PARTE OTTAVA
Maggio 1910
Chi andava a far visita alle vecchie
signorine Salina trovava quasi sempre almeno un cappello di prete sulle sedie
dell'antiнcamera. Le signorine erano tre, segrete lotte per l'egemonia
casalinga le avevano dilaniate, e ciascuna di esse, caratteri forti a proprio
modo, desiderava avere un confessore particolaнre. Come in quell'anno 1910 si
usava ancora le confessioni avvenivano in casa e gli scrupoli delle penitenti
esigevano che esse fossero frequenti. A quel plotoncino di confessori bisognava
aggiungere il cappellano che ogni mattina veniva a celebrare la Messa nella
cappella privata, il Gesuita che aveva assunto la direzione spirituale generale
della casa, i monaci e i preti che venivano a riscuotere elargizioni per questa
o per quella parrocchia od opera pia; e si comprenderà subito come il
viavai di sacerdoti fosse incessante e perché l'anticamera di villa
Salina ricordasse spesso uno di quei negozi romani intorno a piazza della
Minerva che espongono in vetrina tutti i copricaнpo ecclesiastici immaginabili
da quelli color di fiamma dei Cardinali a quelli color tizzone per curati di
campagna.
In quel tale pomeriggio di
Maggio 1910 l'adunata di capнpelli era addirittura senza precedenti. La
presenza del Vicario Generale dell'Archidiocesi era attestata dal suo vasto
cappello di fine castoro di un delizioso color "fuchsia" adagiato su
di una sedia appartata, con accanto un guanto solo, il destro, in seta
intrecciata del medesimo delicato colore; quella del suo segretario da una
lucente peluche nera a peli lunghi, la calotta del quale era circondata
da un sottile cordoncino violetto; quella di due padri gesuiti dai loro
cappelli dimessi in feltro tenebroso, simboli di riserbo e modestia. Il
copricapo del cappellano giaceva su una sedia isolata come si conviene a quello
di persona sottoposta a inchiesta.
La riunione di quel giorno,
infatti, non era roba da poco. In esecuzione di disposizioni pontificie il
cardinale-arcivescovo aveva iniziato una ispezione agli oratori privati
dell'Archidiocesi allo scopo di assicurarsi dei meriti delle persone che
avevano l'autorizzazione di farvi officiare, della conformità
dell'arredamento e del culto ai canoni della Chiesa, dell'autenнticità
delle reliquie in esse venerate. La cappella privata delle signorine Salina era
la più nota della città e una delle prime che Sua Eminenza si
proponeva di visitare; e proprio per predisporre questo avvenimento, fissato
per l'indomani mattiнna, Monsignor Vicario si era recato a villa Salina. Alla
Curia Arcivescovile erano pervenute, sgocciolate attraverso chissà quali
filtri, voci incresciose in relazione a quella cappella; non certo in rapporto
ai meriti delle proprietarie ed al loro diritto di adempiere in casa propria ai
loro doveri religiosi; questi erano argomenti fuori discussione, e neppure si
poneva in dubbio la regolarità e la continuità del culto, cose
che erano quasi perfette se si volesse trascurare una soverchia riluttanza, del
resto comprensibile, delle signorine Salina a far partecipare ai riti sacri
persone estranee alla loro più intima cerchia familiare. L'attenzione
del Cardinale era stata attratta su di una immagine venerata nella cappella e
sulle reliquie, sulle diecine di reliquie, esposte: circa l'autenticità
di esse erano corse le dicerie più inquietanti e si desiderava che la
loro genuinità venisse comprovata. Il cappellano, che pur era un
ecclesiastico di buona cultura e di migliori speranze, era stato rimproverato
con energia per non aver sufficientemente aperto gli occhi alle vecchie signorine:
egli aveva avuto, se è lecito esprimersi così, "una lavata
di tonsura."
La
riunione si svolgeva nel salone centrale della villa, quello delle bertucce e
dei pappagalli. Su di un divano ricoperto di panno bleu con filettature rosse
acquisto di trent'anni prima che stonava malamente con le tinte evanescenti del
prezioso parato, sedeva la signorina Concetta con Monsignor Vicario alla
destra; ai lati del divano due poltrone simili ad esso avevano accolto la
signorina Carolina ed uno dei Gesuiti, padre Corti, mentre la signorina
Caterina, che aveva le gambe paralizzate, se ne stava su una seggiolina a
rotelle e gli altri ecclesiastici si accontentavano delle sedie ricoperte della
medesima seta del parato che allora sembravano a tutti di minor pregio delle
invidiate poltrone.
Le tre sorelle erano tutte
poco al di qua o poco al di là , della settantina, e Concetta non
era la maggiore; ma la lotta egemonica alla quale si è fatto cenno
all'inizio essendosi chiusa da tempo con la debellatio delle avversarie,
nessuno avrebbe mai pensato a contestarle il rango di padrona di casa. Nella
persona di lei emergevano ancora i relitti di una passata bellezza: grassa e
imponente nei suoi rigidi abiti di moire nera, portava i capelli
bianchissimi rialzati sulla testa in modo da scoprire la fronte quasi indenne;
questo, insieme agli occhi sdegnosi e ad una contrazione astiosetta al di sopra
del naso, le conferiva un aspetto autoritario e quasi imperiale; a tal punto
che un suo nipote, avendo intravisto il ritratto di una zarina illustre in non
sapeva più qual libro, la chiamava in privato La Grande Catherine,
appellativo sconveniente che, del resto, la totale purezza di vita di Concetta
e l'assoluta ignoranza del nipote in fatto di storia russa rendevano, a conti
fatti, innocente.
