PARTE QUARTA
Novembre 1860
Dai più
frequenti contatti derivati dall'accordo nuziale cominciò a nascere in
Don Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedàra. La
consuetudine fini con l'abituarlo alle guance mal rasate, all'accento plebeo,
agli abiti bislacchi ed al persistente olezzo di sudore, ed egli
fu libero di avvedersi della rara intelligenza dell'uomo; molti problemi che
apparivaнno insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro otto
da don Calogero; liberato come questi era dalle cento pastoie che
l'onestà, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni
di molti altri uomini, egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza
di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta
non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti.
Allevato, invece, in valletto amene percorse dagli zeffiri cortesi dei
"Per piacere" "ti sarei grato" "mi faresti un
favore" "sei stato molto gentile," il Principe adesso, quando
chiacchierava con don Calogero si trovava allo scoperto su una landa spazzata
da venti asciutti e, pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei
monti, non poteva non ammirare la toga di queste correnti d'aria che dai lecci
e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi prima.
Pian piano, quasi senza
avvedersene, Don Fabrizio esponeva a don Calogero i propri affari che erano
numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; questo non già per
difetto di penetrazione ma per una sorta di sprezzante indifferenza al riguardo
di questo genere di cose, reputate infime, e causata in fondo dalla indolenza e
dalla sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali
passi mediante la vendita di qualche ventina fra le migliaia dei propri ettari.
Gli atti che don Calogero
consigliava dopo aver ascoltato dal Principe e riordinato da sé il
racconto, erano quanto mai opportuni e di effetto immediato, ma il risultato
finale dei consigli concepiti con crudele efficienza ed applicati dal bonario
Don Fabrizio con timorata mollezza, fu che con l'andar degli anni casa Salina
si acquistò fama di esosità verso i propri dipendenti, fama in
realtà quanto mai immeritata ma che distrusse il prestigio di essa a
Donnafugata ed a Querceta, senza che peraltro il franare del patrimonio venisse
in alcun modo arginato.
Non sarebbe equo tacere che
una frequentazione più assiнdua del Principe aveva avuto un certo
effetto anche su Sedàra. Sino a quel momento egli aveva incontrato degli
aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di compravendite) o
in seguito ad eccezionalissimi e lunghissimamente meditati inviti a feste, due
sorta di eventualità durante le quali questi singolari esemplari sociali
non mostrano il proprio aspetto migliore. In occasione di questi incontri egli
si era formato la convinzione che l'aristocrazia consistesse unicamente di
uomini-pecore, che esistevano soltanto per abbandonare la lana dei loro beni
alle sue forbici tosatrici ed il nome, illuminato da un inspiegabiнle
prestigio, a sua figlia.
Ma già con la sua
conoscenza del Tancredi dell'epoca postgaribaldina si era trovato di fronte ad
un campione inatteso di giovane nobile, arido quanto lui, capace di barattare
assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanнze
altrui, pur sapendo rivestire queste azioni "sedaresche" di una
grazia e di un fascino che egli sentiva di non possedere, che subiva senza
rendersene conto e senza in alcun modo poter discernerne le origini. Quando,
poi, ebbe imparato a conoscere meglio Don Fabrizio ritrovò sì in
lui la mollezza e l'incapacità a difendersi che erano le caratteristiche
del suo pre-formato nobile-pecora, ma in più una forza di attrazione
differente in tono ma uguale in intensità a quella del giovane Falconeri;
inoltre ancora una certa energia tendente verso l'astrazione, una disposizione
a cercare la forma di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in
ciò che poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli
rimase fortemente colpito benché gli si presentasse grezza e non riducibile
in parole come qui si è tentato di fare; si avvide però che buona
parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese conto di quanto
un uomo beneducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che
qualcheduno che elimina le manifestaнzioni sempre sgradevoli di tanta parte
della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo
(formula nella quale l'efficacia dell'aggettivo gli fece tollerare
l'inutilità del sostantivo). Lentamente don Calogero capiva che un pasto
in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori
e di macchie d'unto; che una conversazione può benissimo non
rassomigliare a una lite fra cani; che dar la precedenza a una donna è
segno di forza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore
si può ottenere di più se gli si dice "non mi sono spiegato
bene" anziché "non hai capito un corno," e che adoperando
simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti e interlocutori vengono a
guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene.
Sarebbe ardito affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto aveva appreso; egli seppe da allora in poi radersi un po' meglio e spaventarsi meno della quantità di sapone adoperato nel bucato, e null'altro; ma fu da quel momento che si iniziò, per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.
La prima visita di Angelica
alla famiglia Salina da fidanzata si era svolta regolata da una regia
impeccabile. Il contegno della ragazza era stato perfetto a tal punto che
sembrava suggerito gesto per gesto, parola per parola, da Tancredi; ma le
comunicazioni lente del tempo rendevano insostenibile questa eventualità
e si fu costretti a ricorrere a una ipotesi, a quella di suggerimenti anteriori
allo stesso fidanzamento Sciale; ipotesi arrischiata anche per chi meglio
credesse di conoscere la preveggenza del Principino, ma non del tutto assurda.
Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce nere
ombreggiate da una grande paglia ancora estiva sulla quale grappoli di uva
artificiale e spighe dorate evocavano discrete i vigneti di Gibildolce e i
granai di Settesoli. In sala d'ingresso piantò li il padre; nello sventolio
dell'ampia gonna sali leggera i non pochi scalini della scala interna e si
gettò nelle braccia di Don Fabrizio; gli diede, sulle basette, due bei
bacioni che furono ricambiati con genuino affetto; il Principe si
attardò un attimo forse più del necessario a fiutare l'aroma di
gardenia delle guance adolescenti. Dopo di che Angelica arrossi, retrocedette
di mezzo passo: "Sono tanto, tanto felice..." Si avvicinò di
nuovo e, ritta sulla punta delle scarpine gli sospirò all'orecchio:
"Zione!". Felicissimo gag, di regìa paragonabile in
efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein, e che,
esplicito e segreto com'era, mandò in visibilio il cuore semplice del
Principe e lo aggiogò definitivamente alla bella figliola. Don Calogero
intanto saliva le scale e diceva quanto dolente fosse sua moglie di non poter
essere li, ma ieri sera aveva inciampato in casa e si era prodotta una
distorsione al piede sinistro, assai dolorosa. "Ha il collo del piede come
una melanzana, Principe." Don Fabrizio, esilarato dalla carezza verbale e
che, d'altra parte, le rivelazioni di Tumeo avevano rassicurato sulla
innocuità della propria cortesia, si procurò il piacere di
proporre di andare lui stesso subito dalla signora Sedàra, proposta che
sbigottì don Calogero che venne costretto per respingerla ad appioppare
un secondo malanno alla consorte, una emicrania questa volta, che costrinнgeva
la poveretta a stare nell'oscurità.
Intanto il Principe dava il
braccio ad Angelica; si traversaнrono parecchi saloni quasi all'oscuro, vagamente
rischiarati da lumini a olio che permettevano a malapena di trovare la strada;
in fondo alla prospettiva delle sale splendeva invece il "salone di
Leopoldo," dove stava il resto della famiglia e questo
procedere attraverso il buio deserto verso il chiaro centro
dell'intimità aveva il ritmo di una iniziazione massonica. La famiglia
si affollava sulla porta. La Principessa aveva ritirato le proprie riserve
dinanzi all'ira maritale che le aveva, non è sufficiente dire respinte,
ma addirittura fulminate nel nulla; baciò ripetutamente la bella futura
nipote e la strinse a sé tanto forte che alla giovinetta rimase impresso
sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria
Stella aveva tenuto a portare, benché fosse giorno, in segno di festa
grande; Francesco Paolo, il sedicenne, fu lieto di avere l'opportunità
eccezionale di baciare anch'egli Angelica sotto lo sguardo impotentemente
geloso del padre; Concetta fu affettuosa in modo particolare; la sua gioia era
così intensa da farle salire le lagrime agli occhi; le altre sorelle si
stringevano attorno a lei rumorosamente liete appunto perché non comнmosse;
Padre Pirrone, poi, che santamente non era insensibile al fascino muliebre nel
quale si compiaceva di ravvisare una prova irrefutabile della Bontà
Divina, senti fondere tutte le proprie obiezioni dinanzi al tepore della grazia
(col g minuscoнlo). E le mormorò: "Veni, sponsa de Libano";
dovette poi un po' contrastare per non fare risalire alla propria memoria altri
più calorosi versetti; mademoiselle Dombreuil, come si conviene alle
governanti, piangeva di emozione, stringeva fra le sue mani deluse le spalle
fiorenti della fanciulla dicendo: "Angelica, Angelica, pensons à
la joie de Tancrède. " Bendicò soltanto, in contrasto
con la consueta sua socievolezza, rinнghiava nel fondo della propria gola,
finché venne energicamenнte messo a posto da un Francesco Paolo
indignato cui le labbra fremevano ancora.
