si rattristava
invece per la brutta cera del cugino che le candele del pianoforte facevano
apparire più languida di quel che fosse in realtà.
La
serata era stata compiutamente idillica e venne seguita da altre egualmente
cordiali; durante una di esse il generale venne pregato di interessarsi
affinché l'ordine di espulsione per i Gesuiti non venisse applicato a
Padre Pirrone che venne dipinto come sovraccarico di anni e malanni; il
generale che aveva preso in simpatia l'eccellente prete, finse di credere al
suo stato miserando, brigò, parlò con amici politici e Padre
Pirrone rimase. Il che confermò sempre più Don Fabrizio nella
esattezza delle proprie previsioni.
Il
generale fu molto utile anche per la quistione dei lasciaнpassare necessari in
quei giorni agitati per chi volesse spostarsi; si dovette in gran parte a lui
se anche in quell'anno di rivoluzione la famiglia Salina poté godere
della propria villegнgiatura. Anche il giovane capitano ottenne una licenza di
un mese e poté partire insieme agli zii. Anche a parte il lasciapassaнre,
i preparativi per la partenza erano stati lunghi e complicati. Si erano dovuti
condurre, infatti, ellittici negoziati in amminiнstrazione con fiduciari di
"persone influenti" di Girgenti, negoziati che, presieduti da Pietro
Russo, si conchiusero con sorrisi, strette di mano e tintinnii di monete. Si
era ottenuto un secondo e più valido lasciapassare; ma questo non era
una novità. Bisognò radunare montagne di bagagli e provviste e
spedire innanzi tre giorni prima una parte dei cuochi e dei servi;
bisognò imballare un telescopietto e permettere a Paolo di restare a
Palermo; dopo di che si era potuto partire. Il generale e il sottotenentino
erano venuti a portare auguri di buon viaggio e fiori; e quando le vetture
mossero da villa Salina due braccia rosse si agitarono lungamente, la tuba nera
del Principe si sporse dallo sportello, ma la manina con guanto di merletto che
il contino aveva sperato vedere rimase in grembo a Concetta.
Il
viaggio era durato tre giorni ed era stato orrendo. Le strade, le famose strade
siciliane per causa delle quali il principe di Satriano aveva perduto la
Luogotenenza erano delle vaghe tracce irte di buche e zeppe di polvere. La
prima notte a Marineo in casa di un notaio amico era stata ancora sopportabile;
ma la seconda in una locandaccia di Frizzi era stata penosa da passare, distesi
in tre su ciascun letto, insidiati da faune repellenti. La terza, a Bisacquino.
Non vi erano cimici ma in compenso Don Fabrizio aveva trovato tredici mosche
dentro il bicchiere della granita; un greve odore di feci esalava tanto dalle
strade che dalla "stanza dei cantari" attigua e ciò aveva
suscitato nel Principe sogni penosi; risveнgliatesi ai primissimi albori,
immerso nel sudore e nel fetore non aveva potuto fare a meno di paragonare
questo viaggio schifoso alla propria vita, che si era svolta dapprima per
pianure ridenti, si era inerpicata poi per scoscese montagne, aveva sgusciato
attraverso gole minacciose per sfociare poi in interminabili ondulazioni di un
solo colore, deserte come la disperazione. Queste fantasie del primo mattino
erano quanto di peggio potesse capitare a un uomo di mezza età; e
benché don Fabrizio sapesse che erano destinate a svanire con
l'attività del giorno ne soffriva acutamente perché era ormai
abbastanza esperto per sapere che esse lasciavano in fondo all'anima un
sedimento di lutto che, accumulandosi ogni giorno avrebbe finito con l'essere
la vera causa della morte.
Questi mostri, col sorgere
del sole, si erano rintanati in zone non coscienti; Donnafugata era vicina
ormai con il suo palazzo, con le sue acque zampillanti, con i ricordi dei suoi
antenati santi, con l'impressione che essa dava di perennità
dell'infanzia, anche la gente là era simpatica, devota e sempliнce. Ma a
questo punto un pensiero lo insidiò: chissà se dopo i recenti
fatti la gente sarebbe stata devota come prima. "Si vedrà."
Adesso si era davvero quasi
arrivati. Il volto arguto di Tancredi apparì da dietro il finestrino.
"Zii, preparatevi, fra cinque minuti ci siamo." Tancredi aveva troppo
tatto per precedere il Principe in paese; mise il suo cavallo al passo e,
procedette, riservatissimo, a fianco della prima vettura.
Al di
là del breve ponte le autorità stavano ad attendere, circondate
da qualche diecina di contadini. Appena le carrozнze entrarono sul ponte la
banda municipale attaccò con foga genetica "Noi siamo zingarelle"
primo strambo e caro saluto che da qualche anno Donnafugata porgeva al suo
Principe; e subito dopo le campane della Chiesa Madre e del convento di Santo
Spirito, avvertite da qualche monello in vedetta, riempirono l'aria di baccano
festoso. "Grazie a Dio, mi sembra che tutto sia come al solito"
pensò il Principe scendendo dalla carrozza. Vi erano li Don Calogero
Sedàra, il sindaco, con i fianchi stretti da una fascia tricolore nuova
fiammante come la sua carica; monsignor Trottolino, l'arciprete, con il suo
faccione arsiccio; don Ciccio Ginestra, il notaio, che era venuto, carico di
gale e pennacchi, in qualità di capitano della Guardia Nazionale; vi era
don Totò Giambone, il medico, e vi era la piccola Nunzia Giarritta che
porse alla Principessa uno scomposto mazzo di fiori colti, del resto, mezz'ora
prima nel giardino del palazzo. Vi era Ciccio Tumeo, l'organista del Duomo, il
quale a rigor di termini non avrebbe avuto rango sufficiente per schierarsi con
le autorità, ma che era venuto lo stesso quale amico e compagno di
caccia, e che aveva avuto la buona idea di portare con sé, per far
piacere al Principe, Teresina, la cagna bracca focata con i due segnetti color
nocciola al di sopra degli occhi, e che del suo ardire fu ricompensato da un
sorriso tutto particolare di Don Fabrizio. Questi era di ottimo umore e
sinceramente blando; era disceso dalla carrozza insieme alla moglie per
ringraziare e sotto l'imperversare della musica di Verdi e del frastuono delle
campane abbracciò il Sindaco e strinse la mano a tutti gli altri. La
folla dei contadini era muta ma dagli occhi immobili traspariva una
curiosità non ostile, perché i villici di Donnafugata non avevano
nulla contro il loro tollerante signore che così spesso dimenticava di
esigere i canoni e i piccoli fitti; e poi, avvezzi a vedere il Gattopardo
baffuto danzare sulla facciata del palazzo, sul frontone delle chiese, in cima
alle fontane, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano curiosi di vedere
adesso l'autentico Gattopardo in pantaloni di piqué distribuire a
tutti zampate amichevoli e sorridere nel volto di felino cortese. "Non
c'è da dire tutto è come prima, meglio di prima, anzi."
