Susanna Tamaro

                           

Anima Mundi

 

                                                                               Non meravigliarti se ho detto: dovete nascere in modo                                                                   nuovo. Il vento soffia dove vuole: uno lo sente, ma non può  dire da dove viene né dove va. Lo stesso accade con chiunque è nato dallo Spirito.

Giovanni 3.7,8

 

Fuoco

 

I

 

In principio era il vuoto. Poi il vuoto si è contratto, è diventato più piccolo di una capocchia di spillo. E stata una sua volontà o qualcosa l'ha costretto? Nessuno può saperlo, ciò che è troppo compresso alla fine esplode, con rabbia, con furore. Dal vuoto è nato un intollerabile bagliore, si è sparso nello spazio, non c'era più buio lassù, ma luce. Dalla luce è scaturito l'universo, schegge impazzite di energia proiettate nello spazio e nel tempo. Correndo e correndo, hanno formato le stelle e i pianeti. Il fuoco e la materia. Sarebbe potuto bastare questo, eppure non è bastato. Le molecole di amminoacidi hanno continuato, millennio dopo millennio, a modificarsi finché è nata la vita: microscopici esseri unicellulari che, per respirare, hanno avuto bisogno di un batterio. Da lì, da quelle pozze primordiali, con un movimento progressivo di ordine, ha avuto inizio ogni forma vivente: i grandi cetacei degli abissi e le farfalle, le farfalle e i fiori che ospitano le loro larve.

E l'uomo, che invece di andare a quattro zampe si erge su due. Da quattro a due le cose cambiano, il cielo è più vicino, le mani sono sgombre: quattro dita che si muovono e un pollice snodato possono afferrare tutto. E allora è libertà, dominio dello spazio, azione, movimento, possibilità di fare ordine o disordine. Intanto l'universo si apre, le stelle sono sempre più lontane, fuggono ai bordi come palle da biliardo. Tutto questo lo ha fatto qualcuno o è andato avanti da sé, con l'inerzia di una valanga? Si dice: la materia ha le sue leggi, a quella temperatura, a quelle condizioni non poteva fare altro che questo, l'universo. L'universo e la minuscola galassia con dentro, sospeso, il giardino fiorito della terra. Un centinaio di specie di piante e di animali sarebbe già stato più che sufficiente per trasformare il nostro pianeta in qualcosa di diverso dagli altri. Invece di forme di vita differenti ce ne sono decine e decine di migliaia, nessun uomo in una sola esistenza potrebbe imparare a riconoscerle tutte. Spreco o ricchezza? Se la materia ha le sue leggi, chi ha fatto le leggi della materia? Chi ha fatto ordine? Nessuno? Un dio della luce? O un dio dell'ombra? Quale spirito alimenta chi, programmando una cosa, ne programma anche la sua distruzione? E poi, che importanza può avere? Noi siamo in mezzo, costantemente schiacciati fra i due princìpi. Una forma fugace di ordine, le cellule si aggregano nel nostro corpo, nel nostro volto. Il nostro volto ha un nome. Il nome, un destino. La fine del percorso è uguale per tutti, l'ordine si dirada, diventa disordine, gli enzimi partono con i loro messaggi e non trovano più nessuno ad accoglierli. Staffette di un esercito che non esiste più da nessuna parte. Intorno c’è il silenzio sordo della morte.

