CORTO VIAGGIO SENTIMENTALE
di
Italo Svevo (Ettore Schmitz)
I. Stazione di Milano
Con dolce violenza il signor
Aghios si staccò dalla moglie e a passo celere tentò di perdersi
nella folla che s'addensava all'ingresso della stazione.
Bisognava abbreviare quegli addii
ridicoli se prolungati fra due vecchi coniugi. Ci si trovava bensì in uno
di quei posti ove tutti hanno fretta e non hanno il tempo di guardare il vicino
neppure per riderne, ma il signor Aghios sentiva costituirsi nell'animo proprio
il vicino che ride. Anzi lui stesso intero diveniva quel vicino. Che strano!
Doveva fingere una tristezza che non sentiva, quando era pieno di gioia e di
speranza e non vedeva l'ora di essere lasciato tranquillo a goderne.
Perciò correva, per sottrarsi più presto alle simulazioni.
Perché tante discussioni? Era vero ch'egli da molti anni non sera staccato
dalla moglie, ma un viaggio sino a casa sua, a Trieste, ove essa due settimane
appresso l'avrebbe raggiunto, era cosa di cui non valeva la pena di parlare.
Se ne aveva parlato invece da
molti giorni e continuamente. La decisione era stata difficilissima proprio
perché ambedue l'avevano desiderata e ambedue per raggiungerla
sicuramente avevano creduto necessario di tener celato il loro desiderio.
Avrebbe potuto piangere se si
fosse trattato di un distacco per tutta la vita o almeno per gran parte di
essa. Ma così poteva confessare a se stesso che s'allontanava
giocondamente. Tanto più che sapeva di fare un piacere anche a lei.
Negli ultimi anni la signora
Aghios s'era attaccata di un affetto appassionato ed esclusivo al figliuolo.
Quando questi era lontano essa si sentiva sola anche accanto al marito e
più sola ancora perché del suo dolore non parlava, sapendo che il
signor Aghios ne avrebbe riso. Ma il signor Aghios sapeva di quel dolore, si
offendeva di non poterlo lenire e fingeva d'ignorarlo per non seccarsi. Una
duplice costrizione! pensava il signor Aghios che aveva letto qualche opera
filosofica. Duplice perché mia e sua!
Adesso la signora Aghios voleva
rimanere ancora a Milano per non lasciare solo il figliuolo che doveva passare
un esame importante. Il signor Aghios non dava gran peso agli esami che si
possono ripetere e sapeva anche che il figliuolo, cui il soggiorno a Milano non
spiaceva, li avrebbe ripetuti volentieri. Ma adesso, se voleva partire solo,
anche lui doveva insistere perché la madre restasse a tutelare il
figliuolo in tanto frangente. Così la signora restava a Milano per
compiacere il marito, ma il signor Aghios, che l'animo della signora aveva
accuratamente spiato, partiva offeso, senza però dirlo, perché
altrimenti avrebbe compromesso la sua libertà di viaggiare solo.
Era veramente un congedo che
bisognava abbreviare, perché anche all'ultimo momento la signora Aghios
era capace di mutare ogni disposizione quando avesse indovinato come stavano le
cose. Era una donna che non ammetteva di non fare il proprio dovere. E il
signor Aghios pensò che il lieve rancore che sentiva per la moglie, un
sentimento sgradevolissimo, sarebbe sparito non appena si sarebbe trovato solo.
Correndo fu già più giusto. La moglie prolungando quegli addii
rivelava il suo rimorso di lasciarlo partire solo ed egli pensò: Come
è onesta! Non m'ama affatto, ma fino all'ultimo vuol tenere le promesse
fatte all'altare. Si rammarica di non sapere fare quello che dovrebbe. Una
grande pena per lei e una bella seccatura per me! .
Ma perché il signor Aghios
si sentiva tanto pieno di gioia e di speranza al momento di poter finalmente
abbandonare la sua legittima consorte? Voleva forse andar a divertirsi e
disonorare i suoi capelli quasi del tutto bianchi correndo dietro alle donne?
Oh! Non bisogna dire una cosa
simile. Un vecchio intanto non sa correre e poi il signor Aghios non era corso
dietro alle donne neppure quand'era giovine. Certo dalla sua gioia e speranza
non bisognava escludere del tutto la donna. Era tanto piena quella gioia e
speranza che la donna - la donna ideale, mancante magari di gambe e di bocca -
non poteva esserne assente. Giaceva nell'ombra fusa con molti altri fantasmi,
parte importante degli stessi. Ma la donna non è sempre la stessa nel
desiderio. È vero che prima di tutto serve all'amore, ma talvolta la si
desidera per proteggerla e salvarla. È un animale bello, ma anche
debole, che se si può si accarezza e se non si può si accarezza
ancora.
Il signor Aghios aveva bisogno di
vita e perciò viaggiava solo. Si sentiva vecchio e ancora più
vecchio accanto alla vecchia moglie e al giovine figliuolo. Quando aveva al
braccio la moglie doveva rallentare il passo e quando camminava accanto al
figliuolo sentiva che questi doveva rallentarlo. Lo circondavano di tutto il
rispetto. Dacché era stato ammalato la moglie aveva conservato il fare
dell'infermiera che aboliva ogni istinto di cavalleria da parte dell'uomo. Il
figliuolo poi aveva tutto il rispetto per il padre, ma lo educava e lo
correggeva quando egli, spinto dalla sua fervida fantasia, inventava etimologie
non basate su alcuna scienza o spostava o svisava fatti storici, mentre il
giovinetto, che pur tanto aveva stentato a finire il Liceo, ricordava il suo
greco e latino che il signor Aghios mai aveva conosciuti e sapeva - come sua
madre - esattamente quello che sapeva. E non è mica comodo di essere un
padre che ha torto!
Ma non era tutto qui,
benché fosse abbastanza importante per il signor Aghios di essere
lasciato nei suoi vecchi anni interamente in pace, interamente cioè
compresa la sua ignoranza, nella quale viveva da tanti anni da farne la base
della vita.
Ogni malessere che sentiva il
signor Aghios lo diceva vecchiaia, ma pensava che una parte di tale malessere
gli venisse dalla famiglia. Sta bene che vecchio come ora non era mai stato, ma
mai s'era sentito, oltre che vecchio, anche tanto ruggine. E la ruggine
proveniva sicuramente dalla famiglia, l'ambiente chiuso ove c'è muffa e
ruggine. Come non irrugginire in tanta monotonia? Vedeva ogni giorno le stesse
facce, sentiva le stesse parole, era obbligato agli stessi riguardi e anche
alle stesse finzioni, perché egli tuttavia accarezzava giornalmente sua
moglie che certamente lo meritava. Persino la sicurezza di cui si gode in
famiglia addormenta, irrigidisce e avvia alla paralisi.
Si sarebbe egli sentito
più forte all'aria rude fuori della famiglia? Il breve viaggio sarebbe
stato un esperimento, perché i suoi affari gli avrebbero fornito il
pretesto ad altri viaggi. Certo non sperava di divenire tanto vivo come nel suo
ultimo viaggio a Londra, ove aveva soggiornato varii mesi, vent'anni prima,
senza la moglie ch'era stata allora una giovanissima madre.
Aveva sofferto allora
orrendamente della solitudine. C'era stata da lui un'impazienza irosa della
sfiducia e dell'indifferenza da cui si sentiva circondato. Guardava con invidia
e desiderio la vita intensa che lo circondava e respingeva. Una volta, nella
stanza di lettura dell'albergo, s'era messo a leggere solitario quando fu
avvicinato da un bel ragazzo roseo, di dieci anni circa, che
gl'indirizzò delle parole ch'egli non intese affatto, perché si
capisce che l'inglese dei bambini è il più difficile. Il signor
Aghios si commosse al trovare finalmente un amico. Gli parlò e parve
anche che il fanciullo intendesse perché rispose con molte più
parole di quelle avute. Disgraziatamente tutte in inglese! E per avvicinarsi a
lui, visto che la parola non serviva, il signor Aghios gli accarezzò i
biondi capelli. Ma allora apparve alla porta della sala un signore che parve
indignato che il bambino suo avesse da fare con uno straniero: Philip! Come
along! esclamò e il bambino subito s'allontanò, dopo di aver
gettata un'occhiata spaventata sulla persona cui aveva dimostrato fiducia e da
cui certamente poteva derivargli un pericolo, visto che con tanta premura da
essa lo si allontanava.
E il dolore iracondo della
solitudine danneggiò anche i suoi affari, perché il signor Aghios
finì col considerare quali nemici tutti i suoi clienti. E ci fu anche di
peggio, perché il sobrio virtuoso signor Aghios, per sentirsi più
animato ricorse all'uso dell'assenzio, una bibita che sostituisce benissimo
lamicizia e la conversazione. Non ne prese troppo, ma abbastanza da
procurargli dei disturbi nervosi che cessarono quando, rimpatriato,
rientrò felice nella vita familiare che rese superfluo ogni altro
stimolo da principio.
Ma il dolore ricordato non
è sempre dolore. Ora egli vi sentiva la vita intensa. Oh! Se si avesse
potuto ricreare tutta quell'impazienza e quel dolore! Quale rinnovamento di
vita! La vita non può essere che sforzo, risentimento e attesa di gioia!
Egli era circondato da troppi amici, che, se anche talvolta lo ferivano, non
gli consentivano una vera ribellione. Aveva bisogno di vivere fra ignoti e
magari nemici. Ricordava con ammirazione la sua ribellione alla Granbretagna.
Aveva studiato questioni politiche ed economiche solo per poter aggredire il
grande Impero, il quale aveva un'organizzazione quasi perfetta, ma non perfetta
del tutto e non si sentiva capace del piccolo sforzo per arrivare alla
perfezione. E il ritorno in Italia fu anch'esso un viaggio animato dalle
più alte speranze. Fra l'altro bagaglio egli portava seco anche un
piccolo pacchetto contenente un po' di terra raccolta a Londra nelle vicinanze
di un terreno roccioso. Di quel pacchetto, che il signor Aghios teneva umido,
nessuno sapeva fuori dell'agente del dazio a Chiasso, ch'era stato in procinto
di fermare il viaggiatore e mandare allanalisi quella terra. Costui, pagato
dal Governo, stava per impedire la fortuna d'Italia! Il signor Aghios sorrideva
pieno di affetto al ricordare la propria grande ingenuità. Anche
l'ingenuità è vita, anzi, il vero esordio fresco fragrante della
vita. Bisogna sapere che al signor Aghios era stato raccontato che il Darwin
riteneva che la roccia della Granbretagna fosse stata convertita in terra
fertile da un vermicello microscopico. Bastò questo per fargli sperare
di poter promuovere l'opera lenta dei vermicello anche nel proprio paese.
Sparpagliò quella terra su certo terreno carsico in Italia, e si
sentì elevato e animato. Non gl'importava che fosse ricordato il suo
nome quando, di lì a qualche secolo, in Italia, a fior di terra non ci
sarebbe più stata della roccia. A tanta altezza si arrivava nella
solitudine! Adesso sorrideva di se stesso. Aveva vissuto troppo tempo in
famiglia per poter intendere la propria passata grandezza. La famiglia era come
un velo dietro al quale ci si riparava per vivere sicuri e dimentichi di tutto.
Ora egli ne moriva pieno di speranza. Probabilmente era una prova che gli
avrebbe procurato una delusione. E allora si sarebbe accontentato. Nulla ci
sarebbe stato di perduto. Egli sarebbe ritornato dietro a quel velo per vivere
nella penombra, protetto, sicuro, ma moribondo rassegnato. Proprio così!
Come i moribondi che, abbacinati dalla meta vicina, non conoscono altro sforzo
che di trattenere la vita che vuol staccarsi da loro, incapaci di vedere,
sentire o salutare le altre cose, concentrati come sono nel lavoro divenuto
difficile di respirare e digerire.
Mancava quasi un quarto d'ora
alla partenza e il signor Aghios, rallentò il passo. Forse aveva
dimostrata troppa fretta di staccarsi dalla moglie e gli doleva ch'essa avrebbe
potuto risentirsene perché, certo, essa meritava tutto, anche riguardi.
Un piccolo fox terrier venne
esitante ad annusargli i piedi. Sei già qui, vecchio amico?
pensò il vecchio. Certo non era il primo cane ch'egli vedesse a Milano,
ma era il primo che gli si accostasse dacché egli era solo. E lo guardò
con affetto, mentre il cane arretrò - cercava certo il suo padrone - e
poi saltellò via guardando ancora un'ultima volta chi l'aveva
spaventato, le molli orecchie giovanili aderenti alla testa. Il vecchio gli
guardò dietro ammirando. Il passo su quattro zampe è sempre
più ingenuo di quello su due. Quello del piccolo giovine cane, che ora
saltellava ora cercava, con quei movimenti non ancora bene associati delle
quattro zampe, era l'ingenuità stessa. E il signor Aghios pensò
col cuore pesante ai grandi pericoli che la bianca bestia correva. Guardati
dal canicida! pensò.
Grandi amici del viaggiatore sono
i cani. Persino in Inghilterra somigliano ai nostri e ci fanno ritrovare in
essi un pezzo di patria. Non meglio educati dei nostri, curiosi come questi di
tutte le porcherie sulla via, invadenti, rumorosi, obbedienti quando conobbero
la frusta, affettuosi e sempre stupiti che chi li ama non accetti di lasciar
passarsi la loro lingua sulla faccia. Parlano la stessa lingua. E l'Aghios
nella solitudine li amò e spiò scoprendone il carattere e le sue
cause. Radicalmente differenti da noi, che guardiamo mentre essi annusano,
è strano che fra noi e loro si sia costituita una relazione tanto
intima, nostra grande fortuna, dal cane basata certo su un malinteso. Forse il
gatto a noi s'accosta di più perché a noi meglio somiglia e
meglio ci conosce. E il cane deve la sua sincerità al suo senso
predominante, l'olfatto. Il suo modo di percepire gli fa credere che a questo
mondo ogni tradimento sia subito scoperto perché egli non vede le superfici
ingannevoli, egli analizza proprio l'anima delle cose, il loro odore.
Può essere che anche il suo senso lo truffi o ch'egli spesso addenti
deglinnocenti dall'odore sgradevole, ma egli non lo sa e se è impedito
nel suo proposito s'adatta, ma ringhiando. Tante volte una legge superiore lo
arresta e lo incatena e, senza convinzione, egli deve subirla; vi è
abituato. Ma il proposito di tradire egli non può accogliere, pensando
ch'egli col suo senso sarebbe capace di scoprirlo e tanto meglio dunque il suo
padrone, che non sarebbe il suo padrone se non avesse dei sensi più
perfetti dei suoi.
Mondo sincero perciò
quello degli odori. Pare però che si allontani dalla realtà
più di quello delle linee e dei colori. Il povero cane è sempre
il truffato perché male informato. Tuttavia qualche dolore gli è
risparmiato. In nessun posto egli 'e straniero. Il suo senso è
essenzialmente socievole. Ogni incontro casuale si fa subito intimo e al naso
vengono offerte per la verifica le parti più recondite. Rifiutarle
è una vera sgarbatezza che provoca la reazione più violenta. Che
vita più naturale che non la nostra! Nella vita più affollata di
Londra un uomo è all'altro nient'altro che un impedimento a procedere.
Come fare? Anche se il signor Aghios fosse stato accettato quale dittatore
della vita di società, egli non avrebbe saputo imporre il sorriso
reciproco di saluto fra sconosciuti. Esso, imposto, sarebbe divenuto una
smorfia orrida e mai avrebbe potuto significare un sincero saluto di fratello.
L'affetto è anch'esso una fatica; e nessuno vi si sottopone per regola;
il vero riposo è l'indifferenza. Dai cani, diretti dagli odori,
l'indifferenza di fronte alla vita non cè mai. Non sono mai semplici
indifferenti stranieri, ma sempre amici o nemici.
Un treno non è una cosa
piccola, ma il signor Aghios nella vasta stazione non trovava il suo. Doveva
pur esserci nella stazione, in qualche posto, l'indicazione necessaria per
trovarlo, ma il signor Aghios non la vedeva. Di solito sua moglie lo dirigeva.
Il signor Aghios fiutò inutilmente a destra e a sinistra. Vide un
facchino che gli correva incontro. Era il fatto suo. Gli consegnò la
piccola valigetta che tanto facilmente avrebbe potuto portare da solo e
domandò del treno. Sentì il bisogno di scusarsi: È
leggera, ma mi pesa perché sono vecchio.
Aveva parlato al facchino per
farselo amico. Già sentiva il bisogno degli amici occasionali che non
attentano alla propria libertà. Il facchino, un uomo tozzo e svelto,
sorrise e borbottò qualche cosa in meneghino, che il signor Aghios non
intese. Buona che c'era stato il sorriso e il signor Aghios, con buona
volontà e passo celere, seguì l'amico che, la valigetta in mano,
lo precedeva correndo. Lo seguiva e già l'amava. Come era bella l'invenzione
delle mance! Specialmente delle piccole, quelle che non dolgono. Perciò
egli era piuttosto avaro, perché regalando molto in una volta, il
piacere era breve e si restava poi paralizzati per lungo tempo. Sua moglie era
più generosa e quando trovava un bisogno che non poteva essere lenito
che con una somma grossa, essa la dava. Ma era un modo di disporre della roba
altrui, perché agli altri bisognava poi dire: Ho disposto già
altrimenti di quanto vi spettava. Egli era veramente generoso solo talvolta,
per volontà della moglie, com'era molte altre cose ancora quando essa lo
voleva.
In viaggio bisognava conquistarsi
degli amici, perché altrimenti si percorre questa terra ch'è la
vera, la grande nostra patria, col cipiglio dello straniero. Ed il signor
Aghios sfruttava le sue piccole mance da vero avaro e voleva con esse comperare
non molta, ma un'amicizia duratura. Perciò cominciava col pagare un
prezzo inferiore alla tariffa. Di solito l'altro non protestava, ma restava a
guardare, interdetto, il poco denaro che teneva nella mano aperta. Allora
appena il signor Aghios metteva in quella mano una moneta alla volta,
finché essa si chiudeva e sulla faccia del facchino appariva un sorriso.
Così quel sorriso, che aveva tardato a nascere, si stampava meglio nel
ricordo del signor Aghios e gli appianava qualche miglio di strada. Talvolta,
prima ch'egli arrivasse a dare tutta la mancia, il facchino si stancava e se ne
andava con una brutta parola. Il signor Aghios se ne andava allora con la
mancia in tasca, ma aveva avuto tuttavia la sua soddisfazione perché
egli si divideva da un nemico bensì, ma non da uno straniero.
Bisognò scendere per uno
scalone sotto terra e risalire, dopo aver percorso un corridoio, alla banchina
sulla quale bisognava aspettare il treno non ancora giunto da Torino.
Il facchino domandò al
signor Aghios se doveva aspettare con lui. Se non fosse stato necessario di
parlare in meneghino il signor Aghios avrebbe trattenuto l'amico dell'ultima
ora. Così invece lo congedò e restò nella solitudine
allietata dall'ultimo suo sorriso di ringraziamento. S'erano guardati per un
istante negli occhi quasi a dichiararsi la loro reciproca benevolenza. E il
signor Aghios, per aumentare tale benevolenza, aggiunse alla mancia una
sigaretta.
Molta gente aspettava sulla
banchina. Accanto ad una colonna erano accatastati molti poveri bagagli, una
sola valigia chiusa, due ceste legate, di cui una chiusa da un panno rosso e
l'altra verde sbiadito. Una donna sedeva sulla valigia con un poppante in
grembo e una fanciullina di dieci anni, ben difesa dal freddo da un vestitino
consunto, dormiva su una cesta, la testa appoggiata sul fianco della madre.
Sloggiano? pensò il
signor Aghios. Vide poi avvicinarsi un contadino che, mentre correva, esaminava
dei biglietti ferroviari certo allora acquistati. La giovine donna ebbe un
respiro vedendolo. Doveva aver sofferto di essere rimasta sola tanto a lungo.
Quello non era un viaggio con tutta quella famiglia. Un'emigrazione, una fuga.
Poi il signor Aghios non
guardò più la gente che lo circondava e s'incantò per
qualche minuto a guardare il fumo che denso usciva dal camino di una locomotiva
fuori della stazione. Il vento lo spingeva. Uscendo dal camino a nuclei, veniva
subito diminuito e diffuso dal vento. Ogni nucleo, nell'atto che subiva tale
distruzione, pareva si spogliasse e tradisse l'esistenza entro di lui di una
testa, un grugno, un essere animato. E tale testa, prima di disfarsi,
spalancava degli occhi smisurati per guardare meglio e per guardare meglio
finiva con lo spalancarsi tutta. Una processione di teste spaventate e
minacciose. Poche linee di vita bastano a significare l'essenza della vita, la
paura o minaccia moralizzò il signor Aghios.
Il treno entrò sbuffando
in stazione. In quell'istante il signor Aghios sentì la voce della
moglie che lo chiamava: Giacomo!.
Si volse a lei e forse non seppe
celare un gesto d'impazienza. Egli l'amava com'essa meritava, ma la sua assenza
non era stata lunga abbastanza per fargli desiderare di rivederla. Proprio era
bastato il suono della sua voce per strapparlo a quella lieta benevolenza
ch'egli riversava su tutte e cose e persone. Eppoi gli portava essa forse
l'annunzio che non poteva più viaggiare solo? Ma egli sarebbe partito
tuttavia.
La signora dovette indovinare
parte del suo stato d'animo perché, interdetta, gli domandò: Ti
secco tanto? e fece l'atto di ritornare sui suoi passi. Fu un attimo brutto.
Questo poi no, il signor Aghios
non l'avrebbe ammesso. Si poteva pensare a questo mondo quello che si voleva,
ma non bisognava rivelare quel pensiero tanto bello e giusto finché
restava celato nel proprio animo e tanto ingiurioso quando sbucava alla luce
del sole. Non ti avevo riconosciuta! disse subito. E, presala per la mano,
l'attirò a sé. Essa si sottrasse all'abbraccio, perché era
tanto bene educata che non avrebbe ammesso una cosa simile in pubblico. Ma fu
subito convinta, perché essa credeva al marito. Era una fede di cui il
signor Aghios in passato era stato beato. Da qualche tempo lo seccava. Era proprio
un modo di semplificare troppo la vita. Oramai anche questa fede aveva qualche
cosa di gelido come tutta la loro relazione.
Sorridendo essa gli disse che non
era per rivederlo un'altra volta che gli era corsa dietro, ma perché
aveva dimenticato di dirgli che la signora Luisi lo pregava di avvertire il
gioielliere di Venezia che essa tratteneva il filo di perle offertole e che il
signor Luisi avrebbe provveduto fra pochi giorni al pagamento.
Poi, sempre sorridendo, gli
domandò: Ricordi ancora quello che hai nella tasca di petto?.
L'Aghios portò subito la
mano a quella tasca e, trovatala gonfia, ricordò: Non dubitare! Ci
penso sempre.
Ma qui essa non gli credette,
perché s'era accorta che per ricordare di aver seco una somma forte di
denaro, egli aveva dovuto toccare quella tasca. E s'impensierì, per i
denari e non per lui. Ho fatto tanto male di lasciarti partire solo. Si
guardò irresoluta in giro. Poi sospirò, Già! Ora non
c'è più tempo.
Erano ambedue contenti che non ci
fosse più tempo, ma il signor Aghios era anche adirato di sentirsi
trattare quale un bambino. Pensi forse ch'io perderò il denaro?
domandò risentito. M'hai trovato distratto così perché
proprio pensavo di fare un giro per Trieste per vedere se non potevo trovare il
denaro più a buon mercato per la rinnovazione di parte del nostro
debito. E mentre parlava guardò ancora una volta il camino della
lontana locomotiva donde continuava a sbucare del fumo denso. Non era che fumo
informe ora, non teste, non minaccia, non spavento.
È una leggerezza di viaggiare
con tanto contante in tasca disse ancora la signora con voce calda che
domandava scusa.
Sì! Era una leggerezza.
Dal giorno prima avevano deciso di comperare un vaglia, anche per rendere
quella tasca più leggera. Ma lo aveva disturbato di andare con quel
denaro alla banca e aveva rimandato quell'operazione fino a quel giorno stesso.
Poi, sul più bello, erano venuti a trovare il figliuolo tre giovini che
con lui studiavano. Il vecchio s'era incantato a star a sentire i loro piani
per l'avvenire ora che avevano finiti gli studii. Egli non avrebbe aperto bocca
per paura di sentirsi correggere da quei dotti, ma ricordava che all'uscita
dalla scuola egli era stato più timido, esitante, pauroso. Uno di loro
trovava la sua posizione già fatta, ma riteneva che il suo intervento
avrebbe significato un progresso per l'azienda in cui doveva entrare. Il
secondo, poi, che non trovava nulla di fatto dai suoi antenati, con tutta calma
s'apprestava all'emigrazione. Gli spettavano tante cose che l'Italia non poteva
fornirgli. Il terzo invece manifestava un grande disprezzo per la politica, ma
pensava di dedicarvisi. Non aveva alcun partito ancora e aveva tempo di
pensarci. Intanto sarebbe entrato in un ufficio governativo. E il vecchio non
s'accontentava di pensare che il mondo non fosse più quello in cui era
nato lui, ma s'incantava a studiare quale dei due mondi avesse avuto ragione.