Anche Tancredi era oggetto di grande curiosiнtà: tutti lo conoscevano da
tempo ma adesso egli appariva come trasfigurato: non si vedeva più in
lui il giovanotto spregiudicato ma l'aristocratico liberale, il compagno di
Rosolino Pilo, il glorioso ferito dei combattimenti di Palermo. Lui in quella
ammirazione rumorosa nuotava come un pesce in acquai quei rustici ammiratori erano
davvero uno spasso; parlava loro in dialetto, scherzava, prendeva in giro
sé stesso e la propria ferita. Ma quando diceva "il generale
Garibaldi" calava la voce di un tono e prendeva l'aria assorta di un
chierichetto davanti all'ostensorio; e a don Calogero Sedàra, del quale
aveva vagamente inteso che si era dato molto da fare nei giorni della
liberazione, disse con voce sonora: "Di voi, don Calogero, Crispi mi ha
detto gran bene." Dopo di che diede il braccio alla cugina Concetta e se
ne andò lasciando tutti in visibilio.
Le
carrozze con i servi, i bambini e Bendicò andarono direttamente al
palazzo, ma, come voleva un antichissimo uso, gli altri prima di mettere il
piede in casa dovevano assistere a un Tè Deum alla Chiesa Madre.
Questa era, del resto, a due passi e ci si diresse li in corteo, polverosi ma
imponenti i nuovi arrivati, luccicanti ma umili le autorità. Precedeva
don Ciccio Ginestra che con il prestigio della divisa faceva far largo ai
passanti; seguiva il Principe a braccio della moglie e sembrava un leone sazio
e mansueto; dietro, Tancredi con alla sua destra Concetta cui quel procedere
verso una chiesa a fianco del cugino produceva un gran turbamento e una
dolcissima voglia di piangere; stato d'animo che non era punto alleviato da una
forte pressione che il premuroso giovanotto esercitava sul braccio di lei, al
solo scopo, ohibò, di farle scansare le buche e le buccie che
costellavano la via. Dietro ancora, in disordine, gli altri. L'organista era
scappato via in fretta per avere il tempo di depositare Teresina a casa e di
trovarsi al proprio tonante posto al momento dell'ingresso in chiesa. Le
campane imperversavano sempre, e sulle pareti delle case le iscrizioni di
"Viva Garibbaldi" "Viva Re Vittorio" e "Morte al re
Borbone" che un pennello inesperto aveva tracciato due mesi prima,
sbiadivano e sembravano voler rientrare nel muro. I mortaretti sparavano mentre
si saliva la scalinata e quando il piccolo corteo entrò in Chiesa, don
Ciccio Tumeo, giunto col fiato grosso ma in tempo, attaccò con passione
"Amami, Alfredo."
Il duomo era stipato di
gente curiosa, fra le sue tozze colonne di marmo rosso; la famiglia Salina
sedette nel coro e durante la breve cerimonia Don Fabrizio si esibì alla
folla, stupendo; la Principessa era sul punto di venir meno per il caldo e la
stanchezza, e Tancredi col pretesto di cacciar via le mosche sfiorò
più d'una volta il capo biondo di Concetta. Tutto era in ordine e dopo
il fervorino di monsignor Trottolino tutti s'inchinarono dinanzi all'altare, si
avviarono verso la porta e uscirono nella piazza abbrutita dal sole.
Al basso della scalinata le
autorità si congedarono e la Principessa che aveva avuto bisbigliate le
disposizioni durante la cerimonia, invitò a pranzo per quella stessa
sera il Sindaco, l'Arciprete e il Notaio. L'Arciprete era scapolo per
professione ed il Notaio per vocazione e cosi la questione delle consorti per
essi non poteva porsi; languidamente l'invito al sindaco venne esteso alla di
lui moglie: era questa una specie di contadina, bellissima, ma giudicata dal
marito stesso, per più d'un verso, impresentabile; nessuno quindi si
sorprese quando egli disse che era indisposta; ma grande fu la meraviglia
quando aggiunse: "Se le Loro Eccellenze lo permettono verrò con mia
figlia, con Angelica, che da un mese non fa che parlare del piacere che avrebbe
a esser da loro conosciuta, da grande." Il consenso, naturalmente venne
dato; e don Fabrizio che aveva visto Tumeo sogguardare da dietro le spalle
degli altri, gli gridò: "E anche voi, si capisce, don Ciccio, e
venite con Teresina." E rivolto agli altri aggiunse: "E dopo pranzo,
alle nove e mezza, saremo felici di vedere tutti gli amici." Donnafugata
commentò a lungo queste ultime parole. Il Prinнcipe che aveva trovato il
paese immutato venne invece trovato molto mutato lui che mai prima avrebbe
adoperato parole tanto cordiali; e da quel momento, invisibile, cominciò
il, declino del suo prestigio.
Il palazzo Salina era
attiguo alla Chiesa Madre. La sua breve facciata con sette balconi sulla piazza
non lasciava supporre la sua smisuratezza che si estendeva indietro per
duecento metri: erano dei fabbricati di stili differenti, armoniosamente uniti
però intorno a tre vasti cortili e terminanti in un ampio giardino tutto
cintato. All'ingresso principale sulla piazza i viaggiatori furono sottoposti a
nuove manifestazioni di benvenuto. Don Onofrio Rotolo, l'amministratore locale,
non aveva partecipato, non partecipava mai, alle accoglienze ufficiali
all'ingresso del paese. Educato alla rigidissima scuola della principessa
Carolina, egli considerava il vulgus come non esistente ed il Principe
come residente all'estero sinché non avesse varcato la soglia del
proprio palazzo; e perciò stava lì, a due passi fuori dal
portone, piccolissimo, vecchissimo, barbutissimo, fiancheggiato dalla moglie
assai più giovane di lui e poderosa, spalleggiato dai servi e dagli otto
"campieri" col Gattopardo d'oro sul berretto e nelle mani otto
schioppi di non costante innocuità. "Sono felice di dare alle Loro Eccellenze
il benvenuto nella Loro casa. Riconsegno il palazzo nello stato preciso in cui
è stato lasciato."
Don Onofrio era una delle
rare persone stimate dal Princiнpe e forse la sola che non lo avesse mai
derubato. L'onestà sua confinava con la mania e di essa si narravano
episodi spettacolosi come quello del bicchierino di rosolio lasciato semipieno
dalla principessa al momento di una partenza e ritrovato un anno dopo
nell'identico posto col contenuto evaporato e ridotto allo stato di gromma
zuccherina, ma non toccato. "Perché questa è una parte
infinitesimale del patrimonio del Principe e non si deve disperdere."