La conversazione durava da
un'ora, il caffè era stato preso, e si faceva tardi; Monsignor Vicario
riassunse i propri argomenti: "Sua Eminenza paternamente desidera che il
culto celebrato in privato sia conforme ai più puri riti di Santa Madre
Chiesa ed è proprio per questo che la sua cura pastorale si rivolge fra
le prime alla vostra cappella perché egli sa come la vostra casa
splenda, faro di luce, sul laicato palermitano, e desidera che dalla
ineccepibilità degli oggetti venerati scaturiнsca maggiore edificazione
per voi stesse e per tutte le anime religiose." Concetta taceva, ma
Carolina, la sorella maggiore, esplose: "Adesso ci dovremo presentare alle
nostre conoscenнze come delle accusate; questa di una verifica alla nostra
cappella è una cosa, scusatemi Monsignore, che non avrebbe dovuto
nemmeno passare per la testa di Sua Eminenza."
Monsignore sorrideva,
divertito: УSignorina, Lei non immaнgina quanto la Sua emozione appaia grata ai
miei occhi: essa è l'espressione della fede ingenua, assoluta, graditissima
alla Chiesa e, certamente, a Gesù Cristo Nostro Signore; ed è
soltanto per più far fiorire questa fede e per purificarla che il Santo
Padre ha raccomandato queste revisioni le quali, d'altronde, si vanno compiendo
da qualche mese in tutto l'orbe cattolico."
Il riferirsi al Santo Padre
non era a dir vero opportuno. Carolina infatti faceva parte di quelle schiere
di cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose
più a fondo del Papa; ed alcune moderate innovazioni di Pio Decimo, l'abolizione
di alcune secondarie feste di precetto in ispecie, la avevano già prima
esasperata. "Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri; farebbe
meglio." Poiché le sorse il dubbio di essere andata troppo oltre,
si segnò, mormorò un Gloria Patri.
Concetta intervenne:
"Non lasciarti trascinare a dire cose che non pensi, Carolina. Che
impressione riporterà di noi Monsignore qui presente?"
Questi, a dir vero,
sorrideva più che mai; pensava soltanto che si trovava di fronte a una
bambina invecchiata nella ristrettezza di idee e nelle pratiche senza luce. E,
benigno, indulgeva.
"Monsignore pensa che
si trovi dinanzi a tre sante donne," disse. Padre Corti, il Gesuita, volle
rallentare la tensione. "Io, Monsignore, sono fra quelli che meglio
possono confermare le Vostre parole. Padre Pirrone, la cui memoria è
venerata da quanti lo hanno conosciuto, mi narrava spesso, quando ero novizio,
del santo ambiente nel quale le signorine sono state allevate; del resto il
nome di Salina basterebbe a render conto di tutto."
Monsignore desiderava
giungere a fatti concreti: "Piuttoнsto, signorina Concetta, adesso che
tutto è stato chiarito, vorrei visitare, se loro lo permettono, la
cappella per poter preparare Sua Eminenza, alle meraviglie di fede che
vedrà domattina."
Ai tempi del Principe
Fabrizio nella villa non vi era cappelнla: tutta la famiglia si recava in
chiesa nei giorni di festa ed anche Padre Pirrone per celebrare la propria
messa doveva ogni mattina fare un pezzo di strada. Dopo la morte di Don
Fabrizio però, quando per varie complicazioni ereditarie che sarebbe
fastidioso narrare, la villa divenne esclusiva proprietà delle tre
sorelle, esse pensarono subito a metter su il proprio oratorio. Venne scelto un
salotto un po' fuor di mano che, con le sue mezze colonne di finto marmo
incastrate nelle pareti destava un tenuissimo ricordo di basilica romana; dal
centro del soffitto venne raschiata via una pittura sconvenienнtemente
mitologica e si addobbò un altare. E tutto era fatto.
Quando Monsignore
entrò la cappella era illuminata dal sole del pomeriggio calante; e al
disopra dell'altare il quadro veneratissimo dalle signorine si trovava in piena
luce: era un dipinto nello stile di Cremona e rappresentava una giovinetta
esile, assai piacente, gli occhi rivolti al ciclo, i molli capelli bruni sparsi
in grazioso disordine sulle spalle seminude; nella destra essa stringeva una
lettera spiegazzata; l'espressione sua era di trepida attesa non disgiunta da
una certa letizia che le brillava nei candidissimi occhi; nel fondo verdeggiava
un mite paesaggio lombardo. Niente Gesù Bambini, ne corone, ne serpenti,
ne stelle, nessuno insomma di quei simboli che sogliono accompagnare l'immagine
di Maria; il pittore doveva essersi fidato che l'espressione verginale fosse
sufficiente a farla riconoscere. Monsignore si avvicinò, sali uno dei
gradini dell'altare e, senza essersi segnato, rimase a guardare il quadro per
qualche minuto, esprimendo una sorridente ammirazione, come se fosse stato un
critico d'arte. Dietro di lui le sorelle si facevano segni della croce e
mormoravano delle Ave Maria.
Poi il prelato ridiscese il
gradino, si volse: "Una bella pittura" disse, "molto
espressiva."