Su ventiquattro dei
quarantotto bracci del lampadario era stata accesa una candela e ognuno di
questi ceri candido e acceso insieme, poteva sembrare una vergine che si
struggesse di amore; i fiori bicolori di Murano sul loro stelo di curvo vetro
guardavano in giù, ammiravano colei che entrava e le rivolgevano un
sorriso cangiante e fragile. Il grande caminetto era acceso più in segno
di giubilo che per riscaldare l'ambiente ancora tiepido e la luce delle fiamme
palpitava sul pavimento, sprigionava intermittenti bagliori dalle dorature
svanite del Mobilio; esso rappresentava davvero il focolare domestico, il
simbolo della casa, e in esso i tizzoni alludevano a sfavillii di desideri, la
brace a contenuti ardori.
Dalla Principessa, che
possedeva in grado eminente la Scolta di ridurre le emozioni al minimo comun
denominatore, Annero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; e
tanto essa insistette su questi che davvero si sarebbe potuto credere che
Angelica dovesse riputarsi fortunata di sposare un uomo che a sei anni era
stato tanto ragionevole da sottometнtersi ai clisterini indispensabili senza
far storie, e a dodici tanto ardito da aver osato rubare una manata di
ciliegie; mentre questo episodio di banditismo temerario veniva ricordato,
Concetta si mise a ridere: "Questo è un vizio che Tancredi non si
è ancora potuto togliere" disse "ricordi, papa, quando due
mesi fa ti ha portato via quelle pesche alle quali tenevi tanto?"; poi si
rabbuiò ad un tratto come se fosse stata presidenнte di una
società di frutticoltura danneggiata.
Presto la voce di Don
Fabrizio pose in ombra queste inezie; parlò del Tancredi di adesso, del
giovanotto svèglio e attento, sempre pronto a una di quelle uscite che
rapivano chi gli voleva bene ed esasperavano gli altri; raccontò come
durante un soggiorno a Napoli, presentato alla duchessa di Sanqualchecosa questa
si fosse presa di una passione per lui e voleva vederlo a casa mattina,
pomeriggio e sera, non importa se si trovasse in salotto o a letto,
perché, diceva, nessuno sapeva raccontare les petits riens come
lui; e benché Don Fabrizio si affrettasse a precisare come allora
Tancredi non avesse ancora sedici anni e la duchessa fosse al di là
della cinquantina, gli occhi di Angelica lampeggiarono perché essa
possedeva precise informazioni sui giovanottini palermitani e forti intuiнzioni
sul conto delle duchesse napoletane.
Se da questa attitudine di
Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa
possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace di quell'annullaнmento,
provvisorio, della propria personalità senza il quale non c'è
amore; inoltre la propria limitata esperienza giovanile e sociale non le
permetteva ancora di apprezzare le reali qualità di lui, composte tutte
di sfumature sottili; però, pur non amandolo, essa era, allora,
innamorata di lui, il che è assai differente; gli occhi azzurri,
l'affettuosità scherzosa, certi toni improvvisamente gravi della sua
voce le causavano, anche nel ricordo, un turbamento preciso, e in quei giorni
non desiderava altro che di esser piegata da quelle mani; piegata che fosse stata
le avrebbe dimenticate e sostituite, come infatti avvenne, ma per il momento ad
esser ghermita da lui essa teneva assai. Quindi la rivelazione di quella
possibile relazione galante (che era, del resto, inesistente) le causò
un attacco del più assurdo fra i flagelli, quello della gelosia
retrospettiva; attacco presto dissipato, però, da un freddo esame dei
vantaggi erotici ed extra-erotici che le sue nozze con Tancredi recavano.
Don Fabrizio continuava ad
esaltare Tancredi; trascinato dall'affetto parlava di lui come di un Mirabeau:
"Ha cominciaнto presto ed ha cominciato bene; la strada che farà
è molta." La fronte liscia di Angelica si chinava nell'assenso; in
realtà all'avvenire politico di Tancredi non badava. Era una delle molte
ragazze che considerano gli avvenimenti pubblici come svolgentisi in un
universo separato e non immaginava neppure che un discorso di Cavour potesse
con l'andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita
di lei e mutarla. Pensava in siciliano: "Noi avremo il 'furmento' e questo
ci basta; che strada e strada!" Ingenuità giovanili queste, che
essa doveva in seguito rinnegare quando, nel corso degli anni, divenne una
delle più viperine Egerie di Montecitorio e della Consulta.
"E poi, Angelica, voi
non sapete ancora quanto è divertente Trancredi! Sa tutto, di tutto
coglie un aspetto imprevisto. Quando si è con lui, quando è in
vena, il mondo appare più buffo di come appaia sempre, talvolta anche
più serio." Che Tancredi fosse divertente Angelica lo sapeva; che
fosse capace di rivelare mondi nuovi essa non soltanto lo sperava ma aveva
ragione di sospettarlo fin dalla fine del mese scorso, nei giorni del famoso ma
non unico bacio ufficialmente constatato che era stato infatti qualcosa di
molto più sottile e sapido di quel che fosse stato il solo altro suo
esemplare, quello regalatele dal ragazzetto giardiniere a Poggio a Calano,
più di un anno fa. Ma ad Angelica importava poco dei tratti di spirito,
della intelligenza anche, del fidanzato, assai meno ad ogni modo di quanto
queste cose importassero a quel caro Don Fabrizio, tanto caro davvero, ma anche
tanto "intellettuale." In Tancreнdi essa vedeva la possibilità
di avere un posto eminente nel Biondo nobile della Sicilia, mondo che essa
considerava pieno di meraviglie assai differenti da quelle che esso in
realtà conteneva ed in lui desiderava anche un vivace compagno di
abbracciamenti. Se per di più era anche intellettualmente superiore,
tanto meglio; ma lei, per conto suo, non ci teneva. Divertirsi si poteva sempre.
Per il momento, spiritoso o sciocco che fosse avrebbe voluto averlo qui, che le
stuzzicasse almeno la nuca, di sotto le trecce, come soleva fare, fra l'altro.
"Dio, Dio, come vorrei che fosse qui, tra noi, ora!"
Esclamazione che commosse
tutti, sia per la evidente sincerità, come per l'ignoranza in cui
restava la sua cagione e che conchiuse la felicissima prima visita. Poco dopo
infatti Angelica e suo padre si congedarono; preceduti da un mozzo di scuderia
con una lanterna accesa che con l'oro incerto della sua luce accendeva il rosso
delle foglie cadute dei platani, padre e figlia rientrarono in quella loro casa
l'ingresso della quale era stato vietato a Peppe 'Mmerda dalle
"lupare" che gli strafotterono i reni.
Un'abitudine
nella quale si era riannidato Don Fabrizio ridiventato sereno era quella delle
letture serali. In autunno, dopo il Rosario, poiché faceva troppo buio
per uscire la famiglia si riuniva attorno al caminetto aspettando l'ora di
pranzo, ed il Principe leggeva ai suoi, a puntate, un romanzo moderno; e
sprizzava dignitosa benevolenza da ognuno dei propri pori.
Erano quelli, appunto, gli anni durante i quali, attraverso i romanzi si andavano formando quei miti letterari che ancor oggi dominano le menti europee; la Sicilia però, in parte per la sua tradizionale impermeabilità al nuovo, in pane per la diffusa misconoscenza di qualsiasi lingua, in pane anche, occorre dirlo, per la vessatoria censura borbonica che agiva per mezzo delle dogane, ignorava l'esistenza di Dickens, di Eliot, della Sand e di Flaubert, financo quella di Dumas. Un paio di volumi di Balzac, è vero, era giunto attraverso sotterfugi fino alle mani di Don Fabrizio che si era attribuito la carica di censore familiare; li aveva letti e prestati via, disgustato, ad un amico cui voleva del male, dicendo che essi erano il frutto di un ingegno senza dubbio vigoroso ma stravagante e "fissato" (oggi avrebbe detto monomaniaco); giudizio frettoloso, come si vede, non privo per altro di una cena acutezza. Il livello delle letture era quindi piuttosto basso, condizionato com'era dal rispetto per i pudori verginali delle ragazze, da quello per gli scrupoli religiosi della Principessa e dallo stesso senso di dignità del Principe che si sarebbe rifiutato a far udire delle "porcherie" ai suoi familiari riuniti.
Si era verso il dieci di
Novembre ed anche alla fine del soggiorno a Donnafugata. Pioveva fitto,
imperversava un maestrale che spingeva rabbiosi schiaffi di pioggia sulle fineнstre;
lontano si udiva un rotolio di tuoni; ogni tanto alcune gocce, avendo trovato
la strada per penetrare negli ingenui fumaioli siciliani, friggevano un attimo
sul fuoco e picchiettaнvano di nero gli ardenti tizzoni di ulivo. Si leggeva
"Angiola Maria" e quella sera si era giunti alle ultime pagine: la
descrizioнne dello sgomento viaggio della giovinetta attraverso la diaccia
Lombardia invernale intirizziva il cuore siciliano delle signoriнne, pur nelle
loro tiepide poltrone. Ad un tratto si udì un gran tramestio nella
stanza vicina e Mimì il cameriere entrò col fiato grosso:
"Eccellenze" gridò dimenticando tutta la propria stilizzazione
"Eccellenze! è arrivato il signorino Tancredi! È in cortile
che fa scaricare i bagagli dal carrozzino. Bella Madre, Madonna mia, con questo
tempo!" E fuggì via.