Finiti i convenevoli con don
Onofrio e donna Maria, la Principessa che si reggeva ormai soltanto sui nervi,
andò di filato a letto, le ragazze e Tancredi corsero verso le calde
ombre del giardino, Don Fabrizio e l'amministratore fecero il giro del grande
appartamento. Tutto era in perfetto ordine: i quadri nelle loro cornici pesanti
erano spolverati, le dorature delle rilegature antiche emettevano il loro fuoco
discreto, lТalto sole faceva brillare i marmi grigi attorno ad ogni porta. Ogni
cosa era nello stato in cui si trovava da cinquant'anni. Uscito dal turbine
rumoroso dei dissidi civili, don Fabrizio si sentì rinfrancato, pieno di
serena sicurezza e guardò quasi teneramente don Onofrio che gli
trotterellava al fianco. "Don СNofrio, voi siete veramente uno di quei
gnomi che custodiscoнno i tesori; la riconoscenza che vi dobbiamo è
grande." In un altro anno il sentimento sarebbe stato eguale ma le parole
non gli erano salite alle labbra; don 'Nofrio lo guardò grato e
sorpreso. "Dovere, Eccellenza, dovere"; e per nascondere la propria
emozione si grattava un orecchio con il lunghissimo unghie del mignolo
sinistro.
Dopo, l'Amministratore venne
sottoposto alla tortura del tè. Don Fabrizio se ne fece portare
due tazze e con la morte nel cuore don 'Nofrio dovette inghiottirne una; poi si
mise a raccontare le cronache di Donnafugata: due settimane fa aveva rinnovato
l'affitto del feudo Aquila a condizioni un po' peggiori di prima; aveva dovuto
affrontare delle spese per la riparazione dei solai delle foresterie; ma vi
erano in cassa, a disposizione di Sua Eccellenza, 3275 onze al netto di ogni
spesa, tassa e del proprio stipendio.
Poi vennero le notizie
private che si adunavano attorno al grande fatto dell'annata: la continua
rapida ascesa della fortuнna di don Calogero Sedàra: sei mesi fa era
scaduto il mutuo concesso al barone Tumino ed egli si era incamerata la terra:
mercé mille onze prestate possedeva adesso una nuova proprieнtà che
ne rendeva cinquecento all'anno; in Aprile aveva potuto acquistare due
"salme" di terreno per un pezzo di pane, ed in quella piccola
proprietà vi era una cava di pietra ricercatissima che egli si proponeva
di sfruttare; aveva concluнso vendite di frumento quanto mai profittevoli nei
momenti di disorientamento e di carestia che avevano seguito lo sbarco. La voce
di don 'Nofrio si riempì di rancore: "Ho fatto un conto sulla punta
delle dita: le rendite di don Calogero eguaglieranno fra poco quelle di Vostra
Eccellenza qui a Donnafugata; e questa in paese è la minore delle sue
proprietà."
Insieme alla ricchezza
cresceva anche la sua influenza politica; era divenuto il capo dei liberali a
Donnafugata ed anche nei borghi vicini; quando ci sarebbero state le elezioni
era sicuro di essere inviato deputato a Torino. "E che aria si danno! non
lui che è troppo intelligente per farlo, ma sua figlia, per esempio, che
è ritornata dal collegio di Firenze e che va in giro per il paese con la
sottana rigonfia e i nastri di velluto che le pendono giù dal
cappellino."
Il Principe taceva: la
figlia, sì, quell'Angelica che sarebbe venuta a pranzo stasera; era
curioso di rivedere quella pastorelнla agghindata; non era vero che nulla era
mutato; don Calogero ricco quanto lui! Ma queste cose, in fondo, erano
previste, erano il prezzo da pagare.
Il silenzio del Principe
turbò don 'Nofrio; immaginava di averlo scontentato narrandogli i
pettegolezzi paesani. "Eccelнlenza, ho pensato a far preparare un bagno;
dev'essere pronto adesso." Don Fabrizio si accorse improvvisamente di
essere stanco: erano quasi le tre ed erano nove ore che si trovava in giro
sotto il sole torrido e dopo quella nottata; sentiva il suo corpo pieno di
polvere fin nelle più remote pieghe. "Grazie, don 'Nofrio, di
averci pensato; e di tutto il resto. Ci rivedremo questa sera a pranzo."
Salì
la scala interna; passò per il salone degli arazzi, per quello azzurro,
per quello giallo; le persiane abbassate filtravano la luce, nel suo studio la
pendola di Boulle batteva sommessa. "Che pace, mio Dio, che pace!"
Entrò nello stanzino del bagno: piccolo, imbiancato a calce, col suo
pavimento di ruvidi mattoni nel cui centro vi era l'orifizio per lo scolo
dell'acqua. La vasca era una sorta di truogolo ovale, immenso, in lamierino
verniciato giallo fuori e bianco dentro, issato su quattro robusti piedi di
legno. Dalla finestra senza riparo il sole entrava brutalmente.(1)
(1)
Appeso
a un chiodo del muro un accappatoio; su una delle sedie di corda la biancheria
di ricambio; su un'altra un vestito che recava ancora le pieghe prese nel
baule. Accanto al bagno un grosso pezzo di sapone rosa, uno spazzolone, un
fazzoletto annodato contenente della crusca che bagnata avrebbe emesso un latte
odoroso, una enorme spugna, una di quelle che gli inviava l'amministratore di
Salina.
Don
Fabrizio chiamò: entrarono due servitori recanti ciaнscuno una coppia di
secchi sciabordanti, l'uno di acqua fredda, l'altro di acqua bollente; fecero
il via vai diverse volte, il truogolo si riempi; lui ne provò la
temperatura con la mano: andava bene. Fece uscire i servi, si svesti,
s'immerse. Sotto la mole spropositata l'acqua fu sul punto di traboccare.
S'insapoнnò, si strigliò: il tepore gli faceva bene, lo
rilassava. Stava quasi per addormentarsi quando si bussò alla porta:
Domenico, il cameriere, entrò timoroso. "Padre Pirrone chiede di
vedere subito Vostra Eccellenza. Aspetta qui accanto che Vostra Eccellenza esca
dal bagno." Il Principe fu sorpreso; se era successo un guaio era meglio
conoscerlo subito. "Niente affatto; fatelo entrare adesso."
Don Fabrizio si era
allarmato della fretta del Gesuita; e un po' per questo e un po' per rispetto
dell'abito sacerdotale si affrettò a uscire dal bagno: contava di poter
mettersi l'accappaнtoio prima che padre Pirrone entrasse; ma ciò non gli
riuscì, e il prete entrò proprio nell'istante in cui egli non
più velato dall'acqua saponacea, non ancora rivestito dall'effimero sudaнrio,
si ergeva interamente nudo, come l'Èrcole Farnese, e per di più
fumante, mentre giù dal collo, dalle braccia, dallo stomaco, dalle
coscie l'acqua gli scorreva a rivoli, come il Rodano, il Reno e il Danubio
traversano e bagnano i gioghi alpini. Il panorama del Principone allo stato
adamitico era inedito per Padre Pirrone. Allenato dal sacramento della
Penitenza alle nudità degli animi, lo era assai meno a quella dei corpi;
ed egli che non avrebbe battuto ciglio ascoltando la confessione, poniamo, di
una tresca incestuosa, si turbò alla vista di quella innocente
nudità titanica. Balbettò una scusa e accennò a ritornare
indietro; ma Don Fabrizio, irritato per non aver fatto in tempo a coprirsi
rivolse naturalmente contro di lui la propria stizza: "Padre, non fate lo
sciocco; piuttosto datemi l'accappatoio e, se non vi dispiace, aiutatemi ad
asciuнgarmi." Subito dopo un battibecco passato gli tornò in mente.