Ordine, disordine, vita, morte, luce, ombra. Dal momento in cui avevo preso coscienza del mio esistere, non avevo fatto altro che interrogarmi, mi facevo domande a cui nessuno poteva rispondere. La saggezza forse è solo non chiedersi niente. Non sono saggio, non lo sono mai stato. Il mio elemento non è il quarzo ma il mercurio. Materia instabile, mobile, febbricitante. L'argento vivo destinato a muoversi sempre. E sempre nel disordine. Pensavo queste cose appoggiato al cancello del cimitero aspettando la salma di mio padre. Faceva freddo, c'era vento, gli unici uccelli capaci di sfidarlo erano i corvi. Il furgone del comune è arrivato in ritardo avvolto in una nube nera di gasolio. “Dov'è il prete?” mi hanno  chiesto scaricandolo. “Il prete non viene”, ho risposto. Tutto si è svolto in maniera rapida, il loculo era già aperto, gli uomini hanno issato la bara e l'hanno infilata dentro, poi l'hanno chiusa con una lastra bianca. Per fissarla hanno usato il trapano. C'era solo quel rumore intorno e il gracchiare dei corvi. Invece di fare un discorso, i suoi tre amici - gli unici ancora vivi - si sono messi a cantare qualcosa che assomigliava all'Internazionale. Cantavano debolmente, come possono cantare le persone molto vecchie. Il vento soffiava a raffiche, le note uscivano e subito venivano strappate via. Io guardavo loro e loro non guardavano me. Avevano tre garofani rossi in mano, li tenevano con goffa timidezza, come bambini che non sanno a chi darli. Fuori dal loculo c'era un vasetto ma era troppo alto per essere raggiunto. Si sono guardati un po' intorno, indecisi sul da farsi, poi hanno aperto le dita e li hanno fatti cadere per terra. La notte aveva piovuto, la melma del suolo ha intriso i petali. Non erano più fiori ma rifiuti.

Siamo usciti uno dopo l'altro con lo sguardo basso. Davanti al cancello del cimitero ho dato una mancia ai becchini, e senza dire una parola ho stretto la mano ai suoi amici. A sud il color piombo del cielo si stava aprendo in una fessura più chiara. Tutto era finito, chiuso, chiuso per sempre.

Mio padre era alto un metro e ottantacinque, pesava una novantina di chili. Aveva scarpe enormi. Da piccolo ci mettevo i piedi dentro, per me non erano scarpe ma piroghe della Polinesia, il battipanni era il remo e così andavo in giro per la stanza.

Era nato qualche anno dopo la fine della grande guerra. Con il suo corpo massiccio aveva attraversato gran parte del secolo. Assieme a lui, lo avevano attraversato i suoi succhi gastrici, i neuroni cerebrali con gli alberelli dei dendriti, il cuore con i ventricoli e le orecchiette, il viavai di sangue arterioso e venoso, le ossa, i tendini, le pareti spugnose dei polmoni, quelle lisce e scivolose dell'intestino.

Per ottant'anni quell'insieme di funzioni che rispondeva al nome di Renzo si era mosso tra lo spazio e il tempo.

Aveva combattuto per qualcosa e contro qualcos'altro; aveva urlato, sbraitato, consumato un numero imprecisato di ettolitri di bevande alcoliche. Aveva fatto vivere nel terrore mia madre e divertire gli amici dell'osteria; aveva messo al mondo un figlio. E proprio quel figlio, quella stessa mattina, l'aveva sepolto e aveva dato la mancia ai becchini. Quel figlio non era triste ma stupito. Forse succede sempre così quando l'ultimo genitore se ne va. A un tratto si è soli e, in quella solitudine, molto cambia. Non si è più figli, non c’è più nessuno contro cui agire. La fine che in ordine naturale si profila all'orizzonte è la nostra. Mia madre diceva che il mondo l'aveva fatto Dio, mio padre sosteneva che Dio se l'erano inventati i preti per fare stare buona la gente. Io, fino a un certo punto, ho preferito pensare a qualcosa di più semplice, a un prestigiatore ad esempio. Avevo visto un giorno uno spettacolo dove un signore, con un colpo di bacchetta, tirava fuori da un cappello un coniglio. Con la stessa bacchetta, poco dopo, rimetteva insieme i cocci di un bicchiere. Con una bacchetta, dunque, si potevano fare un mucchio di cose. La bacchetta la usava anche il direttore della banda. Agitandola in aria trasformava quella confusione di sgorbi neri sulla carta in una musica che faceva piangere.