La sorpresa rapi Concetta in
un tempo che non corrisponнdeva più a quello reale, ed essa
esclamò: "Caro!" ma il suono stesso della propria voce la
ricondusse allo sconfortato presente e, com'è facile vedere, questi
bruschi trapassi da una temporalità segregata e calorosa ad un'altra
palese ma gelida le fecero molto male; per fortuna l'esclamazione, sommersa
nell'emozione generale non venne udita.
Preceduti dai lunghi passi
di Don Fabrizio tutti si precipitaнrono verso la scala; si traversarono in
fretta i saloni bui, si discese; la grande porta era spalancata sullo scalone
esterno e giù sul cortile; il vento irrompeva, faceva fremere
le tele dei ritratti, spingendo innanzi a sé umidità e odor di
terra; sullo sfondo del cielo lampeggiante gli alberi del giardino si dibatteнvano,
e frusciavano come sete strapazzate. Don Fabrizio stava Per infilare la porta
quando sull'ultimo gradino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi
avvolto nell'enorme Mantella azzurra della cavalleria piemontese, talmente
inzuppaнte d'acqua da pesare cinquanta chili e da apparire nera. "Stai
attento, zione: non mi toccare, sono una spugna!" La luce della lanterna
della sala fece intravedere il suo volto. Entrò, sganciò la
catenella che tratteneva il mantello al collo, lasciò cadere l'indumento
che si afflosciò a terra con un rumore viscido. Odorava di can bagnato e
da tre giorni non si era tolto gli stivali, ma era lui, per Don Fabrizio che lo
abbracciava, il ragazzo più amato che non i propri figli, per Maria
Stella il caro nipote perfidamente calunniato, per Padre Pirrone la pecorella
sempre smarrita e sempre ritrovata, per Concetta un caro fantasma
rassomigliante al suo amore perduto; anche mademoiselle Dombreuil lo
baciò con la bocca disavvezza alle carezze e gridava, la poveretta: "Tancrède,
Tancrède, pensons à la joie d'Angelica, " tante poche
corde aveva il proprio arco, sempre costretta a raffigurarsi le gioie degli
altri. Bendicò pure ritrovava il caro compagno di giochi, colui che come
nessun altro sapeva soffiargli dentro il muso attraverso il pugno chiuso, ma,
caninamente, dimostrava la propria estasi galoppando frenetico attorno alla
sala e non curandosi dell'amato.
Fu un momento davvero
commovente quello del raggrupparsi della famiglia attorno al giovane che
ritornava, tanto più caro in quanto non proprio della famiglia, tanto
più lieto in quanto veniva a cogliere l'amore insieme ad un senso di
perenne sicurezza. Momento commovente, ma anche lungo. Quando i primi impeti
furono trascorsi, Don Fabrizio si accorнse che sul limitare della porta stavano
due altre figure, goccioнlanti anch'esse ed anch'esse sorridenti. Tancredi se
ne accorse pure e rise. "Scusatemi tutti, ma l'emozione mi aveva fatto
perdere la testa. Zia" disse rivolto alla Principessa "mi sono
permesso di portare qui un mio caro amico il conte Carlo Cavriaghi; del resto
lo conoscete, è venuto tante volte alla villa quando era in servizio
presso il generale. E quell'altro è il lanciere Moroni, il mio
attendente." Il soldato sorrideva nella sua faccia ottusamente onesta, se
ne stava sull'attenti mentre dal grosso panno del pastrano l'acqua gli
sgocciolava sul pavimento. Ma il contino non stava sull'attenti: toltosi il
berrettino fradicio e sformato baciava la mano alla Principessa, sorrideva e
abbagliava le ragazze con i baffetti biondi e l'insopprimibile erre moscia.
"E pensare che a me avevano detto che quaggiù da voi non pioveva
mai! Mamma mia, sono due giorni che siamo stati come dentro un fiume!"
Dopo si fece serio: "Ma insomma, Falconeri, dov'è la signorina
Angelica? Mi hai trascinato da Napoli fin qui per farmela vedere. Vedo molte
belle, ma lei no." Si rivolse a Dori Fabrizio: "Sa, principe, a
sentire lui è la regina di Saba! Andiamo subito a riverire la formosissima
et nigerrima. Muoviti, testone!"
Parlava
così e trasportava il linguaggio delle mense ufficiali nell'arcigno
salone con la sua doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati; e tutti
si divertivano. Ma Don Fabrizio e Tancredi la sapevano più lunga:
conoscevano Don Calogero, conoscevano la "Bella Bestia" di sua
moglie, l'incredibile trascuratezza della casa di quel riccone: cose queste che
la candida Lombardia ignora.
Don Fabrizio intervenne:
"Senta, conte; Lei credeva che in Sicilia non piovesse mai e può
vedere invece come diluvia. Non vorrei Che credesse che da noi non ci sono le
polmoniti e poi si trovasse a letto con quaranta di febbre. "Mimi"
disse al suo cameriere "fai accendere i caminetti nella stanza del
signorino Tancredi e in quella verde di foresteria. Fai preparare lo stanzino
accanto per il soldato. E lei, conte, vada ad asciugarsi bene e a cambiar
abito. Le farò portare un ponce e dei biscotti; e il pranzo è
alle otto, fra due ore." Cavriaghi era da troppi mesi abituato al servizio
militare per non piegarsi subito alla voce autoritaria; salutò e segui
mogio mogio, il cameriere. Moroni si trascinò dietro le cassette degli
ufficiali e le sciabole nelle loro fodere di flanella verde.
Intanto Tancredi scriveva:
"Carissima Angelica, sono arriнvato, e arrivato per tè. Sono
innamorato come un gatto, ma anche bagnato come un ranocchio, sudicio come un
cane sperso e affamato come un lupo. Appena mi sarò ripulito e mi
stimerò degno di mostrarmi alla bella fra le belle mi precipiнterò
da tè; fra due ore. I miei ossequi ai tuoi cari genitori. A te...
niente, per ora." Il testo fu sottoposto all'approvazione del Principe;
questi che era sempre stato un ammiratore dello stile epistolare di Tancredi lo
approvò sorridendo; ed il biglietto venne subito inviato dirimpetto.
Tale
era la foga della letizia generale che un quarto d'ora bastò
perché i due giovani si asciugassero, si ripulissero, cambiassero divise
e si ritrovassero nel "Leopoldo" attorno al caminetto: bevevano
tè e cognac e si lasciavano ammirare. In quei tempi non vi era nulla di
meno militare delle famiglie aristocratiche siciliane: gli ufficiali borbonici
non si erano mai visti nei salotti palermitani ed i pochi garibaldini che vi
erano penetrati vi avevano fatto più l'effetto di spaventapasseri pittoнreschi
che di militari veri e propri. Perciò quei due giovani ufficiali erano
in verità i primi che le ragazze Salina vedessero da vicino; tutti e due
in "doppio petto," Tancredi con i bottoni d'argento dei lancieri,
Carlo con quelli dorati dei bersaglieri, con l'alto colletto di velluto nero
bordato d'arancioнne il primo; cremisi l'altro, allungavano verso la brace le
gambe rivestite di panno azzurro e di panno nero. Sulle maniche i
"fiori" d'argento o d'oro si snodavano in ghirigori, slanci e riprese
senza fine: un incanto per quelle figliole avvezze alle redingotes severe ed ai
"fracks" funerei. Il romanzo edificante giaceva rovesciato dietro una
poltrona.
Don
Fabrizio non capiva bene: li ricordava entrambi rossi come gamberi e
trasandati. "Ma insomma, voialtri garibaldini non portate più la
camicia rossa?" I due si voltarono come se li avesse morsi una vipera.
"Ma che garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta.
Cavriaghi ed io siamo ufficiali dell'esercito regolare di Sua Maestà il
re di Sardegna per qualche mese ancora, d'Italia fra poco. Quando l'esercito di
Garibaldi si sciolse si poteva scegliere: andare a casa o restare nell'esercito
del Re. Lui ed io come tutte le persone per bene siamo entrati nell'esercito
"vero.". Con quelli li non si poteva restare, non è così,
Cavriaghi?" "Mamma mia che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni
a sparacchiare, e basta! Adesso siamo fra persone come si deve, siamo ufficiali
sul serio, insomma" e sollevava i battetti in una smorfia di adoleнscente
disgusto.
"Ci
hanno tolto un grado, sai, zione; tanta poca stima avevano della serietà
della nostra esperienza militare; io da capitano son ridiventato tenente,
vedi" e mostrava gli intrichi dei 'fiori' "lui da tenente è
sottotenente. Ma siamo contenti come se ci avessero promossi. Siamo rispettati
in tutt'altro modo adesso con le nostre divise." "Sfido io"
interruppe Cavriaghi "la gente non ha più paura che rubiamo le
galline, ora." "Dovevi vedere da Palermo a qui quando ci fermavamo
alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli! Bastava dire: 'ordini urgenti
per il servizio di Sua Maestà,' ed i cavalli comparivano come per
incanto; e noi a mostrare gli ordini che erano poi i conti dell'albergo di
Napoli bene avvolti e sigillati."