"E date retta a me, Padre, prendete un bagno anche voi." Sodisfatto
di aver potuto dare un ammonimento igienico a chi gliene impartiva tanti
morali, si rasserenò. Col lembo superiore del panno finalmente ottenuto
si asciugava i capelli, le basette ed il collo, mentre col lembo inferiore
l'umiliato Padre Pirrone gli strofinava i piedi. Quando la vetta e le falde del
monte furono asciutte: "Adesso sedetevi, Padre, e ditemi perché
volevate parlarmi cosi di furia." Mentre il Gesuita sedeva egli
incominciò per proprio conto alcuni prosciugamenti più intimi.
"Ecco, Eccellenza: sono stato incaricato di una missioнne delicata. Una
persona sommamente cara a voi ha voluto aprire a me il suo animo e affidarmi
l'incarico di far conoscere i suoi sentimenti, fiduciosa, forse a torto, che la
stima della quale sono onorato..." Le esitazioni di Padre Pirrone si
stempeнravano in frasi interminabili. Don Fabrizio perdette la pazienza:
"Insomma, Padre, di chi si tratta? Della Principessa?" E col braccio
alzato sembrava minacciare; di fatto si asciugava un'ascella.
"La Principessa
è stanca; dorme e non la ho vista. Si tratta della signorina
Concetta." Pausa. "Essa è innamorata." Un uomo di
quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui
si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si senti
invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i
"Gesummaria" che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al
termine di un viaggio lungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una
persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di
Villa Giulia.
"E quella stupida
perché è andata a raccontare queste cose a voi? Perché non
è venuta da me?" Non chiese neppure di chi fosse innamorata
Concetta: era superfluo. "Vostra Eccellenza cela troppo bene il cuore
paterno sotto l'autorità del padrone; è naturale allora che
quella povera figliola si intimorisca e ricorra al devoto ecclesiastico di
casa."
Don Fabrizio s'infilava i
lunghi mutandoni e sbuffava: prevedeva lunghi colloqui, lagrime, seccature
senza limiti; quella smorfiosa gli guastava il primo giorno a Donnafugata.
"Capisco, Padre,
capisco. A casa mia non mi comprende nessuno. È la mia disgrazia."
Rimaneva seduto su uno sgabello col vello biondo del petto imperlato di
goccioline. Rivoletti d'acqua serpeggiavano sui mattoni, la stanza era carica
di odor latteo di crusca, di odor di mandorla del sapone. "E che cosa
dovrei dire, io, secondo voi?" Il Gesuita sudava nel calore da stufa e,
adesso che la confidenza era stata trasmessa, avrebbe voluto andar via; ma il
sentimento della propria responsabilità lo trattenne. "Il desiderio
di fondare una famiglia cristiana appare graditissimo agli occhi della Chiesa. La
presenza del Signore alle nozze di Cana..." "Non divaghiamo. Io
intendo parlare di questo matrimonio, non del matrimonio in generale. Tancredi
ha fatto delle proposte precise? e quando?"
Durante cinque anni Padre
Pirrone aveva tentato d'inseнgnare il latino al ragazzo; durante sette anni ne
aveva subito le bizze e gli scherzi; come tutti ne aveva sentito il fascino; ma
i recenti atteggiamenti politici di Tancredi lo avevano offeso; il
vecchio affetto lottava in lui col nuovo rancore. Adesso non sapeva cosa dire.
"Proposte vere e proprie, no. Ma la signorina Concetta non ha dubbi: le
attenzioni, gli sguardi, le mezzeparole di lui, tutte cose che divengono sempre
più frequenti, hanno convinto quell'anima santa; essa è sicura di
essere amata; ma, figlia rispettosa e ubbidiente, voleva chiedervi, per mio
mezzo, che cosa dovrà rispondere quando queste proposte verranno. Essa
sente che sono imminenti."
Don
Fabrizio fu un poco rassicurato: da dove mai quella ragazzina avrebbe dovuto
attingere una esperienza che le perнmettesse di veder chiaro nelle intenzioni
di un giovanotto? e di un giovanotto come Tancredi, per di più! Si
trattava probabilmente di semplici fantasie, di uno di quei "sogni
d'oro" che sconvolgono i guanciali degli educandati. Il pericoнlo non era vicino.
Pericolo. La parola gli
risonò in mente con tanta nettezza che se ne sorprese. Pericolo. Ma
pericolo per chi? Egli amava molto Concetta: di lei gli piaceva la perpetua
sottomissione, la placidità con la quale si piegava ad ogni esosa manifestazione
della volontà paterna; sottomissione e placidità, del resto, da
lui sopravalutata. La naturale tendenza che egli possedeva a rimuovere ogni
minaccia alla propria calma gli aveva fatto trascurare di osservare il bagliore
ferrigno che traversava gli occhi della ragazza quando le bizzarrie alle quali
ubbidiva erano davvero troppo vessatorie. Il Principe amava molto questa sua
figlia; ma amava ancor più Tancredi. Conquistato da sempre
dall'affettuosità beffarda del ragazzo, da pochi mesi aveva cominciato
ad ammirare anche l'intelligenza di lui: quella rapida adattabilità,
quella penetrazione mondana, quelнl'arte innata delle sfumature che gli dava il
modo di parlare il linguaggio demagogico di moda pur lasciando capire agli
iniziati che ciò non era che un passatempo al quale lui, il Principe di
Falconeri, si abbandonava per un momento, tutte queste cose lo avevano
divenite; e per le persone del carattere e della classe di Don Fabrizio la
facoltà di esser divertiti costituisce i quattro quinti dell'affetto.
Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli
avrebbe potuto essere l'alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto
mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo
gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva,
niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di
meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far
favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di
casa... e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace
di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale
della nuova società? Timida, riservata, ritrosa come era? Sarebbe
rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di
piombo al piede del marito.
"La
vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?" La
testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. "Ma che c'entra
questo? Non capisco." Don Fabrizio non si curò di spiegare e si
ringolfò nei suoi pensieri. Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote,
certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in
parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed
allora? Tancredi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio,
con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori;
di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche. L'amore.
Certo, l'amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui
che cos'era l'amore... e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero
cadute come pere cotte...
Ad un
tratto ebbe freddo. L'acqua che aveva addosso evaporava, e la pelle delle
braccia era gelida. Le punte delle dita si raggrinzivano. E che quantità
di penose conversazioni in vista. Bisognava evitare... "Adesso debbo
andare a vestirmi, Padre. Dite a Concetta, vi prego, che non sono affatto
seccato ma che di tutto questo riparleremo quando saremo sicuri che non si tratta
soltanto di fantasie di una ragazza romantica. A Presto, Padre."