"Una immagine
miracolosa, Monsignore, miracolosissiнma!" spiegò Caterina la
povera inferma, sporgendosi dal suo strumento di tortura ambulante.
"Quanti miracoli ha fatto!" Carolina incalzava: "Rappresenta la
Madonna della Lettera. La Vergine è sul punto di consegnare la Santa
Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella
protezione che è stata gloriosamente concessa, come si è visto
dai molti miracoli avvenuti in occasione del .terremoto di due anni fa."
"Bella pittura,
signorina; qualunque cosa rappresenti è un bei quadro e bisogna tenerlo
da conto." Poi si volse alle reliquie: settantaquattro ve ne erano e
coprivano fitte le due parti di parete di fianco all'altare: ciascuna era
chiusa in una cornice che conteneva anche un cartiglio con l'indicazione di che
cosa fosse e un numero che si riferiva alla documentaнzione di
autenticità. I documenti stessi, spesso voluminosi e gravati di sigilli,
erano chiusi in una cassa ricoperta di damasco che stava in un angolo. Vi erano
cornici di argento scolpito e di argento liscio, cornici di rame e di corallo,
cornici di tartaruga; ve ne erano di filigrana, di legni rari, di bosso, di
velluto rosso e di velluto azzurro; grandi e minuscole, ottagonaнli, quadrate,
tonde, ovali; cornici che valevano un patrimonio e cornici comperate ai
magazzini Bocconi; tutte amalgamate, per quelle anime devote, ed esaltate dal
loro religioso compito di custodi dei soprannaturali tesori.
Carolina era stata la vera
creatrice di questa raccolta: aveva scovato donna Rosa, una grassissima
vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le
chiese, tutti i conventi e tutte le opere pie di Palermo e dintorni. Era stata
questa donna Rosa a portare a villa Salina ogni paio di mesi una reliquia di
santi avvolta in carta velina. Era riuscita, diceva, a strapparla ad una
parrocchia disagiata o a un casato in decadenza. Se il nome del venditore non
era fatto era soltanto a cagione di una comprensibile, anzi encomiabile,
discrezione; e d'altronde le prove di autenticità che essa recava e
consegnava sempre erano lì chiare come il sole, scritte com'erano in
latino o in caratteri misteriosi che venivano detti greci o siriaci. Concetta,
amministratrice e tesoriera, pagava. Dopo vi era la ricerca e l'adattamento
delle cornici. E di nuovo l'impassibile Concetta pagava. Vi fu un momento, un
paio d'anni durò, durante il quale la smania collezionista turbò
financo i sonni di Carolina e Caterina; al mattino si raccontavano l'un l'altra
i loro sogni di miracolosi ritrovamenнti, e speravano si realizzassero come
talvolta avveniva dopo che i sogni erano stati confidati a donna Rosa. Quel che
sognasse Concetta non lo sapeva nessuno. Poi donna Rosa mori e l'afflusso delle
reliquie cessò quasi del tutto; del resto era sopravvenuta una certa
sazietà.
Monsignore guardò con
una certa fretta alcune delle cornici più a portata di vista.
"Tesori" diceva "tesori; che bellezza di cornici." Poi,
congratulandosi dei belli arredi (proprio così disse, dantescamente) e
promettendo di ritornare l'indomani con Sua Eminenza ("sì, alle
nove precise"), si genuflette e si segnò rivolto a una modesta
Madonna di Pompei appesa su una parete laterale, e uscì dalla cappella.
Presto le sedie rimasero vedove di cappelli, e gli ecclesiastici salirono sulle
carrozze dell'Arcivescovado che, con i loro cavalli morelнli, avevano aspettato
in cortile.
Monsignore tenne ad avere
nella propria carrozza il cappelнlano, padre Titta, che da questa distinzione
fu molto confortaнto. Le vetture si mossero e Monsignore taceva, si
costeggiò la ricca villa Falconeri, con la "bougainvillea"
fiorita che si spandeva oltre il muro del giardino splendidamente curato;
quando si giunse alla
discesa verso Palermo, fra gli aranceti, Monsignore parlò. "E
così Lei, padre Titta, ha avuto il fegato di celebrare per anni il Santo
Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza? Di quella ragazza che ha
ricevuto l'appuntaнmento ed aspetta l'innamorato. Non venga a dirmi che anche
Lei credeva che fosse una immagine sacra." "Monsignore, sono
colpevole, lo so. Ma non è facile affrontare le signorine Salina, la
signorina Carolina. Lei questo non può saperlo." Monsignore
rabbrividì al ricordo. "Figliolo, hai toccato la piaga col dito; e
questo sarà preso in considerazione."