Esaurita la conversazione
sui mutamenti militari si passò a più vaghi argomenti. Concetta e
Cavriaghi si erano seduti insieme un po' discosti ed il contino mostrava a lei
il regalo che aveva penato da Napoli: i "Canti" di Aleardo Aleardi
che aveva fatto splendidamente rilegare. Sull'azzurro cupo della pelle una
corona principesca era profondamente incisa e, sotto, le cifre di lei: "C.C.S."
Più sotto ancora caratteri grandi e vagamente gotici dicevano:
"Sempre sorda." Concetta, diнvertita, rideva. "Ma perché
sorda, conte? Q.C.S. ci sente benissimo." Il volto del contino
s'infiammò di fanciullesca passione. "Sorda, sì, sorda,
signorina, sorda ai miei sospiri, sorda ai miei gemiti, e cieca anche, cieca
alle suppliche che i miei occhi le rivolgono. Sapesse quanto ho patito a
Palermo, quando loro sono partiti per qui: nemmeno un saluto, nemmeнno un
cenno, mentre le vetture scomparivano nel viale! E vuole che non la chiami
sorda? 'Crudele' avrei dovuto far scrivere."
La concitazione letteraria
di lui fu congelata dal riserbo della ragazza. "Lei è ancora stanco
per il lungo viaggio, i suoi nervi non sono a posto. Si calmi: mi faccia
piuttosto sentire qualche bella poesia."
Mentre il bersagliere
leggeva i molli versi con una voce accorata e pause piene di sconforto, davanti
al caminetto Tancredi estraeva di tasca un astuccetto di raso celeste.
"Ecco l'anello, zione, l'anello che dono ad Angelica; o piuttosto quello
che tu per mia mano le regali." Fece scattare la molletta ed apparve uno
zaffiro scurissimo, tagliato in ottagono schiacciato, serrato tutt'intorno
stretto stretto da una moltituнdine di piccoli purissimi diamantini. Un
gioiello un po' tetro "la altamente consono al gusto cimiteriale del
tempo, e che valeva chiaramente le trecento onze spedite da Don Fabrizio. Di
realtà era costato assai meno: in quei mesi di semi-sacchegнgio e di fughe
a Napoli si trovavano bellissimi gioielli d'occasione; dalla differenza di
prezzo era saltata fuori una spilla, un ricordo per la Schwarzwald. Anche
Concetta e Cavriaghi vennero chiamati ad ammirarlo ma non si mossero
perché il contino l'aveva già visto e Concetta rimandò
quel piacere a più tardi. L'anello girò di mano in mano, fu
ammirato, lodato; e venne esaltato il prevedibile buon gusto di Trancredi. Don
Fabrizio chiese "Ma per la misura come si farà? bisognerà
mandare l'anello a Girgenti per farla fare giusta." Gli occhi di Tancredi
sprizzarono malizia: "Non ci sarà bisogno, zio; la misura è
esatta; la avevo presa prima." E Don Fabrizio tacque: aveva riconosciuto
un maestro.
L'astuccetto aveva compiuto
tutto il giro attorno al camiнnetto ed era ritornato nelle mani di Tancredi,
quando da dietro la porta si udì un sommesso "Si può?"
Era Angelica. Nella fretta e nell'emozione non aveva trovato di meglio per
ripararsi dalla pioggia dirotta che mettersi uno "scappolare", uno di
quegli immensi tabarri da contadino di ruvidissimo panno: avviluppato nelle
rigide pieghe bleu-scure, il corpo di lei appariva snellissimo; di sotto al
cappuccio bagnato gli occhi verdi erano ansiosi e smarriti; parlavano di
voluttà.
Da quella vista, da quel
contrasto anche fra la bellezza della persona e la rusticità del
mantello, Tancredi ricevette come una frustata: si alzò, corse verso di
lei senza parlare e la baciò sulla bocca. L'astuccio che teneva nella
destra solletiнcava la nuca recline. Poi fece scattare la molla, prese Panello
lo passò all'anulare di lei; l'astuccio cadde per terra. "Tieni,
bella, è per tè, dal tuo Tancredi." L'ironia si
ridestò: "E ringrazia anche zione per esso." Poi la
riabbracciò: l'ansia sensuale li faceva tremare entrambi: il salone, gli
astanti per essi sembravano molto lontani; ed a lui parve davvero che in quei
baci riprendesse possesso della Sicilia, della terra bella e infida sulla quale
i Falconeri avevano per secoli spadroneggiato e che adesso, dopo una vana
rivolta si arrendeva di nuovo a lui, come ai suoi da sempre, fatta di delizie
carnali e di raccolti dorati.
In
seguito all'arrivo degli ospiti benvenuti il ritorno a Palermo fu rinviato; e
seguirono due settimane d'incanti. L'uragano che aveva accompagnato il viaggio
dei due ufficiali, era stato l'ultimo di una serie e dopo di esso risplendette
l'estate di San Manine che è la vera stagione di voluttà in
Sicilia: temperie luminosa e azzurra, oasi di mitezza nell'andaнmento aspro
delle stagioni, che con la mollezza persuade e travia i sensi mentre con il
tepore invita alle nudità segrete. Di nudità erotiche nel palazzo
di Donnafugata non era il caso di parlare ma vi era copia di esaltata
sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta. Il
palazzo dei Salina era stato ottant'anni prima un ritrovo per quegli oscuri
piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza
severa della principessa Carolina, la neoreligiosità della Restauнrazione,
il carattere soltanto bonariamente carnale dell'attuale Don Fabrizio avevano
perfino fatto dimenticare i suoi bizzarri trascorsi; i diavoletti incipriati
erano stati posti in fuga; esisteнvano ancora, certamente, ma allo stato
larvale ed ibernavano sotto cumuli di polvere in chissà quale soffitta
dello smisurato edificio. La venuta a palazzo della bella Angelica aveva fatto
un po' rinvenire quelle larve, come forse si ricorderà; ma fu l'arrivo
dei giovanotti innamorati che ridestò davvero gli istinti rimpiattati
nella casa; essi adesso si mostravano dappertutto, come formiche destate dal
sole, disintossicati forse ma oltreнmodo vivaci. L'architettura, la decorazione
stessa rococò con le loro curve impreviste evocavano anche distese e
seni eretti; l'aprirsi di ogni portale frusciava come una cortina d'alcova.
Cavriaghi era innamorato di
Concetta; ma, fanciullo com'egli era e non soltanto nell'aspetto come Tancredi
ma nel proprio intimo, il suo amore si sfogava nei facili ritmi di Prati e di
Aleardi, nel sognare ratti al chiaro di luna dei quali non si arrischiava a
contemplare il logico seguito e che del resto la sordità di Concetta
schiacciava in embrione. Non si sa se nella reclusione della sua camera verde
egli non si abbandonasнse a un più concreto vagheggiare; certo è
che alla scenografia galante di quell'autunno donnafugasco egli contribuiva
solo come abbozzatore di nuvole e di orizzonti evanescenti e non come
ideatore di masse architettoniche. Le due altre ragazze invece Carolina e
Caterina, tenevano assai bene la loro parte nella sinfonia di desideri che in
quel Novembre risuonava per tutto il palazzo mescolandosi al mormorio delle
fontane, allo scalciare dei cavalli in amore nelle scuderie ed al tenace scavo
di nidi nuziali dei tarli nei vecchi mobili. Erano giovanissime ed avvenenti e
benché prive d'innamorati particolari si ritrovaнvano immerse nella
corrente di stimoli che s'incrociavano fra gli altri; e spesso il bacio che
Concetta negava a Cavriaghi, la stretta di Angelica che non aveva saziato
Tancredi si riverberavano sulle loro persone, sfiorava i loro corpi intatti e per
esse si sognava, esse stesse sognavano ciocche madide di speciosi sudori,
gemiti brevi. Financo l'infelice mademoiselle Dombreuil a forza di dover
funzionare da parafulmine, come gli psichiatri si infettano e soccombono alle
frenesie dei loro ammalati, fu attratta in quel vortice torbido e ridente;
quando dopo una giornata d'inseguimenti e agguati moralistici essa si stendeva
sul suo letto solingo palpava i propri seni appassiti e mormorava
indiscriminate invocazioni a Tancredi, a Carlo, a Fabrizio...