Si alzò e
passò nella stanza di toletta. Dalla Madre Chiesa vicina giungevano
tetri i rintocchi di un "mortorio." Qualcuno era morto a Donnafugata,
qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell'estate
siciliana, cui era bancata la forza di aspettare la pioggia. "Beato
lui" pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette.
"Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche."
Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a
calmarlo. "Finché c'è morte c'è speranza"
pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato
di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. "Ce sont
leurs affaires, après tout." pensò in francese come
faceva quando le sue cogitazioni si sforzavano di essere sbarazzine. Sedette su
una poltrona e si appisolò.аааааааааааааааааааааааааа
Dopo
un'ora si svegliò rinfrescato e discese in giardino. Il sole già
calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le
araucarie, i pini, i robusti lecci che facevano la gloria del posto. Il viale
principale scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti
di dee senza naso; e da in fondo si udiva la dolce pioggia degli zampilli che
ricadevano nella fontana di Anfìtrite. Vi si diresse, svelto, avido di
rivedere. Soffiate via dalle conche dei Tritoni, dalle conchiglie delle Naiadi,
dalle narici dei mostri marini, le acque erompevano in filamenti sottili,
picchiettavano con pungente brusio la superficie verdastra del bacino,
suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi ridenti;
dall'intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi
vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi
in dolore. Su di un isolotto al centro del bacino rotondo, modellato da uno
scalpello inesperнto ma sensuale, un Nettuno spiccio e sorridente abbrancava
un'Anfitrite vogliosa: l'ombelico di lei inumidito dagli spruzzi, brillava al
sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell'ombria subacquea. Don Fabrizio si
fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo.
"Zione, vieni a guardare le pesche forestiere.
Sono venute benissimo; e lascia stare queste indecenze che non sono fatte per
uomini della tua età."
L'affettuosa
malizia della voce di Tancredi lo distolse dall'intorpidimento voluttuoso. Non
lo aveva inteso venire, era come un gatto. Per la prima volta gli sembrò
che un senso di rancore lo pungesse alla vista del ragazzo; quel bellimbusto
con il vitino smilzo sotto l'abito bleu scuro era stata la causa che lui avesse
tanto acerbamente pensato alla morte due ore fa. Poi si rese
conto che rancore non era, soltanto un travestimento del timore: aveva paura
che gli parlasse di Concetta. Ma l'abbordo, il tono del nipote non era quello
di chi si prepari a far confidenze amorose a un uomo come lui. Si calmò:
l'occhio del nipote lo guardava con l'affetto ironico che la gioventù
concede alle persone anziane. "Possono perнmettersi di fare un po' i
gentili con noi, tanto sono sicuri che il giorno dopo dei nostri funerali
saranno liberi." Andarono a guardare le "pesche forestiere."
L'innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito
perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma
erano grandi, vellutate e fragranti; giallognole con due sfumature rosee sulle
guancie sembravano testoline di cinesine pudiche. Il Principe le palpò
con la delicatezza famosa dei polpastrelli. "Mi sembra che siano proprio a
punto. Peccato che siano troppo poche per servirle stasera. Domani le faremo
cogliere e vedremo come sono." "Vedi! cosi mi piaci, zio;
così, nella parte dell'agricola pius che apprezza e pregusta i
frutti del proprio lavoro; e non come ti ho trovato poc'anzi mentre contemplavi
nudità scandalose." "Eppure, Tancredi, anche queste pesche
sono prodotte da amori, da congiungimenti." "Certo, ma da amori
legali, promossi da tè, padrone e dal giardiniere, notaio; da amori
meditati, fruttuosi. In quanto a quelli li" disse e accennava alla fontana
della quale si percepiva il fremito al di là di un sipario di lecci
"credi davvero che siano passati dinanzi al parroco?" L'abbrivio
della conversazione diventava pericoloso e Don Fabrizio si affrettò a
cambiar rotta.
Risalendo
verso casa, Tancredi narrò quanto aveva appreso della cronaca galante di
Donnafugata: Menica la figlia di campiere Saverio, si era lasciata ingravidare
dal fidanzato; il matrimonio adesso si doveva compiere in fretta. Colicchio,
poi, era sfuggito per un pelo alla fucilata di un marito scontenнto. "Ma
come fai a sapere queste cose?" "Le so, zione, le so. A
me raccontano tutto; sanno che io compatisco."
Giunti
in cima alla scala che con svolte lente e lunghe soste di pianerottoli saliva
dal giardino al palazzo, videro l'orizzonte serale al di là degli
alberi: dalla parte del mare immani nuvoloni color d'inchiostro scalavano il
cielo. Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledizione annuale della
Sicilia aveva avuto termine? In quel momento quei nuvoloni carichi di sollievo
erano guardati da migliaia di altri occhi, avvertiti da miliardi di semi nel
grembo della terra. "Speriamo che l'estate sia finita, che venga
finalmente la pioggia" disse Don Fabrizio; e con queste parole l'altero
nobiluomo cui, personalmente, le piogge avrebbero soltanto recato fastidio, si
rivelava fratello dei suoi rozzi villani.
Il
Principe aveva sempre tenuto a che il primo pranzo a Donnafugata avesse un
carattere solenne: i figlioli sotto i quindici anni erano esclusi dalla tavola,
venivano serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima
dell'arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di un solo particolare
transigeva: non si metteva in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che,
evidentemente, non ne possedevano. Quella sera, nel salone detto "di
Leopoldo" la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. Da sotto i
paralumi di merletto i lumi a petrolio spandevano una gialla luce circoscritta;
gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immaнgini
imponenti e vaghe come il loro ricordo. Don Onofrio era già arrivato con
la moglie e cosi pure l'Arciprete che, con la mantellina pieghettata giù
dalle spalle in segno di gala, parlava con la Principessa delle beghe del
Collegio di Maria. Era giunto anche don Ciccio l'organista (Teresina era di
già stata legata al piede di un tavolo del riposto) che rievocava
insieme al Principe favolosi tiri riusciti nelle forre della Dragonara. Tutto
era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel
salotto una irruzione scandalosa: "Papà, don Calogero sta salendo
le scale. È in frack!"
Tancredi
valutò l'importanza della notizia un secondo prima degli altri; era
intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale
parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non
rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un
effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento
previsto, non solo, ma anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com'egli
era, ai presagi e ai simboli, contemнplava la Rivoluzione stessa in quel
cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua.
Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di
Donnafuнgata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio,
un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera.
Il suo sconforto fu grande e
durava ancora mentre meccaнnicamente si avanzava verso la porta per ricevere
l'ospite. Quando lo vide, però, le sue pene furono alquanto alleviate.
Perfettamente adeguato quale manifestazione politica, si poteнva però
affermare che, come riuscita sartoriale, il frack di don Calogero era una
catastrofe. Il panno era finissimo, il modello recente, ma il taglio era
semplicemente mostruoso. Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in
un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta.
Le punte delle due falde si ergevano verso il ciclo in muta supplica, il vasto
colletto era informe e, per quanto doloroso è necessario dirlo, i piedi
del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati.