Non c'era verso! Uno dei due aveva sbagliato. Forse egli non sapeva meglio, ma
in sua gioventù gli avevano spiegato che sulla terra non ci fosse gioia
abbastanza per contentare tutti ed egli l'aveva creduto e, uscito dalla scuola,
timidamente aveva bussato alla porta del mondo per domandare: C'è un
posticino anche per me? Potrò conquistarlo?. Questo era il mondo
d'allora, quando a questo mondo si era in meno. Che dopo il mondo si sia
allungato e allargato? E il vecchio era stato tenuto al suo posto e impedito di
andar a comperare il vaglia dal rancore di essere nato in un mondo più
difficile.
Già, adesso non
c'è più tempo. Sta sicura che per il denaro non c'è
pensiero. Addio! e le offerse il bacio dell'addio. Essa si lasciò
baciare sulla guancia e lo baciò poi anche lei sulla guancia. Egli si
guardò d'intorno cercando di trovare un altro segno d'affetto da darle.
Trovò! Le prese la destra e la portò alle labbra. Era lietissimo
di aver trovato. La solitudine a cui s'avviava sarebbe stata abbellita da tale
congedo.
Egli s'accinse di montare sul
vagone dimenticando di prendere la valigetta che il facchino aveva deposta in
terra. Essa la sollevò e gliela porse ridendo molto. Per scusarsi il
signor Aghios mormorò: È il facchino che l'ha lasciata
lì. Non trovavo il treno...
La signora Aghios rise ancora: E
come arriverai a Trieste senza il facchino?.
Era destino! Dovevano dividersi
in broncio.
Il signor Aghios di malavoglia
rispose: Il difficile è di trovare il treno. Poi non lo guido mica io.
E la signora, sempre ridendo
insistentemente: Per fortuna! disse.
Non c'era più il tempo di
pensare ad una risposta. Avrebbe subito potuto dire che neppure lei avrebbe
saputo dirigere il treno, poi che non era tanto difficile perché c'erano
le rotaie e infine che la valigetta non conteneva niente d'importante, ma non
disse niente. Era meglio sorriderle ancora una volta e andare via in pace. Ma
il rancore c'era nell'animo suo ed era male. Saltò esitante nel vagone.
Nel corridoio del vagone era difficile di muoversi, ma con decisione giovanile
il signor Aghios con la valigetta in mano si fece posto ed arrivò alla
prossima finestra che aperse. Il treno in quel momento si mise in moto.
Il signor Aghios chiamò la
moglie che aveva continuato a guardare la porta per la quale egli era sparito.
Essa corrispose vivamente al suo saluto. La banchina era ormai deserta. Egli
per un istante stornò gli occhi dalla moglie per guardare il posto ove
era giaciuto il bagaglio dei contadini. Quel bagaglio era sparito e
chissà che fatica per farlo entrare nel vagone. Poi ritornò con
l'occhio alla moglie che aveva levato di tasca il fazzoletto e gli faceva dei
vivi segni di saluto. Corrispose al suo saluto mandandole un bacio. La fine
elegante figura della moglie che da vicino si scorgeva un po' disseccata
dall'età, ora, come il movimento del treno aumentava la distanza fra di
loro, gli appariva veramente graziosa con quel velo roseo che, puntato sul
cappello, si muoveva nella brezza. E, avviandosi alla sua solitudine, guardando
quella figura snella, volle avere il pensiero preciso e sincero e pensò:
Più m'allontano da lei e più l'amo. Poi si sentì la
coscienza tranquilla. Per il momento, insomma, egli si trovava in ordine con la
legge umana e divina, perché egli, sinceramente, amava la propria donna.
Per vederla più a lungo si
sporse dalla finestra. Vedeva bene? La moglie portava la mano al cuore con
gesto esagerato. Non era possibile ch'essa, una persona tanto equilibrata,
volesse far vedere a degli estranei un dolore esagerato perché la
lasciava sola. Eppure pareva che quel grande gesto fosse accompagnato da grida.
Poi, quando non la vide
più, indovinò. Con quel gesto essa aveva voluto fargli un'ultima
raccomandazione di badare ai denari che aveva nella tasca del petto. Meno male!
Sorrise e, obbediente, per attenuare il rimorso che sentiva di amare la moglie
più che mai ora che non la vedeva affatto, si toccò con grande
energia la tasca del petto. Il portafogli, gonfio delle trenta banconote da
mille, c'era tuttavia.
II. Milano - Verona
Ora bisognava tentare di
procurarsi un posto. Intanto non era facile al vecchio signore di muoversi in
quel corridoio mentre il treno filava a tutta velocità, sobbalzava e
percorreva certe curve in modo da far sentire al corpo un'irresistibile
attrazione ora da una parte ora dall'altra. Deciso il signor Aghios si diresse
al prossimo compartimento domandando scusa a destra e sinistra. E subito ebbe
la prima avventura amorosa. Una graziosa giovinetta si fece in disparte, fin
dove la parete lo permetteva, per fargli posto e il signor Aghios la
guardò con un sorriso che volle paterno, pensando però che non
sarebbe stato male se lo scompiglio in quel breve spazio l'avesse gettato su
lei. Ma il movimento del treno, quasi a farlo apposta, lo inchiodò sulla
parete di faccia. Continuò a sorridere alla signorina che lo guardava
ansiosa con grandi occhi azzurri temendo di vedersi capitare addosso il grosso
uomo malsicuro. Egli dovette procedere e allontanarsi sorridendo alle cieche
forze fisiche che s'erano messe al servizio della morale. Altre volte
altrettanto ciecamente avevano promosso il piacere degli uomini, come in
quell'antica storiella dei due amanti chiusi da una valanga in una grotta
provvista di alimenti. La sorpresa in primavera di trovare in quella grotta tre
anziché due esseri viventi. Impossibile! Le cose per maturarsi hanno
bisogno di nove mesi.
Arrivò al compartimento
cui aveva mirato, ma i posti vi erano occupati ad esuberanza. Anzi, da una
parte, sedevano addirittura in cinque. Fra quei cinque una donna elegante ma
non bella, con uno di quei cappelli che coprono la fronte e anche una parte
degli occhi. Essa s'era un po' stesa: Le sue gambe calzate di seta, i piedini
piccolissimi in scarpine nere di lacca. Il signor Aghios, che per sfuggire alla
ressa del corridoio s'era messo in mezzo allo scompartimento arrivando a
tenersi alla stanga di ferro che sosteneva la rete dei bagagli, non
fissò troppo la signora, perché dovette provvedere a tenersi in
piedi. Ma il suo disturbo non glimpedì di pensare che quei cappelli che
coprivano la testa, la fronte e gli occhi delle donne erano seccanti. La moda
era fatta dalla maggioranza e perciò bisognava ritenere che la massima
parte delle donne avesse le gambe fatte bene e male la testa. Poi il movimento
del treno lo fece volgere alla signora e s'accorse ch'essa aveva accondisceso
al suo desiderio non manifestato e che s'era levata il cappello che le giaceva
ora in grembo. No! La sua faccia non era bella, ma doveva esserlo stata. Una
faccia ch'era stata alterata e consumata dalla vita, ridotta a linee rigide,
prodotte da un duro scalpello, che la rendevano lunga. I capelli bruni, ricci
ad arte, le coprivano gli orecchi. Ma il piedino era grazioso, più
piccolo della piccola scarpina di lacca.
Un giovinetto (il quinto su quel
sedile) si alzò e offerse il suo posto al vecchio. Grazie! Grazie! Ma
perché? disse il signor Aghios. Posso rimanere qui.
Io vado in corridoio disse il
giovinetto. Non ebbe un sorriso di benevolenza pel vecchio cui usava tanta
cortesia. E uscì pestando il piede alla signora che non l'aveva ritirato
in tempo.
Il signor Aghios s'assise sul
breve spazio che gli era stato lasciato libero accanto alla finestra. Peccato
che il giovinetto (lungo, bruno, rude) non aveva accompagnato il suo dono di
una parola gentile. Sarebbe stato tale un bell'esordio al viaggio! Tuttavia non
bisognava lagnarsi, perché il viaggio in piedi non sarebbe stato adatto
alle sue vecchie membra.
Per non disturbare il vicino
ch'egli non aveva neppure veduto, il signor Aghios restò per qualche
tempo nella stessa posizione in cui sul suo posto era caduto, la faccia verso
la finestra.
Dapprima pensò alla vita
in quella vettura e a quel giovinetto burbero benefico. Ecco! In certe
posizioni è difficile di conservare la benevolenza. Persino ora che
stava tanto meglio egli sentiva una certa antipatia per il suo vicino che lo
costringeva d'aderire alla finestra. Era proprio un momento in cui si sente che
l'uomo con la sua pancia, le larghe spalle e i duri gomiti è una bestia
odiosa per il prossimo. È una crudele lotta quella per lo spazio.
L'Aghios non volle perdere la sua gioia e relegò la sua benevolenza in
un sogno perché non tutta andasse distrutta. Il treno futuro, che
avrebbe trasportata un'umanità più evoluta, sarebbe stato
allungabile come sarebbe stato di bisogno e senza per questo aver bisogno di
arrestarlo. Ogni vagone avrebbe comportato delle enormi possibilità. Si
tocca un bottone ed i posti si moltiplicano. E così le Ferrovie dello
Stato creerebbero dei cavalieri, anziché come ora dei villani e non ci
sarebbe stato bisogno di accettare sorridendo un posto offerto villanamente.
Col naso sui vetri il signor
Aghios non poté finalmente fare a meno di vedere la campagna enorme che
correva via. Il raccolto era finito. I covoni di fieno s'ergevano colossali, la
provvista per tutto l'anno per gli animali della cucina tanto semplice. I campi
erano oziosi in aspettativa di essere incaricati del nuovo lavoro. E il signor
Aghios pensò ch'egli arrivava proprio in tempo coi suoi augurii per procurare
un buon raccolto. Ora cominciava a decidersi la sorte dell'anno prossimo.
Occorreva subito una lunga pioggia, che poi cessi, dopo di aver ammorbidita la
terra e resa disposta al lavoro. Doveva essere preparata a puntino: Né
troppo dura, né troppo tenera. E gli augurii del signor Aghios piovevano
abbondanti, mentre correva accanto a quei campi a sessanta chilometri all'ora e
una volta con grande sforzo si volse non per vedere il piedino di quella
signora che ancora doveva trovarsi per aria, ma per inviare gli augurii anche
dall'altra parte della ferrovia: Producete, producete in grande abbondanza,
perché chi vi lavora abbia il suo premio". Esitò poi.
Ricordò la faccia triste di quel contadino che l'anno precedente gli
aveva detto: Abbiamo il vino triste quest'anno, perché ve n'è di
troppo. Ma che importa? Augurare bisogna a questo mondo. Nessuno può
togliere all'uomo tale diritto il cui esercizio allarga polmoni e cuore.
È vero che l'augurio finisce col ricordare l'ironia di chi,
allontanandosi da un tavolo di gioco, augura la buona fortuna a tutti coloro
che vi restano assisi, solo che a questo mondo l'evidenza non è tale e
si può sempre credere che un grande sforzo della terra benefica debba
produrre del bene.
Si raddrizzò e vide il
piedino per aria. Essa era la terza persona seduta dalla sua parte e
direttamente non poteva scorgerne la faccia, ma s'accorse che ora poteva
scorgerla riflessa in modo curioso da una lastra che copriva la fotografia.
Come era bella! Completato o sminuito il deperimento suo dai riflessi del
tramonto o fors'anche da qualche linea della fotografia che la lastra copriva,
quella faccia era tutta pensiero e bellezza. Ricordava qualche ritratto
celebre, ma il signor Aghios, che ne aveva visti tanti, non sapeva precisare
quale. Era in fondo solo un ritratto e neppure molto somigliante, ma il signor
Aghios era felice di viaggiare con esso.
Nel breve tempo dacché
aveva abbandonato la moglie, questo era il secondo suo desiderio, cioè
il secondo tradimento e anche il secondo peccato. Ogni ammirazione per una
donna è un desiderio. Le si attribuisce intelligenza o dolore per
rendere più saporite quelle labbra che si vorrebbero baciare. Il peccato
non gli pesava troppo. Quando si sta per arrivare ai sessant'anni - almeno il
signor Aghios aveva per conto proprio tale esperienza e nella sua solitudine
amava di generalizzare - si sa che il proprio organismo non è fatto per
le grandi resistenze. Lo stesso fatto che anche se il peccato fosse dichiarato
lecito, si peccherebbe ora meno sovente che in epoche anteriori, prova che
tutto dipendeva da quello che si può e si deve. E il signor Aghios
assurse anzi ad un pensiero altamente filosofico: Se il signor Iddio ci avesse
fatti proprio allo scopo di vederci agire proprio come lui vuole, non ci sarebbe
stato scopo alla creazione. Egli ci fece, eppoi stette a guardarci con
curiosità e mai con ira. Perciò il signor Aghios desiderava le
donne degli altri, senza averne rimorso.
Si vantava invece che, ad onta di
tale desiderio, egli mai aveva tradito la moglie. Com'era stato bravo, essendo
fatto così, di non averla effettivamente tradita. In questo momento in
cui dalla famiglia si divideva con qualche rancore, ammetteva anche d'essere
stato sciocco. Ma però la donna - il signor Aghios lo sapeva - non
è mai a buon mercato. Vuole i denari, il cuore, la vita. Invece non
costava nulla di guardarla e desiderarla e questo, certamente, era troppo a
buon mercato. Perché la donna, quand'è bella, dà subito
molto e in primo luogo il sentimento dell'umanità allo straniero e a
tutti. Altro che il saluto scimmiesco fra sconosciuti! Bisogna trovarsi per
vari mesi isolato in un paese ove si parla una lingua incomprensibile, evitati
dal prossimo solo perché non vi conosce e vi sospetta perciò
capace di furti e omicidii, e scoprire ad un tratto l'intimo vostro nesso con
tutti costoro, la vostra appartenenza a quel paese, il vostro innato diritto di
cittadinanza nello stesso alla vista di un occhio luminoso, di un piedino
nervoso, di una capigliatura dal colore e dall'assetto sorprendente. Più
giovine allora, la prima sua occhiata era stata un vero proprio inizio di una
relazione sociale. Un inizio entusiastico: Era come se fosse entrato nella casa
di un intimissimo amico, addobbata per farvi onore, con tanto di benvenuto stampato
sulla porta. Con quell'occhiata il signor Aghios diceva: Ti conosco
perché sei bella . E l'inglesina rispondeva in lingua
intelligibilissima. cioè con un'occhiata. Come sei amabile tu cui
piaccio tanto. Più amabile di colui cui diedi tutto e che non sa
più che farsene. Dopo un discorso simile il signor Aghios non aveva
più bisogno dell'assenzio, perché gli pareva di trovarsi nella
patria ideale dove tutti s'intendono e s'amano.
Era anzi comodo che l'inglesina
non sapesse altro linguaggio. Secondo il signor Aghios di allora, quand'era
più giovine e perciò più virtuoso, questa era una grande
comodità. Perché se alle occhiate fosse seguita la parola, si
sarebbe corso il pericolo di trovarsi trasportato di colpo da quella patria
ideale al bosco più pericoloso.
Egli credeva così di
essere rimasto sempre un monogamo virtuoso che poteva sopportare lo sguardo
sincero della moglie. Essa non c'entrava nel suo mondo ideale. Il reale era
tutto suo. Tutto era nettamente diviso, perché nei suoi sogni essa non
entrò giammai e adesso, in viaggio, meno che mai, perché il
signor Aghios volava come se il treno si fosse mutato in un aeroplano. Una sola
volta a lei pensò: Poverina! Speriamo che a quest'ora neppure lei a me
pensi.
Oltre alla donna c'erano in quel
compartimento sette uomini e finora il signor Aghios non li aveva visti. Del
suo vicino dovette accorgersi. Era un giovanotto pallido che si sarebbe potuto
credere uscisse da una malattia, perché tradiva la sofferenza mentre il
suo organismo aveva le linee di quello di un uomo forte, agile, sano. Lo spazio
non gli bastava. Stendeva ora una gamba, ora l'altra sotto il sedile occupato
da un grosso signore che gli stava di faccia e che guardava traverso gli
occhiali con una calma serena, deciso a non fermare quelle gambe finché
non l'avessero urtato. Avanzavano come se volessero finire su lui in un calcio,
eppoi passavano nello spazio fra le sue due grosse gambe senza neppure
sfiorarle. E il grosso uomo (il signor Aghios lo guardò ora soltanto)
aveva degli occhiali dalle lenti di uno spessore sorprendente. La luce vi si
frangeva e mandava sulle sue palpebre una macchia azzurra luminosa che dava
alla sua faccia l'aspetto del Mefistofele del teatro lirico. E fra quell'uomo
tranquillo che aspettava il calcio per protestare e l'altro, inquieto e
sofferente, le simpatie del signor Aghios andarono intere al malato. Il
movimento è il sollievo del corpo dolorante; si sposta come se al dolore
volesse fuggire. Ora il giovinotto cercò di muoversi in altra direzione,
forse perché da quella parte sentiva la minaccia di quei grossi occhiali
e del loro riverbero. Guardò dietro di sé il soffice cuscino su
cui avrebbe voluto poggiare la testa, ma cui non poteva giungere proprio causa
le grosse spalle del signor Aghios. E il signor Aghios intese quel desiderio
come se gli fosse stato detto e si strinse e volse in modo che quel capo stanco
potesse arrivare al cuscino. Poi: Guardi, guardi disse con slancio, mi
metterò così!. Si gettò con la faccia verso la finestra e
mise anche il petto parallelo alla stessa. L'altro, pronto, dopo di aver
mormorato un fervido grazie, lasciò cadere la testa sul cuscino. Poco
dopo la rimise sulle mani, le braccia poggiate sulle ginocchia. Ma il signor
Aghios, col naso sulla lastra, non lo vedeva più, perché ogni suo
atto gentile rendeva più vivo il suo pensiero sul lieto viaggio, come se
la locomotiva si fosse messa a correre più dolce e più forte.
Ma pure questo pensiero non era
abbastanza libero, perché egli continuava a discutere la propria
libertà di amare le donne degli altri. Con chi? Non con la moglie, che
nei suoi sogni mai apriva bocca, ma con quell'essere non precisabile, ma che
pur deve esserci in qualche luogo, nell'etere forse che si suppone sia
dappertutto, che sovraintende alla legge morale.
Oggidì era acquisito dalla
scienza che le giovani e belle donne erano più necessarie ai vecchi che
ai giovani. Naturalmente, oltre che la sorpassata legge morale, perché a
questa necessità sia corrisposto, c'era l'ostacolo che anche alle giovani
e belle donne era concessa la libertà di disporre di sé. Forse
contro ogni giustizia, perché per la loro giovinezza e per la loro
bellezza esse alla libertà non sono preparate. Oggetti troppo preziosi,
venivano distribuiti anche più ingiustamente dell'oro stesso. Si
conquistavano anche con un paio di mustacchi bene impomatati. Ai vecchi non si
concedevano che in casi rarissimi: Gerontomania. Ma se si confermava quello che
Woronoff e Stirnach asserivano? Meglio di loro, sarebbe servita a ridestare nei
vecchi organismi la memoria, l'attività, la vita, una bellissima
fanciulla o, più precisamente, una bellissima fanciulla alla settimana.
Già i vecchi ebrei pensavano così e per tenere in vita re Davide,
gli offersero una bella fanciulla. Ma egli non volle toccarla e dovette miseramente
perire.
Volle essere giusto e non appena
pensò alla giustizia, il suo pensiero corse alla propria moglie.
Anch'essa con la faccia tuttora fresca, l'aspetto incantevole come sulla
banchina a Milano con quel nastro rosso che si moveva alla brezza vespertina,
poteva dare a qualcun altro (non a lui) un po' di vita e riceverne. Invece essa
invecchiava peggio di lui, perché essa poi mancava del suo libero
pensiero. Poverina! Non era però suo l'ufficio di darle tale pensiero.
In passato egli invece aveva fatto del suo meglio per toglierglielo. Anzi,
appena sposati, la sua morale era stata dura e imperiosa. Che rimorso! Non
bisogna mai sgridare nessuno, perché poi ci si pente. L'altro resiste ed
è male. Cede o si foggia secondo il nostro imperioso volere ed è
peggio ancora. Ma se invece in lei tale pensiero fosse ora altrettanto libero
che da lui? Poteva essere che, come essa non l'indovinava in lui, così
lui non lo scoprisse da lei. Sarebbe forse anche lui apparso a lei
miserevolmente credulo e perciò gelido, inerte? Se egli avesse potuto
istruire suo figlio ossia se suo figlio da lui avesse accettato qualche
istruzione, egli, al momento in cui avesse preso moglie, gli avrebbe
raccomandato: Non istruire troppo tua moglie e non foggiarla a modo tuo, perché
può avvenire ti riesca.
Suo figlio l'avrebbe guardato con
quel suo aspetto glaciale che poteva anche manifestare un rispetto e avrebbe
pensato: Presuntuosi questi vecchi. Credono tutti fatti come loro e a tutti
raccomandano i purganti che fanno per loro. Aveva già detto così
una volta ed il male era che allora aveva avuto ragione. Allora e poi mai
più, ma il vecchio aveva ragione di credere che la frase venisse
ripetuta molto di spesso.
Ricadeva nel rancore! Non
apparteneva a quel treno ed egli respinse i fantasmi della moglie e del figlio.
Egli voleva fare la vita sua, cioè il suo viaggio.
Il treno si fermò ad una
stazione non importante, di cui l'edificio doveva trovarsi dall'altra parte.
Dalla parte sua, nell'erba, c'era una quantità di polli che continuavano
a razzolare senza quasi accorgersi del treno che in questo momento s'era
fermato accanto alla loro casa. Come sono saggi costoro! pensò il
signor Aghios. Questo treno a ore fisse appartiene alla loro vita. Penseranno
sia sempre lo stesso. Poi ricordò che neppure fra uomini ci si
intendeva, se non ci si spiegava, com'era da lui e sua moglie, con quel
pensiero libero e superbo, ma segreto che com'era da lui poteva essere anche da
lei e, con grande piacere, si dedicò a studiare quello che i polli
potevano pensare della loro relazione con l'uomo. Gli pareva che uno dei polli
dall'erba gli gridasse: Guai a noi se l'uomo non ci fosse. E il pollo doveva
essere certo della benevolenza del padrone, che gli procurava il buon becchime,
che, quando ne era sgozzato, se ne andava da questo mondo con la convinzione
che l'uomo suo amico doveva essere ammattito.
Ora s'accorse di stare più
comodo. In quella piccola stazione il loro compartimento s'era addirittura
vuotato e non vi restavano che in quattro. V'era sempre ancora il forte
giovanotto pallido, che aveva approfittato di conciarsi nel cantuccio
più lontano dal signor Aghios e sdraiarvisi allungando le gambe. Di
faccia a costui c'era un signore che s'era procurato un giornale in cui ficcava
il naso in modo che il signor Aghios non poteva vederlo in faccia. Proprio di
fronte al signor Aghios era rimasto anche il grosso signore dagli occhiali di
tante diottrie.
Mancava l'unica signora che c'era
stata. Anch'essa era scesa a popolare la piccola stazione. Senza quel piedino
che s'era tenuto alto in quell'adunanza, i quattro uomini rimasti avevano
perduto ogni contatto fra di loro. Erano divenuti dei veri stranieri scialbi e
muti.
Il signor Aghios per un istante
guardò il suo vis-à-vis. Scoperse poi che anche dietro di costui
c'era una lastra che copriva una fotografia e nella quale egli scorgeva la
propria testa, chiara come in uno specchio. Si analizzò accuratamente.
Irrimediabilmente vecchio con quella fronte troppo alta ed i mustacchi non
curati, un po' troppo gonfi. I mustacchi erano la prerogativa degli animali che
s'annidano nel buchi (così aveva detto quella canaglia di suo figlio);
devono servire ad avvisarli quando il buco si restringe e arrestarli dal
pericolo di strangolarsi. Ho io l'aspetto di bestia? si domandò il
signor Aghios esaminando le proprie fattezze. E lui e la sua immagine si
guardarono sospettosi. Questi, sì, ch'erano rapporti semplici! Era
l'unico caso in cui guardando una fisonomia si sa con piena certezza quello
ch'essa esprima. Eppure quella fisonomia conservava il suo aspetto di bestia
mustacciata, avvilita allo scorgersi meno bella, mentre era vero che il signor
Aghios si sentiva gonfiare il petto dalla superbia di aver scoperto in quel
momento quale fosse l'unico rapporto intimo in tutta la grande vasta natura.
Solamente dubitava! Anche quello mancava? E corrugò tutta la propria
faccia: Un gesto di disprezzo alla propria fisonomia che gli fu prontamente
restituito.