Carolina
era andata a sfogare la propria ira in una lettera a Chiara, la sorella sposata
a Napoli; Caterina, stancata dalla lunga conversazione penosa, era stata posta
a letto; Concetta rientrò nella sua camera solitaria. Era una di quelle
stanze (sono numerose a tal punto che si potrebbe esser tentati di dire che lo
sono tutte) che hanno due volti: uno, quello mascherato, che mostrano al visitatore
ignaro; l'altro, quello nudo, che si rivela soltanto a chi sia al corrente
delle cose, al loro padrone anzitutto cui si palesano nella propria squallida
essenza. Soleggiata era questa camera, e si affacciava sul profondo giardino;
in un angolo un alto letto con quattro guanciali (Concetta soffriva del cuore e
doveva dormire quasi seduta); niente tappeti ma un bei pavimento bianco con
intricaнte filettature gialle, un monetario prezioso con diecine di cassettini
ricoperti di pietra dura e di scagliola; scrivania, tavolo centrale e tutto il
mobilio di un brioso stile maggiolino di esecuzione paesana, con figure di
cacciatori, di cani, di selvaggina che si affaccendavano ambrate sul fondo di
palissandro; arredamento questo che Concetta stessa stimava antiquato e persino
di pessimo gusto e che, venduto all'asta che segui la morte di lei, forma oggi
l'orgoglio di uno spedizioniere dovizioso quando la "sua signora"
offre un cocktail alle amiche invidiose. Sulle pareti ritratti,
acquarelli, immagini sacre; tutto pulito, in ordine. Due cose soltanto potevano
forse apparire inconsuete: nell'angolo opposto al letto un torreggiare di
quattro enormi casse di legno dipinte in verde, ciascuna con un grosso
lucchetto; e davanti ad esse, per terra, un mucchietto di pelliccia malandata.
Al visitatore ingenuo la cameretta avrebbe, se mai, strappato un sorriso, tanto
chiaramente vi si rivelava la bonarietà, la cura di una vecchia zitella.
Per chi conoscesse i fatti,
per Concetta, essa era un inferno di memorie mummificate. Le quattro casse
verdi contenevano dozzine di camicie da giorno e da notte, di vestaglie, di
federe, di lenzuola accuratamente suddivise in "buone" e
"andanti": il corredo di Concetta invano confezionato cinquanta anni
fa; quei chiavistelli non si aprivano mai per timore che saltassero fuori
demoni incongrui e sotto l'ubiquitaria umidità palermitaнna la roba
ingialliva, si disfaceva, inutile per sempre e per chiunque. I ritratti erano
quelli di morti non più amati, le fotografie quelle di amici che in vita
avevano inferto ferite e che per ciò soltanto non erano dimenticati in
morte; gli acquarelli mostravano case e luoghi in maggior parte venduti, anzi
malamente barattati, da nipoti sciuponi; i santi al muro erano come fantasmi
che si temono ma cui in fondo non si crede più. Se si fosse ben guardato
nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un
muso di legno nero, due attoniti occhi di vetro giallo: era Bendicò, da
quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsaнmato, nido di
ragnatele e di tarme, aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne
chiedevano l'abbandono all'immondezzaio: ma Concetta vi si opponeva sempre:
essa teneva a non distaccarsi dal solo ricordo del suo passato che non le
destasse sensazioni penose.
Ma le sensazioni penose di
oggi (a una certa età ogni giorno presenta puntuale la propria pena) si
riferivano tutte al presente. Assai meno infervorata di Carolina, assai
più sensibile di Caterina, Concetta aveva compreso il significato della
visita di Monsignor Vicario e ne prevedeva le conseguenze; l'allontanamento
ordinato per tutte, o quasi, le reliquie; la sostituzione del quadro
sull'altare, l'eventuale necessità di riconsacrare la cappella.
All'autenticità di quelle reliquie essa aveva creduto assai poco ed
aveva pagato con l'animo indiffeнrente di un padre che salda il conto di
giocattoli che a lui stesso non interessano ma che son serviti a tener buoni i
ragazzi; la rimozione di quegli oggetti le era indifferente; ciò che la
pungeva, ciò che costituiva l'assillo di quel giorno era la brutta
figura che casa Salina avrebbe fatto adesso di fronte alle autorità
ecclesiastiche e fra poco di fronte alla città intera; la riservatezza
della Chiesa era quanto di meglio potesse trovarsi in Sicilia ma ciò non
voleva ancora significare molto; fra un mese, fra due, tutto sarebbe dilagato
come tutto dilagava in quest'isola che anziché la Trinacria dovrebbe
avere a proprio simbolo il siracusano Orecchio di Dionisio che fa rimbombare il
più lieve sospiro in un raggio di cinquanta metri. Ed essa alla stima
della Chiesa aveva tenuto. Il prestigio del nome in sé stesso era
lentamente svanito. Il patrimonio diviso e ridiviso nella migliore ipotesi
equivaleva a quello di tanti altri casati inferiori, ed era enormemente
inferiore a ciò che possedevano alcuni opulenti industriali; ma nella
Chiesa, nei rapporti con essa, i Salina avevano mantenuto la loro preminenza;
bisognava vedere come Sua Eminenza riceveva le tre sorelle quando andavano a
fargli visita per il Natale! Ma adesso?
Una
cameriera entrò. "Eccellenza, sta arrivando la Princiнpessa.
L'automobile è nel cortile." Concetta si alzò, si
ravviò i capelli, buttò sulle spalle uno scialle di merletto
nero, riassunнse lo sguardo imperiale; e giunse in anticamera mentre Angelica
saliva gli ultimi gradini della scalinata esterna. Soffriva di vene varicose, e
le sue gambe, che sempre erano state un pochino troppo corte, la sostenevano
male e veniva su appogнgiata al braccio del proprio servitore il cui lungo
pastrano nero spazzava, salendo, gli scalini. "Concetta cara!"