Don Calogero si avanzava con
la mano tesa e inguantata verso la Principessa: "Mia figlia chiede scusa;
non era ancora del tutto pronta. Vostra Eccellenza sa come sono le femmine in
queste occasioni" aggiunse esprimendo in termini quasi vernacoli un
pensiero di levità parigina. "Ma sarà qui fra un attimo; da
casa nostra sono due passi, come sapete."
L'attimo durò cinque
minuti; poi la porta si apri ed entrò Angelica. La prima impressione fu
di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola; Tancredi senti
addirittura come gli pulsassero le vene delle tempie. Sotto l'impeto della sua
bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzanнdoli, i non pochi
difetti che questa bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di
questo lavorio critico non furono capaci mai. Era alta e ben fatta, in base a
generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema
fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto
la massa dei capelli color di notte avvolti di soavi ondulazioni, gli occhi
verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com'essi, un po'
crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé l'ampia gonna
bianca e recava nella persona la pacatezza, l'invincibilità della donna
di sicura bellezza. Molti mesi dopo soltanto si seppe che al momento di quel
suo ingresso trionfale essa era stata sul punto di svenire per l'ansia.
Non si curò di Don
Fabrizio che accorreva verso di lei, oltrepassò Tancredi che sorrideva
trasognato; dinanzi alla poltrona della Principessa la sua groppa stupenda
disegnò un lieve inchino e questa forma di omaggio inconsueta in Sicilia
le conferì un istante il fascino dell'esotismo in aggiunta a quello
della bellezza paesana. "Angelica mia, da quanto tempo non ti avevo vista.
Sei molto cambiata; e non in peggio." La Principessa non credeva ai propri
occhi; ricordava la tredicenne poco curata e bruttina di quattro anni prima e
non riusciva a farne combaciare l'immagine con quella dell'adoleнscente
voluttuosa che le stava davanti. Il Principe non aveva ricordi da riordinare;
aveva soltanto previsioni da capovolgere; il colpo inferto al suo orgoglio dal
frack del padre si ripeteva adesso nell'aspetto della figlia; ma questa volta
non si trattava di panno nero ma di matta pelle lattea; e tagliata bene, come
bene! Vecchio cavallo da battaglia com'era, lo squillo della grazia femminile
lo trovò pronto ed egli si rivolse alla ragazza con tutto il grazioso
ossequio che avrebbe adoperato parlando alla duchessa di Bovino o alla
principessa di Lampedusa. "EТ una fortuna per noi, signorina Angelica, di
avere accolto un fiore tanto bello nella nostra casa; e spero che avremo il
piacere di rivedervelo spesso." "Grazie, principe; vedo che la Sua
bontà per me è uguale a quella che ha sempre dimostrato al mio
caro papa." La voce era bella, bassa di tono, un po' troppo sorvegliata
forse; il collegio fiorentino aveva cancellato lo strascichio dell'accento
girgentano; di siciliano, nelle paroнle, rimaneva soltanto l'asprezza delle
consonanti che del resto si armonizzava benissimo con la sua venustà
chiara ma greve. A Firenze anche le avevano appreso ad omettere
l'"Eccellenza."
Rincresce di poter dir poco
di Tancredi: dopo che si fu fatto presentare da don Calogero, dopo aver a
stento resistito al desiderio di baciare la mano di Angelica, dopo aver manovraнto
il faro del suo occhio azzurro, era rimasto a chiacchierare con la signora
Rotolo, e non capiva nulla di quanto udiva. Padre Pirrone in un angolo buio se
ne stava a meditare e pensava alla Sacra Scrittura che quella sera gli si
presentava soltanto come una successione di Dalile, Giuditte ed Ester.
La porta centrale del
salotto si apri e "Prann' pronn'" declamò il maestro di casa;
suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto; e il
gruppo eterogeneo si avviò verso la stanza da pranzo.
Il
Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un
paese dell'interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e
infrangeva tanto più facilmente le regole dell'alta cucina in quanto
ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica
usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con
troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore
non palpitasse in loro all'inizio di ognuno di quei pranzi solenni.
Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando
ciascuno uno smisurato piatto d'argento che conteneva un torreggiante timballo
di maccheнroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifeнstare
una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l'aspettavano,
Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. Tutti gli altri
(Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi
diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto
acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa
troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.
Buone
creanze a parte, però, l'aspetto di quei babelici pasticci era ben degno
di evocare fremiti di ammirazione. L'oro brunito dell'involucro, la fragranza
di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della
sensazione di delizia che si sprigionava dall'interno quando il coltello
squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si
scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di
prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima
dei maccheroncini corti cui l'estratto di carne conferiva un prezioso color
camoscio.
L'inizio
del pasto fu, come sempre avviene in provincia, raccolto. L'Arciprete si fece
il segno della croce e si lanciò a capofitto senza dir parola;
l'organista assorbiva la succolenza . del cibo ad occhi chiusi: era grato al
Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli
procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo prezzo di uno di quei
timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese; Angelica, la bella Angelica,
dimenticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e
divorava con l'appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta
tenuta a metà dell'impugnatura le conferiva. Tancredi, tentando di unire
la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di
Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse che
l'esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste
fantasie al momento del dolce; Don Fabrizio, benché rapito nella
contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico
a tavola che la demi-glacé era troppo carica e si ripromise di
dirlo al cuoco l'indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla e non
sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito anche perché un'aura
sensuale era penetrata nella casa.
Tutti erano tranquilli e
contenti. Tutti, tranne Concetta. Essa aveva si abbracciato e baciato Angelica,
aveva anche respinto il "lei" che quella le dava e preteso il
"tu" della loro infanzia ma lì, sotto il corpetto azzurro
pallido, il cuore le veniva attanagliato; in lei si ridestava il violento
sangue Salina e sotto la fronte liscia si ordivano fantasie di venefici.
Tancredi sedeva fra lei ed Angelica e con la compitezza puntigliosa di chi si
sente in colpa divideva equamente sguardi, complimenti e facezie fra le sue due
vicine; ma Concetta sentiva, animaleнscamente sentiva, la corrente di desiderio
che scorreva dal cugino verso l'intrusa, e il cipiglietto di lei fra la fronte
e il naso s'inaspriva; desiderava uccidere quanto desiderava morire.
Poiché era donna si aggrappava ai particolari: notava la grazia volgare
del mignolo destro di Angelica levato in alto mentre la mano teneva il
bicchiere; notava un neo rossastro sulla pelle del collo, notava il tentativo
represso a metà di togliere con la mano un pezzette di cibo rimasto fra
i denti bianchissimi; notava ancor più vivacemente una cena durezza di
spirito; ed a questi particolari che in realtà erano insignificanti
perché bruciati dal fascino sensuale si aggrappava fiduciosa e disperaнta
come un muratore precipitato si aggrappa a una grondaia di piombo; sperava che
Tancredi li notasse anch'egli e si disgustasse dinanzi a queste tracce palesi
della differenza di educazione. Ma Tancredi li aveva di già notati e
ahimè! senza alcun risultato. Si lasciava trascinare dallo stimolo
fisico che la femmina bellissima procurava alla sua gioventù focosa ed
anche dalla eccitazione diciamo così contabile che la ragazza ricca
suscitava nel suo cervello di uomo ambizioso e povero.