Ho creduto al prestigiatore abbastanza a lungo. Poi, da un giorno all'altro, non ho creduto più a niente. E successo quando è morto un mio compagno di scuola. Andava in bicicletta a comprare le sigarette per la madre. Era l'imbrunire e ci si vedeva poco, una macchina l'ha urtato e poi l'ha preso sotto. Non eravamo amici in modo particolare, soltanto, il giorno prima, mi aveva imprestato la sua gomma da cancellare. A un tratto il suo banco era vuoto e la gomma è rimasta in fondo alla mia cartella, non c'era più nessuno a cui restituirla. Tutto qui. Prima c'era Damiano e poi, al suo posto, c'era il vuoto.

Eravamo andati ai funerali con il grembiule e il fiocco, i due più alti reggevano una grande corona. Per arrivare al cimitero si passava davanti alla sua casa. La madre si era scordata di ritirare il bucato, i suoi pantaloni e le sue camicie erano ancora lì, stesi sul filo, battuti dal vento come bandiere di un paese scomparso. Quando il prete ha detto: “Pensiamo al tuo piccolo sorriso lassù, tra i pascoli del cielo”, sono scoppiato a piangere. Non piangevo di commozione, ma di rabbia. Perché ci prendono in giro? mi dicevo. Lui non c’è più da nessuna parte. La gomma è fredda nella mia tasca.

Quel giorno ho capito di essere come quei fachiri che, in India, vivono per anni appollaiati sulla sommità dei pali. Ero solo, seduto in cima a un palo, con il vuoto intorno e, nella testa, i miei pensieri. Probabilmente anche gli altri erano così, soltanto che sembravano non accorgersene.

Una volta, la maestra ci aveva spiegato che i saprofiti erano uno dei fondamenti su cui posava la nostra esistenza. Potevano essere sia piante che animali, il loro compito era di decomporre tutto ciò che un giorno aveva avuto vita propria. Scindevano le molecole complesse in semplici. L'ammoniaca, i nitrati, l'anidride carbonica dei nostri corpi aiutavano le piante a crescere. Gli animali mangiavano le piante e noi mangiavamo gli animali e le piante. La quadratura del cerchio. Prima del vuoto totale c'erano queste piccole creature, gli umili trasformatori. Mentre gli amici di mio padre biascicavano l'Internazionale, era proprio a loro che pensavo. Guardavo i tre vecchi e mi domandavo se sentivano quel brulichio ansioso sotto i loro piedi. Anche loro in fondo non erano che mangime per i saprofiti, e laggiù lo sapevano. Non era serio e neanche gentile pensare questo, ma non riuscivo a togliermelo dalla testa.'A più di vent'anni di distanza mi erano tornate in mente tutte le fantasie sulla morte della mia infanzia.

Quando se ne era andata la nonna, mia madre mi aveva spiegato che la morte è una specie di finta perché non si muore mai per sempre. “Un giorno”, mi aveva detto, “suoneranno le trombe del giudizio. Quelle trombe saranno una specie di grande sveglia e tutti usciranno dalle loro tombe.” Ero rimasto perplesso. Conoscevo già l'esistenza del paradiso, del purgatorio e dell'inferno. Così mi chiedevo, com'è possibile? Quando si muore, si va in alto oppure in basso o ci si ferma per un po' a mezza strada. Dipende se si è stati buoni o meno. Che cosa c'entrano allora i sarcofagi scoperchiati? Là dentro non doveva esserci più niente. Non riuscivo a farmi una ragione del perché, a un certo punto, bisognasse precipitarsi di nuovo tutti nelle tombe, come un'adunata. Pensando a quella cosa, mi venivano in mente le mattine in cui, pur essendo sveglio, facevo finta di dormire. Mi piaceva essere svegliato da mia madre, così appena sentivo i suoi passi chiudevo di nuovo gli occhi, era una specie di gioco. Forse un giorno tutte le persone morte, per far piacere a Dio, avrebbero fatto solo finta di essere gi… morte. A un segno convenuto, dall'inferno dal paradiso e dal purgatorio, con un gran fuggi fuggi si sarebbero precipitate tutte nel luogo in cui erano state sepolte.