Centro e motore di questa
esaltazione sensuale era naturalнmente la coppia Tancredi-Angelica. Le nozze
sicure benché non vicine stendevano in anticipo le loro ombre
rassicuranti sul terriccio arso dei loro mutui desideri; la differenza di ceti
faceva credere a don Calogero normali nella nobiltà i lunghi colloqui
appaltati, ed alla principessa Maria Stella abituali nel rango dei
Sedàra la frequenza delle visite di Angelica ed una certa libertà
di contegno che essa, certamente, non avrebbe trovata lecita nelle proprie
figlie; e così le visite di Angelica al palazzo divennero sempre
più frequenti sino ad essere quasi perpetue ed essa fini con l'essere
solo formalmente accompagnata dal padre che si recava subito in Amministraнzione
per scoprire (o per tessere) nascoste trame o dalla cameriera che scompariva
nel riposto per bere il caffè ed incupire i domestici sventurati.аааааааааааааааа
Tancredi voleva che Angelica
conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie
vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, i
teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi,
anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di
appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un
intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si
rendeva conto benissimo) che vi trascinava la ragazza verso il centro nascosto
del ciclone sensuale, ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi
aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano
interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era
davvero perché in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don
Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non
piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si
conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato. I due innamorati
s'imbarcavano verso Citerà su una nave fatta di camere cupe e di camere
solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di
mobilio eterogeneo. Partivano accompagnati da mademoiselle Dombreuil o da
Cavriaghi (padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre
a farlo), talvolta da tutti e due; la decenza esteriore era salva. Ma nel
palazzo non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare
un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi con finestrine
grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia), svoltare per un
ballatoio, salire una scaletta complice, e i due ragazzi erano lontano,
invisibili, soli come su un'isola deserta. Restavano a guardarli soltanto un
ritratto a pastello sfumato via e che l'inesperienza del pittore aveva creato
senza sguardo o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente.
Cavriaghi, del resto, si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta
un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava,
tanto per far piacere all'amico che per andare a sospirare guardando le gelide
mani di Concetta. La governante resisteva più a lungo, ma non per
sempre; per qualche tempo si udivano sempre, più lontani, i suoi
appelli, mai corrisposti: "Tancrède, Angelica, où
étes-vous?" Poi tutto si richiudeva nel silenzio, striato solo
dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera
centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per
desiderate Paure, per un aderire rassicurante delle membra. E l'Eros era sempre
con loro, malizioso e tenace, il gioco in cui trascinava due fidanzati era
pieno di azzardi e di malia. Tutti e due vicinissimi ancora all'infanzia
prendevano piacere al gioco in sé godevano nell'inseguirsi, nel
perdersi, nel ritrovarsi; ma quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati
prendevano il sopravvento e le cinque dita di lui che s'incastravano nelle dita
di lei, col gesto caro ai sensuali indecisi, il soffregamento soave dei
polpastrelli sulle vene pallide del dorso, turbava tutto il loro essere,
preludeva a più insinuate carezze.
Una volta lei si era
nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po' "Arturo
Corbera all'assedio di Antiochia" protesse l'ansia speranzosa della
ragazza; ma quanнdo fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani
velate di polvere, venne avvinghiata e stretta, e rimase una eternità a
dire "No, Tancredi, no," diniego che era un invito perché di
fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei l'azzurro
dei propri. Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella
veste ancora estiva; su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la
strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i
capelli sulla fronte; e furono momenti estatici e penosi, durante i quali il
desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia.
Negli appartamenti
abbandonati le camere non avevano ne fisionomia precisa ne nome; e come gli
scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati col nome
di ciò che in essi era accaduto a loro: una vasta stanza da letto nella
cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di
penne di struzzo, fu ricordata poi come la "camera delle pene"; una
scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi
"la scala dello scivolone felice." Più d'una volta non seppero
più dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, d'inseguimenti, di
lunghe soste riempite di mormorii e contatti perdevano l'orientamento e
dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprenнdere dall'aspetto di
un cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si
trovassero. Talvolta però non si raccapezzavano lo stesso perché
la finestra guardava non su uno dei grandi cortili ma su di un cortiletto
interno, anonimo anch'esso e mai intravisto, contrassegnato soltanto dalla caroнgna
di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se
vomitata o buttata via; e da un'altra finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera
pensionata. Un pomeriggio rinvennero dentro un cassettone con tre gambe quattro
carillons, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava
l'artificiosa ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella
polvere e nelle ragnatele, rimasero mute; ma la quarta, più recente,
meglio chiusa nello scrignetto di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro
di rame irto di punte e le linguette di acciaio sollevate fecero a un tratto
udire una musichetta gracile, tutta in acuti argentini: il famoso
"Carnevale di Venezia"; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con
quei suoni di giocondità disillusa; e quando la loro stretta si
allentò si sorpresero nell'accorgersi che i suoni erano cessati da tempo
e che le loro carezze non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo
di quel fantasma di musica.
Una volta la sorpresa fu di
colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta
nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita
che godevano nell'intrecciarsi e soffregarsi per forzarla; dietro, una lunga
scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In
cima un'altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte, e poi un
appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno a un
salotto di mediocre grandezza, tutte e il salotto stesso con pavimenti di
bianchissimo marmo, un po' in pendio, declinanti verso una canaletta laterale.
Sui soffitti bassi bizzarri stucchi colorati che l'umidità aveva fortunatamente
resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in
giù, uno fracasнsato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto
reggi-candela del Settecento; le finestre davano su un cortiletto segregato,
una specie di pozzo cieco e sordo che lasciava entrare una luce grigia e sul
quale non spuntava nessun'altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto
ampi, troppo ampi, divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta
strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli
nel marmo, nudi parossistici, martoriati, però, Mutilati da martellate
rabbiose. L'umidità aveva macchiato le Pareti in alto e, sembrava
almeno, in basso ad altezza d'uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane,
tinte cupe, "Consueti rilievi. Tancredi, inquieto, non volle che Angelica
toccasse un armadio a muro del salotto; lo schiuse lui stesso. Era
profondissimo e conteneva bizzarre cose: rotolini di corda di seta, sottile;
scatolucce di argento impudicamente ornate con sul fondo esterno etichettine
minuscole recanti in eleganti grafie indicazioni oscure, come le sigle che si
leggevano sui vasi delle farmacie: "Estr. catch."
"Tirch-stram." "Part-opp."; bottigliette dal contenuto
evaporato; un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dentro vi era un
fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici in
argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia,
bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie
nerastre; attrezzini metallici inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di
sé stesso, comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro
d'irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo. "Andiamo via,
cara, qui non c'è niente d'interessante." Richiusero bene la porta,
ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto l'armadio; tutto il giorno
poi i baci di Tancredi furono lievi, come dati in sogno ed in espiazione.
Dopo il Gattopardo, a dire
il vero, la frusta sembrava essere l'oggetto più frequente a
Donnafugata. L'indomani della loro scoperta dell'appartamentino enigmatico i
due innamorati s'imbatterono in un altro frustino, di carattere ben diverso.
Questo, in verità, non era negli appartamenti ignorati ma anzi in quello
venerato detto del Duca-Santo, il più remoto del palazzo. Lì, a
metà del Seicento un Salina si era ritirato come m un convento privato
ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Ciclo.
Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con l'ammattonato di umile creta,
con le pareti candide a calce, simili a quelle dei contadini più
derelitti. L'ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa
gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di
una parete un enorme Crocifisso più grande del vero: la testa del Dio
martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la
piaga sul costato semнbrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di
pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva
giù da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si dipartivano
sei strisce di cuoio ormai indurito, termiнnanti in sei palle di piombo grosse
come nocciole. Era la "disciplina" del Duca-Santo. In quella stanza
Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio
Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo
andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva
sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero
realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice.
Invece le zolle erano sfuggite e molte di quelle che da lassù si
vedevano appartenevano ad altri, a don Calogero anche; a don Calogero, cioè
ad Angelica, quindi al loro futuro figlio. L'evidenza del riscatto attraverso
la bellezza, parallelo all'altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi
come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafìtti di
Cristo. "Vedi, tu sei come quell'arnese li, servi agli stessi scopi."
E mostrava la disciplina; e poiché Angelica non capiva ed alzato il capo
sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e così genuflessa com'era
le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il
labbro e le raschiò il palato.
I due passavano così
quelle giornate in vagabondaggi trasoнgnati; scoprirono inferni che l'amore poi
redimeva, rinvenivaнno paradisi trascurati che quello stesso amore dopo
profanava; il pericolo di far cessare il giuoco per incassarne subito la posta
si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano più, ma se ne
andavano assorti nelle stanze più isolate, quelle dalle quali nessun
grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state, solo
invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano li tutti e due stretti ed
innocenti, a compatirsi l'un l'altro. Le più pericolose per loro erano
le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo
bei letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano avrebbe bastato a
distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva
nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina
Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: "Sono la tua
novizia," richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il
primo incontro di desideri corso fra loro; e già la donna resa
scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l'uomo,
quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro
corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate
dovettero disgiungersi per un sorriso. Si ripreseнro; e l'indomani Tancredi
doveva partire.
Quelli furono i giorni
migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che
dovevano poi essere tanto variegaнte, tanto peccaminose sull'inevitabile sfondo
di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che
stimavano più concreto benché poi risultasse formato di fumo e di
vento soltanto. Quando furono divenuti vecchi e inutilmente saggi i loro
pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i
giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti,
molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale
che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia,
cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro
matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito; una preparazione
però che si atteggiò in un insieme a sé stante, squisito e
breve: come quelle sinfonie che sopravvivono alle opere dimenticate e che
contengono, accennati e con la loro giocosìtà velata di pudore,
tutte quelle arie che poi nell'opera dovevano essere sviluppate senza destrezza,
e fallire.