Il signore grosso lo guardava,
anche lui diffidente, con gli occhi ingranditi dalla lente. Io credo disse
levando il fazzoletto di tasca d'essermi imbrattata la faccia con l'inchiostro
della macchina da scrivere. E arrossì. Doveva essere un timido.
Oh! no! esclamò confuso
il vecchio, che guardò la macchia bluastra dagli occhiali sotto gli
occhi del suo interlocutore Io guardavo me stesso in quella lastra. Ho uno
strano aspetto io, in viaggio. E guardando meglio le guancie accuratamente
rasate del grosso uomo, offuscate dal pelo denso della barba, aggiunse
mentendo: Non v'è traccia di macchie sulla sua faccia.
Mentiva. Bastava indirizzarsi fra
uomini una sola parola per correre il rischio di dover dire una menzogna. Si
era nella verità fra sconosciuti soltanto. La macchia bluastra, non
raggiungibile dal fazzoletto, perché vagante secondo le rifrazioni della
luce, c'era su quella faccia, ma non bisognava parlarne. Perciò anche in
viaggio si perdeva la propria libertà. Come di tutte le cose, anche del
viaggio la parte più bella era linizio. Partendo si correva via
immediatamente liberi dal groviglio di affari e affarucci che gremivano la
vita. Per un istante si respirava liberi. Non si serviva da puntello a nessuno
e nessuno più vi puntellava. Ma però con la prima parola gentile
non meritata (la macchia su quella faccia c'era!) avveniva la ricostruzione del
puntello che impacciava i movimenti. Si dava e si domandava l'appoggio.
Nessuno mi dirà ch'io abbia parlato così per far piacere a quel
coso grosso. Parlai così perché sto meglio se dico cose gentili
.
Il coso grosso disse anche lui
una cosa gentile: Io non so perché ella dica di avere un aspetto
strano. Non vedo in verità. Davvero non vedo!. Scandiva con pedanteria
le sillabe. Era un altro puntello che si cacciava sotto la spalla del signor
Aghios. Però aveva sofferto quando la buona creanza l'aveva obbligato di
costruire lui l'appoggio all'altro dicendo una menzogna. Ora invece si sentiva
sollevato dalla gentilezza che riceveva. Rientrava con un sospiro di sollievo
nel consorzio umano, non accorgendosi che anche quel puntello poggiava su una
menzogna di cui non sentiva dolore, non avendo potuto inventarla lui. Eppure
avrebbe dovuto ricordare che poco prima la propria faccia gli era apparsa
strana, anzi, bestiale, con quei mustacchi grossi.
Ringraziò e avrebbe
volentieri attaccato conversazione con chi gli aveva regalato un complimento.
Ma non trovò l'argomento. Le prime parole che avevano scambiate
vertevano su una parte del loro corpo. Continuando così si correva il rischio
di somigliare ai cani.
Il signor Aghios guardò
con desiderio verso il corridoio ch'era tuttavia affollato e ove si fumava,
ciarlava e rideva. Avrebbe scommesso che la sua bella fanciulla dagli occhi
azzurri c'era sempre ancora; altrimenti non ci sarebbe stata tanta gioia e gli
uomini sarebbero venuti a sedere nel compartimento semivuoto. Per poltroneria,
malgrado il desiderio, non si mosse. Nel momento di stornare l'occhio dalla
porta s'avvide che un'animata conversazione s'era sviluppata nell'altro canto
della vettura. Uno dei giovini, quello ammalato, si teneva penosamente teso
verso il suo interlocutore per arrivare a sentirlo e aveva nella sua faccia
emaciata tutta l'espressione di persona che viene costretta ad una fatica
spiacevole.
L'altro invece doveva gustare
molto l'occasione di tenere una predica. Era un ragazzo circa dell'età
del figlio del signor Aghios. Era biondo come lui e con lui aveva un'altra
somiglianza che stupì il signor Aghios. Parlava proprio di una cosa di
cui il signor Aghios aveva recentemente sentito parlare dal figlio suo. Anche
in viaggio si poteva scontrarsi nelle cose note che ingombravano la casa,
perché la moda funestava nello stesso tempo le case e i treni. Lo
studente parlava dell'origine delle malattie nervose e della cura delle stesse
mediante la psicanalisi. Il signor Aghios sentì solo queste parole: La
malattia ha la sua prima origine in una ferita morale ricevuta nella prima
infanzia e di cui, per non soffrirne, si soppresse il ricordo. Per avere tale
importanza, tale ferita deve essere stata inferta proprio nella prima
infanzia.
Tutto questo il signor Aghios
già sapeva. E quando il figliuolo suo gliel'aveva detta con aria
dottorale, come se fosse stata scoperta da lui, il signor Aghios aveva
mitemente consentito. Anche lui vedeva che la ferita fatta in un organismo nel
suo sviluppo si moltiplicava con lo sviluppo. Poi l'ignoranza del bambino, dava
all'offesa una importanza enorme. Ora, invece, nella libertà del viaggio
il signor Aghios si ribellò. Come si poteva asserire una cosa simile?
Ogni ferita doleva ed ogni ferita - se ne aveva il tempo - incancreniva e si
dilatava. Non soffriva lui, a quasi sessant'anni, di ogni offesa altrui e di
ogni proprio dubbio? La carne, composta di tanta parte di liquido, era sempre
poco resistente e l'ignoranza poi ci accompagnava fino all'ultimo alito, grande
abbastanza per indurci a concedere importanza a tutte le cose che non ne hanno
veruna e farcele sentire pesanti, affannose, origine di malessere e malattia.
Certo, il tempo ci voleva e il più lungo tempo è quello che
trascorre dall'infanzia alla morte. Perciò si potrebbe dire che le
avventure dell'infanzia sono le più lunghe e solo perciò le
cattive avventure le più pericolose. S'avverano piccole nei piccini e
s'evolvono a grandi per affliggere gli adulti.
E il giovanotto continuava a
dire: Una seconda avventura può aggiungersi più tardi ad
inacerbire la prima, ma mai può assurgere ad un'importanza per
sé.
Qui, ad onta della sua lontananza
dal predicatore, la quale avrebbe dovuto impedirgli d'intervenire anche per il
rumore assordante del treno, il signor Aghios s'apprestò ad urlare la
sua protesta. Aveva taciuto col figliolo suo, ma qui non c'era ragione di
tacere. Ci si trovava nella grande libertà del viaggio.
Ma in quel momento il giovanotto
sofferente, che aveva provato delle difficoltà per stare a sentire, si
lasciò ricadere sul cuscino dietro di sé, allontanandosi da chi
gli parlava e disse: Ne parlerò col medico condotto. Era stanco e si
coperse gli occhi. La posizione faticosa gli aveva dato il sentimento del mal
di mare.
Il predicatore apparve per un
momento stupito e offeso. E il signor Aghios dovette trattenersi per non
ridere. Parlare di cose simili col medico condotto? Certo il predicatore non
era medico, ma non era neppure medico condotto e credeva perciò di avere
un maggiore diritto di parlare di scienza.
Poco dopo il giovanotto si
levò, prese a mano la sua valigetta e uscì sul corridoio per
essere pronto ad abbandonare il treno alla prima fermata. Alla fermata il
signor Aghios lo seguì per guardare due cose. Prima di tutto volle
vedere se il giovanotto veramente scendesse o se avesse voluto abbandonare un
luogo ove era stato posposto ad un medico condotto. Scendeva realmente in una
stazioncella piccola e il signor Aghios lo seguì con l'occhio come si
moveva lento e sicuro e spariva nella casuccia, la porta del piccolo luogo per
la quale entrava così la grande scienza della psicanalisi. Poi il signor
Aghios guardò nel corridoio sperando di rivedere la giovinetta dagli occhi
azzurri ch'egli era stato in procinto di abbracciare. Non c'era. Che cosa
facevano dunque tutti quegli uomini in piedi? Essendo uscito sul corridoio il
signor Aghios volle darsi un contegno e accese una sigaretta in mezzo a quegli
uomini che, in piedi, aspettavano di arrivare alla meta. Egli non ambiva di
parlare con loro, perché sul corridoio si sentiva come sulla via. Non
era nella propria società, cioè nel proprio compartimento.
Guardò fuori della finestra e cominciò a contare i pali del
telegrafo come andavano via. Poi, per lungo tempo, non li contò
più e fu consapevole di essere rimasto nel più assoluto riposo di
pensiero a guardare senza vedere. I pali e la campagna o una parte di vita
fuggono senz'essere visti o sentiti. Quando ritornò in sé,
dubitò che una cosa simile possa esistere, ma non ricordò che ci
fosse stato, in quello spazio di tempo, il menomo movimento della memoria o del
pensiero. E forse, a riprova del riposo assoluto avuto, ridestandosi il signor
Aghios giunse al suo mondo con un giudizio sintetico: Io sono un vecchio che
non amerebbe nessuno e da nessuno sarebbe amato se non ci fossi io stesso che
amo e da cui sono amato. Bisognava rischiarare il mondo a cui egli ritornava.
Sorrise, perché non ci fu amarezza. Le cose erano così e ne
risultava una situazione comoda come la sua età esigeva. Poi la sua
asserzione andava attenuata: Non si poteva dire ch'egli amasse qualcuno, ma
egli amava intensamente tutta la vita, gli uomini le bestie e le piante, tutta
roba anonima e perciò tanto amabile. Anzi, se fra gli uomini non ci
fossero state anche le belle donne, egli avrebbe potuto aspettare la morte con
la serenità di un santo. E finita la sigaretta, ritornò al suo
posto con la coscienza di aver chiuso un viaggio lontano, inserito nel corto viaggio
che s'era appena iniziato. Era stanco di quel viaggio e s'assise con un respiro
di soddisfazione.
Il suo vis-à-vis
intendeva certamente d'annodare discorso, perché teneva in mano un mezzo
toscano e gliel'accennò guardandolo supplice coi grandi occhi
rischiarati dagli occhiali: Lei è uscito sul corridoio per fumare, ma
visto che il signore già me lo permise, avrebbe niente in contrario di
lasciarmi al mio posto a fumare questo mezzo toscano?.
Grande cosa il fumo! Specialmente
in un compartimento per non fumatori. Ecco che la vita sociale per esso
s'iniziava anche fra sconosciuti, come dai cani, sebbene meno
entusiasticamente.
Con eguale gentilezza il signor
Aghios consentì e volle essere più gentile ancora, aggiungendo
alla gentile parola un atto gentile. Per quanto non ne avesse voglia, avendo
fumato giusto allora, trasse di tasca un'altra sigaretta e disse sorridendo:
Del mio permesso profitterò anch'io. Poi, però, non trovava gli
zolfanelli. Doveva rovistare tre tasche del soprabito, tre della giubba (non
quattro perché quella interna di petto il signor Aghios trovò
tanto gonfia che subito ricordò che v'erano i denari), due del panciotto
e due dei calzoni. Intanto il grosso signore fu anche una volta molto gentile e
gli porse uno zolfanello acceso.
Addirittura commosso, il signor
Aghios ringraziò. L'altro gli sorrise, ma nulla rispose essendo
occupatissimo col suo toscano che doveva essere un poco umido.
Poi, però, la
conversazione si ravvivò perché il signor Aghios, avendo
ricordato che sua moglie sempre diceva che le donne ne avevano troppo poche di
tasche e gli uomini di troppe, si mise a ridere ad alta voce e dovette dare una
spiegazione della sua ilarità.
Il grosso suo compagno di viaggio
rise, ma piuttosto per compiacenza che per proprio bisogno. Poi protestò.
Non vedeva la giustezza dellosservazione: Io so sempre tutto quello che ho in
ogni singola tasca. Vuole il mio biglietto? Eccolo! Il mio specchietto? Gli
occhiali per leggere?. Anche quelli erano grossissimi. Aveva grande ordine,
forse necessario con quegli occhi difettosi. Aveva un mondo di cose quel
signore, come un armadio ambulante e tutte al loro posto. L'idea era buona di
tenere tanto ordine nelle tasche ed il signor Aghios si propose di adottarla.
Anzi avrebbe messo in una delle tasche un bel registro contenente la pianta
delle tasche con l'enumerazione degli oggetti contenutivi. E pensò con
buon umore e senza risentimento, che il suo nuovo amico non aveva fatto vedere
il portafogli. Anche lui non aveva toccato quella tasca. È un bel
sentimento quello di sentirsi furbi.
Poi, per rassicurare anche meglio
quel signore ch'egli non aveva riso di lui, il signor Aghios escogitò
una gentilezza da usargli. Ricordò ch'era il vanto di tutti i fumatori
di toscani di saper sopportare tanto veleno. In verità egli non sentiva
tanta ammirazione, perché sapeva che il fumo del toscano non si usava
lasciar andare ai bronchi e polmoni, ma si espelleva subito, non appena avutone
in bocca il sapore. Ma valeva bene la pena di dire una bugia per garantire
intorno a sé tutta la necessaria gentilezza. E disse: Come fa lei a
sopportare tutto quel veleno?.
Curioso! L'altro non sentì
tali parole quali un complimento. Non credo di avvelenarmi più di lei
con le sue Macedonia. Lei ne gettò via una or ora e ne ha già
accesa unaltra. Questo è il terzo mezzo toscano che fumo oggi e fino a
questa sera, dopo il pasto, non fumo altro. So come vada con le Macedonia.
Scommetto che lei ne fuma una quarantina al giorno!.
Non era vero. Questa chegli
aveva in bocca, il signor Aghios l'aveva accesa proprio a scopo sociale,
altrimenti egli avrebbe saputo restarne senza per lungo tempo. Ma la
gentilezza! Mentì una seconda volta assentendo, ma ne fu subito
consapevole.
Strano! Con gli sconosciuti si
mentiva disordinatamente, senza un vero scopo. Con lo sconosciuto non c'era mai
un vero accordo. Anche con chi intimamente si conosceva c'era spesso la
stonatura, ma non così. Così era un gridìo discorde, come
nelle orchestre quando ogni singolo suonatore tocca lo strumento per provarlo,
sentirlo e regolarlo. La menzogna con coloro che ci conoscevano s'adattava a
tutte le circostanze per essere più credibile. Nel treno che correva era
suggerita dal capriccio, mancava dello sforzo consapevole ch'era un fine lavoro
mentale. Il signor Aghios si toccò la bocca per frenarla e toglierle
quella libertà. Egli voleva traversare il mondo serio, serio, non
falsificandolo con parole che somigliavano ai sassi che il monello gettava per
il solo bisogno di moversi, senza preoccuparsi dove andava a finire, magari nell'occhio
del prossimo. Era dunque più difficile di saper muoversi con
dignità fra sconosciuti e a lui era toccato di sbagliare perché
poco uso alla libertà, come quei cani di catena che appena liberi
guastano il giardino.
Ma c'era dell'imbarazzo nel suo
animo e il signor Aghios, per moversi e svincolarsi, aperse il finestrino e
comperò un arancio. Una lira! Egli non aveva fame, perché aveva
mangiato poco prima di lasciare Milano. Ma non era male di avere un arancio in
tasca per leventualità di essere colto dalla sete. Una lira, una lira
intera!
Il fumatore di toscani era sempre
occupato a tirare e sotto ai grossi occhiali gli occhi loscavano per veder
meglio il sigaro. Tuttavia doveva aver seguita la transazione fatta dal signor
Aghios perché mormorò: Un arancio una lira. Almeno con questo
prezzo non c'è da perdere tempo. Si dà la lira e non c'è
resto.
Né arresto del treno
disse il signor Aghios, pensando subito che con gli sconosciuti si dicevano
più parole inutili che con gli amici. Allora si avrebbe dovuto tacere?
Non aveva scrupoli l'altro,
perché si mise a parlare abbondantemente dei prezzi bassi di cui si
aveva goduto nella sua infanzia. Accarezzava quei prezzi bassi come se fossero
stati suoi cari congiunti decessi. E, ad onta degli scrupoli ch'egli aveva
interi, anche il signor Aghios parlò di sue lontane rimembranze. Dopo le
prime parole si trovò trasportato in tutt'altra epoca, quasi
dimenticando che s'era mosso per riscontrare dei prezzi.
Una luminosa mattina di agosto
sulla bella strada che va da Tricesimo alla Carnia. Lui e un suo amico, un
pittore, in una carretta tirata da un cavallo, che ha il vizio ad ogni tratto
di rallentare il passo per sentire meglio quello che si dice nel veicolo cui
è legato. Non vi sono frustate, perché nella vasta verde campagna
friulana, tra quelle colline che si sporgono cariche di alberi, nella quiete
della mattina soleggiata, l'ira stonerebbe. I due giovini, nella loro gioia,
sono buoni e amano il cavallino che insieme alla carretta, per una giornata
intera costa due lire.
Non è molto, ma neppure
tanto poco, disse dottoralmente l'altro. Anche oggidì in Brianza, ma
d'inverno...
Il signor Aghios subì
tranquillamente l'interruzione. Egli era ora col pensiero tutto in un piccolo
luogo della Carnia, Torlano, ai piedi della Carnia, un luogo che a lui, che
allora era capitato per la prima volta in una parte nuova del Friuli, sembrava
non friulano e neppure italiano. I tetti delle case erti, vicini alla perpendicolare,
sembravano fatti per coprire delle case nordiche. Il signor Aghios non
ricordava dettagli, ma ricordava tutto l'insieme nitido sorridente, con tanto
colore italiano sulle linee quasi gotiche. Accanto a lui, il pittore guardava
con gli occhi semichiusi e ambedue associavano la loro ammirazione, la
società più intima umana. C'era anche un ruscello, imponente per
certi strati azzurri nell'acqua qua e là profondissima e per la foga
dellacqua, viva per la sua recente caduta di montagna. E di tutto questo il
signor Aghios tacque, perché non era cosa che appartenesse al signore
dai grossi occhiali.
Ma gli raccontò che in
quella perla del Friuli lui e il suo amico andarono a rassodare il loro
entusiasmo ad una merenda. Fu una merenda a periodi. Dapprima un latte
squisito, tinto da un po' di caffè e pane casalingo ancora caldo e un
burro autentico, un po' ingenuo e aspro. L'appetito aumentò e, vennero
due uova al tegame. Poi un po' di salame tenerello, perché anch'esso
nato appena e non ancora cristallizzatosi nel nuovo assetto. E giovine anche il
formaggio che seguì, e il vecchio signor Aghios sapeva che il formaggio
vetusto è buono, ma che il giovanissimo ha pure i suoi pregi. La merenda
fu chiusa da una bottiglia di vino di Torlano. Oh! il vino di Torlano! Giallo e
luminoso di luce propria e vivo come l'acqua di Torlano, scesa allora allora
dalla montagna. E il vecchio s'incantò a ricordare quella roba giovine e
quel vino vecchio (aveva tre anni, di quegli anni lunghi della montagna) e la
propria fresca gioventù resa geniale dal grande pittore triestino,
sparito tanto presto e che guardando il ponte di Torlano sapeva come Manet
l'avrebbe ritratto. Ma a Torlano, dove la montagna incombeva, il ponte non
avrebbe potuto restare solo e giganteggiare. Tutto era sparito. Era impossibile
che Torlano esistesse ancora, quand'era morto il pittore che l'aveva baciato, e
lui era là molto simile a quanto era stato, ma non più simile di
una fotografia ad una cosa viva. Ed ora, che guardava indietro, era immobile
come una fotografia. Pare che ricordare non sia una vera azione. Il ricordo lo
si subisce immobile. Chi ricorda e chi è ricordato s'immobilizzano.
Il suo compagno lo
richiamò al movimento del treno. E il conto fu piccolo? E infatti il
vecchio sentì, ritornando in sé, la spinta del treno che lo fece
piegare per innanzi.
Aghios sorrise. Non basta
ancora. Anche il cavallo ebbe la sua merenda: Granturco, perché non
c'era avena. In un cortile vasto (lo spazio a Torlano non manca) fu lavata
accuratamente la carretta ch'era sudicia, perché, essendo stata guidata
dal pittore, aveva finito talvolta fuori della strada carrozzabile.
Ebbene! disse il grosso uomo.
Io scommetto d'indovinare a quanto ammontò il conto. Due lire o,
tutt'al più, due lire e cinquanta.
Ella sbaglia di una lira intera
disse il signor Aghios.
L'altro fece atto di non credere.
Parve anche fosse in procinto di protestare. Poi s'accontentò di far
conti e mormorò: Due tazze di latte, pane à volonté...
quattro uova al tegame... due formaggi. Una lira e cinquanta a me pare poco.
Al signor Aghios, che pur tanto
amava la sincerità, la protesta dellaltro parve scortese e anche
imprudente. Che cosa poteva lui saperne dei prezzi di Torlano nel
milleottocento e novantatré?
E brevemente aggiunse: Io fui
tanto stupito di tale conto, che proposi al pittore di dare una lira intera di
mancia, nel quale caso la merenda avrebbe costato proprio quello ch'ella dice.
Ma il pittore m'ingiunse di dare solo venti centesimi di mancia, perché
pretese che altrimenti il mondo si guastava. Io feci come egli disse.
Così truffai Torlano e, tuttavia, come si vide, il mondo si
guastò.
Meno male che il suo
interlocutore a quest'osservazione dell'Aghios vivamente assentì ed
anche rise, perché una constatazione molto giusta fa sempre da ridere.
Volle però aggiungere la sua pezzetta e disse: Chissà se anche
Torlano è tanto guasta?
Io spero di no disse lAghios
fervidamente. E non pensò ai prezzi, ma a quell'acqua bene incanalata
che cantava la sua mite canzone a quel ponte e a quelle case grandi abitate da
gente semplice, ma nutrita di buone cose.
I due s'erano ormai fatti
abbastanza intimi e si presentarono. Ragioniere Ernesto Borlini.
Il Borlini si stupì nel
sentire il nome dell'Aghios. Greco? D'origine, ma lontana. Era da lungo
tempo che l'Aghios non pensava al suo nome greco perché chi lo conosceva
accettava quel nome come se fosse stato italiano. Certo nella sua vita, causa
quel nome, spesso egli aveva rovistato nel proprio animo curioso di scoprirvi
qualche cosa del più geniale dei popoli. Tante volte aveva analizzato
qualche propria parola per vedere se poteva considerarla arrivata da paesi
lontani e tante volte aveva accarezzato una propria idea come sorprendente,
nata in un cervello atteggiato altrimenti dai cervelli dei suoi vicini. Adesso
pensò: Se l'origine valesse qualche cosa, io, dunque, mi troverei in
viaggio tutto lanno. Ma molta sua superbia era sparita dacché egli
aveva accanto il figliuolo che ne sapeva più di lui.
Rapido il pensiero del vecchio si
ripiegò su se stesso. Subito egli dovette ridere. Somigliava egli a
Dante o a Omero? In complesso non c'era niente da perdere scegliendo una
nazione o l'altra. Umiliato dal proprio riso, passò a considerare le
tabelle statistiche. Delitti passionali e fazioni da una parte e dall'altra.
Nulla da guadagnare mettendosi di qua o di lì. Eppoi quanti italiani non
erano greci senza saperlo? No! No! Anche lui, per trovarsi in viaggio, doveva
pagare il biglietto ferroviario.
Ho piacere chella non sia
greco! disse il Borlini. Io, i greci, non li posso soffrire.
L'Aghios ebbe una smorfia
d'imbarazzo. Che cosa poteva dire a quel grosso uomo che in quel momento gli
aveva serrata la mano e che subito gli dichiarava che metà dei suo
organismo gli era odiosa? Il signor Aghios si rassegnò a pensare: Se tu
odii i greci io me ne infischio. Di te non so che il nome, Borlini, e
m'è odioso perché lo porti tu. E tacque. Non occorreva
abbandonare la propria famiglia per litigare.
I due cominciavano a conoscersi
ed era una intimità. Improvvisamente il signor Aghios fu nettato dal suo
disgusto da un suono strano, nuovo, che interrompeva le tre, quattro o
più note prodotte dal procedere del treno. Il giovinotto, nel cantuccio,
ch'era rimasto immoto con una mano sugli occhi, emise un vero gemito. Il gemito
è veramente un suono d'intimità. Tutta una via cambia d'aspetto
se un suono simile vi è emesso in modo da esser sentito. L'indifferente
viandante s'arresta e pensa: Oh! poverino! Guarda quello che gli accade e può
domani accadere a me che ogni giorno passo per questa stessa via.
L'Aghios e il Borlini, stupiti,
guardarono il gemente. Troppo a lungo tacquero e ciò rese accorto il
giovanotto che lo si osservava. Levò la mano dagli occhi e guardò
i due compagni di viaggio. Lo guardavano, il Borlini proprio chino per innanzi
per accostarglisi meglio.
Sta forse male? domandò
l'Aghios, subito fraterno.
Perché? domandò
il giovanotto stupito. Aveva dei begli occhi bruni sotto una chioma quasi
bionda. Scusi tanto! disse l'Aghios. Ha sognato forse e ha emesso un
gemito.
Può essere rispose il
giovine. Ciò mi avviene talvolta. Mi scusino. Io non sono malato.
