PARTE SETTIMA
Luglio 1883
Don Fabrizio quella
sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido
vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la
volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma
continuamenнte come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno,
senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a
sabbia. In alcuni momenti d'intensa attività, di grande attenzione
questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi
impassibile alla più breve occasioнne di silenzio o d'introspezione,
come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una pendola
s'impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi
sono sempre stati lì vigili anche quando non li udivamo.
In tutti gli altri
momenti gli bastava sempre un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei
granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che
evadevano dalla sua vita e lo lasciavano per sempre; la sensazione del resto
non era, prima, legata ad alcun malessere, anzi questa impercettibile perdita
di vitalità era la prova, la condizione per così dire, della
sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a
indagare vastissimi abissi Ulteriori essa non era per nulla sgradevole: era
quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità conнgiunto
però al presagio vago del riedificarsi altrove di una
individualità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga: quei
granellini di sabbia non andavano perduti, scomparivano si ma si accumulavano
chissà dove per cementare una mole più duratura. Mole
però, aveva riflettuto, non era la parola esatta pesante com'era; e
granelli di sabbia, d'altronde, neppure: erano più come delle particelle
di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto, per andar su nel cielo
a formare le grandi nubi leggere e libere. Talvolta si sorprendeva che il
serbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti; anni di perdite.
"Neppure se fosse grande come una piramiнde." Tal altra volta,
più spesso, si era inorgoglito di esser quasi i solo ad avvertire questa
fuga continua mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne
aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano
disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano
dei mosconi innocui. Queste sono cose che, non si sa poi perché, non si
confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le
aveva intuite mai, nessuna delle fìglie che sognavano un oltretomba
identico a questa vita, completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai,
di tutto; non Stella che divorata dalla cancrena del diabete si era pure
aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi per un
attimo aveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia:
"Tu, zione, corteggi la morte." Adesso il corteggiamento era finito:
la bella aveva detto il suo si, la fuga decisa, lo scompartimento nel treno,
riservato.
Perché adesso la
faccenda era differente, del tutto diversa. Seduto su una poltrona, le gambe
lunghissime avvolte in una coperta, sul balcone dell'albergo Trinacria, sentiva
che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale
paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un
Lunedì di fine Luglio, ed il mare di Palermo compatto, oleoso, inerte,
si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un
cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il
sole immoto e perpendicolare stava li sopra piantato a gambe larghe e lo
frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l'altissima luce
Don Fabrizio non udiva altro suono che quello Ulteriore della vita che erompeva
via da lui.
Era arrivato la mattina da
Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore
Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote
Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funeнbre.
Il tramestio del porto alla partenza e quello dell'arrivo a Napoli, l'odore
acre della cabina, il vocio incessante di quella città paranoica lo
avevano esasperato, di quella esasperazione querula dei debolissimi che li
stanca e li prostra, che suscita l'esasperazione opposta dei buoni cristiani
che hanno molti anni di vita nelle bisacce. Aveva preteso di ritornare per via
di terra: decisione improvvida che il medico aveva cercato di combattere; ma
lui aveva insistito e così imponente era ancora l'ombra del suo
prestigio che la aveva spuntata; col risultato di dover poi rimanere trentasei
ore rintanato in una scatola rovente, soffocato dal fumo delle gallerie che si
ripetevano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti,
espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva
dovuto richiedere al nipote spaurito; si attraversavano paesaggi malefici,
giogaie maledette, pianure malariche e torpiнde; quei paesaggi calabresi e
basilischi che a lui sembravano barbarici mentre di fatto erano tali e quali
quelli siciliani. La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo
tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso
paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di
Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace sorriso dello Stretto,
sbugiardato subito dalle riarse colline peloritane, di nuovo una svolta, lunga
come una crudele mora procedurale; si era discesi a Catania, ci si era arrampicati
verso Castrogiovanni; la locomotiva che annaspaнva su per i pendii favolosi
sembrava dovesse crcpare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa
fragorosa, si era giunti a Palermo. All'arrivo le solite maschere dei familiari
con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi
dal sorriso consolatorio delle persone che lo aspettavaнno alla stazione, dal
loro finto, e mal finto, aspetto rallegrato che gli si rivelò il vero
senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto
delle rassicuranti generalità; e fu allora, dopo esser sceso dal treno,
mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che
mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi Angelica
con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire
il fragore della cascata.