"Angelica mia! da quanto tempo non ci vediamo!" Dall'ultima visita
erano passati soltanto cinque giorni, per esser precisi, ma l'intimità
fra le due cugine (intimità simile per vicinanza e per sentimenti a
quella che pochissimi anni dopo avrebbe stretto italiani ed austriaci nelle
contigue trincee), l'intimità era tale che cinque giorni potevano
veramente sembrar molti.
In Angelica che era vicina
ai settantenni si scorgevano ancora molti ricordi di bellezza; la malattia che
tre anni dopo la avrebbe trasformata in una larva miseranda era già in
atto ma se ne stava acquattata nelle profondità del suo sangue; gli
occhi verdi erano ancora quelli di un tempo, gli anni li avevano soltanto
lievemente appannati e le rughe del collo erano nascoste dai soffici nastri
neri della capoto che essa, vedova da tre anni, portava con una
civetteria che poteva sembrare nostalgica. "Hai ragione" diceva a
Concetta mentre si dirigeнvano allacciate verso un salotto "hai ragione,
ma con queste feste imminenti per il cinquantenario dei Mille non c'è
più pace. Tre giorni fa figurati che mi comunicano di avermi chiamato a
far parte del Comitato di onore; un omaggio alla memoria del nostro Tancredi,
certo, ma quanto da fare per me! Pensare all'alloggio dei superstiti che
verranno da ogni parte d'Italia, disporre gli inviti per le tribune senza
offendere nessuno; premurarsi a far aderire tutti i sindaci dei comuni
dell'isola. A proposito cara, il Sindaco di Salina è un clericale ed ha
rifiutato di prender parte alla sfilata; così ho pensato subito a tuo
nipote, a Fabrizio: era venuto a farmi visita e tac! lo ho acchiappato; non ha
potuto dirmi di no e così alla fine del mese lo vedremo sfilare in
palamidone per via Libertà davanti a un bei cartello con tanto di
'Salina' a lettere di scatola. Non ti sembra un bei colpo? Un Salina
renderà omaggio a Garibaldi, sarà una fusione della vecchia e
della nuova Sicilia. Ho pensato anche a tè, cara; ecco il tuo invito per
la tribuna di onore, proprio alla destra di quella reale." E trasse fuori
dalla borsetta parigina un cartoncino rosso-garibaldino, dell'identico colore
della fascetta di seta che Tancredi per qualche tempo aveva portato al disopra
del colletto. "Carolina e Caterina saranno scontente" continuò
a dire in modo del tutto arbitrario "ma potevo disporre di un solo posto:
del resto tu ne hai più diritto di loro, eri tu la cugina preferita del
nostro Tancredi."
Parlava molto e parlava
bene; quaranta anni di vita in comune con Tancredi, coabitazione tempestosa e
interrotta ma lunga a sufficienza, avevano cancellato da tempo fin le ultime
tracce dell'accento e delle maniere di Donnafugata; essa si era mimetizzata al
punto da fare, intrecciandole e storcendole, quel gioco leggiadro di mani che era
una delle caratteristiche di Tancredi. Leggeva molto e sul tavolo del suo
salotto i più recenti libri di France e di Bourget si alternavano con
quelli di D'Annunzio e della Serao; e nei salotti palermitani passava per una
specialista dell'architettura dei castelli francesi della Loira dei quali
parlava spesso con esaltazione imprecisa contrapponendo, forse inconsciamente,
la loro serenità rinascimentale all'irrequietezza barocca del palazzo di
Donnafugata contro il quale nutriva un'avversione inspiegabile per chi non
avesse conosciuto la di lei infanzia sottomessa e trascurata.
"Ma che testa ho, cara!
Dimenticavo di dirti che fra poco verrà qui il senatore Tassoni;
è mio ospite a villa Falconeri e desidera conoscerti: era un grande
amico del povero Tancredi, un suo compagno d'arme, anche, e pare che abbia
sentito parlare di tè da lui. Caro il nostro Tancredi!" Il
fazzoletto col sottile bordino nero uscì dalla borsetta, asciugò
una lacrima dagli occhi ancor belli.
Concetta aveva sempre
intercalato qualche frase nel ronzìo continuo della voce di Angelica; al
nome di Tassoni però tacque. Rivedeva la scena, lontanissima ma chiara,
come ciò che si scorge attraverso un cannocchiale rovesciato: la grande
tavola bianca circondata da tutti quei morti; Tancredi vicino a lei, scomparso
adesso anch'egli come del resto essa stessa, di fatto, era morta; il racconto
brutale, il riso isterico di Angelica, le proprie non meno isteriche lagrime.
Era stata la svolta della sua vita, quella; la strada imboccata allora la aveva
condotta fin qui, fino a questo deserto che non era neppure abitato dall'amore,
estinto, e dal rancore, spento.
"Ho saputo delle
seccature che hai con la Curia. Quanto sono noiosi! Ma perché non me lo
hai fatto sapere prima? Qualcosa avrei potuto fare: il Cardinale ha dei
riguardi per me; ho paura che adesso sia troppo tardi. Ma lavorerò nelle
quinte. Del resto non sarà nulla."