Pensavo a certa mia sventura e perciò gemetti. Mi compatiscano. Chiuse
gli occhi e si riadagiò nel suo cantuccio. Poco dopo trasse a sé
la tenda e se ne coperse il capo. Voleva una grande oscurità quel
disgraziato, perché nella vettura la luce era scarsissima. S'era
già al crepuscolo, eppoi il cielo s'era coperto.
Il signor Aghios continuò
a guardarlo. Oh! quanto avrebbe desiderato di poter lenire il primo dolore in
cui s'imbatteva in quel suo viaggio. Un gemito, poi, è il suono
più familiare che un uomo possa indirizzare ad un altro. Lo s'intende
subito. È più intelligibile di una parola, perché sfuggito
all'organismo che lo formò e non lo volle come tutte le sue funzioni.
Così il polmone respira e il cuore batte. E il suono va direttamente al
cuore degli altri che sanno anch'essi formarlo e perciò l'intendono.
Invece il Borlini guardava il
dormente con quei suoi occhi rotondi sotto agli occhiali, con piena, grande
diffidenza. Quando avvenne la solita rivoluzione all'arrivo a Verona e la gente
di tutto il vagone si mosse, uscendo a prendere aria sulla banchina della fosca
stazione o per restare nella più luminosa delle città, il
giovanotto si destò, si levò e uscì sul corridoio a
guatare la penombra, la fronte poggiata sul vetro della finestra.
Il Borlini si chinò
allAghios: Chi geme in pubblico, si prepara a domandare dei denari in
prestito.
Era una gentilezza e l'Aghios
sorrise per ringraziare, ma non sentì gratitudine. Se si doveva guardare
con diffidenza un uomo che gemeva, allora si faceva meglio di restare celato
fra le proprie pareti e non moversi. Sentire un gemito e diffidare? Solo
diffidare? Era proprio come chi si mette a correre sentendo chiamare aiuto,
perché il grido è in sé un avvertimento di pericolo.
Il giovanotto ritornò al
suo posto e si sdraiò nel suo cantuccio proprio nella posizione di
prima. Intanto il signor Aghios intese ch'egli non poteva soccorrerlo neppure
con una parola. La buona educazione imponeva così.
Quando si sorprende un gemito si
deve fingere di non averlo sentito. Non per niente si era un gentiluomo. Tutto
doveva continuare come se il gemito non fosse stato emesso. Non devi
intrudere ammonì se stesso il signor Aghios.
III. Verona-Padova
Ma prima di abbandonare Verona la
vettura accolse tre nuovi ospiti che al signor Aghios parve di riconoscere. Il
contadino, la moglie e la figliuola ch'egli credeva di aver visti alla stazione
di Milano. Gli pareva soprattutto di riconoscere il gonnellino, rigonfio molto,
della fanciulla. Questa gli pareva più giovinetta di quella che aveva
visto dormire alla stazione, perché questa non poteva avere neppure
dieci anni. Ma non si poteva dirlo, perché un bambino con gli occhi
aperti non somiglia ad uno che li ha chiusi. La madre era ben vestita con un
fazzoletto di seta annodato sul capo in luogo del cappello. La sua faccina
sotto a quel fazzoletto, un po' incartapecorita forse dalle intemperie, era
ammorbidita dagli occhi azzurri, serii, ma vivi. Il contadino era privo di
colletto, ma vestito pulitamente alla cittadina. Quel fazzoletto sulla testa
della contadina, nitido e bianco, era adorabile. La donna inchinavasi agli
antenati per sottomettersi al marito che non li curava.
Il giovanotto nel cantuccio fu
obbligato di ritirare le gambe. Lo fece senza dire una parola, ciò che
al signor Aghios parve scortese, lui che voleva il suo viaggio soffuso di
gentilezza. Del resto a lui pareva d'imbattersi in conoscenti e avrebbe voluto
aprire loro le braccia. Doveva però diffidare, perché al signor
Aghios mancavano due qualità: L'orientamento e il riconoscimento delle
fisonomie. A Milano, dopo esserci stato tante volte, non sapeva andare da solo
dalla stazione a piazza del Duomo ed era incapace di trovare sulla via chi
conosceva ed incapace di non salutare tutti gli sconosciuti. Per essere
sicuramente conosciuti da lui bisognava averlo praticato da molti anni. Come
è tanto difficile di apprendere da vecchi una lingua, così egli
non sapeva più stampare nel suo cervello la fisonomia di gente nuova.
Forse era la stessa deficienza che gl'impediva l'orientamento. Infatti, intorno
al naso e agli occhi degli uomini, ci sono delle vie, androne e piazze di cui,
per la loro minutezza, è difficile d'intendersi. Li conosceva o non li
conosceva quei contadini? I biglietti ferroviari erano ora tenuti in mano,
fissati negligentemente col pollice sulle altre dita robuste e rudi della
donna, mentre a Milano li aveva tenuti il contadino. Ecco una differenza e il
signor Aghios fu più dubbioso che mai.
Anche il Borlini guardò
quei biglietti. Si chinò all'Aghios, come per dirgli qualche cosa
d'importante, e gli soffiò nell'orecchio: Quei biglietti sono di terza
classe.
Il treno correva da una decina di
minuti e la fanciulla si guardava intorno come se cercasse qualche cosa. Poi si
piegò sul grembo della madre e mormorò: Mama, voio veder.
Anch'essa aveva la testa coperta
dal fazzoletto annodato al mento. La faccia sua era rosea e fresca, gli occhi
azzurri, più chiari che della madre, grandi, la cornea bianca, luminosa
anch'essa. Parlavano il veneto ed era difficile fossero venuti da Milano.
La madre si chinò e disse:
Guarda alora. No ghe xe gnente da veder. Parlava a bassa voce. Pareva intimidita
dalla compagnia di quei signori silenziosi.
Il signor Aghios, che non
aspettava di meglio, fece posto alla finestra: Vuol vedere! Ha ragione!
Anch'io quando viaggio voglio vedere. La ponga qui.
La bambina guardò
supplichevole la madre, la quale volse il guardo come a domandare consiglio al
marito. Questi sorrise, Se sto sior xe tanto bon, no vedo perché la
picola no dovaria godersela. Zà no restemo tanto, perché ghe semo
subito a ... .
E subito preso in braccio il
piccolo fagotto di vestiti, lo depose al posto lasciato libero dal signor
Aghios.
La piccina guardò la
campagna che fuggiva e per qualche minuto stette silenziosa. Poi aderì
con tutta la faccia al vetro e il signor Aghios sorrise perché intese
che faceva così per vedere meglio. Indi si volse al padre piagnucolando:
Mi voria veder.
E no ti vedi? domandò il
padre stupito.
Mi no che no vedo!
esclamò la fanciulla e volse alla madre i chiari occhi, resi anche
più chiari dalle lacrime che cominciavano a formarvici. La madre accorse
e sedette fra il padre e la bambina, così che il signor Aghios dovette
spostarsi ancora una volta per fare luogo, fatica che gli fu resa più
facile da un cordiale: El scusa tanto! del contadino, mentre il Borlini
lanciava un biasimo parlante traverso ai suoi occhiali.
La madre domandò: Ma
coss'ti vol veder? No ti vedi tuto? .
La fanciulla scoppiò in
pianto: No vedo el treno.
Il Borlini scoppiò in una
risata e i genitori risero anche loro, un po' imbarazzati dalla
bestialità della figliuola. Il solo Aghios fu commosso . Egli solo
sentiva e sapeva il dolore di non poter vedere se stesso come viaggiava.
Il piacere del viaggio sarebbe
tutt'altro se si avesse potuto vedere il grande treno con la sua macchina come
procedeva traverso alla campagna, come un serpente veloce e silenzioso. Vedere
la campagna, il treno e se stessi nello stesso tempo. Quello sarebbe stato il
vero viaggio.
Domandò sorridendo:
È la prima volta che la cara bambina viaggia?.
Sì! disse pronta la
contadina. E se ghe ne parla zà da quindese zorni de sto viagio.
L'Aghios si commosse. Quindici
giorni su questo viaggio e trovarsi poi in questa gabbia chiusa! Nella mente
giovinetta il viaggio avrebbe dovuto concedere il piacere di una passeggiata
senza fatica moltiplicato per infiniti numeri. Quale delusione!
Poi venne il peggio. Il
controllore si presentò alla porta a rivedere i biglietti. Quelli dei
tre ultimi venuti erano di terza classe ed essi dovettero sgombrare. È
vero che alla prossima stazione sarebbero discesi, ma intanto dovevano cambiare
di vagone. Per quanto il controllore fosse abbastanza urbano, tuttavia la sua
voce ebbe qualche accento imperioso. La bambina non pianse più e si
ficcò timorosa fra padre e madre ch'erano già in piedi. L'Aghios
domandò al controllore: Non si può chiudere un occhio per una
stazione sola?. I contadini erano già usciti dallo scompartimento. Il
controllore cortesemente disse: Io faccio il mio dovere.
E l'Aghios deplorò di non
aver avuto il coraggio di stampare un bacio sulla fronte della bambina,
là, sopra agli occhi chiari che avrebbero voluto vedere il treno. Lui,
di seconda classe, per affetto alla terza.
Il Borlini era tutto
approvazione: Ordine ci deve essere. L'Aghios non protestò,
perché pensava a cappuccetto bianco come passava fra la gente sul corridoio.
Quella del treno mi piacque
disse il Borlini. Tanti bambini tardano molto a intendere le cose. Vuol vedere
il treno e c'è dentro.
Poi raccontò di avere
anche lui a casa due bambini, uno di sei e l'altro di quattro anni e mezzo.
Egli s'era sposato tardi. Sì! Dopo raggiunta la necessaria posizione.
Il secondo vedeva tutte le cose che non importavano, le automobili che
passavano lontane e non quelle che minacciavano di schiacciarlo e il palazzo
alto e non la pietra su cui incespicava.
Dovrebbe essere consanguineo di quella
bambina che non vedeva il treno disse il signor Aghios.
Il Borlini non parve approvare
l'osservazione. Il mio è un po' più fine per quanto bestia anche
lui.
Poi raccontò che pochi
giorni prima era con Pucci a passeggio e videro due carabinieri col loro
mantello un po' minaccioso sotto a quel cappello napoleonico. E il bimbo
spaventato domandò se quei carabinieri sapevano ch'essi non erano dei
ladri. Si può essere più sciocchi di cosi? esclamò il
Borlini.
Subito l'Aghios prese interesse
al chiacchierio vuoto del suo compagno. Come si sentiva amico del piccolo Pucci
dal cuore palpitante di paura d'essere preso per un ladro o forse di esserlo!
Il ladro poteva essere preso in flagrante, ma non c'era una prova così
risolutiva per il non ladro. Era come la prova Wassermann. La negativa non era
mai sicura. Il microbo del furto poteva esserci nel sangue, ma aspettare una
buona occasione per dar segno di vita.
Poi il Borlini, fra una tirata e
l'altra del suo minuscolo toscano che gli aveva consumato una scatola intera di
cerini, disse ancora di Pucci, che aveva paura di notte, ma che si sentiva
più sicuro se gli permettevano di tener nel letto un giocattolo, per
esempio la palla di gomma. C'è senso? domandò il Borlini.
È però di buona razza disse il Borlini, e somiglierà
presto a suo fratello che non ha di tali rane.
Strana asserzione! Se non ci
fosse stato l'obbligo della cortesia il signor Aghios, per la propria
esperienza di sessant'anni, avrebbe potuto raccontargli che quando si nasce
fatti in un modo, si resta così. Era invece un grande disgraziato, quel
povero Paolucci ch'era nato in una famiglia che non faceva per lui. L'Aghios lo
intendeva, perché anche lui aveva sofferto di paure quando ancora la
vita non gli aveva insegnato quanto minacciosa essa fosse. Aveva sognato di
quegli animalucci piccoli, rapidi, inafferrabili e schifosi, roditori e insetti
quando ancora non aveva sospettato che prima o poi l'avrebbero raggiunto, e di
grandi oscurità prima di sapere che l'oscurità era la nostra
meta. E nel suo letto egli aveva portato con sé un cavalluccio di legno
e dormendo lo stringeva al petto. Finora egli aveva creduto d'aver fatto
così per bontà, attribuendo una vita bisognosa di calore a quel
suo cavalluccio di legno che alla vita apparteneva per la sua forma ruvidamente
sbozzata. Ma la palla? Quel Paolucci, il suo vero fratello, teneva in letto una
palla! Quella poi non aveva bisogno di calore, con quella sua forma rigidamente
rotonda che non apparteneva alla vita. E quando l'aveva vicina si tranquillava
e aveva meno paura! Ma era un simbolo quello; s'attaccava al suo divertimento
per dimenticare la vita (divertimento = diversivo, pensò l'Aghios senza
che il suo figliuolo sentisse). Come il piccolo Paolucci aveva potuto assurgere
a tanta altezza! Ma ora, in tutta la sua vita, che l'Aghios, sinceramente gli
augurava lunga, egli non poteva apprendere nulla di più nuovo, nulla di
più alto, nulla di più amaro. Perché viveva ancora? Il
fratello suo! Quale avvenire lo aspettava! Anche lui, quando non aveva saputo
simulare, aveva passato la sua vita fra sorrisi di scherno, correzioni
imperiose o sprezzi. Per sua sfortuna e propria sventura il figliuolo suo non
gli somigliava affatto, privo di paure, accorto e abile, sentendo il
divertimento come il suo destino. Non sospettava che cosa fosse la vita e non
se ne curava, come se egli alla vita non avesse appartenuto. La godeva
dimenticandola. Studiava poco, ma sapeva maneggiarsi. Sapeva anche poco, ma
aveva sempre pronti molti dati precisi che gli davano facilmente la vittoria. E
aveva a disposizione molti libri in cui sapeva trovare tutto quanto gli
occorreva per discutere.
E per lungo tempo il piccolo
Paolucci fu il suo compagno di viaggio. Il Borlini ne disse ancora una parola:
Mentre suo fratello maggiore camminava sicuro, attaccato alla mano del padre,
Paolucci si faceva sempre trascinare. Era come la moglie di Lot e guardava
dietro a sé. Certo per vedere più a lungo le cose.
Paolucci Borlini poteva diventare
un grand'uomo oppure un triste depravato o infine un uomo comunissimo come lui
stesso, il signor Aghios. Meno felice in tutti i casi. Anche per far valere
delle grandi qualità ci voleva dell'accortezza. E non avendo questa, si
poteva vivere come se la si avesse avuta e traboccare per afferrare le cose di
cui l'uso non è concesso che per quella conquista che designano come
legittima. O infine poteva adattarsi di vivere la vita più comune,
riservando il libero movimento delle grandi qualità nei brevi intervalli
in cui viaggiava.
Addio caro, piccolo fratellino.
Eppure dopo di essersi congedato
da lui, il signor Aghios simbatté in lui anche una volta. Per
dimostrare anche una volta la bestialità del bambino, il Borlini
raccontò che una mattina Paolucci si destò affannato e
raccontò di aver sognato di asini e cavalli, che gli correvano addosso
minacciosi, per dargli calci. E il Borlini, vantandosi, raccontò ch'egli
interruppe il racconto domandandogli: Ti davano dei calci con le zampe
anteriori o con le posteriori?. Con le anteriori! disse il bambino.
Ebbene! disse il Borlini. È un sogno impossibile, perché
quegli animali non possono dare dei calci con le gambe anteriori.
Il signor Aghios rise, ma
pensò: Povero Paolucci! Una vera crudeltà! Spezzare i sogni dei
bambini con la scienza.
E quando Paolucci definitivamente
lo abbandonò, egli restò proprio solo col Borlini. Molto solo! Ci
furono dei momenti in cui egli rivide uno per uno i simpatici veronesi che lo
avevano abbandonato a Porta Vescovo e alla Centrale e ripensò ai due
contadini (quell'indimenticabile donna dagli occhi dolci e dalla pelle
bruciata!) e pensò che il suo viaggio sarebbe stato ben più lieto
se uno qualunque di costoro fosse rimasto al posto del Borlini. Peccato che
quel giovanotto, reso interessante da tanto dolore, continuasse a dormire nel
suo cantuccio.
E bisognò parlare col
Borlini. Stavano là, seduti a guardare, traverso la finestra, la notte
oramai completa, e cortesia voleva di far sentire la propria voce. Disse subito
una bugia lamentando di dover sobbarcarsi alla fatica del viaggio. Aveva preso
lo slancio al complimento (che per sua natura è menzognero) e disse la
bugia completa: Per lui il viaggio era una tortura.
E in un lampo il signor Aghios evocò
delle immagini che dovevano rendere vera quella bugia. In prima linea la
bambina di poco prima, che aveva immaginato il viaggio come qualche cosa che
meglio si senta e si veda. Anche lui era come la bambina. Il vero viaggio
sarebbe stato quello con la diligenza traverso a vere vie naturali (chiamava
naturali quelle prive di ferro) e ai luoghi abitati, con gli arresti non alle
stazioni, che in Italia mai davano l'immagine del luogo di cui erano la porta
d'ingresso, ma davanti ad un'osteria del luogo, parte di esso, ove i cavalli si
rifocillavano o cambiavano. Neppure in automobile la via, il luogo, la gente
non era tanto intimamente sfiorata dal viaggiatore. E il viaggio, in compagnia
del Borlini, era meno viaggio che mai.
Il quale rispose all'osservazione
dell'Aghios con una domanda: Quante volte viaggia lei in un mese?.
Ed il signor Aghios disse
un'altra bugia: Due o tre volte al mese. Era già la seconda volta -
disse - che in un mese andava da Trieste a Milano. Quest'ultima comunicazione
era vera. La prima volta su e giù con la moglie; la seconda volta si
concludeva ora col suo ritorno da solo. Ma prima, da anni, non s'era mosso da
Trieste.
Il Borlini vivamente stava
contando aiutandosi con le dita e mormorava: Lodi (sporgendo il pollice),
Vicenza (l'indice), Siracusa (il medio), Ancona, Siena, Perugia ... . Dieci
città e l'Aghios guardava quelle dita tozze che le segnavano e correva a
vederne tutto l'aspetto in rapida sintesi: Lodi (non v'era stato, ma ricordava
che la poverina non aveva saputo imporre il proprio nome alla sua squisita
invenzione attribuita a Parma), Vicenza (il Palladio, le cui opere venivano
spregiate da quel saputo del figliuolo suo, quei palazzi marmorei che l'Aghios
vedeva lucere nelle vie poco popolose in una giornata festiva di sole), Siena
(oh! quel duomo risultato più piccolo del proposito e piccolo per tenere
tanta bellezza. Siena? Diecimila fiorentini ammazzati in un giorno!), Perugia
(le volte, Assisi vicina e i campi verdi coi greggi bianchi, tutto un paese che
sta aspettando un altro santo). Ma il Borlini non lo lasciò pensare
più oltre. Dieci volte! esclamò. Io lasciai Milano durante
questo mese, e siamo al venticinque, ben dieci volte. E non me ne dico stanco,
perché, per essere ben fatto, il dovere dev'essere un piacere.
Oh! Questa, poi, era grossa! Se
il dovere fosse il piacere, allora non ci sarebbe merito. Egli, l'Aghios, aveva
il vanto di aver fatto tutta la sua vita il vero dovere, abbandonando i suoi
cari pensieri, le sue care fantasie, il vero piacere. Se lo avessero lasciato
in pace, egli avrebbe percorso il mondo, non per guardarlo, ma per trovare
maggiore stimolo a staccarsene, abbellirlo e offuscarlo. Anche il figliuolo suo
diceva che ognuno a questo mondo faceva quello che doveva e perciò lui
si divertiva, mentre altri (il signor Aghios) soffriva. C'era sicuramente una
differenza! Ma dove?
Non protestò. Tutta quella
conversazione non gli sembrava una vera conversazione. Perché avrebbe
dovuto faticarsi a discutere? Si moveva la bocca così, per dar tempo al
treno di procedere.
Ella è dunque un
viaggiatore di commercio? domandò tanto per dire qualche cosa.
Macché! disse il Borlini
con disdegno per chi non meglio lo giudicava. Io sono l'ispettore viaggiante
di una società d'Assicurazioni.
Il signor Aghios
s'inchinò, come per congratularsi dell'alta carica. Ispettore! Era
tutt'altra cosa di commesso viaggiatore!
Si vedevano in distanza, sotto la
montagna, le luci di una borgata ai piedi di una collina. Luce tranquilla,
immota! Del resto una luce lontana è sempre tranquilla, è sempre
immota! Può soffiare il vento e, se non l'estingue, è come quella
delle stelle; brilla con la tranquillità di un colore (se ce ne fossero
di tanto brillanti). E per qualcuno in quella borgata doveva esserci il
turbine. Ma la lontananza è la pace.
Ma bisognava intanto muovere la
bocca e il signor Aghios disse delle altre bugie, senz'intenzione, per mancanza
di sorveglianza: Io non amo di lasciar sola la mia vecchia moglie.
So che vi sono degli uomini
fatti così disse l'ispettore guardando attentamente il signor Aghios
come se avesse voluto studiare un animale strano.
E l'Aghios insistette nella
bugia: Badi ch'io alla città non ci tengo affatto e che mi trovo
altrettanto bene a Milano che a Trieste. La questione è che non so vivere
solo.
E pensò: Guarda, guarda
pure, ad onta di tanto occhiale non ci capirai nulla. Stimo io! Se quello che
diceva doveva contare, era impossibile d'indovinarlo. E disse ancora ch'egli
amava la vita di famiglia. Cercò una parola più intelligente per
addobbare la bugia e la trovò subito: Egli amava la vita di famiglia ove
era necessario di pensare ora all'uno ora all'altro e mai a se stessi, alla
propria miseria. Parlava della propria miseria in un momento in cui
assolutamente non la sentiva, coi soldini in tasca pronti per le mance e il suo
affetto per tutti i deboli in cui s'imbatteva, il suo affetto tanto grande da
raggiungere anche delle persone che non aveva mai visto, come l'indimenticabile
Paolucci.
Il Borlini brontolò: La
mia vita di famiglia è tutt'altra cosa. Quando ci sono io tutti pensano
a me e così faccio anch'io, cioè penso a tutti loro. Quando
viaggio allora, naturalmente, lascio la libertà a tutti, ma spero che a
me si pensi. Io sono assorbito dagli affari e non penso che a questi. Ma
perché ci sono, gli affari? Non forse per la famiglia? Quando penso agli
affari, penso alla famiglia.
L'Aghios rimase ammirato.
Quest'era la presentazione del vero uomo normale! Non gli era simpatico. L'uomo
normale voleva che tutti pensassero a lui (e rivelò il suo vero pensiero
confessando, dapprima, che così faceva anche lui, per disdirsi, poi, con
una spiegazione che annullava la parola sfuggita). Forse tutti pensavano a lui
per augurargli la morte. Come era migliore lui, che non domandava niente. Non
gli pareva d'aver amato meno la propria famiglia perché non lo curava
abbastanza. No! Egli l'amava meno perché sentiva il bisogno della
famiglia maggiore, il mondo.
Fu una vera antipatia per il suo
interlocutore che lo trascinò ad una discussione. Non bisognava
permettergli di dire delle cose tanto ingiuste con quel tono di predicatore
sicuro di sé. Seccamente, con piena sincerità, egli disse: Io,
invece, quando sono in famiglia penso a tutti loro e spero che quando sono
assente tutti pensino a me. C'era la bugia nella seconda parte della
dichiarazione, ma questa era risultata da un'istintiva modestia. Temeva di
apparire troppo alto se avesse confessato che poco prima egli aveva desiderato
che sua moglie, durante la sua assenza, non l'avesse ricordato. Troppo alto?
Dicendo il suo intimo pensiero forse non avrebbe appartenuto tanto in alto.
Il Borlini si mise a ridere, di
un riso sonoro, a scatti, il rumore di un motore che savvia: Ma questa
è poesia; vera, futile poesia! Sarebbe ella forse un poeta travestito?.
Dapprima il signor Aghios senti
la parola come un'insolenza. Travestito? Ma poi guardò in se stesso con
curiosità. Egli credeva d'essere un uomo che desiderava tante cose non
permesse e che - visto che non erano permesse - le proibiva a se stesso,
lasciandone però vivere intatto il desiderio. Egli poi non ne parlava
neppure e stava facendo delle asserzioni che dovevano celare meglio - negandoli
- quei desiderii. Era perciò un poeta travestito? Se avesse cantato di
quei desiderii non permessi sarebbe stato un poeta non travestito. E negandoli?
Se per negarli avesse saputo elevare la voce fino al canto, anche negandoli
sarebbe stato un poeta. Che bestia quel Borlini! Come può travestirsi un
poeta? Tacendo? Non è un travestimento infatti ma perché il
silenzio pensò l'Aghios. Nella vita si può essere bestia quanto
si vuole, ma non un poeta se non si sa cantare la propria bestialità.
Disse con semplicità: Non
so neppure di quante sillabe si componga un endecasillabo.
Undici disse il Borlini. Lei,
greco, lo deve sapere. Si traveste ancora.