Alla fine del pranzo la
conversazione era generale: don Calogero raccontava in pessima lingua ma con
intuito sagace alcuni retroscena della conquista garibaldina della provincia;
il notaio parlava alla Principessa del villino "fuori città"
(cioè a cento metri da Donnafugata) che si faceva costruire; Angelica eccitata
dalle luci, dal cibo, dallo chablis, dall'evidenнte consenso che essa
trovava in tutti i maschi attorno alla tavola, aveva chiesto a Tancredi di
narrarle alcuni episodi dei "gloriosi fatti d'arme" di Palermo; aveva
posato un gomito sulla tovaglia e poggiato la guancia sulla mano; il sangue le
affluiva alle gote ed essa era pericolosamente gradevole da guardare;
l'arabesco disegnato dall'avambraccio, dal gomito, dalle dita, dal guanto
bianco pendente venne trovato squisito da Tancredi e disgustoso da Concetta. Il
giovane, pur contiнnuando ad ammirare, narrava la guerra facendo apparire tutto
lieve e senza importanza: la marcia notturna su Gibilrossa, la scenata fra
Bixio e La Masa, l'assalto a porta di Termini. "Io non avevo ancora questo
impiastro sull'occhio e mi son divertito un mondo, signorina, mi creda. Le
più grandi risate le abbiamo fatte la sera del 28 Maggio, pochi minuti
prima che io fossi ferito. Il Generale aveva bisogno di avere un posto di
vedetta in cima al Monastero dell'Origliene: picchia, picchia, impreca, nessuno
apre; era un convento di clausura. Tassoni, Aldrighetti, io e qualche altro
tentiamo di sfondare la porta con il calcio dei nostri moschetti. Niente.
Allora corriamo a prendere una trave di una casa bombardata vicina e finalmente,
con un baccano d'inferno la porta viene giù. Entriamo: tutto deserto; ma
da un angolo del corridoio si odono strilli disperati: un gruppo di suore si
era rifugiato nella cappella ed esse stavano li ammucchiate vicino all'altare;
chissà cosa te-mes-se-ro da quella diecina di giovani esasperati. Era
buffo vederle, brutte e vecchie come erano, nelle loro tonache nere, con gli
occhi sbarrati, pronte e disposte al... martirio. Guaivano come cagne. Tassoni,
quel bei tipo, gridò: УNiente datare, sorelle, abbiamo da badare ad
altro; ritorneremo quando ci farete trovare le novizie!' E noi tutti a ridere
che si voleva mettere la pancia in terra. E le lasciammo li con la bocca
asciutta per andare a far fuoco contro i regi dai terrazzini di sopra."
Angelica, ancora appoggiata,
rideva, mostrando tutti i suoi denti di lupatta. Lo scherzo le sembrava
delizioso; quella possibilità di stupro la turbava, la bella gola
palpitava. "Che bei tipi dovevate essere! Come avrei voluto trovarmi con
voi!" Tancredi sembrava trasformato: la foga del racconto, la forza del
ricordo, entrambe innestate sulla eccitazione che produceнva in lui l'aura
sensuale della ragazza, lo mutarono un istante da quel giovanotto ammodo che in
realtà era in un soldataccio brutale.
"Se ci fosse stata lei,
signorina, non avremmo avuto bisogno di aspettare le novizie."
A casa sua, Angelica, aveva
udito molte parole grosse; questa era però la prima volta (e non
l'ultima) che si trovava ad esser l'oggetto di un doppio senso lascivo; la
novità le piacque, la sua risata salì di tono: si fece stridula.
In quel momento tutti si
alzavano da tavola; Tancredi si chinò per raccattare il ventaglio di
piume che Angelica aveva lasciato cadere; rialzandosi vide Concetta col volto
di brace, con due piccole lagrime sull'orlo delle ciglia: "Tancredi,
queste brutte cose si dicono al confessore, non si raccontano alle signorine, a
tavola; per lo meno quando ci sono anch'io." E gli volse le spalle.
Prima
di andare a letto Don Fabrizio si fermò un momento sul balconcino dello
spogliatoio. Il giardino dormiva sprofonнdato nell'ombra, sotto; nell'aria
inerte gli alberi sembravano di piombo fuso; dal campanile incombente giungeva
il sibilo fiabesco dei gufi. Il cielo era sgombro di nuvole: quelle che avevano
salutato a sera se ne erano andate chissà dove, verso paesi meno
colpevoli nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore.
Le stelle apparivano torbide e i loro raggi faticavano a penetrare la coltre di
afa.
L'anima di Don Fabrizio si
slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle
che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non
barattano; come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in
quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli; per
calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre. "Esse sono le sole
pure, le sole persone per bene" pensò con le sue formule mondane.
"Chi pensa a preoccuparsi della dote delle Pleiadi, della carriera
politica di Sirio, delle attitudini all'alcova di Vega?" La giornata era
stata cattiva; lo avvertiva adesso non soltanto dalla pressione alla bocca
dello stomaco, glielo dicevano anche le stelle: invece di vederle atteggiarsi
nei loro usati disegni, ogni volta che alzava gli occhi scorgeva lassù
un unico diagramma: due stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento;
lo schema beffardo di un volto triangolare che la sua anima proiettava nelle
costellazioni quando era sconvolta. Il frack di don Calogero, gli amori di
Concetta, l'infatuazione evidente di Tancredi, la propria pusillanimità,
financo la minacciosa bellezza di quell'Angelica. Brutte cose, pietruzze in
corsa che precedono la frana. E quel Tancredi! aveva ragione, d'accordo, e lo
avrebbe anche aiutato; ma non si poteva negare che fosse un tantino ignobile. E
lui stesso era come Tancredi. "Basta, dormiamoci su."
Bendicò nell'ombra
gli strisciava il testone sul ginocchio. "Vedi, tu Bendicò, sei un
po' come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di'
produrre angoscia." Sollevò la testa del cane quasi invisibile
nella notte. "E poi con quei tuoi occhi al medesimo livello del naso, con
la tua assenza di mento è impossibile che la tua testa evochi nel cielo
spettri maligni."
Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente allТarrivo la famiglia Salina andasse al Monastero di Santo Spirito a pregare sulla tomba della beata Corbèra, antenata del Principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamente vi era vissuta e santamente vi era morta.
Il monastero era soggetto ad
una rigida regola di clausura e l'ingresso ne era sbarrato agli uomini. Appunto
per questo Don Fabrizio era particolarmente lieto di visitarlo, perché
per lui, discendente diretto della fondatrice, la esclusione non vigeva e di
questo suo privilegio che divideva soltanto col Re di Napoli, era geloso e
infantilmente fiero.