Quando Angelica e Tancredi ritornavano nel mondo dei viventi dal loro esilio nell'universo dei vizi estinti, delle virtù dimenticate e, sopratutto, del desiderio perenne, venivano accolti con bonaria ironia. "Siete proprio scemi, ragazzi, ad andare a impolverarvi così. Ma guarda un po' come sei ridotto, Tancredi" sorrideva Don Fabrizio; e il nipote andava a farsi spazzolare. Cavriaghi a cavalcioni di una sedia fumava comнpunto un "virginia" e guardava l'amico che si lavava la faccia e il collo e che sbuffava per il dispetto di veder l'acqua diventare nera come il carbone. "Io non dico di no, Falconeri: la signorina Angelica è la più bella 'tosa' che abbia mai visto; ma questo non ti giustifica: Santo Dio, un po' di freni ci vogliono! oggi siete stati soli tre ore; se siete tanto innamorati sposatevi subito e non fate ridere la gente. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto il padre oggi quando, uscito dall'amministrazione ha visto che voi stavate ancora navigando in quell'oceano di stanze! Freni, caro amico, freni ci vogliono, e voi Siciliani ne avete pochini!"
Pontificava,
lieto d'infliggere la propria saggezza al cameraнta più anziano, al
cugino della "sorda" Concetta. Ma Tancredi mentre si asciugava i
capelli era furibondo: essere accusato di mancare di freni, lui, che ne aveva
tanti da poter fermare un treno! D'altra parte l'insolente bersagliere non
aveva poi tutti i torti: anche alle apparenze bisognava pensare; però
era divenuto tanto moralista per invidia, perché ormai era chiaro che la
sua corte a Concetta non approdava a nulla. E poi quell'Angelica: quel gusto
soavissimo di sangue oggi, quando le aveva morso l'interno del labbro! e quel
suo piegarsi soffice, sotto l'abbraccio! Ma era vero, non aveva senso comune.
"Domani andremo a visitare la chiesa con tanto di Padre Pirrone e
Monsignor Trottolino di scorta."
Intanto
Angelica era andata a mutar d'abito nella stanza delle ragazze. "Mais,
Angelica, est-ce Dieu possible de se mettre en un tel état?"
s'indignava la Dombreuil mentre la bella in corpetto e sottanina si lavava le
braccia. L'acqua fredda le faceva sbollire l'eccitazione e doveva convenire fra
sé che la governante aveva ragione: valeva la pena di stancarsi tanto,
d'impolverarsi a quel modo, di far sorridere la gente e per che cosa, poi? per
farsi guardare negli occhi, per lasciarsi percorrere da quelle dita sottili,
per poco di più... E il labbro le doleva ancora. "Adesso basta.
Domani resteremo in salotto con gli altri." Ma l'indomani quegli stessi
occhi, quelle stesse dita avrebbero riacquistato il loro sortilegio e di nuovo
i due avrebbero ripreso il loro pazzesco gioco a nascondersi, a mostrarsi.
Il risultato paradossale di
questi propositi, separati ma convergenti, era che la sera a pranzo i due
più innamorati erano i due più sereni, poggiati sulle illusorie
buone intenzioni per l'indomani e si divertivano a ironizzare sulle
manifestazioni amorose degli altri, pur tanto minori. Concetta aveva deluso
Tancredi: a Napoli aveva patito per un certo rimorso nei riguardi di lei e per
questo si era tirato dietro Cavriaghi col quale sperava di rimpiazzare
sé stesso nei riguardi della cugina; anche la compassione faceva parte
della sua preveggenza. Sottilmente ma anche bonariamente astuto com'era,
arrivando, aveva avuto l'aria di condolersi quasi con lei per il suo proprio
abbandono; e spingeva avanti l'amico. Niente. Concetta dipaнnava il proprio
chiacchiericcio da collegiale, guardava il sentimentale contino con occhi
gelidi dentro i quali si poteva financo notare un po' di disprezzo. Quella
ragazza era una sciocca, non se ne poteva tirar fuori niente di buono. Alla
fine, cosa voleva? Cavriaghi era un bei ragazzo, una buona pasta d'uomo, aveva
un buon nome, grasse cascine in Brianza; era insomma quel che con termine
refrigerante si chiama un "ottimo partito." Già: Concetta
voleva lui, non era così? Anche lui la aveva voluta un tempo: era meno
bella, assai meno ricca di Angelica, ma aveva in sé qualche cosa che la
donnafugasca non avrebbe posseduto mai. Ma la vita è una cosa seria, che
diamine! Concetta avrebbe dovuto capirlo; e poi perché aveva cominciato
a trattarlo tanto male? Quella partaccia a Santo Spirito, tante altre dopo. Il
Gattopardo, sicuro, il Gattopardo; ma dovrebbero esistere dei limiti anche per
quella bestiaccia superba. "Freni ci vogliono, cara cugina, freni! E voi
Siciliane ne avete pochini."
In cuor suo Angelica dava
invece ragione a Concetta: Cavriaghi mancava troppo di pepe; dopo esser stata
innamoraнta di Tancredi sposare lui sarebbe stato come bere dell'acqua dopo
aver gustato questo Marsala che le stava davanti. Concetнta, va bene, la capiva
a causa dei precedenti. Ma le altre due stupide, Carolina e Caterina,
guardavano Cavriaghi con occhi di pesce morto e "fricchicchiavano,"
si sdilinquivano tutte quando lui le avvicinava. E allora! Con la mancanza di
scrupoli paterna essa non capiva perché una delle due non cercasse di
distogliere il contino da Concetta a proprio profitto. "A quell'età
i giovanotti sono come cagnolini: basta fischiettare e si avanzano subito. Sono
delle stupide: a forza di riguardi, divieti, superbie, finiranno si sa
già come."ааа
Nel salotto dove dopo la
cena gli uomini si ritiravano per j fumare, anche le conversazioni fra Tancredi
e Cavriaghi, i soli due fumatori della casa e quindi i due soli esiliati,
assumevano un tono particolare. Il contino fini col confessare all'amico il
fallimento delle proprie speranze amorose: "È troppo bella, troppo
pura per me; non mi ama; sono stato temerario a sperarlo; me ne andrò da
qui col pugnale del rimpianto infitto nel cuore. Non ho osato farle una
proposta precisa. Sento che per lei sono come un verme della terra, ed è
giusto che sia così; debbo trovare una vermessa che si accontenti di
me." E i suoi diciannove anni lo facevano ridere della propria sventura.
Tancredi, dall'alto della
propria felicità assicurata, si proнvava a consolarlo: "Sai conosco
Concetta dalla nascita; è la più cara creatura che esista, uno
specchio d'ogni virtù; ma è un po' chiusa, ha troppo ritegno,
temo che stimi troppo sé stessa; e poi è siciliana sino al
midollo delle ossa; non è mai uscita da qui; chi sa se si sarebbe mai
trovata bene a Milano, un paesaccio dove per mangiare un piatto di maccheroni
bisogna pensarci una settimana prima!"
L'uscita di Tancredi, una
delle prime manifestazioni dell'uнnità nazionale, riuscì a far di
nuovo sorridere Cavriaghi; su di lui pene e dolori non riuscivano a fermarsi.
"Ma gliene avrei procurato delle casse dei vostri maccheroni, io! Ad ogni
modo quel che è fatto è fatto; spero solo che i tuoi zii che sono
stati tanto carini con me non mi odieranno poi per essermi venuto a cacciare
fra voi senza costrutto." Fu rassicurato, e sinceraнmente perché
Cavriaghi era piaciuto a tutti, tranne che a Concetta (e del resto forse anche
a Concetta) per il rumoroso buon umore che in lui si univa al sentimentalismo
più flebile; e si parlò d'altro, cioè si parlò di
Angelica.
"Vedi, tu Falconeri, tu
si che sei fortunato! Andare a scovare un gioiello come la signorina Angelica
in questo porcile (scusa sai, caro). Che bella, Dio Signore, che bella!
Bricconaccio tu che tè la porti a spasso per delle ore negli angoli
più remoti di questa casa che è grande quanto il nostro Duomo! E
poi non solo bella ma intelligente anche e colta; e poi buona: le si vede negli
occhi la sua bontà, la sua cara ingenuità innocente."
Cavriaghi continuava ad
estasiarsi per la bontà di Angelica, sotto lo sguardo divertito di
Tancredi. "In tutto questo il veramente buono sei tu, Cavriaghi." La
frase scivolò inavvertita dall'ottimismo ambrosiano. Poi:
"Senti" disse il contino "fra Pochi giorni partiremo: non ti
sembra che sarebbe ora che rossi presentato alla madre della baronessina?"