Ma che poeta disse l'Aghios,
ridendo un po' compiaciuto e un po' offeso. Pensi che io ora corro a Trieste
senza moglie e senza figlio per un affare urgente.
Non poteva aprir bocca senza dire
qualche parola di troppo. E trovò una verità da dire e la disse
subito, come se una parola vera potesse cancellare la vergogna di una parola
falsa: Si figuri se è un piacere viaggiare così, carico di
denari. E si batté la tasca di petto.
Il Borlini si mise a ridere
più a bassa voce, guardando con diffidenza verso il loro compagno che
ancora sempre sonnecchiava nel suo cantuccio: Anch'io ne ho del denaro in
tasca, e molto. Da lei è un'imprudenza, da me una necessità.
Il Borlini diventava veramente
aggressivo ed il signor Aghios sconcertato tacque. Dopo una pausa alquanto
lunga il grosso uomo riprese la parola in tono più di convinzione. Forse
s'era pentito del suo tono troppo aggressivo.
Pensi quello ch'io faccio per la
mia famiglia eppoi mi dica se in contraccambio non ho il diritto di esigere che
tutti i suoi membri pensino costantemente a me. Vi sono certi uomini a questo
mondo che lavorano come me, ma nessuno più di me. Questi viaggi non
possono essere considerati quali un riposo. Le pare?
Al signor Aghios pareva che fino
a quel momento in cui aveva incontrato il suo interlocutore, il viaggio fosse
stato veramente un riposo. Ora, costretto di dar continuamente ragione a
qualcuno che egli non amava, si sentiva afferrato da una famiglia e per di
più da una famiglia che non amava. Poté perciò consentire
con piena sincerità: No, assolutamente non è un riposo!. Non
era un riposo! Per godere del riposo bisognava aspettare Padova, varie ore!
Pensi poi alla
responsabilità che mi tocca assumere! Talvolta liquido io, da solo, un
danno! dall'a alla zeta! Apprezzazione del danno e accordo definitivo!
Naturalmente che so quello che faccio e mai ebbi ad incorrere in alcun
rimprovero. Oggi, per esempio, corro a Padova proprio per una cosa simile. Un
grossissimo cliente ebbe un incendio ed esigeva centosettantacinque mila lire.
A Milano proponevano di mandare dei periti, quegli ingegneri imbecilliti nella
matematica. Io dissi al direttore di provare d'incaricare me della liquidazione
e mi ripromettevo saldare tutto con centocinquantamila lire e conservarmi la
riconoscenza del cliente. Il direttore, che mi conosce, disse subito: Va bene!
Tentiamo questa volta noi, uomini d'affari, senza ingerenza di quelle bestie di
tecnici. Faccia lei!. Ed io partii dopo di aver messo nel mio portafogli
centocinquanta pezzi da mille lire. Guardi qua! e trasse dalla tasca di petto
un portafoglio gonfio, che aperse. Noi arriviamo a Padova troppo tardi per
riscuotere un vaglia e perciò mi carico di tutte queste banconote. Il cliente
sarà reso più mite, se vede le banconote in natura, e il grosso
uomo rise mostrando i suoi bei denti di carnivoro. eppoi, chissà che
una parte di queste banconote non ritorni alla Società? Il vaglia invece
è difficile di frazionare e non si potrebbe offrirne una parte alla
volta. Qui il signor Aghios poté competere coll'ispettore. Anch'io per
la mia famiglia assumo volentieri qualunque responsabilità. Nella mia
tasca di petto ho ... esitò per un istante, perché stava per
dire la verità, cioè trentamila lire; poi si ricredette e disse:
cinquantamila lire.
E non ha paura di portare tanti
denari con sé? Il signor Aghios s'arrabbiò: Se lei crede di
saper difendere centocinquantamila lire, io ne saprò certo difendere
cinquantamila!.
L'ispettore si mise a ridere di
un riso molto più gradevole di prima e l'accompagnò di
un'occhiata d'ammirazione pel signor Aghios. Una vera frase da poeta cotesta!
osservò.
Il signor Aghios si sentiva
solleticato nel suo amor proprio, ma tuttavia era in dubbio se aveva ragione di
non offendersi. Il poeta era un uomo che sapeva scrivere, ciò che il
signor Aghios non sapeva e, non sapendo fare delle poesie, il suo destino era
di falsare la verità, vedere aria dove c'era una parete e sbattervi la
testa. Fino a Padova non occorreva offendersi però; perché
convincere quel signore che non avrebbe rivisto mai più?
Eppure la loro recente relazione
doveva farsi più gradevole. Doveva dipendere dal fatto che l'ispettore
pensava di essersi presentato a sufficienza e che ormai poteva trattare, con
più semplicità. Intanto si preoccupò del denaro del signor
Aghios. Non dica più di avere quel denaro. Capisco che sono stato io a
fare il malanno. Ma io ho buon naso e subito compresi che con lei non c'era
pericolo. Quello lì, dorme della grossa. Ambedue si misero a guardare
il biondino pallido, sempre immobile nel suo cantuccio. Dormiva tranquillo e
giaceva sul guanciale come un pupazzetto di cera, scosso dai sobbalzamenti del
treno. Soltanto le narici del suo naso fine parevano allargate, quasi per uno
sforzo di lasciar passare maggior quantità d'aria. Da quei biondini
trasparenti le narici sembravano delle piccole ali. Ma poi il signor Aghios
ricordò un suo cavallo imbolsito, che tendeva le narici col solito
sforzo fuori di posto dei malati e mormorò: Dev'essere enfisematico.
Oramai il signor Aghios era
accorato per il ricordo del suo cavallino bolso. Nella malattia le bestie
somigliavano di più all'uomo. Solo a loro mancava la parola, cioè
la bestemmia che più attenua il dolore della malattia. Povere bestie. Il
cavallino soffriva e non lo sapeva, ma il suo affanno era molto umano.
L'ispettore aveva acceso il suo
toscano e per far dimenticare di essersi vantato di una regola ferrea,
gettò un complimento al signor Aghios: In buona compagnia si fuma di
più. Ed il signor Aghios fumò soltanto per restituire il
complimento.
Poi l'ispettore predicò e
fu molto noioso, ma la salvezza era a mano. Il treno faceva un rumore
indiavolato e bastava cessare dallo sforzo di stare a sentire per non sentire
più nulla. Tuttavia il signor Aghios sapeva quello che l'ispettore stava
dicendo. Parlava di politica ed asseriva che sarebbe bastato il buon volere di
tutti per trarre l'Italia da ogni difficoltà. Circa quaranta milioni di
buon volere. L'unanimità! Era troppo, mentre il signor Anghios (che si
sentiva greco) aveva osservato che quando due italiani si trovano allo stesso
tavolo, avevano la gran voglia di lasciarlo per non sentire più l'altro.
E lui stesso, ch'era italiano per la nonna e la madre, non avrebbe voluto
saltar fuori dal treno per non vedere più il signor ispettore?
E, mentre il signor ispettore
parlava, il signor Aghios restò ad analizzare il ricordo della propria
nonna. Com'era pallida. Una sola frase che forse gli era stata ripetuta da altri:
Il letto è una buona cosa, perché se non si dorme si riposa. Ed
una fotografia sbiadita di donna grassa, cadente, vestita a festa con vestiti
impossibili che la stringevano nella vita e le lasciavano la gonna larga. La
frase era altrettanto sbiadita e il signor Aghios non sapeva staccare la
fotografia dalla frase, né la frase dalla fotografia. Pareva insomma che
la fotografia avesse parlato. Perciò quella fotografia era più
espressiva di ogni altra. Poteva avvenire che quella donna si rimettesse a discorrere.
Ora il signor ispettore era
arrivato a parlare delle elezioni. Il signor Aghios, per cortesia, si
spostò in avanti per avvicinarsi all'oratore e sentì chiaramente
questa frase: Il voto... obbligatorio. Ritornò al suo posto subito.
Tutto era obbligatorio in questa
vita, anche di stare a sentire il signor ispettore. Se si divideva la vita
nella parte dedicata alle azioni e alle parole obbligate e in quella riservata
ai movimenti di libera iniziativa e ch'era quella che solo meritava il nome di
vita, come questa era meschina in confronto di quella. Il signor Aghios era
partito anelante alla libertà, ma sapeva che, di lì a qualche
giorno, della libertà ne avrebbe avuto abbastanza e avrebbe ambito di
riavere il suo giogo. Era così! La schiavitù non era solo un
destino, ma anche un'abitudine. Era bello avere la libertà nel momento
in cui ci si liberava, come aveva fatto lui che lasciava chiacchierare il
signor ispettore senza starlo ad ascoltare.
Ma l'ispettore lo guardò
ed egli di nuovo per cortesia savvicinò a lui per udirne la parola e
senti: In Italia ci sono troppi capi.
Il signor Aghios, rimessosi al
suo posto, seppe subito dimenticare che in Italia ci fossero troppi capi. Aveva
guardato fuori della finestra donde era proibito di augurare il bene ed era
stato colto da un'idea terribile: Lavvenire del mondo era di divenire tutto
un'unica, una sola città. Addio campagne, addio boschi, addio prati.
Come avrebbero mangiato tutti costoro? Chimicamente? Oh! Disgraziati. L'idea
colossale gli era venuta dalla vista di tre case coloniche con altre tre
più in là e due prima e infine altre quattro. Invadevano i campi!
Egli vedeva come fra tutte queste case se ne sarebbero messe delle altre e
tutte in fila. Ma però, quando il mondo sarebbe stato tutta una città,
lui, sua moglie e persino suo figlio avrebbero domandato poco posto. Era giusto
di tranquillizzarsi con tanto egoismo? Non sarebbe stato meglio di soffrire per
i posteri? Il signor Aghios sorrise. Il mondo era costruito tanto bene che
certi dolori sono impossibili.
In seguito ad un altro richiamo
dell'ispettore il signor Aghios arrivò a sentire ancora: In conclusione
io pretendo che il cittadino si scelga un Governo, eppoi non s'ingerisca di
altro. Questa è la vera libertà. Sì! Questa era la
libertà! Venticinque anni prima il signor Aghios s'era, scelta la
consorte. Quale gioia quando, vincendo ogni difficoltà. egli era
arrivato a dirla sua, trovando naturale che, in compenso, egli appartenesse a
lei. Egli era stato felicissimo. Oh! tanto! Nella grande libertà del
viaggio egli tuttavia pensò che se venticinque anni prima, invece che
sentire il bisogno di sposarsi, egli avesse sentito l'istinto del malfattore e
l'avesse soddisfatto con un omicidio, certo a quest'ora, a forza di amnistie,
egli sarebbe stato del tutto libero, magari di viaggiare.
Nel pensiero solitario non c'era
nulla di compromettente ed il signor Aghios con un sorriso continuò a
vedersi nella veste di un malfattore liberato. È certo che, abitudinario
come egli era, avrebbe avuto un desiderio intenso di ritornare alla galera,
come fra poco avrebbe anelato di rimettersi sotto la protezione della moglie e
soprattutto andare a proteggere quello scervellato di suo figlio, insomma il
ritorno alla sua galera. E del resto che cosa poteva rimproverare a quella sua
cara (oh! tanto cara!) moglie? Assidua lavoratrice, economa, bella, aveva
vissuto alla lettera per lui. Certo lo seccava (ed il signor Aghios sorrise di
nuovo) che quand'egli trovava bella una donna, essa subito interveniva a
criticarne il naso o la figura. Eppoi essa lo accettava e amava com'era fatto,
ma troppo spesso lo incitava di essere meno distratto e più accorto.
Insomma veniva costantemente esercitata una pressione su di lui ed egli ora, in
viaggio, libero, tentava di ritrovarsi intero. Certo, doveva riconoscere che la
pressione non era tanto grave quanto quella che su lui tentava di esercitare
quel signor ispettore viaggiante...
A proposito! L'ispettore, che per
parecchio tempo era rimasto a guardare fuori della finestra in un sogno vago,
quasi fosse alla ricerca di ulteriori idee politiche, s'era abbandonato sul
sedile e dormiva russando leggermente.
Di gusto il signor Aghios si mise
a ridere e al suono del suo riso l'ispettore non si mosse affatto. Era un bravo
uomo quest'uomo d'affari, che si diceva tanto accorto e che dopo di aver
raccontato pubblicamente di tener in tasca centocinquantamila lire si metteva a
russare. Il signor Aghios si sentì sollevato, come quando trovava la
moglie in sbaglio di distrazione. Questo predicatore qui era veramente
ridicolo! La vendetta del signor Aghios sarebbe stata più completa se
gli fosse stato permesso di rubare quelle banconote. Sarebbe stata una grande
soddisfazione di andarsene con quelle centocinquantamila lire. Peccato non essere
un ladro! E il signor Aghios, senza nessuna intenzione di attuarlo,
studiò il piano per arrivare a quel portafogli da cui avrebbe preso il
denaro e anche le carte d'affari, per distruggere queste ultime, visto che
bisognava dare una lezione completa a quel grand'uomo. Era tanto semplice!
Bisognava sbottonare la giubba chiusa da un bottone solo e, arrivato al
portafogli, estrarlo lentamente secondando il movimento del treno.
Il biondino nell'altro cantuccio
si agitò, come se nel sonno avesse avuto un incubo.
Non ce ne sarebbe stato di
bisogno, perché il signor Aghios mai più avrebbe proceduto ad
attuare il piano. Il suo pensiero era tanto libero precisamente perché
ogni attuazione ne era lontana. Libero veramente, il pensiero non può
essere che quando si muove fra fantasmi. Anche quella giubba e quel bottone in
realtà potevano essere più duri di quanto egli sognasse.
Il signor Aghios sorvegliò
il biondino, per non sognare neppure il suo delitto prima che l'altro non
dormisse.
Ma allora un altro pensiero lo
agitò. Si doveva essere vicinissimi a Padova. E se l'ispettore avesse
continuato a dormire? Finché dormiva meno male, ma se si fosse destato e
avesse continuato a procedere fino a Venezia? Altre prediche, gran Dio!
In quel momento per buona fortuna
venne il conduttore a rivedere i biglietti.
Il biondino diede il suo ed anche
l'ispettore si destò e subito domandò: Quando arriviamo a
Padova?.
Fra dieci minuti! rispose il
conduttore.
Meno male. Dieci minuti di
predica si potevano sopportare.
Ma il signor ispettore s'era
destato di malumore. Non aperse bocca per cinque minuti. Poi si rizzò
con risoluzione ferrea e trasse dalla rete la sua valigetta che pose accanto a
sé. Guardò poi fuori della finestra e il signor Aghios
guardò anche lui nella stessa direzione, con l'unica cortesia che
l'ispettore gli permettesse. Il cielo s'era coperto di nubi nere ed il sole del
tramonto, invisibile, illuminava la loro parte inferiore, che pareva composta
di piante leggere, luminose d'argento, d'oro e di qualche metallo sconosciuto,
trasparente e irrorato di luce propria.
Pioverà mormorò
lispettore di malumore.
Non sempre piove quando il cielo
ha quest'aspetto, denso e nero, con propaggini luminose disse il signor
Aghios, tentando di ridare il buonumore all'ispettore o forse per incoraggiarlo
ad andarsene, come se la pioggia avesse potuto indurlo a fermarsi nel treno.
Infatti l'ispettore parve
contento. Lei se ne intende del tempo e per la prima volta guardò il
signor Aghios con grande rispetto.
Non tanto! disse il signor
Aghios con modestia. Però osservai spesso che il sole, al momento di
partire, s'ammanta, quasi volesse nascondervici, di dense nubi che poi, quando
non vi è più bisogno di loro, spariscono.
Il signor ispettore fece tre cose
in una volta: Sbadigliò, sorrise e disse: Poeta. Soltanto che la e
di poeta divenne una a larga come quella bocca.
E quando l'ispettore dopo un
breve saluto partì, il signor Aghios pensò che il maggior frutto
del suo viaggio era la scoperta di essere un poeta.
Allora, da Padova a Mestre, fu la
piena libertà. Il biondino nel cantuccio continuava a dormire e
così il signor Aghios ebbe, per essersi staccato dal signor ispettore,
lo stesso senso di libertà come quando s'era staccato dalla moglie. E
questa libertà si precisò in parecchie osservazioni. Su un campo
vide lavorare insieme un uomo e una donna. Non vide che una fisonomia
sorridente di giovine donna, perché la corsa del treno non gli diede il
tempo di vedere anche l'uomo. Potevano essere brutti o belli, ciò non
importava. Non si poteva essere sicuri se erano sposati. Quello che era certo,
era che lavoravano insieme, ma che si amavano o meglio che formavano quella
società sessuale in origine, che doveva degenerare in una società
d'interessi abbracciante il campo su cui lavoravano e la casetta, molto lontana
forse, dove dormivano. Che truffa colossale! Venivano presi con dolcezza,
avvolti nel loro proprio calore naturale e coperti di catene senza che se ne
avvedessero. Se il signor Aghios non si fosse trovato in viaggio, dei due che
lavoravano cantando sul campo non avrebbe osservato altro che l'aspetto della
donna, per compiangere o invidiare il marito. Anche lui, coperto da catene, non
sapeva vedere più in là del naso, mentre ora, in viaggio,
assurgeva fino a vedere nel destino dell'uomo quello di tutti gli animali
domestici. I polli non venivano mica trattati brutalmente. Anzi, veniva
propinato loro il cibo che meglio loro si confaceva. Il male era che ad un dato
momento venivano sgozzati.
Ed una seconda, benché
orribile visione diede ancora la prova dell'altezza del pensiero del signor
Aghios. Una donna vecchia, molto grassa, faceva da cantoniera poco prima di
Mestre. Pareva che il petto, molto grosso, le rendesse difficile di stare
eretta. E il signor Aghios seppe indignarsi di quello che gli parve la massima
ingiustizia fra le tante che facevano le leggi di questo mondo. Gli organi
sessuali secondari della donna, le piante più deliziose del mondo,
troppo spesso degeneravano in modo da torturare coloro cui non servivano
più. Ed il signor Aghios ricordò che. poco prima di partire,
aveva visto una cosa simile ed era passato oltre mormorando: Ammazzarla!.
Tanto il suo pensiero s'ingentiliva nella solitudine!
Al momento di lasciare Mestre il
biondino nel cantuccio si mosse, tese i bracci per sgranchirsi, come se fosse
uscito da un sonno profondo, e mormorò chiaramente: Come i sogni sono
belli! Peccato lasciarli!.
Fu un'avventura enorme nel
viaggio del signor Aghios di sentirsi dire una cosa simile da uno sconosciuto.
Veniva improvvisamente ammesso nell'intimità di un proprio simile
sconosciuto. Con costui non occorreva mica fumare per accostarlo.
Volle ripagarlo di uguale moneta
consegnando anche lui qualche cosa della sua intimità. Io so sognare
anche senza dormire disse sorridendo.
Eh! sì! disse con
tristezza il biondino, si può! Quando la realtà non è
troppo forte e si può dimenticare. Guardò sorridendo il signor
Aghios. Questo sorriso, che seguiva a quelle parole, certificava la loro relazione
già divenuta più intima di quelle che di solito si fanno
nellozio del viaggio. Si conoscevano intimamente. Il signor Aghios era un uomo
felice, la cui realtà spariva quand'egli chiudeva gli occhi. Il
giovinetto invece era un uomo torturato che per obliare doveva abbandonarsi al
sonno. Due destini o forse due caratteri.
Il signor Aghios, nel suo
sentimentalismo da viaggiatore ozioso, corse ad aiutare: Voi, giovini disse
molto spesso attribuite troppa importanza a cose, che non ne hanno. Guardi!
Non volendo dormire troppo, per togliere importanza alla realtà basta
pensare una cosa sola: Che cosa sarà di noi due di qui a cent'anni? Non
ci sarà che la calma e perciò è facile di anticiparla. Di
tutte le cose che a noi dintorno si muovono, non si moverà che questo
vagone, perché la Ferrovia dello Stato tarda molto a mettere in pace le
cose.
Il biondino rise e aggiunse anche
la sua approvazione ad alta voce: Sì, la Ferrovia dello Stato è
molto economica. Poi si raccolse per trovare la risposta da dare. Infine parve
ritirarsi nel proprio guscio, come se fosse pentito di discutere con uno
straniero, e con un'occhiata molto eloquente, timida e supplice, disse al
signor Aghios: Per giudicare bisognerebbe lei sapesse tutto e non si
può. Guardò fuori della finestra i primi canali della Laguna.
Il signor Aghios ammonì se
stesso come talvolta soleva: Bada di non intrudere! . Volle anche informare
il giovinetto che non gli teneva rancore perché non voleva confidarsi a
lui e disse, guardando anche lui fuori della finestra: La Laguna qui sembrerebbe
intaccare la terra ferma ed è invece la terra ferma che aggredisce la
laguna. Guardi quei piani fangosi screpolati che giacciono all'aria. Neppur
dieci anni fa erano ancora coperti di acqua. E per lungo e per largo il signor
Aghios raccontò della lotta secolare fra laguna e terra ferma e delle
spese e fatiche che implicavano la conservazione della laguna. Perciò
Venezia non poteva sopportare un secondo ponte con la terra ferma,
perché ogni piuolo piantato nel fondo della Laguna adunava intorno a
sé la fanghiglia, che altrimenti sarebbe andata via, e costituiva una
nuova aggressione alla Laguna.
Era un nuovo vantaggio del
viaggio per il signor Aghios. Egli sapeva da lunghi anni la storia della Laguna
moribonda, che minacciava di finire, come quella di Ravenna, ma il male era che
anche sua moglie la sapeva, avendo abitato con lui a Venezia e sentito lui
parlarne tante volte. Il suo interlocutore invece, benché certamente
veneto, della Laguna non sapeva nulla e stava a sentirlo con gli occhi spalancati,
mormorando a mo' di scusa: Io, a queste cose, non ci pensai giammai,
perché ho da lavorare ogni giorno. Ed il signor Aghios, sentendosi
pervaso dalla gioia di poter raccontare, insegnare e inventare (non era mica
vero che fosse occorso di deviare tanti di quei fiumi per proteggere la
laguna!), non poté far a meno di ricordare che una persona che lo
conosceva pochissimo, poco prima lo aveva designato di poeta. Come si
scoprivano cose e persone in viaggio!
Il biondino sospirò: Dio
sa quello ch'io farò a Venezia fino alla mezzanotte, l'ora del mio
treno.
Anche lei parte alla
mezzanotte? domandò il signor Aghios.
Sì disse il biondino.
Vado per un affare a Gorizia e domani ritorno a Udine.,
E allora vuole che attendiamo il
treno insieme? Io devo andare in piazza San Marco per una mezz'oretta. Se vuole
tenermi compagnia, io la invito!
Il senso dell'ultima
dichiarazione non ammetteva dubbio. Parve che il biondino volesse sottolineare
l'evidente significato. Io la ringrazio della sua generosità, ma non
vorrei disturbarla.
Doveva conoscere bene il signor
Aghios, quel biondino. Con quella sua risposta aveva proprio messo la firma a
un contratto ed il signor Aghios aveva la religione del contratto. Quando egli
aveva detto una parola vi si sentiva legato e inchiodato. Ora egli la parola
d'invito l'aveva detta e l'altro aveva fatto segno di averla intesa. Non c'era
la possibilità di ritirarsi.
Perciò il signor Aghios
insistette. L'altro non ancora accettò. Oramai ci si trovava in piena
laguna. Da lontano si vedevano le luci di Murano che il signor Aghios tanto
bene conosceva. Si fermò dall'insistere per parlare al suo nuovo amico
di Murano e dei suoi vetri.
IV. Venezia
Uscirono dalla stazione dopo di
aver messo le loro due valigette nel deposito contro una sola ricevuta.
Il signor Aghios aveva un piano
ben definito. Avrebbe voluto andare col vaporino fino alla Riva del Carbon e da
lì a piedi - per sgranchirsi un poco - a S. Marco. Era del resto l'unica
via di Venezia che il signor Aghios avrebbe saputo camminare da solo e il suo
compagno era a Venezia per la seconda volta, ma non ne sapeva gran che.
Si avviarono dunque al vaporino.
Già il signor Aghios stava per presentarsi alla cassa, accompagnato dal
suo nuovo amico che oramai lo seguiva senza aver ancora decisamente accettato
il suo invito, quando si sentì chiamare: Signor Aghios! . Si volse.
Era Bortolo, il gondoliere di Murano. Il signor Aghios lo salutò con
grande affabilità: Come va? Hai venduto la gondola, che sei qui con la
vita?.
Il gondoliere, un uomo sulla
cinquantina, alto e magro, tutto nervi e muscoli, la faccia rugosa illuminata
da due occhi azzurri giovanili, fu affettuoso e cortese e, prima di rispondere,
domandò notizie della salute del signor Aghios, poi della signora Eleonora
e infine dei figliuolo. Poi, appena, dichiarò che la gondola era
laggiù a sua disposizione: Vorla degnarse? Andemo a S. Marco.