Ma anche se così fosse stato, c'erano comunque dei problemi pressoch‚ insormontabili. Avevo visto come avevano chiuso la nonna e sapevo quanto era piccola. Come avrebbe fatto a liberarsi da quel coperchio? Per lei anche uno stuzzicadenti sarebbe stato troppo pesante. E tutti quei poveretti che erano stati fatti a pezzi sui campi di battaglia? I corpi dei soldati di Pirro e di Annibale mischiati ai corpi enormi degli elefanti? Com'era possibile che, allo squillo della tromba, ognuno trovasse il suo pezzo? Se nella fretta qualcuno, per sbaglio, avesse afferrato la gamba di un nemico o, peggio, la rotula di un elefante? Cosa sarebbe successo? Sarebbe andato al cospetto di Dio conciato in quel modo? E gli abitanti dell'India, che nessuno aveva avvertito, e continuavano a farsi bruciare? Anche la cenere poteva risorgere?

Sono arrivato a casa dopo il funerale con queste idee in mente e ho subito cercato qualcosa da bere. C'era solo una mezza bottiglia di un liquore dolce, ancora quello che mia madre usava per fare le torte. Non aveva più alcun profumo ma l'alcol c'era lo stesso così l'ho bevuto senza neanche prendere un bicchiere. Avrei voluto sdraiarmi ma non era possibile, il divano era soltanto uno striminzito divanetto di skai.

Ero seduto in quello stesso posto, con i piedi che neanche toccavano per terra, quando avevo chiesto a mia madre: “Il diavolo esiste?” Lei stava lavando i piatti, vedevo la schiena con il grembiule allacciato poco sopra il sedere. “Cosa ti salta in mente?” era stata la sua risposta vagamente sorpresa. La mia domanda era stata neutralizzata da un'altra domanda. “Niente”, avevo detto allora, alzando le spalle.

Qualche giorno dopo, avevo ripetuto la stessa domanda a mio padre. Era scoppiato a ridere. “Certo che esiste”, era stata la sua risposta, “il diavolo sono i fascisti.” Allora mi era stato chiaro che nessuno di loro era in grado di rispondermi.

Pensavo spesso a quello scheletro con una falce in mano, dipinto sulle pareti della chiesa. Tagliava il fieno e il fieno erano le nostre vite. Se Dio era buono come dicevano, chi aveva inventato quello scheletro? Forse Dio non era così buono. O forse era buono ma distratto. O forse aveva avuto un giorno di malumore e, in quel giorno, aveva creato il diavolo. Il diavolo e la morte.

Quando mia madre mi vedeva assorto, diceva sempre: “Perché non vai in cortile a giocare con gli altri?” Adesso nessuno mi diceva più niente. Ero tornato a casa. La casa era vuota e io ero grande. Le domande che mi ponevo erano le stesse di quando non riuscivo, dal divano, a toccare terra con i piedi.

Una volta, al cinema domenicale, avevo visto Moby Dick. Una frazione di secondo prima che la balena bianca erompesse fuori dalle acque, il proiettore aveva preso fuoco. C'era stata una fiammata e subito dopo, nel buio della sala, era ricomparso il lenzuolo bianco..

Mi è tornato in mente pensando al mio passato. Cosa era successo in tutti quegli anni?

Ero scappato, fuggito lontano. In quella fuga, mi ero illuso di costruire una vita diversa. Poi ero tornato. Come un bravo figlio, avevo seppellito mio padre e dato la manciò ai becchini. Nel darla, mi ero reso conto che, dietro di me, c'erano soltanto fotogrammi bruciati. Il leviatano non era morto n‚ scomparso. Stava ancora lì, appena sotto la superficie dell'acqua. Camminando tra le stanze vuote intravedevo la sua sagoma, era minacciosa, grigiastra, silente, pronta ancora a balzare fuori e a distruggere ogni cosa.

 

 

II

 

La casa in cui sono nato è una palazzina di tre piani edificata all'inizio degli anni Cinquanta. Cemento grigio fuori e squallore interno, non c’è niente ad abbellirla. Le finestre della cucina danno sulla strada e quelle delle camere da letto sul cortile. Un cortile dove non crescono fiori ma rottami di automobili. Le tapparelle di plastica, un tempo azzurre, ora sono di un colore indefinito. Per le scale c’è un forte odore di umidità misto al tanfo di pipì di gatto. Dapprima ci abitava solo mia madre, poi, quando si è sposata, è venuto a starci anche mio padre.