Probabilmente svenne,
perché non ricordava come fosse arrivato alla vettura; vi si
trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. La
carrozza non si era ancora mossa e da fuori gli giungeva all'orecchio il
parlottare dei familiari. "Non è niente" "II viaggio
è stato troppo lungo" "Con questo caldo sveniremmo
tutti." "Arrivare sino alla villa lo stancherebнbe troppo." Era
di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva
fra Concetta e Francesco Paolo, l'eleganza di Tancredi, il suo vestito a
quadretti marrone e bigi, la bombetta bruna; e notò anche come il
sorriso del nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi come fosse tinto di
malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il
nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la
perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. La
carrozza si mosse e svoltò sulla destra. "Ma dove andiamo,
Tancredi?" La propria voce lo sorprese, vi avvertiva l'eco del rombo
interiore. "Zione, andiamo all'albergo Trinacria; sei stanco e la villa
è lontana; ti riposerai una notte e domani tornerai a casa. Non ti
sembra giusto?" "Ma allora andiamo alla nostra casa di mare; è
ancora più vicina." Questo però non era possibile: la casa
non era montata, come ben sapeva; serviva solo per occasionali colaнzioni in
vista del mare; non vi era neppure un letto. "All'albergo starai meglio,
zio; avrai tutte le comodità." Lo trattavano come un neonato; di un
neonato, del resto, aveva appunto il vigore.
Un medico fu la prima
comodità che trovò all'albergo; era stato fatto chiamare in
fretta, forse durante la sua sincope. Ma non era il dottor Cataliotti, quello
che sempre lo curava, incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i
ricchi occhiali d'oro; era un povero diavolo, il medico di quel quartiere
angustiato, il testimonio impotente di mille agonie miserabili. Al di sopra
della redingote sdrucita si allungava il povero volto emaciato irto di
peli bianchi, un volto disilluso d'intellettuale famelico; quando estrasse dal
taschino l'oroloнgio senza catena si videro le macchie di verderame che avevano
trapassato la doratura posticcia. Anche lui era una povera otre che lo sdrucio
della mulattiera aveva liso e che spandeva senza saperlo le ultime goccie di
olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle goccie di canfora,
mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e
che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati.
Presto dalla farmacia vicina
giunsero le goccie; gli fecero bene; si senti un po' meno debole ma l'impeto
del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga.
Don Fabrizio si guardò
nello specchio dell'armadio: ricoнnobbe più il proprio vestito che
sé stesso: altissimo, allampanaнto, con le guancie infossate, la barba
lunga di tre giorni; sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano
nelle vignette dei libri di Verne che per Natale regalava a Fabrizietto, un
Gattopardo in pessima forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse
con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con
una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso
imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la
faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il
cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore
della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto
di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri
corpi giovani? Avrebbe voluto contravveнnire per quanto potesse a quest'assurda
regola del camuffamenнto forzato; sentiva però che non poteva, che
sollevare il rasoio sarebbe stato come, un tempo, sollevare il proprio
scrittoio. "Bisogna far chiamare un barbiere" disse a Francesco
Paolo. Ma subito pensò: "No. È una regola del gioco, esosa
ma formale. Mi raderanno dopo." E disse forte: "Lascia stare; ci
penseremo poi." L'idea di questo estremo abbandono del cadavere con il
barbiere accovacciato sopra non lo turbò.
Il cameriere entrò
con una bacinella di acqua tiepida e una spugna, gli tolse la giacca e la
camicia, gli lavò la faccia e le mani, come si lava un bimbo, come si
lava un morto. La fuliggine di un giorno e mezzo di ferrovia rese funerea anche
l'acqua. Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori,
esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate; le ombre delle diecine
di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano nel loro odore
medicamentoso; fuori dal tavolino di notte i ricordi tenaci delle orine vecchie
e diverse incupivaнno la camera. Fece aprire le persiane: l'albergo era in
ombra ma la luce riflessa dal mare metallico era accecante; meglio questo
però che quel fetore di prigione; disse di portare una poltrona sul
balcone; appoggiato al braccio di qualcheduno si trascinò fuori e dopo
quel paio di metri sedette con la sensazione di ristoro che provava un tempo
riposandosi dopo sei ore di caccia in montagna. "Di' a tutti di lasciarmi
in pace; mi sento meglio; voglio dormire." Aveva sonno davvero; ma
trovò che cedere adesso al sopore era altrettanto assurdo quanto
mangiare una fetta di torta subito prima di un desideraнto banchetto. Sorrise.
"Sono sempre stato un goloso saggio." E se ne stava li immerso nel
grande silenzio esteriore, nello spaventevole rombo interno.
Poté volgere la testa
a sinistra: a fianco di Monte Pellegrino si vedeva la spaccatura nella cerchia
dei monti, e più lontano i due colli ai piedi dei quali era la sua casa;
irragiungibile com'era questa gli sembrava lontanissima; ripensò al
proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al
povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle
bertucce del parato, al grande letto di rame nel quale era morta la sua
Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili anche se
preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte
di terre e di succhi d'erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco
sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il
cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all'imminente
fine di queste povere cose care. La fila inerte delle case dietro di lui, la
diga dei monti, le distese flagellate dal sole, gli impedivano financo di
pensare chiaramente a Donnafugata; gli sembrava una casa apparsa in sogno; non
più sua, gli sembrava: di suo non aveva adesso che questo corpo sfinito,
queste lastre di lavagna sotto i piedi, questo precipizio di acque tenebrose
verso l'abisso. Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a
correnti indomabili.