Il signor Aghios rise e propose
di fare le condizioni. Domandò quanto avrebbe dovuto pagare per avere la
gondola a disposizione fino alla mezzanotte, l'ora del suo treno.
Bortolo non volle fare delle
condizioni. Era sempre così. Poi era difficile di contentarlo quando
aveva compiuto il suo servizio. Quella gondola era simile a un locale di
divertimenti, di cui il signor Aghios aveva sentito parlare, dall'ingresso
libero visto che si pagava all'uscita.
Ma come sempre il signor Aghios
s'adattò. Prima di parlare aveva preveduta la risposta, ma aveva voluto
parlare anche lui per essere meglio armato per il momento in cui si sarebbe
arrivati al pagamento.
Invitò il suo giovine
amico a seguirlo e, guidati da Bortolo, scesero all'imbarcadero. Bortolo
saltò in una peata, poi in una gondola e infine in un'altra ch'era la
sua. Si rizzò con l'aspetto di un generale su un campo di battaglia e
cercò il posto necessario per moversi e arrivare alla riva. Gridò
a un suo vicino di moversi, ma l'altro dimostrò con parole vivaci di non
poterlo fare. Infine Bortolo prese la sua decisione. Disse: El sior Aghios xe
abituà alla laguna e lo go visto far tuto el Tio della Canonica saltando
de barca in barca. Lu po' (e si rivolse all'ignoto amico del signor Aghios) non
so come che el se ciama, ma so che el xe zovine e el pol anca lu far sto salto.
Vegno a aiutarli. Ritornò alla prima barca ormeggiata alla riva e
s'inginocchiò a poppa per offrire il suo braccio saldo in appoggio al
signor Aghios che con facilità montò sulla peata. Fu seguito dal
compagno un po' esitante. Più difficile fu il passaggio sul leggero
sandalo che pur bisognava varcare. Anzi il giovine fu in procinto di cadere in
acqua e trascinare seco Bortolo. Fu un brutto attimo da cui Bortolo uscì
illeso e il giovanotto si fece male al ginocchio che era andato a battere
sull'orlo del sandalo.
Bortolo non finiva più di
esprimere il suo dispiacere per l'avvenuto. Diceva che non aveva saputo di aver
da fare con un uomo che non conosceva le barche. Me dispiase tanto. So che
dolor ch'el e de fracassarsi l'osso sacro del zenocio.
Il nuovo amico del signor Aghios
s'era accomodato nella gondola e si fregava ancora il ginocchio.
Mormorò: Non fa nulla. È stato proprio per colpa mia. Avrei
dovuto far meglio attenzione. E al signor Aghios, che anche lui s'informava
come si sentisse, disse che non valeva la pena di parlarne.
Poi, mentre la gondola s'avviava
sull'acqua trasparente, illuminata dagli ultimi bagliori dimenticati del sole
già sparito, una sorpresa dolce, una carezza, venendo dal lungo viaggio
traverso la campagna autunnale, il signor Aghios diede ordine a Bortolo di
portarli in piazza per la via più breve. Al ritorno sarebbero passati
per il Canal Grande.
Io mi chiamo Giacomo Aghios
disse il signor Aghios volgendosi al suo vicino. Probabilmente era stato spinto
a questa presentazione dall'osservazione fatta poco prima dal gondoliere
dì non sapere il nome del giovanotto.
Questi strinse la mano portagli
dall'Aghios ed esitò per un istante. Ma poi l'esitazione fu spiegata:
Strano! Anch'io mi chiamo Giacomo. Giacomo Bacis. Il nome rivela la mia
origine friulana. Anche il suo mi pare?.
No! No! disse il signor Aghios
ridendo di cuore. Io discendo da una razza molto più antica della
celta.
Greca? domando il Bacis
ammirando.
Il signor Aghios annuì.
È comodo disse di appartenere ad un'altra razza. Così è
come se ci si trovasse sempre in viaggio. Si ha il pensiero più libero.
È così che quando si tratta di modo di vedere italiano io non
sono d'accordo neppure col modo di vedere greco. L'ultimo greco col quale fui
d'accordo è Socrate.
Io disse il Bacis, sono di
quei friulani che sanno due lingue e un dialetto. Sono in viaggio anch'io.
Rise per la prima volta dopo la stazione di Milano di un riso abbondante, quasi
infantile, che lo portò subito più vicino al cuore del signor
Aghios, il quale anche pensò: Com'è intelligente il mio nuovo
amico. Immediatamente intese intera la teoria che fa del viaggiatore una
persona di eccezione, mentre io per elaborare un concetto tanto semplice
impiegai quasi 60 anni.
Passato il Ponte della Ferrovia
poterono gettare un'occhiata al grande canale. La modestia della penombra
crepuscolare su quell'acqua e su quei marmi ne rilevava il colore e la linea.
Subito entrarono nel rio dove le forme grandiose del canale si riducevano e
variavano in motivi capricciosi ch'erano la continuazione, anzi, la
integrazione della forte melodia che non ancora aveva liberato i loro sensi.
Davvero a Venezia si può credere che di tutte le costruzioni grandiose
siano avanzati dei pezzi e che tali pezzi siano serviti a costituire piccoli
organismi, che all'altro somigliano nel dettaglio e ne differiscono
radicalmente nell'espressione.
E la gondola della benevolenza
(perché c'era lui, il signor Aghios, e il suo nuovo amico che egli
sottraeva ad una grande tristezza e il gondoliere che tanto volentieri per lui
vogava) procedeva nel rio oscuro, misterioso, allargantesi ora per una vasta
marmorea scala d'approdo, ora ristretto fra mura sormontate dal verde, ancora
evidente nell'oscurità, di alberi incredibilmente vivi nell'ambiente
dell'acqua salata e delle pietre.
Magnifico! mormorò il
Bacis.
All'Aghios batté il cuore
dalla compiacenza. Era come se gli fosse stato indirizzato un ringraziamento
vivissimo, il più fervido che la nostra lingua comporti. E a sua volta
egli mandò un saluto riverente agli antenati pirati che sulle loro
piccole piroghe erano corsi per il mondo a cercare oggetti preziosi per
portarli nella loro strana casa e disporli in modo da renderli tutti ugualmente
preziosi. Chi sa donde era venuta quella pietra bianca che nel rio scuro
segnava dinanzi ad una porta l'altezza dell'acqua. Era possibile che in mezzo
al combattimento il pirata si fosse fermato a guardare quella pietra
intensamente, ricordando la propria abitazione dormente nel rio tranquillo e si
fosse caricato del grosso oggetto solo per disegnare sulla casa già
completa una linea nuova?
Il signor Aghios aveva una
nozione molto superficiale della storia di Venezia e di Venezia stessa.
Perciò con tanta facilità la sua scienza si convertiva in un
sentimento. Anche dagli altri greci ogni ignoranza aveva creato il premio. Egli
sapeva il nome di qualche palazzo, ma specialmente sapeva la differenza fra
palazzi giacenti nei rii e quelli del Canalazzo dall'unica facciata adorna;
magnifici quelli, alcuni però tronfi, in lotta con la magnificenza del
loro contorno, mentre nei rii i palazzi erano quadrati e completi e
s'adagiavano nel contorno, sua parte evidente. Non conosceva Venezia, ma la
teoria su Venezia.
Poi il signor Aghios si
dimostrò veramente incapace Cicerone. Era stato preso da un vivo
desiderio del Rio di Noal, ch'egli non vedeva da vari anni e, in mezzo ai tanti
rii per cui passarono e persino quando giunsero dinanzi alla Salute e a S.
Marco, continuò a parlare di quel rio ampio, tranquillo e modesto, che
non era stato addobbato da nessun altro che dalla propria vita tranquilla, la
propria necessità di bellezza.
Andiamoci! propose a mezza
voce il Bacis.
Non si può disse
sospirando l'Aghios. Adesso sono le otto. Perderemo sicuramente una mezz'ora
in piazza. Poi ci vorrà, con questo benedetto Bortolo, più di
un'ora per arrivare alla stazione e infine bisognerà anche mangiare
qualche cosa, perché di notte con quel nostro treno non troveremo nulla
fino a Trieste.
Del resto e nell'intimo
dell'animo suo il signor Aghios lo riconobbe. Non sarebbe stato bene di vedere
quella sera il Rio di Noal. Così desiderato da lontano, posto al disopra
della piazzetta e della vista su S. Giorgio, diventava una cosa enorme. Lo
adornava il desiderio e anche l'impossibilità di raggiungerlo.
E davanti al palazzo dei dogi il
signor Aghios parlò ancora dellunico ponte di legno che fosse a
Venezia, situato anche quello nel suo rio... Poi egli stesso s'avvide che non
era possibile di continuare a parlare del Rio di Noal a chi non l'aveva mai
visto e stava guardando la Chiesa di San Marco intento e raccolto.
Poi il signor Aghios parlò
del quarto d'ora terribile di Venezia, non durante la guerra, ma molto prima,
alla caduta del campanile, e descrisse il terrore che aveva provocato lo stato
del Palazzo, l'allontanamento della Biblioteca e la chiavatura delle mura che
danno sul Rio della Canonica, fasciature che rappresentavano il pericolo enorme
e anche un dolore come di mal di denti.
Il signor Aghios propose al Bacis
di lasciarlo dinanzi alla chiesa intanto ch'egli avrebbe fatto un salto alle
Mercerie per eseguire la sua missione. E avviandosi il signor Aghios con piena
sincerità pensò: Egli vedrà Venezia meglio se lasciato
solo. Già io, il poeta, non so dire nulla che valga a comunicare le mie
impressioni. La storia non la so, lo stile non conosco. Dunque?. E
ammirò che bastava la compagnia prolungata di un solo uomo per
togliergli la grande libertà del viaggio. Ci poteva essere meno
libertà che quella di essere costretto di parlare di cose che non si
sapevano? E poi pensò: Non sarebbe perciò stato meglio di
dividersi dal suo nuovo amico?. Gli sarebbe stato doloroso, perché egli
era l'uomo dalle affezioni improvvise. E si levò dal dubbio pensando che
per lui era meglio di passare la notte con persone che conosceva. Si toccò
la tasca di petto.
Il signor Meuli, un uomo sulla
cinquantina tuttavia biondo, ma calvo, grosso e curvo, era nella sua bottega
occupato a fare qualche cosa di simile al bilancio della giornata in compagnia
di un commesso. Esaminava delle annotazioni minute su un piccolo pezzo di
carta, intanto che il commesso contava dei brillantini sciolti in una scatolina
divenuto.
Vedendo entrare l'Aghios non
sospese il lavoro, ma tenendo sempre d'occhio la cartina e il commesso gli
domandò: Qual buon vento ti porta?.
Il signor Aghios gli disse la
missione da parte della moglie. Gli portava così un affare di oltre
centomila lire, ma non parve che il Meuli ne fosse molto felice. Anzi assunse
lui un faruccio di protezione e dichiarò: Sono ben contento di non
essermi impegnato per quel vezzo di perle. Allora resta stabilito così!
Metto in disparte quel vezzo di perle per l'amica di tua moglie e non se ne
parli più. Poi: Ti fermi a Venezia?. L'Aghios gli rispose che doveva
partire a mezzanotte.
Con quel treno merci?
esclamò il Meuli stupito.
Non si poteva fare altrimenti.
Arrivai a Venezia alle 20 e il treno celere per Trieste era partito alle 18. Io
debbo essere a Trieste domattina di buon'ora.
Il Meuli lo guardò
ridendo. La persona dell'Aghios gli pareva tanto lenta, che gli pareva impossibile
fosse spinta a tanta fretta.
L'Aghios uscì da quella
bottega un po' stupito di aver trovato il Meuli più curvo del solito e
anche più cereo. Che stia male? Era un uomo tanto occupato a far denari
che poteva anche morire senzaccorgersene.
Già la morte era il
presupposto della vita e quando si trattava di un uomo come il Meuli non
bisognava dolersene troppo. Non che l'Aghios gli augurasse la morte, tanto
più che il posto lasciato libero dal Meuli sarebbe stato occupato da un
altro Meuli, ma questo Meuli qui non aveva nessuno che lo avrebbe rimpianto
troppo acerbamente. Lasciava alcune povere sorelle che finalmente con la sua
morte si sarebbero arricchite.
Il Meuli era stato compagno di
scuola nelle elementari a Trieste. Poi aveva cominciata una sua vita
avventurosa traverso tutto il mondo. Egli non amava parlarne molto, ma si
diceva ch'egli fosse stato persino aguzzino di schiavi sull'isola di Giamaica.
Insomma era ritornato a Trieste senza un soldo e scalcinato. Portava con
sé qualche cosa d'altro: Sapeva parlare correntemente sette lingue senza
saperne scrivere una sola. Il signor Aghios, che pur sapeva l'inglese, rimase
stupito al sentirlo discorrere in quel linguaggio con un cliente. Come
pronunzia pareva che la parola uscisse da una bocca anglo-sassone. Era
probabile ch'egli non conoscesse che quelle poche parole che proprio gli
occorrevano, per salutare e imbrogliare, ma era tuttavia meraviglioso per il
signor Aghios che studiava da tanti anni l'inglese e che quando apriva la bocca
era come se l'avesse tenuta chiusa perché nessuno l'intendeva.
Il moderno pirata aveva portato a
casa anziché il sasso con cui addobbare la propria casa, sette lingue
con cui costruirla. Ma bisognava trovare il modo di sfruttare le sette lingue
in luogo ove non fosse domandato di saperle anche scrivere. E con occhio da
uccello da preda il Meuli scoperse il punto del globo più internazionale
del mondo, piazza S. Marco. Bisognava calare colà. Ma non era facile,
perché sarebbe stato grave arrivarci così e senza un soldo in
tasca. Qui intervenne l'Aghios con una di quelle sue buone azioni che gli
scaldavano la vita: Regalò al Meuli alcuni suoi vestiti, un paio di
stivali e della biancheria e contribuì anche a rifornirgli le tasche.
Passarono degli anni e il Meuli
fece la carriera chiacchierando con gli stranieri un centinaio di parole per
ogni lingua e vendendo loro dapprima dei merletti e poi dei brillanti. Un bel
giorno il signor Aghios ebbe per un istante l'animo pieno di gratitudine per
sua moglie. Ciò gli avveniva qualche volta. S'accorgeva d'aver pensato
poco a lei e nello stesso tempo ch'essa per lui assiduamente aveva lavorato.
Quella volta però il caso volle, ch'egli si trovasse in tasca più
denaro del solito. Decise di darle in regalo un vezzo di perle. Non s'intendeva
affatto di quegli oggetti il signor Aghios, ma ebbe una trovata: il Meuli era
tale suo vecchio amico e gli doveva tanto ch'egli di lui poteva fidarsi. Gli
commise perciò l'acquisto e quando il gioiello arrivò lo
presentò senz'altro alla moglie. La signora Eleonora gradì il
dono, ma nello stesso tempo in cui ringraziò il marito volle saperne il
prezzo e urlò subito che il Meuli l'aveva truffato. Quel vezzo di perle
rappresenta un'adunanza di perle gobbe dalla gobba di tutte le varie grandezze
e in tutte le direzioni.
Il signor Aghios s'adirò e
corse a Venezia. Riebbe con facilità i suoi denari ma non gli
bastò e volle delle spiegazioni dal Meuli, il quale infine, con una
certa tristezza, gli disse che i gioielli non si comperavano per lettera. Specialmente
per le perle non bastavano pesi e misure. Ricevendo un ordine simile, l'animo
di un vecchio gioielliere naturalmente accettava il raro dono che la
Provvidenza gli offriva.
Finché l'affare non fu
liquidato, del beneficio antico che il signor Aghios gli aveva reso non fu
parlato, ma una volta il Meuli ardì di vantare la sua grande correttezza
per cui subito aveva accettato di annullare un grande affare conchiuso. Il
signor Aghios non poté sopportare in silenzio una cosa simile e gli
ricordò il suo beneficio che al Meuli aveva reso possibile di calare a
Venezia ad afferrare il suo bottino. Il Meuli socchiuse gli occhi come se
avesse voluto costringerli ad un grande sforzo per penetrare nella notte dei
tempi. Si ricordò e sorridendo disse: Era a quel tuo beneficio ch'io
dovevo la preferenza che volevi accordarmi? A questo mondo la più bella
posizione è quella di essere un beneficato.
Il signor Aghios rimase incantato
dall'osservazione acuta e conservò la sua amicizia all'amico
sconoscente. Costui, evidentemente, almeno in una lingua, sapeva dire delle
cose fini. Però, quand'ebbe a trattare con lui degli affari, tenne gli
occhi aperti. Così fra loro due tutto fu chiaro e la loro amicizia non
s'offuscò per la brutta avventura.
Il Bacis era nel mezzo della
piazza tuttavia ammirando e l'Aghios lo raggiunse.
Adesso propose c'imbarchiamo
sulla nostra gondola e facciamo una gita magnifica fino alla stazione.
S'avviarono. Della storia di
Venezia l'Aghios sapeva con precisione una cosa: L'incendio del palazzo ducale e
la sua data. Era stato rifatto in furia? Avviandosi alla piazzetta l'Aghios
pensò: Dovrò pur verificare se sono bene informato. Dinanzi a
quella leggiadra costruzione, una festa che nessuno penserebbe contenere anche
la tristezza dei piombi e dei pozzi, l'Aghios fece osservare al Bacis la
disformità fra finestre e finestre e il grande balcone al centro. La
parte più ricca era quella ch'era stata risparmiata dall'incendio.
Avevano voluto risparmiare nella ricostruzione o avevano inventato qualche cosa
di nuovo? Certo non avevano cercato di celare tale disformità,
perché appariva già dalla posizione, della nuova costruzione. Oh!
come l'Aghios amava quel palazzo in cui gli pareva che si fosse sposata Venezia
sontuosa e Venezia modesta! Ecco un'opera ch'era diventata intera per effetto
di una forza naturale: Il fuoco. Ed un ministro d'Italia aveva proposto di
rifare il palazzo com'era prima dell'incendio, ma chi accanto al palazzo era
cresciuto vi si era rifiutato. Oggidì, se vi fosse un incendio a Venezia
o altrove, non vi sarebbe altra salvezza che ritornare al disegno antico come
si fece col campanile, ma prima? Prima l'incendio non poteva essere che
un'occasione a variazioni sull'antica pianta, viva ancora tanto da saper
ricrescere.
Montarono in gondola aiutati
dall'uomo del bastone, sempre pronto a Venezia in tutti i traghetti. Il pesante
signor Aghios fu ben lieto dell'aiuto e beneficò sorridendo il buon uomo
che si dimostrò molto servizievole. Quando fu seduto accanto al Bacis
gli disse: Quest'uomo del bastone è una vera necessità di
Venezia e, come tante altre cose di Venezia, a chi non la conosce pare
superflua.
Come passarono il signor Aghios
disse i nomi dei palazzi che conosceva. Più volte fu corretto da
Bortolo, che dallalto seguiva la conversazione come se fosse stato seduto in
gondola. Il mezzo più lento di locomozione di questo mondo è la
gondola a un remo, perché una parte della forza del gondoliere va spesa
nell'arresto e si procedeva lentissimi, non più presto che in un museo.
Al signor Aghios non
importò affatto di dover apparire - causa le correzioni del barcaiolo -
meno dotto. Egli aveva nel suo animo altre ricchezze di cui non gl'importava di
parlare. Nel silenzio del Canalazzo s'imprimeva indelebile nel suo animo quella
notte oscura, ma dalla luce ancora sufficiente per vedere le tante cose che
brillavano. E fra tutte brillava anche quella barca della benevolenza con
Bortolo, giovanile e sicuro, infitto perpendicolare a poppa e quel giovanotto
accanto a lui, cui egli aveva saputo procurare una mezz'ora di svago dal suo
grande dolore. Non di più, perché poco prima il Bacis aveva
emesso un sospiro che somigliava ad un singhiozzo. L'Aghios aveva trasalito a
quel suono di dolore. Rimase un momento incerto se doveva usare una parola di
conforto, ma poi preferì di tacere. Non bisognava intrudere.
Ora il Bacis s'era abbandonato
nella gondola come poco prima nell'angolo del vagone ferroviario. E per lungo
tempo tacque. Sorprese e commosse il signor Aghios con una perorazione che
doveva aver pensato per lungo tempo: Certo io non sono la compagnia che lei,
signore, meriterebbe. È questa la giornata più triste della mia
vita e non dimenticherò mai più ch'ella, con la sua bontà,
volle rendermela più sopportabile. Se lei non fosse intervenuto io
m'aggirerei adesso attorno a quella triste, tristissima stazione.
Eh! No la xe tanto trista quela
stazion! intervenne Bortolo di buon umore. Basta saverse orizontar! Da rente
ghe xe un boteghin de vin de quelo... e staccò dal remo la destra per
portarsela alla bocca e stamparvi un bacio.
Il giovanotto non rispose. Anche
il signor Aghios tacque, per quanto gli dolesse di non saper premiare neppure
con una parola lo sforzo di divertirli fatto dal povero Bortolo.
Vedrà disse improvvisando
che alla giornata più triste della vita ne seguono altre lietissime.
Non è possibile! disse
vivacemente il Bacis.
Eh! i zovini credi sempre
d'essere in ultima malora! borbottò Bortolo. Daché mondo xe
mondo a, quell'età se se copa una volta al giorno.
Quest'intervento era meglio
riuscito del primo. Con un sorriso l'Aghios si rivolse al gondoliere: Eppure
fra voialtri gondolieri i suicidii sono rari anche da giovani.
Il gondoliere ci pensò un
istante prima di rispondere e si curvò innanzi per un colpo vigoroso del
remo. Poi, rizzandosi, confermò: Xe proprio vero!. Si sporse ancora
una volta inanzi, lento e riflessivo. Poi sciando: Noi povareti semo tanto
abituai a difender la nostra vita che non la demo via per gnente.
Con vigore, ma a bassa voce in
modo da non esser sentito dal gondoliere, il Bacis avvicinandosi all'orecchio
del signor Aghios disse: Anch'io sono un povareto, ma il mio dolore
è tale che della vita che sempre difesi non so più che farmene.
Era un dolore iroso che in quelle
parole si manifestava. L'Aghios però poco pensò a quel dolore, ma
subito, spaventato, a se stesso. Aveva fatto, bene di accollarsi un compagno
simile, che poteva magari ammazzarsi a lui da canto. Oh! quanto gli sarebbe stata
più cara la compagnia della moglie!
Anche lui con voce bassa, ma
angosciata, disse al Bacis: Io spero bene che in mia compagnia ella non si
abbandonerà ad alcun atto contro la propria vita.
Oh! sia tranquillo!
assicurò il Bacis. Ho promesso d'essere domani a Udine e certamente
domani sarò a Udine. Poi... io non muoio volentieri. Prima di tutto la
speranza l'ho tuttavia. Lei è stato tanto gentile con me che le
racconterò tutto quando saremo soli. Vedrà! Io amo e ho tradito
l'amore. Non sarebbe neppure un'azione decente quella di sparire ora. Le
racconterò tutto. Già, rivelando il mio segreto a lei, io non
comprometto nessuno. Lei domani avrà dimenticato il mio nome e tutta
l'avventura.
Il signor Aghios non
protestò. Egli sapeva che del viaggio poco si ricorda. Passano fisonomie
e s'accumulano confuse in un cantuccio della memoria, diventando
collettività, nazioni, sessi, mai individui. Come nel sogno, ch'era
tanto difficile di ricordare, perché piombava dalla notte oscura in un
lampo di magnesio in cui s'agitavano cose e persone. Ecco, in un vagone si
discorreva e tutto quanto si diceva aveva un sapore di teoria vaga, in quella
vettura tanto simile a tutte e passando traverso un paesaggio che a quella
vettura non apparteneva. Vero è: Vent'anni prima una giovinetta, ch'egli
non aveva mai vista, s'era gettata durante la notte dal vapore in una cabina
del quale egli aveva dormito. Per il fatto d'essere stato in quel piroscafo
egli non dimenticò più il nome di quella giovinetta e la immaginava
come, caduta in acqua e forse tuttavia galleggiante, guardava allontanarsi il
piroscafo illuminato che l'abbandonava alla notte e alla morte. Alla mattina
c'era stata una inchiesta a bordo ed egli nel rispondere aveva balbettato,
sentendosi colpevole di aver dormito quando avrebbe potuto procurare il
soccorso alla giovinetta forse già pentita dell'atto inconsiderato e che
forse, prima di essersi rassegnata alla morte, aveva anche domandato aiuto ad
alta voce. Ma qui c'era stata l'avventura rara e importante ch'è la morte.
Tutto il resto aveva dimenticato. Certo non le sue osservazioni sulle belle
donne, sui cani, sui gatti e persino sugli uomini. Non la fisonomia! Era
difficile (almeno a lui) di ricordare una linea e invece facilissimo di
ritenere un'espressione.
Il Bacis aveva richiuso gli occhi
e s'era abbandonato sul cuscino. Il ricordo troppo vivo del proprio dolore
l'aveva allontanato da Venezia.