Malgrado ci sia, sulla credenza, una foto di loro due con me piccolo in braccio e malgrado loro sorridano, non ricordo un solo istante del mio passato in cui, fra quelle quattro mura, ci sia stato qualcosa di simile alla felicità.

Non dico quella dei vecchi film americani, dove tutti si parlano con musi da cerbiatti. Mi sarei accontentato di qualcosa di più semplice, di più essenziale. Se penso a qualcosa di fisico, penso a una colla tiepida. Una colla che tiene assieme i pezzi. Io sono qui e tu sei qui vicino, la colla ci unisce, ci aiuta a capire quel che facciamo. Invece niente, c'erano due persone in quella casa, e quelle due persone avevano la stessa vicinanza di un muro e una scarpa. Poi ne è venuta una terza, ed era un'altra cosa ancora, una vanga, ad esempio. Il muro, la scarpa e la vanga vivevano insieme sotto lo stesso tetto. Tutto qui.

Onora il padre e la madre. Questo comandamento, a un certo momento della mia vita, mi ha fatto più paura di qualsiasi altro. Avevo ormai imparato come nascono i bambini e la legge prepotente che fa andare avanti il mondo. In un determinato momento, tutti i mammiferi entrano in fregola: i maschi cercano le femmine e così avviene l'accoppiamento. La natura ha una fantasia tremenda, ha immaginato un'infinità di stratagemmi affinché questo possa compiersi. A loro modo si accoppiano anche gli alberi. Tutto procede con questa musica forzata.

Lentamente ho compreso che quel comandamento non vuol dire, come tutti pensano, sii gentile con i tuoi genitori, porta a casa il resto giusto della spesa e non rispondere male. Vogliono far credere ai bambini che sia questo, ma non è vero niente, è solo una copertura, una toppa sul maglione per coprire il buco. La verità è ben diversa ed è imbarazzante anche solo intuirla.

Onora il padre e la madre vuol dire: non immaginare mai l'istante in cui ti hanno concepito. Continua a pensare alle cicogne e ai cavoli, a stormi di cicogne e latifondi di cavoli. Fallo fino alla fine dei tuoi giorni perché altrimenti dovresti renderti conto che in quell'istante, nella maggioranza dei casi, non c'era un progetto d'amore ma un richiamo ben più terreno. Nessuno ha immaginato l'essere che sarebbe venuto al mondo, nessuno l'ha desiderato, nessuno ha atteso la sua diversità, i suoi occhi, le sue mani, il suo modo nuovo di vedere le cose. Semplicemente, c'era un prurito da qualche parte, quel prurito andava soddisfatto. C’è stato un attimo di disattenzione e, in quell'attimo, tua madre e tuo padre sono diventati te.

Naturalmente esistono le eccezioni. Ci sono sempre alcuni - pochi - fortunati al mondo, ma io, a quattordici anni, ero cosciente di non esserlo. Guardavo il grande orco mangiare. Rompeva il pane in pezzi, lo gettava nella minestra, ruminava con lo sguardo sempre basso. Lo guardavo mangiare e sapevo che mi aveva concepito allo stesso modo. Mentre da morula diventavo blastula, mentre il mio essere cresceva, lui russava sconciamente con il fiato pesante e la bocca aperta.

