ACCETTAZIONE DI UN DONO
Susanna Tamaro
Scrittrice

Non ho, purtroppo, un ricordo particolarmente felice del mio primo incontro con la dottrina cattolica. Rammento un’aula gelida, la voce cantilenante di un sacerdote che ci raccontava delle strane storie che non riuscivo ad ascoltare fino in fondo e la litania delle nostre risposte a voce alta, sempre uguali e sempre così incomprensibili. Dentro di me ribollivano già domande grandi e terribili. Perché c’è il male? Perché tutto finisce? Perché si nasce? Perché si muore? E invece di risposte, ricevevo soltanto delle «favolette» che non riuscivano a coinvolgermi. Avevo atteso con grande eccitazione l’inizio del catechismo, speravo di ricevere delle risposte alle mie inquietudini, ma quell’eccitazione, pomeriggio dopo pomeriggio, favoletta dopo favoletta, si era lentamente smorzata, lasciandomi sempre più delusa e insoddisfatta. Non c’era rabbia né rifiuto in quell’insoddisfazione, piuttosto l’amarezza di chi si sente non rispettato nel suo desiderio di accostarsi alla Verità.

Tornando a casa camminavo veloce, raccolta nei miei pensieri. Se Dio è buono e ci ama perché permette il male? Perché costringe Abramo ad alzare la mano armata su suo figlio Isacco? Perché Caino ha ucciso Abele? Perché Giuda ha preferito pochi soldi all’amore di Gesù? Ricordo la mia infanzia come una prolungata insonnia, alle volte avevo l’impressione che la testa mi scoppiasse per le troppe domande, per la totale assenza di un adulto capace di prendermi per mano e accompagnarmi alle risposte. In questa mia assoluta solitudine, soltanto due immagini mi apparivano pacificatorie: l’Angelo Custode e lo Spirito Santo. Entrambi avevano delle ali vaporose e bianche, entrambi vivevano accanto agli uomini ma non erano uomini, svolazzavano sopra di noi, partecipando agli eventi della terra senza venirne catturati, lontano dall’odio e dal tradimento che avevano ucciso Gesù.

Nel mio libro di dottrina, l’Angelo Custode era rappresentato accanto a un bambino che, con i quaderni sotto il braccio, attraversava la strada per andare a scuola. E così, effettivamente, io sentivo la sua presenza in ogni momento del giorno e della notte: dietro, sopra di me, alla mia destra. Lui leniva la mia solitudine, a lui, in modo silenzioso, parlavo e chiedevo consiglio. L’Angelo, però, era «facile» da capire. Meno comprensibile invece quella strana colomba che emanava luce e che, per vie allora assolutamente per me imperscrutabili, era imparentata con Gesù e il Dio di Abramo. Il giorno della Cresima ricordo di aver alzato lo sguardo al cielo per cercare, tra tutti i colombi grigi e grassi di città, la mia colomba bianca. Aspettavo con ansia il suo raggio di luce: sarebbe sceso dal cielo a illuminare la mia vita smarrita e paurosa trasformandola in quella forte e coraggiosa del «soldato di Cristo», come all’epoca dicevano al catechismo. Con Lei, grazie a Lei e per Lei, avrei affrontato qualsiasi vicissitudine senza arretrare, senza confondermi.

Da quel giorno di maggio sono trascorsi trentadue anni, un tempo sufficientemente lungo per guardarsi indietro e compiere un inizio di riflessione. Quella «traccia» che a venti, a trent’anni non si può ancora comprendere in tutta la sua pienezza, a quarant’anni diventa chiaramente visibile. Come è necessaria una certa distanza di osservazione per rendere apprezzabili i tratti di un dipinto, così ci vuole lo scorrere del tempo per comprendere l’agire dello Spirito Santo nel limite ristretto delle nostre vite. Solo così quello che sembrava un frammento diventa un particolare di fondamentale importanza, solo così la casualità scompare per lasciare posto alla trama di un preciso disegno. Riguardando indietro alla mia vita, se c’è un momento in cui ho sentito con precisione riaffiorare dentro di me la presenza dello Spirito Santo, è stato intorno ai ventitré anni, quando all’improvviso ho scoperto in me la capacità di scrivere e comunicare. Non ci avevo mai pensato prima, anzi i miei interessi erano stati fino a quel momento focalizzati in tutt’altro campo.

Ricordo precisamente lo smarrimento e il timore seguiti alla scoperta di questa capacità. Perché proprio a me? mi chiedevo. Che cosa ci devo fare? Ma allo stesso tempo, anche, la grande irragionevole certezza che la strada da percorrere fosse proprio questa. Era un po’ come se in me abitassero due persone: una totalmente certa della sua incapacità e l’altra stranamente sicura dell’importanza di ciò che stava facendo. Si parla tanto dell’arte, ma così poco di quello che succede nell’animo di un artista. Perché, a un certo punto, una persona scopre di possedere qualcosa dentro di sé che lo rende diverso dagli altri? Cos’è quel qualcosa? Che senso deve prendere nello sviluppo di una vita? Con il passare degli anni ho dovuto cercare di rispondere a tutte queste domande e così, lentamente, mi sono resa conto che il talento artistico è una sorta di lama a doppio taglio. Se è vissuto per quello che è - un dono che racchiude in sé il mistero della gratuità - può portare chi lo possiede a compiere un cammino di grande ricchezza interiore e di straordinaria condivisione con gli altri. Se invece viene vissuto come un merito personale, qualcosa che rende diversi e superiori agli altri, la strada di chi lo percorre inevitabilmente si avvolgerà su se stessa in una spirale soffocante. Il mito, così caldamente coltivato in questo secolo, dell’artista artefice assoluto della sua grandezza, e dunque implicitamente superiore agli altri, non è altro che la conseguenza di questa sottile e demoniaca presunzione.

Naturalmente ricevere il dono è soltanto il punto di partenza, la strada per rendere questo dono esplicito è spesso lunga e faticosa, carica di sofferenze. E richiede la totale confidenza nei carismi dello Spirito Santo - intelletto, scienza, consiglio, timor di Dio, fortezza, pietà, sapienza. Perché, quand’anche si riuscisse a sviluppare con successo il talento, ci sono subito pronte le potenti insidie del mondo, prime fra tutte la vanità, l’orgoglio e l’avidità, con tutte le conseguenze di oscurità, di falsi valori e di confusione. Basta abbandonare anche per poco la confidenza e il sostegno dello Spirito perché l’umiltà si trasformi nel suo opposto, la superbia. Non ho mai considerato lo scrivere un mestiere, né mai lo potrò fare. So che è stato qualcosa che ha assorbito una certa parte della mia vita e che mi ha permesso di comunicare sentimenti e riflessioni con un gran numero di persone, in gran parte del mondo. Continuo a considerarla una straordinaria avventura umana e spirituale della quale non ho alcun merito, se non quello di aver confidato pienamente nel carisma che, ad ognuno di noi, affida lo Spirito Santo.

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