Il senatore Tassoni, che
giunse presto, era un vispo eleganнtissimo vecchietto. La sua ricchezza, che
era grande e crescenнte, era stata conquistata attraverso competizioni e lotte;
quindi anziché infiacchirlo lo aveva mantenuto in continuo stato
energetico che adesso superava gli anni e li manteneva focosì. Nei pochi
suoi mesi di servizio nell'Esercito Meridionale di Garibaldi aveva contratto un
piglio militaresco destinato a non cancellarsi mai; unito alla cortesia
ciò aveva formato un filtro che gli aveva procurato prima molti dolci
successi e che adesso, mescolato al numero delle sue azioni, gli serviva egreнgiamente
per terrorizzare i Consigli di Amministrazione bancari e cotonieri; mezza
Italia e gran parte dei paesi balcanici cucivano i propri bottoni con i filati
della ditta Tassoni & C.
"Signorina,"
andava dicendo a Concetta mentre sedeva accanto a lei su di uno sgabellino
basso adatto per un paggio e che appunto per questo aveva scelto
"signorina, si realizza adesso un sogno della mia gioventù
lontanissima. Quante volte nelle gelide notti di bivacco sul Volturno o attorno
agli spalti di Gaeta assediata, quante volte il nostro indimenticabile Tancredi
mi ha parlato di Lei; mi sembrava di conoscere la sua persona, di aver
frequentato questa casa fra le cui mura la sua giovinezza indomita trascorse;
sono felice di potere, benché con tanto ritardo, deporre il mio omaggio
ai piedi di chi fu la consolatrice di uno dei più puri eroi del nostro
Riscatto!"
Concetta era poco avvezza
alla conversazione con persone che non conoscesse fin dall'infanzia; era anche
poco amante di letture; quindi non aveva avuto modo d'immunizzarsi contro la
retorica ed anzi ne subiva il fascino sino a diventarne succube. Si commosse
alle parole del senatore: dimenticò il semi-centenario aneddoto
guerresco, non vide più in Tassoni il violatore di conventi, il
beffeggiatore di povere religiose spaventate, ma un vecchio, un sincero amico
di Tancredi che parlava di lui con affetto, che recava a lei, ombra, un
messaggio del morto trasmesso attraverso quegli acquitrini del tempo che gli
scomparsi possono tanto di rado guadare. "E che cosa Le diceva di me il
mio caro cugino?" chiese a mezza voce con una timidezza che faceva
rivivere la diciottenne in quell'amнmasso di seta nera e di capelli bianchi.
"Ah! molte cose!
parlava di lei quasi quanto parlasse di donna Angelica; questa era per lui
l'amore, Lei invece era l'immagine dell'adolescenza soave, di quell'adolescenza
che per noi soldati passa tanto in fretta."
Il gelo strinse di nuovo il
vecchio cuore; e già Tassoni aveva alzato la voce, si rivolgeva ad
Angelica: "Si ricorda, principessa, quanto egli ci disse a Vienna dieci
anni fa?" Si rivolse di nuovo a Concetta per spiegare. "Ero andato
lì con la delegazione italiana per il trattato di commercio; Tancredi mi
ospitò all'ambasciata col suo grande cuore di amico e di camerata, con
la sua affabilità di gran signore. Forse il rivedere un compagno d'armi
in quella città ostile lo aveva commosso e quante cose del suo passato
ci raccontò allora! In un retropalco dell'Opera, fra un atto e l'altro
del 'Don Giovanni,' ci confessò con la sua ironia impareggiabile, un
peccato, un suo imperdonabile peccato, come diceva lui, commesso conнtro di
lei; si, contro di lei, signorina." S'interruppe un attimo per dare agio
di prepararsi alla sorpresa. "Si figuri che ci raccontò come una
sera, durante un pranzo a Donnafugata, si fosse permesso d'inventare una
trottola e di raccontarla a Lei; una trottola guerresca in relazione ai
combattimenti di Palermo nella quale figuravo anche io; e come Lei lo avesse
creduto e si fosse offesa perché il fatterello narrato era un po'
audace, secondo l'opinione di cinquant'anni fa. Lei lo aveva rimproverato. 'Era
tanto cara' diceva 'mentre mi fissava con i suoi occhi incolleriti e mentre le
labbra si gonfiavano graziosaнmente per l'ira come quelle di un cucciolo; era
tanto cara che se non mi fossi trattenuto la avrei abbracciata li davanti a
venti persone ed al mio terribile zione. Lei, signorina, lo avrà
dimenticato; ma Tancredi se ne ricordava bene, tanta delicatezza vi era nel suo
cuore; se ne ricordava anche perché il misfatto lo aveva commesso
proprio il giorno nel quale aveva incontrato donna Angelica per la prima
volta."', Ed accennò verso la principessa uno di quei gesti di
omaggio con la destra abbassantesi nell'aria la cui tradizione goldoniana si
conservavaа soltanto fra i Senatori del
Regno.
La conversazione
continuò per qualche tempo ma non può dirsi che Concetta vi
prendesse gran parte. L'improvvisa rivelazione penetrò nella sua mente
con lentezza e dapprima non la fece troppo soffrire. Ma quando congedatisi e
andati via i visitatori essa rimase sola, cominciò a veder più
chiaro e quindi a patire di più. Gli spettri del passato erano
esorcizzati da anni; si trovavano, naturalmente, nascosti in tutto ed erano
essi che conferivano amarezza al cibo, tedio alle compagnie; ma il loro volto
vero non si era già da molto tempo mostrato; adesso saltava fuori
avvolto nella funebre comicità dei guai irreparabili. Certo sarebbe
assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; là eternità
amorosa dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona da
cinquant'ànni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto
benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella
propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi
storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il
cinquantenario. Ma fino ad oggi quando essa, raramente, ripensava a quanto era
avvenuto a Donnafugata in quell'estate lontana si sentiva sostenuta da un senso
di martirio subito, di torto patito, dall'animosità contro il padre che
la aveva sacrificata, da uno struggente sentimento riguardo a quell'altro
morto; questi sentimenti derivati che avevano costiнtuito lo scheletro di tutto
il suo modo di pensare si disfacevano anch'essi; non vi erano stati nemici ma
una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla
propria imprudenza, dall'impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso,
proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la
consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità,
consolazione che è l'ultimo inganneнvole filtro dei disperati.