Ero ormai alle soglie dell'adolescenza. Mi sentivo come un animale alla fine del letargo. Per tutto il tempo delle medie avevo pensato solamente al vuoto. Al vuoto e a ciò che c'era e non c'era dietro. Erano stati pensieri velati di tristezza, c'era malinconia in ogni mio movimento. Alle volte passavo pomeriggi interi in camera mia a guardare fuori dalla finestra. Fissando il vuoto succedeva persino che mi mettessi a piangere. Andavo così lontano nei miei pensieri che non riuscivo più a trovare la strada per tornare indietro. Ero triste e basta, e quel pianto in qualche senso era una specie di consolazione. A scuola si erano accorti di questo mutamento. Avevano chiamato mia madre e le avevano detto: “Non è normale, il ragazzo si comporta come un vecchio”. Anche a mio padre non era sfuggito il mio stato. Durante una cena, indicandomi con il mento, aveva chiesto a mia madre: “Cosa c’è? E malato?” Ero sempre stupefatto da come non mi rivolgesse mai la parola. Temeva forse che parlassi una lingua diversa? Ogni volta che doveva chiedere qualcosa si rivolgeva a mia madre: “Dove va?” chiedeva, oppure, “Perché torna così tardi?” Io li guardavo parlare, come un sordomuto seguivo il discorso dalle labbra di uno alle labbra dell'altra.

Questo stato di apatia è durato fino a quattordici anni o quasi. A quell'epoca è avvenuta una sorta di sbrinamento interiore. Era come se il sangue avesse cambiato colore, intensità di corsa, propulsione. C'era un'altra vitalità in me, ogni giorno ero più alto, più forte. Con un po' di fortuna genetica sarei diventato alto come mio padre, altrettanto forte. Allora avrei potuto finalmente pararmi davanti a lui e dirgli: “Ti odio”. L'odio era il sentimento che provavo nei suoi confronti da quando avevo memoria di me stesso. Non penso che lui sentisse la stessa cosa, non almeno fino a quel momento. Per gran parte dell'infanzia credo di essergli stato completamente indifferente. Qualche volta un fastidio, questo sì, ma non altro. Dei bambini dovevano occuparsi le donne, gli uomini subentravano in un secondo momento. Mi immaginavo una specie di fermata di autobus, mia madre sarebbe scesa e mi avrebbe lasciato lì; poco dopo sarebbe arrivato mio padre e mi avrebbe portato con sé per un'altra parte del tragitto. Ero un pacco ordinato per corrispondenza, il contenuto doveva essere conforme a ciò che era scritto sul catalogo, se era diverso, bisognava rispedirlo al mittente. Io sono nato presto, troppo presto. Se fossi nato adesso, mio padre avrebbe utilizzato le vie più moderne della genetica. Avrebbe riempito un modulo con tante crocette, una accanto a “maschio”, una vicino a “buona salute”, una terza accanto a “comunista”, una quarta accanto a “non finocchio”.

Mio padre si riteneva così perfetto da non riuscire a immaginare neanche lontanamente che io avrei potuto essere qualcosa di meno di una sua fotocopia. Lui era il massimo e io dovevo essere uguale a questo massimo. Questa è la grande, spaventosa contraddizione. Gli esseri umani, più di ogni altra cosa, hanno paura della diversità e, malgrado ciò, continuano a mettere al mondo dei figli. Ma un figlio, per forza di cose, è sempre diverso. E allora è veleno che mescoli al tuo stesso cibo.

In realtà, la via giusta per riprodursi sarebbe quella scelta, o meglio subìta, da Frankenstein. Un fantoccio con delle molle in testa, nelle molle passa l'elettricità e il gioco è fatto. C’è un'altra forma di vita, identica al modello che stava sdraiato lì accanto. Il mondo sarebbe più tranquillo, noioso forse, ma con meno sofferenza. Invece un bel giorno tua madre ti lascia alla fermata dell'autobus, stai lì smarrito come Pollicino, poi arriva tuo padre, ti guarda e dice, cos’è questo schifo? E tu non sai più cosa pensare di te stesso.