E il signor Aghios lo
lasciò tranquillo e si abbandonò alle proprie riflessioni. Costui
aveva amato e tradito! In quelle parole c'era una tale sintesi di avventura
umana che al signor Aghios parve di trovarsi di nuovo a guardare sul destino
umano da un treno lanciato a piena velocità e di non arrivar a vederne
altro che quella parte comune a tutti i mortali.
Nel grande silenzio della Laguna,
dove egli non scorgeva altra vita che quella rinchiusa in quella gondola,
ch'era in certo modo non la vita stessa, ma l'occhio che la guardava, il signor
Aghios poté rifigurarsi, ad onta dei palazzi granitici fra cui passava e
che non necessariamente implicavano la vita, l'assenza di vita su tutto il
pianeta. Pochi giorni prima egli aveva letto in un giornale che oramai si
riteneva che quando la terra era già abitabile, per un caso qualunque
era stata infettata di vita da un altro pianeta. Dopo tutto si spiegava: I
piccoli animali arrivati quaggiù liberamente si misero ad amare e
tradire e invasero tutto, il mare e la terra, per svilupparsi e continuare ad
amare e tradire in ogni loro stadio.
Mi stago atento de no far susuro
col remo per no sveiarve disse Bortolo, cui era duro di star zitto per tanto
tempo.
Si! Non era giusto di traversare
muti la Laguna e nello stesso tempo di dimenticarla. Si passa dinanzi a Palazzo
Pesaro, bruno tempio dalle pietre quadre, ma consacrato all'arte, e ad alta
voce il signor Aghios menzionò il nome di Umberto Veruda, il grande
pittore triestino il cui capolavoro vi dormiva.
Il Bacis aperse gli occhi per un
istante e li richiuse subito. Ma il signor Aghios da quel ricordo si
sentì vivificato. La Laguna apparteneva a tutti i veneti ed anche a lui.
Era il pertugio per cui essi arrivavano al grande mondo.
Perché da tanta altezza
egli improvvisamente scese tanto in basso da ricordare di nuovo il Meuli,
l'uomo dalle sette lingue? Forse pel desiderio di svagare il suo compagno, che
non pareva ormai più accessibile alle cose belle fra cui si movevano e,
senza farne il nome, raccontò la sua avventura col Meuli, cioè il
beneficio che gli aveva reso e come ne era stato compensato.
Scometo disse Bortolo che de
quela figura ludra de ... E nominò un altro gioielliere.
L'Aghios protestò, ma
Bortolo insisteva Mi lo conosso! El xe proprio capaze de un'azion simile.
Ma insomma non può essere
lui, visto che non è triestino disse l'Aghios impaziente. Per nulla al
mondo avrebbe voluto lasciare una calunnia come traccia del suo passaggio per
il Canalazzo.
El xe de Corfù, ancora
pezo si lasciò sfuggire Bortolo. L'Aghios rise di tanta
ingenuità, in persona che certamente lavorava e anche parlava per
vedersi aumentata la mancia.
E lei tratta tuttavia con
quell'individuo?,domandò il Bortolo con vivo interesse.
Altro che! E ben volentieri!
È un buonissimo gioielliere; ha delle bellissime cose ed io gli
raccomando tutti i miei amici avvertendoli di stare in guardia.
El devi aver tanti amizi
castrài disse Bortolo, dando alla gondola un bello slancio, puntando il
remo al fondo del canale.
L'Aghios rise di cuore. Poi
spiegò al Bacis ch'egli era stato conquiso dalla bella, calma filosofia
del Meuli. È una grande scoperta, quella di mettere a frutto un
beneficio avuto. L'Aghios rise di cuore: Io do, eppoi do ancora, ecco che i
conti si pareggiano.
Lei è un uomo
straordinario disse il Bacis con voce profonda. Non richiuse più gli
occhi, ma parve immerso in riflessioni profonde e quando l'Aghios gli fece
vedere il palazzo Labia sottrarsi per una modestia veramente eccessiva al
Canalazzo e gli raccontò che, secondo una leggenda, attorno ad esso, nel
rio, doveva esserci sepolto del vasellame d'oro, che ad ogni banchetto vi
veniva gettato, il Bacis lo degnò di un'occhiata distratta.
Allo sbarco l'Aghios
domandò a Bortolo quanto gli dovesse. Bortolo dichiarò
d'affidarsi nella generosità del signore. Quando il signor Aghios ebbe
fatto quanto stava in lui per apparire generoso, Bortolo osservò: Tuto
va ben, ma Ela no ga pensà che a sta ora me toca tornar solo soleto fin
a Muran. Merito qualche cosa anche per questo. E visto che il signor Aghios
non pareva molto convinto della giustezza dell'osservazione, Bortolo
osservò: Prometo de passar per el Rio de Noal e de telegrafarghe. Mi no
savevo gnanca che el sia tanto belo. Lo guardarò per, la prima volta.
Questo piacque al signor Aghios e lo stimolò a maggiore
generosità.
V. Alla stazione di Venezia
La stazione era pressoché vuota.
Al restaurant vi erano occupati tre tavoli e da gente che non pareva accingersi
al viaggio visto ch'erano privi di bagagli. Non una donna. Dietro il banco alla
cassa ve n'era una sola e vecchia.
Del resto il signor Aghios era
ansioso di sentire le confidenze di Bacis ed era tutt'intento ad
un'attività negativa: Impedire a se stesso di fare un cenno o dire una
parola che potesse essere interpretata come un incentivo al Bacis di fare tali
confidenze. Non c'era più tempo di guardarsi d'attorno. Il signor Aghios
non si trovava in viaggio, ma in una casa. Se nel frattempo il giovanotto
avesse deciso altrimenti, egli non avrebbe cercato di farlo desistere. Era un
sacrificio, dopo di aver già sacrificato qualche cosa al Bacis e alla
sua tragedia. Ma non bisognava fare errori, perché gli errori che si
commettono in viaggio sono irreparabili. Le persone che si assistono non si
rivedono più e non v'è più riparazione possibile.
Un momento perdettero col
cameriere. Il signor Aghios ordinò della carne fredda e del vino.
Avevano ancora molto tempo perché, benché la gondola fosse stata
contrattata fino alla mezzanotte, Bortolo aveva fatto in modo di liberarsi dal
suo fardello alle undici. Il Bacis accettò un pezzo di pane e un pezzo
di carne che il signor Aghios gli porse, ma non ne ingoiò che qualche
boccone sollecitatovi più volte. Invece vuotò quasi senza
accorgersene molti bicchieri di vino, proprio nel corso del discorso cui i
bicchieri servivano quasi d'interpunzione. Per imitazione e lui pure senza
accorgersene, ne bevette molto anche l'Aghios.
Non c'era pericolo che l'Aghios
perdesse le confidenze. Fu un fiume di parole da cui fu investito. Da bel
principio irruenti parole, come se fossero giaciute contenute da troppo tempo
in gola.
Io avrei già parlato in
gondola. Ma c'era quel gondoliere. Dio mio! Che uomo insopportabile! Certamente
disturbava così per rendersi gradevole e farsi aumentare la mancia. Io
avrei voluto levarmi in piedi senza ch'egli se ne accorgesse, avvicinarlo e
spingerlo in acqua.
Il signor Aghios era tutt'intento
ad esaminare la faccia che gli era rivolta e ch'egli vedeva per la prima volta
con tanta esattezza. Era una faccia d'adolescente su cui stonava l'ira energica
che gli si manifestava e che faceva lampeggiare i suoi occhi azzurri, grandi,
ben disegnati, sani perché la cornea ne era nivea, senz'alcuna
trasparenza di sangue o di fiele. I capelli biondi, abbandonati, di cui un
riccio ricadeva sulla fronte così che il Bacis aveva il bisogno di
allontanarveli con la mano, a volte in quella luce rosseggiavano. Una lieve
peluria copriva il labbro ed era strano che da una persona vestita di un abito
netto, accuratamente ripassato e una camicia di bucato, la barba non fosse
fatta da varii giorni, forse un segno della tragedia che gli veniva raccontata.
Il signor Aghios non poté
trattenersi dal difendere il povero Bortolo: Poverino! Fa quello che
può!.
Il Bacis prima di ammetterlo
dovette pensarci un momento. Poi riconobbe che il signor Aghios aveva ragione e
mormorò: Certo ognuno a questo mondo fa quello che deve. Forse anch'io
così e certo allora sarei meno infelice.
Anch'io pensò il signor
Aghios e, per esserne sicuro, trangugiò un bicchiere di vino. Poi non fu
facile al signor Aghios di seguire parola per parola tutto il racconto del
Bacis. Il Bacis era costretto ad abbassare la voce per non essere sentito dagli
altri. Poi, come il tempo passò, la stanza si vuotò del tutto e
di stranieri non vi rimase che la vecchia signora dietro al banco e abbastanza
lontana da loro. Allora il Bacis di tempo in tempo elevò di troppo la
voce e fu peggio. Un timpano vecchio come quello del signor Aghios, per ragioni
ovvie, non sa percepire il suono lieve. Ma non sa nemmeno analizzare e
disarticolare il grido forte se vi è impreparato. Però l'effetto
dell'esposizione non fu danneggiato da tale sua sordità. Il grido e il
pianto possono perdere del loro effetto se la parola che li accompagna non
è adeguata.
L'insieme del racconto fu da lui
inteso. Non si trattava di una storia troppo complicata. Il Bacis era un milanese
di origine friulana che a 17 anni era stato chiamato da un cugino della madre a
Torlano nella Carnia per essergli d'aiuto nella direzione di un'azienda
agricola. Ora questo cugino aveva una sola figliuola, Berta, e da bel
principio, per una tacita intesa di cui anche il giovanotto sapeva, egli
avrebbe dovuto sposarla e succedere nella proprietà dell'azienda che
amministrava. Il giovanotto non l'amava. Sentiva anche una certa antipatia per
il carattere imperioso e presuntuoso della giovinetta, ma spintovi
dall'interesse, ch'è tanto potente in tanti giovani cuori, amava
l'azienda e la giovinetta dello stesso amore.
Probabilmente il suo fisico non
le piaceva disse il signor Aghios che sapeva la vita. Quando una donna non
piace è sicuro che ha un carattere disgustoso.
Può essere! disse il
Bacis con una certa fretta di eliminare un'idea che gli toglieva il corso del
suo pensiero. Ma poi non seppe procedere senza aver proprio distrutta
quell'obbiezione che gli si attaccava ai piedi e gl'impediva il passo. Prima
ch'io amassi Anna io amai un'altra donna...
Chi è Anna? interruppe
il signor Aghios.
Anna è la nipote del
padre di Berta. Quella che m'impedì di tenere gli occhi chiusi e di
sposare Berta senz'accorgermi ch'io non sapevo amarla. Ma non sapevo amare
Berta proprio per il suo carattere. Prima di Anna io amai unaltra, non so
quando, proprio nella mia prima infanzia, ma so che anche quest'altra era
debole, debole, dolce, dolce, bisognosa di protezione e più disposta al
pianto che alla lotta.
Insomma sottile, sottile disse
il signor Aghios che intendeva benissimo avendo avuto gli stessi gusti. Non
s'accorgeva il signor Aghios di restare ostinatamente fermo nella sua prima
idea e di correre perciò il pericolo di fermare il racconto del Bacis.
Sottile, sottile! Si, anche
sottile disse il Bacis arrendendosi. Il signor Aghios sospirò
soddisfatto di aver indovinato.
Il giovanotto aveva visto spesso
Anna accanto alla fidanzata, ma non se ne era subito innamorato. Era una
bambina, una vera bambina a quattordici anni. Di adulta c'era in lei la grande
soggezione ai ricchi parenti, un calcolo dunque da persona molto ragionevole.
Ma a quindici anni anche tale soggezione divenne ancora più da adulta,
cioè s'ammantò di un po' di tristezza e divenne dolorosa per
certi lievi scoppii di ribellione subito repressi, ma non abbastanza
prontamente per sfuggire ai parenti che perciò la odiavano. Era vestita
più dimessamente di prima, ma ogni straccio sul suo corpicino diventava
importante.
Il signor Aghios aveva già
bevuto abbastanza per sentirsi capace di conservare tutta la libertà di
cui aveva goduto quasi tutto il giorno anche di fronte ad un interlocutore
tanto veemente.
Con l'esperienza di chi molto
amò e desiderò, ma nello stesso tempo con la parola pacata del
vecchio ch'è simile all'uomo oggettivo chiuso nel laboratorio con gli
elementi che rubò alla vita, osservò: Questi stracci appiccicati
alla donna amata diventano una sua estensione. È come porre su una
fiamma un pezzettino informe di metallo. Quando s'arroventa emana la stessa o
anche una maggiore luce della fiamma stessa. C'è una differenza
però. Tutti vedono la luce. Non tutti la bellezza di quegli stracci.
Grande differenza! .
Il Bacis tracannò un
bicchiere di vino per poter restare col pensiero al proprio discorso. Ma con
l'Aghios un bicchiere non bastava, perché era un uomo che in viaggio
voleva vederci chiaro
Perciò io credo che
quegli stracci siano piuttosto simili a certi colori la cui bellezza è
sentita dai soli artisti o dagl'intenditori. Già! È evidente!
Solo chi ama è un intenditore. E anche il signor Aghios bevette per
premiarsi di tanta acutezza.
Ma tutti dicevano che Anna coi
mezzi più semplici era vestita splendidamente.
Poi il Bacis fu anche più
irruente per non dar tempo al signor Aghios d'intervenire.
Ma ora parlò chiaramente e
sempre con la stessa bassa voce quasi vergognandosi di se stesso, così
che il signor Aghios percepì ogni sua sillaba.
Chi era Anna? Una serva. Chi ero
io? Non sapevo di essere uno schiavo disgraziato. Venivo già trattato
quale il figlio del padrone. Non si poteva ragionevolmente pretendere ch'io
rinunziassi all'alta posizione che mi veniva regalata. Perciò io decisi
di godere Anna e sposare Berta. Con lento proposito. Ogni mattina levandomi il
mio problema era: Che cosa farò io oggi per conquidere Anna? Senza che
altri se ne accorgesse io la circuii delle mie attenzioni. Fu facilissimo
ottenerla! Non ci fu altra difficoltà che di trovarla sola, scavalcare
un davanzale. Ancora adesso non capisco! Tutti a Torlano l'ammiravano per la
sua modestia, la sua ritenutezza, la sua religione. Questa facilità
forse m'attaccò tanto a lei, fu la mia sventura e, se Dio m'aiuta,
sarà la sua salvezza. Perché si fidò, di me, così
subito? Fu ingannata dalla sincerità della mia carne? Sa spiegarlo lei
ch'è un filosofo?
La mente intorpidita del signor
Aghios fu scossa da quelle parole del Bacis: Sincerità della carne. Un
turbine d'idee sorse da quelle parole. Era la sincerità delle bestie la
sincerità della carne, ma anche da esse questa sincerità non
durava che un attimo e non rappresentava un impegno. Il Bacis aveva però
macchiato quella sincerità, perché in quel medesimo istante egli
aveva pensato di simulare. Anche quella sincerità da lui non aveva
servito che a tradire meglio.
A me lei dà del filosofo
nello stesso istante in cui ella fabbricò questa terribile idea della
sincerità della carne contraddetta dalla falsità di un'altra
parte del corpo ch'è anch'essa carne, carne evoluta!
Io non ho tempo di pensare a
tali cose disse il Bacis stringendosi nelle spalle. Io non penso mai; io
ricordo per soffrire. Avvenne proprio come le dico. Essa mi sentì sempre
sincero ed io sempre seppi di tradirla. Io non credo di aver saputo fingere. Il
mio volere fermo di sposare la fortuna, non me ne lasciava il tempo. Se avevo
anche sempre pronte le parole per avvisarla ch'essa doveva restare l'umile
serva mia e di mia moglie. Pensavo proprio di dirle che di giorno avrebbe
potuto continuare a servire mia moglie e qualche notte avrebbe dovuto accogliermi
nel suo letto. Per qualche tempo solo, finché ne fossi stato ben sazio.
Non dissi tutto ciò solo perché tutto mi pareva sottinteso. Non
c'era fretta. E se non ci fosse stato questo mio sciocco cervello ch'è
fatto altrimenti di quello che dovrebbe, io avrei potuto fare la mia vita
più lieta e più comoda per sempre. Non Anna mi rese infelice, ma
questo mio stupido cuore.
E il Bacis continuò
dicendo che in quel torno di tempo gli capitò la notizia che suo
fratello, cassiere in una banca, aveva commesso una cattiva azione che avrebbe
potuto costare la vita alla loro madre. La madre supplice si rivolse a lui
pregandolo di procurare lui le diecimila lire che occorrevano per salvare
l'onore della famiglia. Egli senz'altro comunicò la cosa al padre di
Berta che già considerava suo padre. Costui diede subito le diecimila
lire, ma volle che Berta ne fosse informata e sapesse che tale importo andava
in deduzione della dote. Così egli si trovò d'essere
ufficialmente fidanzato di Berta. Non ci furono molte parole né con
Anna per divenirne l'amante, né con Berta per divenirne il fidanzato.
L'anticipazione sulla dote era proprio da Berta la stessa cosa che Anna m'aveva
concesso permettendomi di godere del suo corpo. Così io passai tutti i
miei giorni con Berta e tutte le mie notti con Anna. Il grande casamento
vastissimo e disadorno in cui vivevamo era proprio fatto per organizzarvi la
mia doppia vita. Ad un'ala c'era l'ufficio e l'abitazione della famiglia di
Berta. Al di fuori dell'ufficio dormivo io in una stanza a pianoterra.
All'altra ala, circondata da stanze in cui dormivano famigli e serve stanchi
del lavoro della giornata, c'era la stanza di Anna. Avevamo tre cani di
guardia, che m'accompagnavano festosamente ma muti nella mia corsa da una parte
della casa all'altra. E di giorno io ad Anna non pensavo. Quando l'intravedevo
umile, intenta alle sue faccende, pensavo: Aspetta! Godrò di questa tua
umiltà questa notte. Adesso non c'è tempo di pensarci. E con
Berta poco o nulla si parlava d'amore. Ma ci trovavamo uniti nello stesso
pensiero di allargare il nostro possesso. Già! Quello che nelle vostre
città è l'avidità di denaro, da noi in campagna è
l'avidità di terra. E quando si parlava delle nostre conquiste future (volevamo
far salire sui colli il nostro possesso tutto in pianura) Berta diceva: Quando
Ugo (mio fratello) ci restituirà le quindicimila lire.... Essa non
dimenticava le quindicimila lire!
Al signor Aghios parve che
dapprima si fosse parlato di sole diecimila lire. Volle rettificare, ma poi gli
parve cosa inconferente.
In tutte le loro speculazioni di
terra e di prodotti erano guidati da un vecchio contadino, Giovanni, assurto
per la sua astuzia e fedeltà al rango di consigliere. Riceveva la stessa
paga come quando irrorava del suo sudore i campi (e non più), ma era
l'anima dell'azienda. Il signor Aghios tese l'orecchio, perché il Bacis
dedicava tante parole a quell'umile uomo che si capiva doveva finire per
giocare una parte importante nell'avventura che gli veniva raccontata. Era
avido come i padroni, ma solo per loro. Un vero cane fedele. Il padrone era il
padrone e quando s'abituò a considerare anche il Bacis quale padrone,
più padrone di tutti perché più giovine, doveva rimanere
suo padrone per l'eternità della sua vita, s'investì dei suoi interessi
anche quando potevano collidere con quelli del suo legittimo padrone, il padre
di Berta, e Berta stessa che quale donna non poteva essere la prima nel
comando.
Presto Anna si sentì
madre. Lo disse al Bacis senza domandare nulla ed anzi giocondamente, nella
certezza che ciò fosse un nuovo anello della catena che li univa. Non le
era stata detta una parola in contrario e innocentemente essa pensava che tutto
dovesse svolgersi nel modo più naturale. Il Bacis non ne fu molto
turbato. Il suo primo pensiero fu anzi che ormai si dovessero accelerare le
pratiche per il suo matrimonio con Berta. Dopo, quale padrone, avrebbe potuto
facilmente far crescere quel bastardo all'ombra del casone senza riconoscerlo e
senza curarsene. Un bambino che non si ama costa in campagna pochissimo. Poi
cresce e produce. L'unica seccatura fu che la giovine madre fu meno amorosa. Si
sottometteva per vero, grande amore. Ma se poteva si sottraeva e, se lasciata
libera, domandava di essere risparmiata.
Già! interruppe il
signor Aghios. Madre natura creò il Piacere per garantire la
riproduzione. Una volta garantita questa, se il piacere tuttavia persiste
è per dimenticanza come dagli insetti certi colori che persistono
talvolta anche quando la stagione dell'amore è passata. Non si può
mica essere tanto precisi in un'azienda tanto vasta.
Può essere sia
così disse seccamente il Bacis. Ma anche qui ci fu una dimenticanza.
Perché madre natura dimenticò di spegnere l'incendio anche da
me?
Oh! bella! disse l'Aghios e
furono parole dettate dal vino. A madre natura non sarebbe mica spiaciuto che
voi aveste, procurato un bimbo anche alla Berta. Essa ha sempre a fare. Siamo
in tanti! Non elimina che chi non serve più.
Mai! Mai! gridò il
giovine con veemenza. Berta, la nemica, la sprezzatrice di Anna!
Il signor Aghios rimase scosso.
Egli ora sapeva come la storia sarebbe finita. Il Bacis stava dinanzi a lui,
acceso, innamorato, disperato, il vero ultimo capitolo del romanzo. Non avrebbe
più bisogno di sentire altro.
Il Bacis continuò il suo
racconto con una certa fretta di finire. Anna dopo averlo respinto quale
amante, in un certo modo, lo privò anche del suo amore, del suo grande
amore che s'era manifestato prima di tutto nella sua assoluta discrezione e
nella sua rassegnazione alla parte ch'egli le aveva attribuita. Poi lo
tradì confidandosi a Giovanni. Giovanni, da cane fedele, parlò
col Bacis e gli propose di far sposare la fanciulla da un giovanotto loro
contadino, ma zotico, nato apposta per quella parte.
Ciò avvenne disse il Bacis
nove giorni or sono. Contò sulle dita: Sì! proprio,
lunedì facevano gli otto giorni. Pare impossibile! Io allora ero ben
altro uomo, perché ringraziai Giovanni e consentii al suo piano. La mia
metamorfosi cominciò la sera stessa quando bussai alla porta della
giovinetta e non mi fu aperto. La chiamai ed essa venne fino alla porta per
dirmi a bassa voce due volte: No! No!. Dovetti retrocedere ed i cani
ringhiarono perché, non aspettando di vedermi tanto presto, credettero
non fossi io. Mi coricai, ma non seppi dormire e alla mattina mi domandai:
Perché non la truffai ancora? Perché non le promisi di sposarla
purché mi aprisse quella porta?. Così m'avviai alla decisione
nuova senza saperlo.
Alla mattina Giovanni mi
raccontò di essere già d'accordo con Anna. Adesso bisognava
affrettarsi di togliere Anna dal lavori di casa e di porla al lavoro sui campi,
alla destra del fiume, per metterla a lavorare accanto a Luigi. Fra contadini
si fa presto. L'erba è soffice e si arriva ancora in tempo per dare un
nuovo padre al nascituro. Al sole io non ricordavo più le angoscie della
notte e fui anche d'accordo. Era facile di ottenere un ordine simile dalla
Berta, anche perché durante la vendemmia c'era bisogno del lavoro
femminile ai campi. Ma per fortuna, non ricordo per quale ragione, la Berta
domandò di poter tenere la cugina in casa per soli due giorni ancora. Io
invece non ebbi bisogno che di una notte sola per sapere quale fosse il mio
dovere. Mi coricai zufolando e pensando: Mattenderai invano questa notte e
quando sarai dell'altro io non ci penserò più e andrò la
mia via alla ricchezza e all'indipendenza.
Fu invece una notte terribile.
Egli rivide nell'oscurità Anna come l'aveva vista durante la giornata,
più dimessa che mai, priva anche di quegli straccetti ch'egli su di lei
tanto ammirava. E nell'oscurità egli intese quella povera animuccia
tutta come mai prima. Con lui l'intese e forse più profondamente
l'Aghios, che stava a sentire e temeva di aver gli occhi offuscati da lacrime.
Essa non era altro che madre, madre del suo bambino e non aveva altro pensiero
a questo mondo. Stava per abbandonarsi a Luigi sperando di preparare un posto
qualunque a quel bambino a questo mondo. Non era lei che a quell'abbraccio
s'abbandonava, era lui che a quell'abbraccio la spingeva. Poi essa avrebbe
partorito, sarebbe ridivenuta bella e amante. E il Bacis subito comprese che,
nella sua posizione di padrone, gli sarebbe stato facile di riaverla. Ma non
gli importava, non era quello che gl'importava. Digrignava i denti all'idea che
quel bifolco di Luigi avrebbe potuto prendergliela. E non per gelosia (egli
assicurava al signor Aghios), ma perché non ammetteva che un bifolco
tale potesse divenire l'arbitro della vita di Anna. Che cosa sarebbe divenuta
la dolce Anna nelle mani di un simile individuo? E egli, ora, voleva lui
prenderla fra le braccia e portarla dolcemente traverso la vita. Egli non
più la desiderava. Egli oramai l'amava.