Se le cose erano come
Tassoni aveva detto, le lunghe ore passate in saporosa degustazione di odio
dinanzi al ritratto del padre, l'aver celato qualsiasi fotografia di Tancredi
per non esser costretta a odiare anche lui, erano state delle balordaggini;
peggio, delle ingiustizie crudeli; e soffri quando le tornò in mente
l'accento caloroso, l'accento supplichevole di Tancredi mentre pregava lo zio
di lasciarlo entrare nel convento; erano state parole di amore verso di lei,
quelle, parole non comprese, poste in fuga dall'orgoglio e che di fronte alla
sua asprezza si erano ritirate con la coda fra le gambe come cuceteli percossi.
Dal fondo atemporale dell'essere un dolore nero salì a macнchiarla tutta
dinanzi a quella rivelazione della verità.
Ma era poi la verità
questa? In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve: il
fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo
genuino è scomparso, camuffaнto, abbellito, sfigurato, oppresso,
annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la
generosità, il malanimo, l'opportunismo, la carità, tutte le
passioni le buone quanto le cattive si precipitano sul fatto e lo fanno a
brani; in breve è scomparso. E l'infelice Concetta voleva trovare la
verità di sentimenti non espressi ma soltanto intravisti mezzo secolo
fa! La verità non c'era più; la sua precarietà era stata
sostituita dall'irrefutabilità della pena.
Intanto Angelica e il
Senatore compivano il breve tragitto sino a villa Falconeri. Tassoni era
preoccupato: "Angelica" disse (con lei aveva avuto una breve
relazione galante trent'anni prima e conservava quella insostituibile
intimità conferita da poche ore passate fra il medesimo paio di lenzuola)
"temo di aver in qualche modo urtato vostra cugina; avete notato come era
silenziosa alla fine della visita? mi dispiacerebbe, è una cara
signora." "Credo bene che la avete urtata, Vittorio" disse
Angelica esasperata da una duplice benché fantomatica gelosia "essa
era pazzamente innamorata di Tancredi; ma lui non aveva mai badato a lei."
E così una nuova palata di terra venne a cadere sul tumulo della
verità.
Il
Cardinale di Palermo era davvero un sant'uomo; e adesso che da molto tempo non
c'è più rimangono vivi i ricordi della sua carità e della
sua fede. Mentre viveva, però, le cose stavano diversamente: non era
siciliano, non era neppure meridionale o romano e quindi l'attività sua
di settentrionale si era molti anni prima sforzata a far lievitare la pasta
inerte e pesante della spiritualità siciliana in generale e del clero in
particolare. Coadiuvato da due o tre segretari del proprio paese si era illuso,
nei primi anni, che fosse possibile rimuovere abusi, poter sgombrare il terreno
dalle più flagranti pietre d'inciampo. Presto si era dovuto accorgere
che era come sparar fucilate nella bambagia: il piccolo foro prodotto sul
momento veniva colmato dopo brevi istanti da migliaia di fibrille complici e
tutto restava come prima, con in più il costo della polvere, il deterioramento
del materiale e il ridicolo dello sforzo inutile. Come per tutti coloro che, in
quei tempi, volevano riformare checchessia nel carattere siciliano si era
presto formata su di lui la reputazione che fosse un fesso (il che nelle
circostanze ambientali era esatto) e doveva accontentarsi di compiere passive
opere di misericordia che del resto non facevano se non diminuire ancora la sua
popolarità se esse esigevano dai beneficati la benché minima
fatica come, per esempio, quella di recarsi al Palazzo Arcivescovile per
ricevere gli aiuti.
Il prelato anziano che la
mattina del quattordici Maggio si recò a villa Salina era quindi un uomo
buono ma disilluso che aveva finito con l'assumere verso i propri diocesani una
attitudine di sprezzante misericordia (talvolta, dopo tutto, ingiusta) che lo
spingeva ad adottare dei modi bruschi e taglienti che sempre più lo
trascinavano nella palude della disaffezione.