Una sera, mentre parlava di me con mia madre – io ero lì con loro, nella stanza ' invece di dire, come aveva sempre fatto, “il bambino” o “il ragazzo” - che equivaleva a dire “il cane” - ha detto “tuo figlio”. Ha detto così, come se mia madre fosse una lumaca o una di quelle creature che hanno il dono di poter fare tutto da sole. Ha detto “tuo figlio” e, nel dirlo, c'era un tono che non era neutro per niente. Così ho capito una delle leggi di natura - che non è scritta da nessuna parte - e cioè che se i figli vanno bene, sono del padre, se invece non funzionano, restano per tutta la vita un'appendice della madre. Mia madre era una donna silenziosa e tranquilla. Sono rimasto piuttosto sorpreso quando mi ha detto che aveva conosciuto mio padre a un ballo. Era la sagra di ferragosto e avevano ballato insieme tutta la notte. All'epoca, lei aveva diciassette anni, frequentava l'ultimo anno delle magistrali. Le piacevano molto i bambini e comunque, allora, per le ragazze che studiavano non c'era molta scelta. O maestre o dattilografe. C'era una sua foto con il grembiule nero e tutta la classe intorno fatta poco prima del diploma. Io la guardavo spesso. E più la guardavo, più mi convincevo che quella ragazza non era mia madre ma un'altra persona. C'era luce nei suoi occhi, e un sorriso che avrebbe fatto innamorare anche i sassi. Non potevo fare altro che domandarmi: quale delle due è la vera, l'allegra o la triste? Crescendo si cambia, me l'hanno sempre detto. Ma perché il cambiamento deve essere sempre in peggio? C'era stato quel ballo e Ada aveva conosciuto Renzo. Non era stato un semplice incontro, ma un colpo di fulmine. Poi c'era stata la guerra, un fulmine ancora più grande. La guerra li aveva separati. Per tutto quel periodo lei lo aveva atteso, non si era distratta dal pensiero di lui neppure per un istante. Al ritorno si erano sposati. Poi, un bel po' di anni dopo, ero nato io, che ero – sarei dovuto essere - il coronamento di quel sogno. Una storia bella, toccante, se fosse stata una commedia. Alla fine, per l'entusiasmo, tutti avrebbero battuto le mani. Invece di entusiasmante non c'era proprio niente. Quando stavamo tutti e tre a casa, eravamo come tre pesci rossi chiusi in una boccia di vetro senza ricambio di acqua. La mancanza di ossigeno intossicava le branchie, quando aprivamo la bocca uscivano soltanto bolle d'aria.

Mio padre perdeva sempre la pazienza. La perdeva per un nonnulla, perché al mattino non trovava una calza o perché nella minestra c'era troppo sale o perché, studiando, con una matita mi grattavo la testa. In casa era un'esplosione continua, lui bestemmiava le cose peggiori, buttava tutto per terra, dava calci alle mura e agli armadi. Poi, quando non c'era più niente da rompere, usciva di casa sbattendo la porta.

Una volta, in un libro, ho letto che anche i gabbiani fanno così quando si arrabbiano tra di loro. Invece di darsi addosso cominciano a strappare l'erba con furore. La strappano e la buttano per terra, polverizzano tutto quello che capita a tiro del becco. Vanno avanti fino allo stremo delle forze. Soltanto allora si fermano e riprendono l'attività di prima come se niente fosse. Fanno così non per bontà ma perché è più conveniente. Va contro le leggi della sopravvivenza distruggere individui della propria specie.

Il comportamento di mio padre era uguale a quello dei gabbiani. Rompeva i piatti e le sedie per non rompere la testa a sua moglie e a suo figlio.

Sono cresciuto nel terrore. Crescendo nel terrore ho imparato che, alla fine, anche il terrore viene a noia. Sognavo sempre che un giorno, all'improvviso, succedesse qualcosa di diverso. Non so, che lui sbraitasse: “Non c’è sale” e lei rispondesse: “Vattelo a prendere”, oppure che lui si mettesse a tavola e dicesse: “Non ho mai mangiato niente di così straordinariamente buono”. Non succedeva mai.

Gli inferni sono lastricati dalla buona volontà dei singoli. Si scelgono le battute di un radiodramma e sono sempre quelle. E un po' come gli asini che tirano la macina, alla fine, per la monotonia di girare intorno, si convincono che non esiste una sorte migliore di quella.