C'erano i figli, certo. I
figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui. Ogni
paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con
il carbone e commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta
all'indirizzo di lei una letterina e poco dopo un pacchettino con un
braccialetto. Quello si. Anche lui aveva "corteggiato la morte," anzi
con l'abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte
che è possibile metter su continuando a vivere. Ma gli altri... C'erano
anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così
bello, così vivace, tanto caro.
Tanto odioso. Con la sua
doppia dose di sangue Màlvica, con gl'istinti goderecci, con le sue
tendenze verso un'eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il
contrario, l'ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava
sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile
è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l'ultimo a
possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie;
Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni
di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli
insegnanti, di cavalнli acquistati avendo l'occhio al loro prezzo più
che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre
amareggiata dall'assillo che altri potessero pompeggiaнre più di lui. Si
sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa sarebbe divenuta una
routine consueta e non più un'avventura audace e predatoria come
era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di
Ragattisi, magari, chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la
sorte grottesca di esser metamorfizzati in terrine di foie-gras presto
digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto,
da quelle delicate e sfumate cose che erano. E di lui sarebbe rimasto soltanto
il ricordo di un vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio
di Luglio proprio a tempo per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a
Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina.
Aveva avuto torto. L'ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva
dopo tutto vinto.
Dalla camera vicina aperta
sullo stesso balcone gli giungeva la voce di Concetta: "Non se ne poteva
fare a meno; bisognava farlo venire; non mi sarei mai consolata se non lo si
fosse chiamato." Comprese subito: si trattava del prete. Un momento ebbe
l'idea di rifiutare, di mentire, di mettersi a gridare che stava benissimo, che
non aveva bisogno di nulla. Presto si accorse del ridicolo delle proprie
intenzioni: era il principe di Salina e come un principe di Salina doveva
morire, con tanto di prete accanto. Concetta aveva ragione. Perché poi
avrebbe dovuto sottrarsi a ciò che era desiderato da migliaia di altri
morenti? E tacque aspettando di udire il campanellino del Viatico. Quel ballo
dai Ponteleone: Angelica aveva odorato come un fiore fra le sue braccia. Lo
sentì presto: la parrocchia della Pietà era quasi di fronte. Il
suono argentino e festoso si arrampicava sulle scale, irrompeva nel corridoio,
si fece acuto quando la porta si apri: preceduto dal direttore dell'Albergo,
svizzerotto seccatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio, padre
Balsàno, il parroco entrò recando sotto la pisside il Santissimo
custodito dall'astuccio di pelle. Tancredi e Fabrizietto sollevarono la
poltrona, la riportarono nella stanнza; gli altri erano inginocchiati.
Più col gesto che con la voce, disse: "Via! via!" Voleva
confessarsi. Le cose si fanno o non si fanno. Tutti uscirono, ma quando dovette
parlare si accorse che non aveva molto da dire: ricordava alcuni peccati
precisi ma gli sembravano tanto meschini che davvero non valeva la pena di aver
importunato un degno sacerdote in quella giornata di afa. Non che si sentisse
innocente: ma era tutta la vita ad esser colpevole, non questo o quel singolo
fatto; vi è un solo peccato vero, quello originale; e ciò non
aveva più il tempo di dirlo. I suoi occhi dovettero esprimere un
turbamento che il sacerdote poté scambiare per espressione di
contrizione; come di fatto in un certo senso era; fu assolto. Il mento, a
quanto sembrava, gli poggiava sul petto perché il prete dovette
inginocchiarsi lui per insinuargli la particela fra le labbra. Poi furono
mormorate le sillabe immemoriali che spianano la via e il sacerdote si
ritirò.
La poltrona non fu
più trascinata sul balcone. Fabrizietto e Tancredi gli sedettero vicino
e gli tenevano ciascuno una mano; il ragazzo lo guardava fisso con la
curiosità naturale in chi assista alla sua prima agonia, e niente di
più; chi moriva non era un uomo, era un nonno, il che è assai
diverso. Tancredi gli stringeva forte la mano e parlava, parlava molto, parlava
allegro: esponeva progetti cui lo associava, commentava i fatti politici; era
deputato, gli era stata promessa la legazione di Lisbona, conosceva molti
fatterelli segreti e sapidi. La voce nasale, il vocabolario arguto delineavano
un rutile fregio sul sempre più fragoroso erompere delle acque della
vita. Il Principe era grato delle chiacchiere, e gli stringeva la mano con
grande sforzo ma con trascurabile risultato. Era grato, ma non lo stava a
sentire. Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare
fuori dall'immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d'oro
dei momenti felici: eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei
settimane dopo; mezz'ora in occasione della nascita di Paolo, quando senti
l'orgoglio di aver prolungato di un rametto l'albero di casa Salina. (L'orgoglio
era abusivo, lo sapeva adesso, ma la fierezza vi era stata davvero); alcune
conversazioni con Gioнvanni prima che questi scomparisse, alcuni monologhi, per
esser veritieri, durante i quali aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo
simile al suo; molte ore in osservatorio assolte nell'astrazione dei calcoli e
nell'inseguimento dell'irнraggiungibile; ma queste ore potevano davvero esser
collocate nell'attivo della vita? Non erano forse un'elargizione anticipata
delle beatitudini mortuarie? Non importava, c'erano state.