Le tre sorelle Salina, come
sappiamo, erano fondamentalнmente offese dall'ispezione alla loro cappella: ma,
anime infanнtili e, dopo tutto femminili com'erano, ne pregustavano anche le
sodisfazioni marginali ma innegabili: quella di ricevere in casa loro un
Principe della Chiesa, quella di poter mostrargli il fasto di casa Salina che
esse in buona fede credevano ancora intatto, ed innanzi tutto quella di poter
per mezz'ora vedere aggirarsi in casa loro una specie di sontuoso volatile
rosso e di poter ammirare i toni vari ed armonizzati delle sue diverse porpore
e la marezzatura delle pesantissime sete. Le poverette però erano
destinate a rimaner deluse anche in questa ultima modesta speranza: quando
esse, discese al basso della scala esterna videro uscire dalla vettura Sua
Eminenza dovettero constatare che essa si era posta in piccola tenuta: sulla severa
tonaca nera soltanto minuscoli bottoncini purpurei stavano ad indicare il suo
altissimo rango; malgrado il volto di oltraggiata bontà il cardinale non
aveva maggiore imponenza dell'arciprete di Donnafugata. Fu cortese ma freddo e
con troppa sapiente mistura seppe mostrare il proprio rispetto per casa Salina
e le virtù individuali delle signorine unito al proprio disprezzo per la
loro inettitudine e formalistica devozione; non rispose parola alle
esclamazioni di Monsignor Vicario sulla bellezza dell'arreнdamento dei salotti
che traversarono, rifiutò di accettare checchessia del sontuoso
rinfresco preparato ("grazie, signoriнna, soltanto un po' di acqua: oggi
è la vigilia della festa del mio Santo Patrono"), non si sedette
neppure. Andò in cappella, si genuflesse un attimo dinanzi alla Madonna
di Pompei, ispezioнnò di sfuggita le reliquie. Però benedisse con
pastorale mansueнtudine le padrone di casa e la servitù inginocchiate in
sala d'ingresso, e dopo: "Signorina" disse a Concetta che aveva sul
volto i segni di una notte insonne "per tre o quattro giorni non si
potrà celebrare nella cappella il Servizio Divino; ma sarà mia
cura di far provvedere prestissimo alla riconsacrazione. A mio parere
l'immagine della Madonna di Pompei occuperà degnamente il posto del quadro
che è al disopra dell'altare, il quale, del resto, potrà unirsi
alle belle opere d'arte che ho ammirato traversando i vostri salotti. In quanto
alle reliquie lascio qui don Pacchiotti, mio segretario e sacerdote
competentissimo; egli esaminerà i documenti e comunicherà loro i
risultati delle sue ricerche; e quanto deciderà sarà come se lo
avessi deciso io stesso."
Da tutti si lasciò
benignamente baciare l'anello, e, pesante, sali in vettura insieme al piccolo
seguito.
Le carrozze non erano ancora
giunte allo svolto di Falconeri che Carolina con le mascelle serrate e gli
occhi saettanti esclamava: "Per me questo Papa è un turco,"
mentre si era costretti a far fiutare dell'etere solforico a Caterina. Concetta
s'intratteneva calma con don Pacchiotti che aveva finito con l'accettare una
tazza di caffè e un babà.
Poi il sacerdote chiese la
chiave della cassa dei documenti, domandò permesso e si ritirò
nella cappella non senza aver prima estratto da una sua borsa un martelletto,
una seghetta, un cacciavite, una lente d'ingrandimento e un paio di matite. Era
stato allievo della Scuola di Paleografia Vaticana, inoltre era Piemontese: il
suo lavoro fu lungo e accurato; le persone di servizio che passavano davanti
all'ingresso della cappella udivano martellatine, stridorini di viti e sospiri.
Dopo tre ore ricomparve con la tonaca impolveratissima e le mani nere ma lieto
e con un'espressione di serenità sul volto occhialuto; si scusava
perché recava in mano un grande cestino di vimini: "Mi sono permesso
di appropriarmi di questo cestino per riporvi la roba scartata; posso posarlo
qui?" E depose in un angolo il suo aggeggio che straripava di carte
stracciate, di cartigli, di scatoline contenenti ossami e cartilagini.
"Sono lieto di dire che ho trovato cinque reliquie perfettamente
autentiche e degne di essere oggetto di devozione. Le altre sono
lì" disse mostrando il cestino. "Potrebbero dirmi, signoriнne,
dove posso spazzolarmi e ripulirmi le mani?"
Ricomparve dopo cinque
minuti e si asciugava le mani con un grande asciugamano sull'orlo del quale un
Gattopardo in filo rosso danzava. "Dimenticavo di dire che le comici sono
in ordine sul tavolo della cappella; alcune sono veramente belle." Si
congedava. "Signorine, i miei rispetti." Ma Caterina si rifiutò
di baciargli la mano. "E di quel che c'è nel cestino cosa dobbiamo
fare?" "Assolutamente quel che vogliono, siнgnorine; conservarle, o
buttarle nell'immondizia; non hanno valore alcuno." E poiché
Concetta voleva far ordinare una carrozza per riaccompagnarlo: "Non si dia
pena, signorina; farò colazione dagli Oratoriani, qui a due passi: non
ho bisogno di nulla." E ricollocati nella borsa i propri strumentini, se
ne andò con pie leggero.
Concetta
si ritirò nella sua stanza; non provava assolutaнmente alcuna
sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già
avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure
forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le
casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po' le portarono una lettera.
La busta era listata a nero con una grossa corona in rilievo: "Carissima
Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune
reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga
a celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni
parte domani e si raccomanda al tuo bon souvenir. Io verrò presto
a vederti e intanto ti abbraccio con affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua
Angelica." Continuò a non sentir niente: il vuoto interiore era
completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere.
Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi
amari. Suonò il campanello. "Annetta" disse "questo cane
è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portateнlo via,
buttatelo."
Mentre la carcassa veniva
trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l'umile rimprovero delle
cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che
rimaneнva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che
l'immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra
la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare
nell'aria un quadrupede dai lunghi baffi e l'anteriore destro alzato sembrava
imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.
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