Era la prima volta che
così, da una voce lombarda, Tancredi udiva chiamare con un titolo la sua
bella. Per un attimo non capi di chi si parlava. Poi il principe in lui si
ribellò: "Ma che baronessina, Cavriaghi! È una bella e cara
figliola cui voglio bene, e basta!"
Che fosse proprio
"basta" non era vero; però Tancredi parlava sincero; con
l'abitudine atavica ai larghi possessi gli sembrava davvero che Gibildolce,
Settesoli e i sacchetti di tela fossero stati suoi dai tempi di Carlo
d'Angiò, da sempre.
"Mi dispiace, ma credo
che la madre di Angelica non potrai vederla; parte domani per Sciacca a far la
cura delle stufe; è molto ammalata, poverina."
Schiacciò nel
buttacenere quel che avanzava del Virginia. "Andiamo in salotto, abbiamo
fatto gli orsi abbastanza."
Uno di
quei giorni Don Fabrizio aveva ricevuto una lettera del prefetto di Girgenti,
redatta in stile di estrema cortesia, che gli annunziava l'arrivo a Donnafugata
del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segretario della prefettura che
avrebbe dovuto intrattenerlo di un argomento che stava molto a cuore al
Governo. Don Fabrizio, sorpreso, spedì l'indomani il figlio Francesco
Paolo alla stazione di posta per ricevere il missus dominicus e
invitarlo a venire ad alloggiare a palazzo, atto di vera misericordia quanto di
ospitalità consistente nel non abbandonare il corpo del nobiluomo
piemontese alle mille belvette che lo avrebbero straziato nella
locanda-spelonca di Zzu Menico.
La
corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con
lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di
Monterzuolo, riconoscibile subito dall'aspetto esterrefatto e dal sorrisetto
guardingo; egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte più
strenuamente indigena dell'isola per di più, e vi era stato sbalzato
dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente
burocratica si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita da quei
racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la
resistenza nervosa dei nuovi arrivati e da un mese individuava un sicario in
ciascun usciere del proprio ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno
sul proprio scrittoio; inoltre, la cucina all'olio aveva da un mese posto in
disordine le sue viscere. Adesso se ne stava li, nel crepuscolo, con la sua
valigetta di tela bigia e guatava l'aspetto privo di qualsiasi civetteria della
strada in mezzo alla quale era stato scaricato; l'iscrizione "Corso
Vittorio Emanuele" che con i suoi caratteri azzurri su fondo bianco ornava
la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo che si
trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione; e non osava
rivolgersi ad alcuno dei contadini addossati alle case come cariatidi, sicuro
di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle
budella sue che gli erano care benché sconvolte.
Quando Francesco Paolo gli
si avvicinò presentandosi strabuzzò gli occhi perché si
credette spacciato ma l'aspetto composto e onesto del ragazzone biondo lo
rassicurò alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare
a palazzo Salina, fu sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo
fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia piemontese e quella
siciliana (le due più puntigliose d'Italia) a proposito della valigia
che fini con l'essere portata, benché leggerissima, da ambedue i
cavaliereschi contendenti.
Giunto a palazzo, i volti
barbuti dei "campieri" che stazioнnavano armati nel primo cortile
turbarono di nuovo l'anima di Chevalley di Monterzuolo, mentre poi la
bonarietà distante dell'accoglienza del Principe insieme all'evidente
fasto degli ambienti intravisti lo precipitarono in opposte cogitazioni.
Rampollo di una di quelle famiglie della piccola nobiltà pieнmontese che
viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra, era la prima volta che si
trovava ospite di una grande casa e questo raddoppiava la sua timidità;
mentre gli aneddoti sanguinosi uditi raccontare a Girgenti, l'aspetto oltremodo
protervo del paese nel quale era giunto, e gli "sgherri" (come
pensava lui) accampati nel cortile gli incutevano spavento; in modo che scese a
pranzo martoriato dai contrastanti timori di chi è capitato in un
ambiente al di sopra delle proprie abitudini e da quelle dell'innocente caduto
in un agguato brigantesco.
A cena mangiò bene
per la prima volta da quando aveva toccato le sponde sicule, e l'avvenenza
delle ragazze, l'austerità di Padre Pirrone e le grandi maniere di Don
Fabrizio lo convinsero che il palazzo di Donnafugata non era l'antro del
bandito Capraro e che da esso sarebbe probabilmente uscito vivo; ciò che
più lo consolò fu la presenza di Cavriaghi che, come apprese,
abitava li da dieci giorni ed aveva l'aria di star benissimo ed anche di essere
un grande amico di quel giovanottino Falconeri, amicizia questa fra un
siciliano ed un lombardo che gli apparve miracolosa. Alla fine del pranzo si
avvicinò a Don Fabrizio e lo pregò di voler concedergli un
colloquio privato perché intendeva ripartire l'indomani mattina; ma il
Principe gli spiaccicò una spalla con una manata e col più
gattopardesco sorriso: "Niente affatto, caro cavaliere" gli disse
"adesso Lei è a casa mia e la terrò in ostaggio
sinché mi piacerà; domani non partirà e per esserne sicuro
mi priverò del piacere di parlare con lei a quattr'occhi sino al
pomeriggio." Questa frase che avrebbe terrorizzato l'ottimo cavaliere tre
ore prima lo rallegrò invece adesso;
Angelica quella sera non c'era e quindi si
giocò a whist; in un tavolo insieme a Don Fabrizio, Tancredi e
Padre Pirrone vinse due rubbers e guadagnò tre lire e
trentacinque centesimi, dopo di che si ritirò in camera sua,
apprezzò la freschezza delle lenzuola e si addormentò del sonno
fiducioso del giusto.
La
mattina dopo Tancredi e Cavriaghi lo condussero in giro per il giardino, gli
fecero ammirare la quadreria e la collezione di arazzi; gli fecero anche fare
un giretto in paese;
sotto il sole color di miele di Novembre esso
appariva meno sinistro della sera prima; si vide financo in giro qualche
sorriso, e Chevalley di Monterzuolo cominciava a rassicurarsi anche nei
riguardi della Sicilia rustica. Questo fu notato da Tancredi che venne subito
assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie
raccapriccianti, purtroppo semнpre autentiche. Si passava davanti a un
divertente palazzo con la facciata adorna di maldestri bugnati. "Questa,
caro Chevalley, è la casa del barone Mùtolo; adesso è
vuota e chiusa perché la famiglia vive a Girgenti da quando il figlio
del barone, dieci anni fa, è stato sequestrato dai briganti." Il piemontese
cominciava a fremere. "Poverino! chissà quanto ha dovuto pagare per
liberarlo!" "No, non ha pagato nulla; si trovavano già in
difficoltà finanziarie, privi di denaro contante come tutti qui. Ma il
ragazzo è stato restituito lo stesso; a raнte, però."
"Come, principe, cosa intende dire?" "A rate, dico bene, a rate;
pezzo per pezzo. Prima è arrivato l'indice della mano destra. Dopo una
settimana il piede sinistro ed infine in un bei paniere, sotto uno strato di
fichi (si era in Agosto) la testa; aveva gli occhi sbarrati e del sangue rappreso
all'angolo delle labbra. Io non l'ho visto, ero un bambino allora; ma mi hanno
detto che lo spettacolo non era bello. Il paniere era stato lasciato su quel
gradino lì, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle
nero sulla testa: non la ha riconosciuta nessuno." Gli occhi di Chevalley
si irrigidirono nel disgusto; aveva già udito narrare il fatto ma
adesso, vedere sotto questo bei sole, lo scalino sul quale era stato deposto il
dono insolito era un'altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse:
"Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno qui i
nostri carabinieri, tutto questo cesserà." "Senza dubbio,
Chevalley, senza dubbio."
Si passò poi davanti
al Circolo dei Civili che all'ombra dei platani della piazza faceva la propria
mostra quotidiana di sedie in ferro e di uomini in lutto. Ossequi, sorrisi.
"Li guardi bene, Chevalley, s'imprima la scena nella memoria: un paio di
volte all'anno uno di questi signori vien lasciato stecchito sulla sua
poltroncina: una fucilata sparata nella luce incerta del tramonto; e nessuno
capisce mai chi sia stato a sparare." Chevalley provò il bisogno di
appoggiarsi al braccio di Cavriaнghi per sentire vicino a sé un po' di
sangue continentale.
Poco dopo, in cima a una
stradetta ripida, attraverso i festoni multicolori delle mutande sciorinate,
s'intravide una chiesuola ingenuamente barocca. "Quella è Santa
Ninfa. Il parroco cinque anni fa è stato ucciso li dentro mentre celebraнva
la messa." "Che orrore! una fucilata in chiesa!" "Ma che
niellata, Chevalley! siamo troppo buoni cattolici per fare delle malcreanze
simili. Hanno messo semplicemente del veleno nel vino della Comunione; è
più discreto, più liturgico vorrei dire. Non si è mai
saputo chi lo abbia fatto: il parroco era un'ottima Persona e non aveva
nemici."