Questa facoltà di
canonica prepotenza era la causa princiнpale ma non l'unica della sua
predilezione per Santo Spirito. In quel luogo tutto gli piaceva, cominciando dall'umiltà
del parlatorio rozzo con la sua volta a botte centrata dal Gattoparнdo, con le
duplici grate per le conversazioni, con la piccola ruota di legno per fare
entrare e uscire i messaggi, con la porta ben squadrata che il Re e lui, soli
maschi nel mondo, potevano lecitamente varcare. Gli piaceva l'aspetto delle
suore con la loro larga bavetta di candidissimo lino a piegoline minute
spiccante sulla rude tonaca nera; si edificava nel sentir racconнtare per la
ventesima volta dalla Badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere
com'essa gli additasse l'angolo del giardino malinconico dove la santa monaca
aveva sospeso nell'aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di
lei austerità, le aveva scagliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate
sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili, quella che la
Beata Corbèra aveva scritto al Diavolo per esortarlo al bene e la
risposta di lui che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle; gli
piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli
piaceva ascoltare l'Uffizio nel coro, ed era financo contento di versare a
quella comunità una parte non trascurabile del proprio reddito, cosi
come voleva l'atto di fondazione.
Quella mattina quindi non vi
era che gente contenta nelle due vetture che si dirigevano verso il monastero,
appena fuori del paese. Nella prima stavano il Principe con la Principessa e le
figlie Carolina e Concetta; nella seconda Tancredi, la figlia Caterina e Padre
Pirrone i quali, beninteso, si sarebbero fermati extra muros ed
avrebbero atteso nel parlatorio durante la visita, confortati dai mandorlati
che sarebbero apparsi attraнverso la ruota. Concetta appariva un po' distratta
ma serena, e il Principe volle sperare che le fanfaluche di ieri fossero
passate.
L'ingresso in un convento di
clausura non è cosa breve, anche per chi possegga il più sacro
dei diritti. Le religiose tengono a far mostra di una certa riluttanza, formale
sì ma prolungata, che del resto conferisce maggiore sapore alla
già scontata ammissione; benché la visita fosse attesa si dovette
quindi aspettare un bei po' nel parlatorio. Fu verso la fine di quest'attesa
che Tancredi improvvisamente disse al Principe: "Zio, non potresti fare
entrare anche me? Dopo tutto sono per metà Salina, e qui non ci sono
stato mai." Il Principe fu in fondo lieto della richiesta, ma scosse
risolutamente il capo. "Ma, .figlio mio, lo sai: io solo posso entrare
qui; per gli altri è impossibile." Non era però facile
smontare Tancredi: "Scusa, zione; ho riletto stamane l'atto di fondazione
in biblioteca: 'potrà entrare il Principe di Salina e insieme a lui due
gentiluoнmini del suo seguito se la Badessa lo permetterà.' Farò
il gentiluomo al tuo seguito, farò il tuo scudiere, farò quel che
vorrai. Chiedilo alla Badessa, tè ne prego." Parlava con inconsueto
calore; voleva forse far dimenticare a qualcuno gl'inconsiderati discorsi della
sera prima. Don Fabrizio era lusingato: "Se ci tieni tanto, caro,
vedrò..." Ma Concetta col suo sorriso più dolce si rivolse
al cugino: "Tancredi, passando abbiamo visto una trave per terra, davanti
la casa di Ginestra. Vai a prenderla, farai più presto a entrare."
L'occhio azzurro di Tancredi s'incupì ed il volto gli divenne rosso come
un papavero, non si sa se per vergogna o ira; voleva dire qualcosa a Don
Fabrizio sorpreso, ma Concetta intervenne di nuovo, con voce cattiva adesso, e
senza sorriso. "Lascia stare, papa, lui scherza; in un convento almeno
c'è stato, e gli deve bastare; in questo nostro non è giusto che
entri."
Con fragore di chiavistelli
tirati la porta si apriva. Entrò nel parlatorio afoso la frescura del
chiostro insieme al parlottare delle monache schierate. Era troppo tardi per
trattaнre, e Tancredi rimase a passeggiare davanti al convento, sotto il cielo
infuocato.
La visita riuscì a
perfezione. Don Fabrizio, per amor di quiete, aveva fatto a meno di chiedere a
Concetta il significato delle sue parole; doveva trattarsi senza dubbio di una
delle solite ragazzate fra cugini; ad ogni modo il bisticcio fra i due giovani
allontanava seccature, conversazioni, decisioni da prendere, quindi era stato
il benvenuto. Su queste premesse la tomba della Beata Corbèra fu da
tutti venerata con compunzioнne, il caffè leggero delle monache bevuto
con tolleranza e i mandorlati rosa e verdognoli sgranocchiati con sodisfazione;
la Principessa ispezionò il guardaroba, Concetta parlò alle
monache con la consueta ritegnosa bontà, lui, il Principe, lasciò
sul tavolo del refettorio le venti "onze" che offriva ogni volta.
È vero che all'uscita Padre Pirrone venne trovato solo; ma poiché
disse che Tancredi era andato via a piedi essendosi ricordato di una lettera
urgente da scrivere, nessuno vi fece caso.
Ritornato a palazzo il
Principe salì nella libreria che era proprio al centro della facciata
sotto all'orologio e al parafulнmine. Dal grande balcone chiuso contro l'afa si
vedeva la piazza di Donnafugata: vasta, ombreggiata dai platani polveroнsi. Le
case di fronte ostentavano alcune facciate disegnate con brio da un architetto
paesano; rustici mostri in pietra tenera, levigati dagli anni, reggevano
contorcendosi i balconciнni troppo piccoli; altre case, fra cui quella di Don
Calogero, si ammantavano dietro pudiche facciatine Impero.
Don Fabrizio passeggiava su
e giù per l'immensa stanza; ogni tanto, al passaggio, gettava
un'occhiata sulla piazza: su una delle panchine da lui stesso donate al comune
tre vecchietнti si arrostivano al sole; una diecina di monelli s'inseguivano
brandendo spadoni di legno; quattro muli erano attaccati a un albero. Sotto
l'infuriare del solleone lo spettacolo non poteva essere più paesano. A
uno dei suoi passaggi davanti alla finestra, però, il suo sguardo fu
attratto da una figura nettamente cittadina: eretta, smilza, ben vestita.
Aguzzò gli occhi: era Tancredi; lo riconobbe, benché fosse un po'
lontaнno, dalle spalle cascanti, dal vitino ben racchiuso nella redingoнte.
Aveva cambiato abito: non era più in marrone come a Santo Spirito ma in
blu di Prussia il "colore della mia seduzione" come diceva lui
stesso. Teneva in mano una canna dal pomo smaltato (doveva essere quella con il
Liocorno dei Falconeri ed il motto Semper purus) e camminava leggero
come un gatto, come qualcuno che tema d'impolverarsi le scarpe. A dieci passi
indietro lo seguiva un domestico che reggeva una cesta infìocchettata
contenente una diecina di pesche gialline con le guancette rosse.
Scansò un monello,
evitò con cura una pisciata di mulo. Raggiunse la porta di casa
Sedàra.