Nella strada sotto, fra
l'albergo e il mare, un organetto si fermò e suonava nell'avida speranza
di commuovere i forestieri che in quella stagione non c'erano. Macinava
"Tu che a Dio spiegasti l'ale"; quel che rimaneva di Don Fabrizio pensò
a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie in Italia da
queste musiche meccaniche. Tancredi col suo intuito corse al balcone,
buttò giù una moneta, fece segno di tacere. Il silenzio fuori si
richiuse, il fragore dentro ingiganti.
Tancredi. Certo, molto
dell'attivo proveniva da lui: la sua comprensione tanto più preziosa in
quanto ironica, il godimento estetico di veder come si destreggiasse fra le
diffiнcoltà della vita, l'affettuosità beffarda come si conviene
che sia; dopo, i cani: Fufi, la grossa mops della sua infanzia, Tom,
l'irruento barbone confidente ed amico, gli occhi mansueti di Svelto, la
balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il pointer
che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e
che non lo avrebbe più ritrovato; qualche cavallo, questi già
più distanti ed estranei. Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a
Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed
in acqua, il tempo congelato; lo schioppettare allegro di alcune cacce, il
massacro affettuoso dei conigli e delle pernici, alcune buone risate con Tumeo,
alcuni minuti di compunzione al convento fra l'odore di muffa e di confetture.
Vi era altro? Sì, vi era altro: ma erano di già pepite miste a terra:
i momenti sodisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi, la
contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di
Concetta si perpetuava una vera Salina; qualche momento di foga amorosa; la
sorpresa nel ricevere la lettera di Arago che spontaneamente si congratulava
per l'esattezza dei difficili calcoli relativi alla cometa di Huxley. E
perché no? L'esaltazione pubblica quando aveva ricevuto la medaglia in
Sorbona, la sensazione delicata di alcune sete di cravatte, l'odore di alcuni
cuoi macerati, l'aspetto ridente, l'aspetto voluttuoso di alcune donne
incontrate, quella intraviнsta ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata
alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio che era
sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento
insudiciato. Che gridio di folla. "Panini graviнdi!" "Il
Corriere dell'Isola!" E poi quell'anfanare del treno stanco senza fiato...
E quell'atroce sole all'arrivo, quei sorrisi bugiardi, l'eromper via delle
cateratte...
Nell'ombra che saliva si
provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto: il suo
cervello non dipanava più il semplice calcolo: tre mesi, venti giorni,
un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro... quarantottomila... √
840.000... Si riprese. "Ho settantatré anni, all'ingrosso ne
avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre al
massimo." E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a
contare: tutto il resto: settantenni.
Senti che la mano non stringeva
più quella dei nipoti. Tancredi si alzò in fretta ed
uscì... Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano,
tempestoso, irto di spume e di cavalloni sfrenati...
Doveva aver avuto un'altra
sincope perché si accorse a un tratto di esser disteso sul letto:
qualcuno gli teneva il polso: dalla finestra il riflesso spietato del mare lo
accecava; nella camera si udiva un sibilo: era il suo rantolo ma non lo sapeva;
attorno vi era una piccola folla, un gruppo di persone estranee che lo
guardavano fisso con un'espressione impaurita: via via li riconobbe: Tancredi,
Concetta, Angelica, Francesco-Paolo, Carolina, Fabrizietto; chi gli teneva il
polso era il dottor Cataliotti; credette di sorridere a questo per dargli il
benvenuto ma nessuno poté accorgersene: tutti, tranne Concetta, piangeнvano;
anche Tancredi che diceva: "Zio, zione caro!"
Fra il gruppetto ad un
tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da
viaggio ad ampia tournure, con un cappelline di paglia ornato da un velo
a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenнza del volto.
Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l'altro dei
piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre
che veniva a prenderlo: strano che così giovane com'era si fosse arresa
a lui; l'ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a
faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser
posseduta, gli apparve più bella di come mai l'avesse intravista negli
spazi stellari.
Il fragore del mare si
placò del tutto.