Quando il desiderio s'accumula
perde il suo aspetto e diventa amore. Tante cose a questo mondo accumulandosi
mutano d'aspetto disse sentenziosamente il signor Aghios. Non trovò
subito il paragone e non fu contento di quello che trovò. Guardi, la
lietezza che produce il vino diventa ubbriacatura. Poi, riflessivo: È
vero che pare che il desiderio sia più furioso dell'amore che viene
dalla sua accumulazione.
Io non so disse il Bacis
stringendosi nelle spalle. Per il momento e finché non potei parlare
con Anna, io fui più furioso in amore che nel desiderio. Adesso non so
nemmeno io come io mi sia. Saltai dal letto perché in quello stato di
abbiezione non potevo vivere per un solo istante. Dovevo nettarmi verso Anna.
Mi vestii e saltai dalla finestra. I cani ringhiarono perché non erano
usi a vedermi uscire tanto tardi. Ma a me non importava d'essere scoperto e
camminai per la campagna col mio solito passo pesante. Arrivato dinanzi alla
porta di Anna bussai. Essa dall'altra parte sussurrò: Perché
vieni? Sai bene che non posso. Cercai di spiegarle il motivo della mia visita.
Volevo solo parlarle. Ma essa non mi credette e sussurrò che parlare si
poteva anche di giorno. Aperse quando ad alta voce dichiarai che se tuttavia
avesse rifiutato di aprire, io avrei abbattuta la porta con un colpo di spalla.
Allora aperse, ma per lungo tempo il nostro colloquio rimase violento,
più simile ad una lotta che ad un abbraccio. Io profondevo su lei tutte
le parole più dolci che mi si erano accumulate nell'anima, ma essa non
mi credeva, perché pare che - senza neppur accorgermene - io ne avessi
usate di simili anche nel desiderio, usando di tutti i mezzi per sottometterla
più presto. Poi seppi anche di un'altra causa che le impediva di
credermi. Giovanni aveva parlato con lei e l'aveva convinta che non era
pensabile che un padrone come me rinunziasse ad ogni sua fortuna per una
servetta come era lei. Mi credette solo quando vide che m'accingevo ad
andarmene senza domandarle niente. Ero dunque venuto solo per convincerla
dell'amore mio. Credette perciò nel mio amore quando s'accorse che da me
non c'era desiderio. Strano, nevvero? E il Bacis bevette e tacque. L'Aghios,
ostinato nel vino, avrebbe voluto sostenere il suo punto e asserire che l'Anna
s'era accorta d'essere amata solo quando aveva sentito che il desiderio da lui
s'era tanto accumulato ch'egli non poteva più sperare di saziarlo in un
abbraccio. Ma non trovò le parole. Il Bacis aveva anche lui bevuto
molto. Le sue guance erano accese e i suoi bei capelli biondi, lisci, avevano
invaso la fronte a furia d'essere scossi dalla testa che accompagnava coi
movimenti la parola come se avesse voluto costringerla in un ritmo. Gli fece
compassione e non aperse bocca finché il Bacis non gli disse con voce
che si sforzava di rendere pacata: Mi pare che ora potremmo uscire e metterci
sul nostro treno.
Non c'è furia disse
l'Aghios dopo di aver guardato l'orologio. Attese ancora per un istante, ma poi
ansioso domandò: Ma poi? Come finì?.
Ancora non finì disse il
Bacis. Se nella notte io avessi incontrato la Berta o suo padre, per aumentare
la tranquillità che già avevo conquistata con le mie
dichiarazioni ad Anna, avrei subito dichiarato loro la mia risoluzione di
sposare questa e non altri. Non mi bastava mai la tranquillità che
adoravo. Ma non li incontrai. Li rividi alla luce del sole e fui prudente. Forse
tale differenza di contegno si può spiegare col fatto che da tanto tempo
io dedicavo la notte all'amore per ritornare ai miei interessi di giorno. Io
non dissi loro altro che desideravo di fare una corsa a Udine per salutare mia
madre e subito partii, per Milano.
Perché a Milano?
domandò l'Aghios trasognato.
Per riavere quelle quindicimila
lire che m'erano state prestate dal padre della Berta in acconto della dote
disse i Bacis stupito che l'altro non ricordasse. Come potevo io ora non
sposare la Berta se prima non saldavo quel debito?
L'Aghios pronto causa il vino a
tradire ogni movimento del suo animo, si mise a ridere di cuore. Ricordava che
nel pomeriggio s'erano trovati in tre in una vettura e tutt'e tre avevano avuto
delle somme di denaro in tasca: L'ispettore centocinquantamila (forse meno,
perché era un uomo disposto alla vanteria), lui non cinquanta, ma
trentamila e i Bacis quindicimila (a meno che non fossero solo diecimila). In
banconote? domandò quando il riso gli permise di parlare.
Io non ebbi quel denaro disse
il Bacis con tristezza, e Dio sa quando l'avrò. Mio fratello Ugo che me
le deve non può restituirmele e s'accinge invece a sposarsi. Anche lui
ebbe nel frattempo un'avventura molto simile alla mia.
Con due donne? domandò l'Aghios,
che oramai di ogni avventura vedeva in piena luce solo i dettagli meno
importanti. E subito pensò: Dev'essere una malattia di famiglia.
I suoi ricordi, come la sua
percezione, rimasero chiari e non dimenticò che il Bacis rispose che si
trattava di una sola donna bastevole ad impedire al fratello di pagare il suo
debito. Già pensò l'Aghios che non dimenticava neppure la
propria esperienza Una sola donna basta per impedire tante cose.
Poi l'Aghios finì col
pagare il conto. Con la mancia cinquanta lire per un po' di carne fredda e due
pezzi di pane. Salirono nell'ultima vettura di un lunghissimo treno, la sola
vettura adibita al servizio di persone. L'Aghios si sentiva tanto sicuro nelle
gambe da ridiscendere dall'altissimo vagone per andare a prendere a nolo un
cuscino. Lo pagò ed era già in procinto di allontanarsi quando
gli venne la buona idea di prendere uno di quei cuscini anche per il suo
compagno dì viaggio.
Glorioso risalì; scelse
fra due compartimenti quello che meglio gli piacque e offerse l'ultimo suo dono
al Bacis. Costui non avrebbe dimenticato mai più quella gondola, quella
cena e quel cuscino, tutti doni di una persona ch'egli vedeva per la prima
volta. Ma neppure lui avrebbe mai più dimenticato il Bacis, la Berta grassa
e l'Anna sottile. Ma neppure Giovanni, quella pianta uomo che cresce
dappertutto con un bell'istinto di servitore utile. Anzi, il signor Aghios si
coricò pensando solo a Giovanni e a tutti i Giovanni ch'egli in sua vita
aveva conosciuti. Avevano rinunziato a tutte le altre fortune che ci potevano
essere a questo mondo e s'associavano indissolubilmente partecipandovi nel modo
più modesto. Per essi non esistevano speranze in evoluzioni pazzesche
che li avrebbero resi padroni e non esempi di fortune fatte per iniziative
coraggiose indipendenti. Essi restavano attaccati al padrone come la pianta
arrampicante all'albero. Nella sua mente fosca, prossima a chiudersi nel sonno,
il signor Aghios pensò che Darwin non aveva inteso tutto. Non un animale
aveva prodotto l'umanità, ma da ogni singolo animale era discesa una
data specie di uomo. Tutti i Giovanni di questo mondo erano risultati per lenta
evoluzione da quegli uccelli che sulle rive del Nilo nettavano i denti ai
coccodrilli. Forse i coccodrilli soffrivano di carie e il pasto di quegli
uccelli era, in proporzione di quello del coccodrillo, più abbondante di
quello che i padroni lasciavano ai Giovanni.
Stava per prendere sonno quando
un pensiero addirittura imperioso di benevolenza gli fece riaprire gli occhi.
Guardò il suo compagno di viaggio. Alla fioca luce che c'era nella
vettura lo vide giacere sull'altro banco, parallelo al suo, i biondi capelli
lucenti giacere come lui, abbandonato sul cuscino. Con la differenza
però che si teneva gli occhi coperti con una mano. Forse sotto a quella
mano piangeva. Ed il signor Aghios pensò: Guarda questi due uomini. Io
ho in tasca il doppio (e forse il triplo) di quello che occorre per salvare da
tanta angoscia quest'uomo. Non posso però darglieli, perché
altrimenti, almeno per, altri tre mesi, dovrei continuare a pagare
degl'interessi esosi. Insomma io non voglio pagare degl'interessi e voglio
invece ch'egli soffra sposando Berta e faccia soffrire questa e specialmente
quella povera Anna, che sta per cadere in mano di quella bestia di Luigi,
ch'è appoggiato da quel mostro in natura ch'è Giovanni, l'ideale
dei servitori.
Senta, Bacis! chiamò e
l'altro lasciò cadere la mano dagli occhi e lo guardò. Io,
certo, non c'entro coi suoi affari, visto che non ho i mezzi per aiutarla. Ma
per il momento non c'è che una premura: Impedire che Anna faccia un
passo precipitoso. Non c'è urgenza. Il bamboccio è ancora
lontano. Perché non si confida con suo zio? Quando non si può
pagare, non si può pagare e non si paga. È ridicolo credere di
essersi venduto per aver preso a prestito dieci o (sia pure) quindicimila lire.
Si resta debitori e amici come prima. L'altro conteggia gl'interessi e
può farlo. Poi nella vita, prima o poi, capita il colpo di fortuna. Si
paga e si è più liberi di prima, quando pure si era liberi per
propria risoluzione. Il colpo di fortuna può capitare a lei o può
capitare a me. Sarebbe una gran bella cosa per lei che capitasse a me. Le giuro
che verrei subito a Torlano a liberarla del suo impegno. Io avrei ora trentamila
lire in contanti, a Trieste, naturalmente (e si toccò la tasca di
petto), ma non posso dargliene neppure una parte perché mi occorrono
tutte subito domani. Anzi, è per consegnare dinanzi ad un notaio quei
denari ch'io ora faccio questo viaggio, che sarebbe stato ben noioso se io non
avessi incontrato lei.
L'altro ringraziò a mezza
voce e ricoprì gli occhi con la mano quasi a difenderli dalla luce. Il
signor Aghios si sentì profondamente amareggiato. Era certo ch'egli non
poteva dare quello che gli veniva chiesto, ma era ben doloroso che il suo
viaggio, intrapreso per cospargere la Lombardia, il Veneto e il Friuli della
sua benevolenza finiva (la notte era il riposo e non contava per il viaggio)
con un atto degoismo come in qualche breve favola di religiosi. Lui era l'uomo
ricco, l'altro il povero, lui la bestia, l'altro (visto ch'era il povero)
l'intelligente, quello che vedeva il mondo com'è nella vera luce, dove
c'erano da difendere tutt'altri beni che la vile moneta.
Eppoi un'altra cosa
l'amareggiava. Se egli avesse presa con sé la moglie, forse tutto
avrebbe potuto accomodarsi. Lui era l'avaro che non dava che le mance piccole,
ma la moglie dava proprio quello che occorreva... se consentiva. Raccontandole
tutta la storia come stava, essa. forse, si sarebbe commossa. Si avrebbe potuto
offrire al poverino diecimila lire (quindicimila in nessun caso).
Scoppiò. Si rizzò,
trasse di tasca il proprio biglietto da visita e lo porse al Bacis. Se non
trova di meglio venga me a Trieste o mi scriva. Non perda ogni speranza ed
intanto impedisca alla povera Anna di commettere delle bestialità.
Anche l'altro si rizzò. Ma
fu come un atto di cortesia senza convinzione. Mormorò: Grazie.
Verrò a Trieste. Si ricoricò e riportò la mano agli occhi
non appena il signor Aghios accennò a sdraiarsi di nuovo.
VI. Venezia-Pianeta Marte
Il signor Aghios era oramai
più tranquillo. Solo gli bruciava lo stomaco per il tanto vino bevuto.
La sua coscienza era oramai tranquilla come se egli già avesse dato il
denaro. In sostanza egli l'aveva dato, perché avrebbe patrocinato con la
moglie la parte del Bacis. Ora toccava alla moglie di comportarsi bene anche
lei.
Ma non subito
s'addormentò. È una cosa impossibile per un essere previdente di
addormentarsi in un treno che s'accinge a correre. Per essere più sicuro
il signor Aghios saggrappò al suo giaciglio, ma ciò
implicò uno sforzo e non è una cosa facile di addormentarsi
nell'atto di fare uno sforzo. Poi finalmente il treno si mosse. Assunse un
passo piuttosto lento e pesante. Il rumore maggiore fu dato dapprima dalla
propagazione del moto dalla cima alla coda del grande convoglio, perché
fra i singoli vagoni fu uno sbattersi inquietante, tanto che il signor Aghios
si rizzò per star a sentire. Per quietarlo il Bacis, senza levare la
mano dal volto, mormorò: Ciò avviene perché questo treno
manca del freno Westinghouse.
Non occorreva la parola
rassicuratrice, perché oramai il treno s'era avviato ed aveva assunto un
passo tranquillo. Molto tranquillo. Il signor Aghios poté abbandonare
ogni sforzo e abbandonarsi sul suo giaciglio. In un treno che procedeva con
quel passo si avrebbe certamente dormito tranquilli. La musica che proveniva da
quel movimento era fortemente ritmica e non violenta come da un treno celere:
Una vera ninna-nanna. E lungamente il signor Aghios seguì quel suono o
meglio da quel suono fu inseguito nella pace che precede il sonno. Esistono dei
sonni di tutte le gradazioni e il suo grado più basso è quando i
sensi non si sono ancora staccati dalla realtà. Il signor Aghios
traverso le ciglia sentiva l'esistenza di quella fioca luce nella vettura e
anche quel corpo del Bacis dagli occhi coperti dalla mano, giacente a meno di
un metro di distanza dal proprio. E il sonno da lui cominciò quando
quella musica là fuori cominciò a significare qualche cosa.
Diceva: Tutto va bene, tutto va bene. E il signor Aghios non si sentiva
d'intervenire per far terminare la monotona ripetizione. Era tanto bello di
addormentarsi al suono di una missiva tanto bella e tanto vera. Tutto andava
bene infatti. Il Bacis gli voleva bene, avendo subito voluto rassicurarlo su
quei suoni scomposti provenuti dal primo sobbalzo del treno. Tutto andava bene
e si poteva finire.
Ma ancora una volta il suo sonno
fu interrotto. L'arrivo a Mestre somigliò alla fine del mondo. Pareva
come se una macchina potente si fosse messa a movere della ferramenta
accatastata. L'Aghios spaventato si rizzò. Arrivò a vedere il
Bacis tranquillo e immoto, la mano sempre sulla faccia, eppoi, tranquillizzato,
lasciò ricadere la testa pesante sul guanciale mormorando: Manca il
freno Westinghouse.
Quando sognò il signor
Aghios? Certo non subito dopo abbandonato Mestre. Presso Gorizia, quando alle
quattro della mattina, il signor Aghios si destò, la distanza è
lunga e il sogno sarebbe stato dimenticato come ogni altro sogno che certamente
allieta anche il sonno più profondo. È piuttosto da supporsi che
il sogno si sia prodotto in qualche stazione poco prima di Gorizia, quando il
sonno fu meno profondo e qualche cellula desta poté sorvegliare e ritenere,
il sogno.
Chissà poi se il sogno fu
proprio quello che il signor Aghios ricordò. Quando ci si desta da un
sogno, subito interviene la mente analizzatrice per connetterlo e completarlo.
È come se volesse fare una lettera da un dispaccio. Il sogno è come
una sequela di lampi e per farne un'avventura bisogna che il lampo divenga luce
permanente e sia ricostituito anche quando non si vide, perché non
illuminato. Insomma il ricordo del sogno non è mai il sogno stesso.
È come una polvere che si scioglie.
Insomma il signor Aghios era
avviato verso il pianeta Marte, sdraiato su un carrello che si moveva traverso
lo spazio come sulle rotaie. Egli vi era sdraiato bocconi e invece di pavimento
il carrello aveva delle assi su cui, dolorante, poggiava il suo corpo. Una
delle assi passava sul suo petto e rendeva più pesante la tasca che vi
era. Sotto a lui c'era lo spazio infinito e al di sopra anche. La terra non si
vedeva più e Marte non ancora, né si vide mai.
Il signor Aghios si sentiva molto
libero, molto più che in piazza S. Marco e anche troppo. Si guardava
d'intorno e non vedeva altro che spazio luminoso. Dove esercitare la sua
libertà se non v'era nulla che fosse schiavo? E a chi dire la propria
libertà? Per sentirla bisognava pur poter vantarsene. Anche nel sogno il
signor Aghios era riflessivo. Pensò: Io non sono solo, perché
c'è la mia libertà con me. La mia sola noia è quella tasca
di petto che duole.
Ma più che si procedeva
nello spazio, più solo il signor Aghios si sentiva. Giacché
andava al pianeta Marte egli pensò, per il sentimento d'onnipotenza che
il sognatore sente, ch'egli avrebbe potuto foggiare quel pianeta a sua
volontà. Previde quel pianeta. Ebbene, egli lo avrebbe popolato di gente
che avrebbe intesa la sua lingua, mentre egli non avrebbe intesa la loro.
Così egli avrebbe comunicata loro la propria libertà e
indipendenza, mentre loro non avrebbero potuto incatenarlo con le proprie
storie, che certo non mancavano loro.
Una voce proveniente dalla
stazione di partenza già tanto lontana domandò: Mi vuoi con
te?. Doveva essere la moglie. Ma il signor Aghios voleva la libertà;
finse di non aver sentito e anzi aderì ancora meglio al suo carrello per
celarsi. Così proseguì a grande velocità, che non si
percepiva causa la mancanza di cose e di aria e, correndo, pensò:
Voglio che mio figlio non rimanga solo.
Poi la voce fioca, lontana di
Bacis gli domandò: Mi vuole con lei?.
Aghios pensò che
l'intervento di Bacis l'avrebbe privato di ogni libertà. Appassionato
com'era, con lui non si poteva parlare d'altro che dei fatti suoi. Gli aveva
già pagato la gita in gondola ed era ridicolo volesse ora fare un simile
viaggio a spese sue. Andare al pianeta Marte per parlare di Torlano? Non ne
valeva la pena. Il signor Aghios si strinse meglio al carrello per continuare a
celarsi.
Una voce dolce, musicale, ma
vicinissima domandò: Io sono pronta alla partenza, se mi vuoi.
In sogno una parola e il suo
suono dipinge intera la persona che la emette. Era Anna, la fanciulla bionda,
alta, dalle linee dolci, salvo le mani abituate al grande lavoro. Quell'Anna
che s'era lasciata ingannare dalla sincerità della carne.
Il cuore paterno dell'Aghios si
commosse fino alle sue più intime fibre. Egli la voleva con sé
per allontanarla da Berta e da Giovanni che la umiliavano e anche dal Bacis del
quale non c'era da fidarsi, il traditore che l'aveva ingannata con la sincerità
della carne.
E subito essa fu con lui sul
carrello, sotto a lui, coperta da quegli stracci che l'adornavano, ma che
ricavavano ogni loro bellezza dal suo corpo morbido, giovanile, non ancora
sformato dall'incipiente maternità. I capelli biondi svolazzavano nell'aria,
che per essi c'era, sotto a loro. Ora non avrebbe più dovuto esserci del
dolore alla tasca del petto. Ma un greve peso v'era tuttavia. Anna
probabilmente vi si era afferrata per sentirsi sicura.
E si procedette così,
senza parole, mentre il signor Aghios pensò: È la mia figliuola.
Le insegnerò a non fidarsi più di alcuna sincerità.
Ora il motore del carrello doveva
fare un chiasso indiavolato. Tutto lo spazio ne era pieno. E l'Aghios si
domandò: Ma perché la mia figliuola ha da giacere così
sotto a me? È il sesso? Io non la voglio. E urlò: Io sono il
padre, il buon padre virtuoso.
Subito Anna fu seduta lontano da
lui, ad un angolo del carrello, in grande pericolo di scivolarne nell'orrendo
spazio e l'Aghios gridò: Ritorna, ritorna, si vede che su quest'ordigno
non si può stare altrimenti. E Anna obbediente ritornò a lui
come prima, meglio di prima. E lo spazio era infinito e perciò quella
posizione doveva durare eterna.
Uno schianto! Si era arrivati al
pianeta?
Infatti il treno, fermandosi,
sembrava volesse distruggere se stesso. Il signor Aghios saltò in piedi.
Soffocava, ma arrivava a ravvisarsi. Fra quel carrello e questo treno c'era una
confusione da cui era impossibile estricarsi. E la stessa confusione c'era fra
la gioia che aveva provato poco prima e la vergogna che ora lo pervadeva. Ma la
bontà del signor Aghios era infinita anche verso se stesso.
Pensò: Io non ci ho colpa. E subito sorrise.
Egli aperse una finestra e l'aria
si fece respirabile. Vide la campagna vuota: Una luce immota brillava dalla
casa di un contadino. Tuttavia abbattuto dal grande sonno, la stanchezza del
doppio viaggio, il signor Aghios ebbe ancora il tempo di guardare il giaciglio
vuoto del Bacis, eppoi anche il posto ove era giaciuta la sua valigetta. Il
Bacis se ne era andato discretamente, senza destarlo. Dovevano aver già
passato Gorizia.
Senza convinzione, con la testa
sul cuscino, l'Aghios pensò: Peccato! Se ci fosse stato gli avrei dato
subito le diecimila lire (non quindici). Sorrise! Era bello di non poter
pagare. Rimorsi non ebbe. La sua avventura, la più forte che avesse
avuta durante la vita, non usciva dalla vita del suo pensiero solitario e
perciò non aveva importanza. Tuttavia se il Bacis fosse venuto da lui a
Trieste, egli, d'accordo con la moglie, avrebbe tentato di aiutarlo in piena
virtù.
E s'addormentò
profondamente dopo di aver tratto sotto la propria testa anche il cuscino del
Bacis. Si sentiva perfettamente bene. Il vino era stato smaltito nella corsa
traverso gli spazi siderei e non lo turbava più.
VII. Gorizia-Trieste
Si destò che albeggiava,
squassato da un'altra fermata del treno. Saltò in piedi. Era una
stazione abbastanza considerevole. Gorizia!
Ma dove era dunque disceso il
Bacis? E l'Aghios fece con facilità la sua teoria su quell'abbandono. Certo
il Bacis aveva rinunziato alla speranza di trovare quel denaro da quel suo
parente a Gorizia e doveva essere disceso a Udine. Chissà quello che
avrebbe fatto! Forse avrebbe finito col decidersi di sposare Berta per poter,
da padrone, proteggere meglio Anna. Vedeva oramai quella storia tanto da
lontano che ogni accomodamento gli pareva possibile. In fondo Anna era
l'oggetto dell'amore e tale doveva rimanere. Cara! Cara! Quegli straccini, che
la vestivano tanto bene, non doveva abbandonarli.
Verso le sette, quando il treno,
con quel suo passo stanco di nottambulo che rincasa, cominciò ad
arrampicarsi sul Carso, in un istante di noia, non sapendo che farsi nella sua
solitudine, il signor Aghios trasse di tasca il portafogli e palpò le
banconote. Sorrise ai propri sensi ingenui che sentivano un dimagrimento del
pacchetto. Cosa vuol dire curarsi troppo di una cosa! Per rassicurarsi si
chiuse nella vettura, calò le tendine e si mise a contare accuratamente
le banconote. Non ve ne erano che quindici! Il Bacis ne aveva trafugate proprio
quindici. Oh! Quale canaglia!
Il primo movimento dell'Aghios fu
di correre al campanello di allarme. Vi pose persino la mano, ma dopo, da
persona timida, esitò davanti a quella minaccia di persecuzione penale.
E così ebbe il tempo di ragionare. Che scopo c'era di arrestare quel
treno lento, che si batteva al di sopra Barcola, sobborgo di Trieste, per
raggiungere il ladro ch'era disceso in una stazione non precisabile prima di
Gorizia e da li s'era avviato col suo bottino verso Torlano ove non cera
ferrovia? Nessunissimo, perché il conduttore del treno non avrebbe mai
acconsentito di cambiar rotta e portare lui e tutti i vagoni sgangherati verso
la Carnia.
Il signor Aghios si morse le
dita. Era tutto ira e vergogna. Vergogna di essersi lasciato turlupinare a quel
modo. Addio sentimento della libertà del viaggio, addio benevolenza.
Somigliava ad una di quelle figure sintetizzate tanto bene nelle nubi nere e
minacciose, ma egli non ricordava né le nubi, né i cani e neppure
le belle donne, i suoi aggradevoli monti compagni di viaggio. Alla stazione di
Tries*
Nota: "Corto viaggio sentimentale" risulta incompleto per la morte dell'autore (Italo Svevo morì in seguito ad un incidente automobilistico nel 1928).