Come un uomo che svegliatesi la notte vede uno spettro seduto ai piedi del letto sui propri calzini, si salva dal terrore sforzandosi di credere ad una burla degli amici buontemponi, così Chevalley si rifugiò nella credenza di esser preso in giro: "Molto divertente, principe, davvero spassoso! Lei dovrebbe scrivere dei romanzi, racconta così bene queste trottole!" Ma la voce gli tremava; Tancredi ne ebbe compassione e benché prima di rincasare passassero davanti a tre o quattro luoghi per lo meno altrettanto evocatori, si astenne dal fare il cronista e parlò di Bellini e di Verdi, le sempiterne pomate curative delle piaghe nazionali.
Alle quattro del
pomeriggio il Principe fece dire a Chevalнley che lo aspettava nello studio.
Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici
imbalsamate, di quelle grigie a zampetto rosse stimate rare, trofei di caccie
passate; una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta colma di
annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai
visitatori, una costellazione di miniature di famiнglia: il padre di Don
Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un
Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di
S.Gennaro; la principessa Carolina, già da vedova, i capelli biondissimi
accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del
Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca in un
giardino, con alla destra i la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato
aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che
le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era cacciata in
tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa
Falconeri). Poi più sotto, Paolo, il primogenito, in attillati calzoni
da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli
occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni
o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della
costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una
miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne
con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di
completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell'uniforme azzurra e
argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaнciuto col volto
incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.
Appena seduto Chevalley
espose la missione della quale era stato incaricato: "Dopo la felice
annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di
Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a
Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali
son state incaricate di redigere una lista di personaнlità da proporre
all'esame del governo centrale ed eventualнmente, poi, alla nomina regia e,
come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome,
Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di
chi lo porta, per i meriti scientifici, per l'attitudine dignitosa e liberale,
anche, assunta durante i recenti avvenimenti." Il discorsetto era stato
preparaнto da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul
calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley.
Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano
appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampacela dai peli biondastri ricopriva
interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.
Ormai avvezzo alla
sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley
non si lasciò smontare: "Prima di far pervenire la lista a Torino i
miei superiori hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se
questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale
le autorità sperano molto è stato l'oggetto della mia missione
qui, missione che per altro mi ha valso l'onore e il piacere di conoscere Lei
ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto
pittoresca."
Le lusinghe scivolavano via
dalla personalità del Principe come l'acqua dalle foglie delle ninfee:
questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello
stesso tempo orgogliosi ed abituati a esserlo. "Adesso questo qui s
immagina di venire a farmi un grande onore" pensava "a me, che sono
quel che sono, fra l'altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere
press'a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli
in relazione a chi 'li offre: un contadino che mi da il suo pezzo di pecorino
mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m'invita a
pranzo. Il guaio è che il pecorino mi da la nausea; e così non
resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che
si vede fin troppo." Le idee sue in fatto di Senato erano del resto
vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato
Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un
Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore,
onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo
infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da
Padre Pirrone: "Senatoнre! boni viri, senatus autem mala bestia"
Adesso vi era anche il Senato dell'Impero di Parigi, ma non era che una
assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un
Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di
amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle
sincerarsi: "Ma insomma, cavalieнre, mi spieghi un po' che cosa è
veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava
passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un
soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente
a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di
decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?"
Il
Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano,
s'inalberò: "Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del
Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla
saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi
che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso
funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare,
impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei
rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà
udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama
del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da
esaudire."
Chevalley
avrebbe forse continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse
da dietro la porta chiesto alla Уsaggezza del Sovrano" di essere ammesso;
Don Fabrizio fece l'atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da
dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso,
fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con
un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormi.
"Stia a sentirmi,
Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da
scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo
che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è
dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l'impressione di screzi
dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza
che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono."
"Ma allora, principe, perché non
accettare?" "Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò;
noi Siciнliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di goverнnanti
che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a
spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva
agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso
la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto 'adesione' non
'partecipazione.' In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha
posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci
perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe
dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere
se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio
credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei
capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non
importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai
è semplicemenнte quello di 'fare'. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi.
Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche
civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e
perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il
'la'; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la
regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo
dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e
svuotati lo stesso."
Adesso Chevalley era
turbato. "Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia
non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato."
"L'intenzione è
buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima
parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che
si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra
piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposiнzione Universale
di Londra, che non comprende nulla, che s'impipa di tutto, delle acciaierie di
Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare
il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il
letto."
Parlava ancora piano, ma la
mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la crocetta minuscola che
sormontava la cupola venne trovata spezzata. "Il sonno, caro Chevalley, il
sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre
chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei
regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia
molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono
manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra
sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate
nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa,
cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di
scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del
nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il
prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò
il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali
siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte,
incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno
della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili
se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di
rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è
morto."
Non ogni cosa era compresa
dal buon Chevalley; soprattutнto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva
visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti,
aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che
fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: "Ma non le sembra di
esagerare un po', principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani
emigrati, Crispi per nominarнne uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei
dormiglioni."
Il Principe si seccò:
"Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri
semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane
Crispi, non io certaнmente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non
ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D'altronde
vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere
la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che
insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl'incongrui stupri
hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la
mollezza lasciva e l'asprezza dannata; che non è mai meschino, terra
terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di
esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l'inferno
attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di
misura, quindi pericolosi; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a
quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto,
Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste;
questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si
lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire
che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di
quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe
essere sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna
trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia
di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i
torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio li dove una settimana
prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio,
questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto,
questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché
non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti;
tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti,
presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere
d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi
altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane
così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una
terrificante insularità di animo.
L'inferno
ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più
della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don
Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
"Non nego che alcuni
Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna
però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni
è già tardi; la crosta è già fatta, dopo:
rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri,
scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui,
la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho
probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele
deprecare le sventure d'Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono ,
molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di
esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso
accettare. Sono una rappreнsentante della vecchia classe, inevitabilmente
compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in
mancanza di quelli dell'affetto. Appartengo ad una generaнzione disgraziata a
cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due.
Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi,
sono privo d'illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un
legislatore inesperto cui manca la facoltà d'ingannare sé stesso,
questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra
generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli
e le capriole dei giovani attorno a quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso
avete bisogno di giovaнni, di giovani svelti, con la mente aperta al 'come'
più che al 'perché' e che siano abili a mascherare, a
contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe
idealità politiche." Tacque, lasciò in pace San Pietro.
Continuò: "Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai
suoi supeнriori?"
"Va da sé,
principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio
ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso."
"C'è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepiнbile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorнra. È l'individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuoi porre la propria candidatura alla camera dei deputati." Di Sedàra si era molto parlato in Prefetнtura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest'uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l'ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido; mancava si di quella prontezнza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva la impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l'amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l'opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.
Volle fare un ultimo sforzo;
si alzò e l'emozione conferiva Pathos alla sua voce: "Principe, ma
è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per
alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di
cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo?
Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani
vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà
libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto
sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza,
principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori."
Don Fabrizio gli sorrideva,
lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: "Lei
è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei
ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: 'i
Siciliani vorranno migliorare.' Le racconterò un aneddoto personale. Due
o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni
ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per
rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io
posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza
dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero
di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che
i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una
idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei
giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati
dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano
stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume
delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall'altra,
come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente
venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. 'They are coming to teach us good manners'
risposi 'but won't succeed, because we are gods.' 'Vengono per insegnarci le
buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.'
Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo
anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la
semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è
più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per
origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito,
sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la
loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli
differenti essi credono di avere un passato imperiale che da loro diritto a
funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare
di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà
quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli
Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la
stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionali riformatori
di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto
dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto
ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se
è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
"Adesso
anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un
ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato
delle cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per
così dire. Sarà. Ma il feudalismo c'è stato dappertutto,
le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires
inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati
intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso
di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi
chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per
molto tempo, non c'è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non
posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si
possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse
dette lei, me ne sarei avuto a male.
E
tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per
qualche ora la parte di uomo civile."
L'indomani
mattina presto Chevalley riparti e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di
andare a caccia, riuscì facile accomнunarlo alla stazione di posta. Don
Ciccio Tumeo era con 'oro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili,
il suo e quello di Don Fabrizio, e dentro di sé la bile delle
proprie virtù conculcate.
Intravista nel chiarore
livido delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva
disperata. Diнnanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accuнmulavano
lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre
delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati
dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre
tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano
state le mogli di quei fantocci sui quali s'incespica agli svolti delle
"trazzere." Gli uomini, abbrancato lo "zappone" uscivano
per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori
esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l'alba di stagno
cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee.
Chevalley pensava:
"Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova,
agile, moderna cambierà tutнto." Il Principe era depresso:
"Tutto questo" pensava "non dovrebbe poter durare; però
durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e
dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli
che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti
Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della
terra." Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono. Chevalley
s'inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di
vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.
Era appena giorno; quel
tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo
impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti
e scossoni si bagnò di saliva la punta dell'indice, ripulì il
vetro per l'ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce
di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.