Così, fino a una certa età, mi sono sentito il protettore di mia madre, la sua consolazione. Una volta addirittura, quando già sapevo andare in bicicletta, le ho proposto di scappare insieme. Io porterò il latte la mattina nelle case, le avevo detto, e vivremo felici per sempre, lui non ci troverà e, anche se ci dovesse trovare, non gli apriremo la porta. Avevo quell'età ingenua in cui ci si aspetta una risposta chiara. Ancora non conoscevo la questione del radiodramma, ero convinto che lei fosse una vittima e, come vittima, non avrebbe potuto fare altro che dire: “Sì, va bene, fuggiamo insieme”.

Che mia madre fosse complice l'ho capito molto più tardi, in piena adolescenza, quando lei, invece di difendermi, ha cominciato ad attaccarmi. Soltanto allora mi sono reso conto che per quanto incomprensibile, pazzo, irragionevole fosse, la cosa più importante era il loro rapporto. Il radiodramma d'odio. Per tanti anni io avevo fatto il rumore di fondo. Ero le porte che si aprono e si chiudono, il cigolio di un letto, un colpo di tosse, uno starnuto. Ero - e sarei dovuto rimanere - tutto questo.

Il giorno stesso in cui ho alzato la testa e la voce, chiedendo una parte tutta per me, anche mia madre mi si è rivoltata contro.

E stata forse questa, fra tutte le cose, la più dura, la più pesante. Per tanti alcuni le nostre esistenze si erano garantite a vicenda: esistevamo uno per l'altra e viceversa. Poi, a un tratto, lei ha preso un pennarello nero e ha coperto gli occhi e il sorriso.

Cos’è successo a quel punto? Mi sono pentito di essere bravo. Proprio così. Da un giorno all'altro, avrei voluto cancellare il mio passato. Mi vergognavo di tutto ciò che ero stato. Della mia bontà, della mia arrendevolezza, del fatto che “ringraziando il cielo, non davo nessun pensiero”. Non mi era costato nessuno sforzo. Essere silenzioso e gentile faceva parte della mia natura, era un modo per vivere, spendendo meno energie. Nella testa avevo pensieri tremendi, eppure dicevo sempre: “Sì, signora maestra”.

Non ero il primo della classe, neanche il secondo o il terzo. Primeggiare era comunque uno spreco idiota di energie. Tuttavia ero indicato a dito. Le mamme e le maestre dicevano: “Guardate Walter come non dà fastidio”.

Così ho pensato, se rinasco, faccio pipì sui banchi, inchiodo i gattini alle porte. Se rinasco, dò fastidio fin dal primo istante. Non c’è un solo motivo di rendere la vita facile a chi, poi, te la renderà difficile.

Per i primi quindici anni avevo perso la partita. Averlo capito era già un fatto importante. Era come se fossi salito su una sedia. Il paesaggio che vedevo era lo stesso di sempre, solo che lo vedevo da una prospettiva diversa. Ho cominciato così a provocare. Non c'era giorno in cui non dicessi qualche cattiveria a mia madre. Con mio padre ancora non osavo, insultare lei era un modo per saggiare il terreno. Se uno esce dal radiodramma, mi chiedevo, cosa succede?

Così la provocavo. “Ti fai trattare come una ciabatta”, le dicevo, “per lui il mondo intero è solo carta per pulirsi il culo, tu sei un foglietto, ma io non voglio esserlo.” Allora lei iniziava a fare qualcosa con le mani. Puliva una mensola con una spugnetta o altre cose del genere.

Lo stratagemma era sempre lo stesso dei gabbiani, puliva fissando ciò che stava pulendo e intanto sibilava: “Non parlare così di tuo padre, non te lo permetto”. “E perché mai non dovrei?” rispondevo io. “Tu hai paura a dire la verità ma io no. La verità è che è uno stronzo.” “Dove hai imparato a parlare in questo modo?” “Dove? Dove? Lo vuoi proprio sapere? Prova a immaginare, sforzati. Da quello stronzo di mio padre.”

Andavamo avanti così per ore, fino allo sfinimento. Lei continuava a pulire e io continuavo a urlare, andando avanti e indietro per la stanza. Non c'erano vittorie e non c'erano sconfitte. Entrambi volevamo cose impossibili. Lei, che io tornassi a essere il rumore di fondo. Io, che lei ammettesse il suo odio.

“Perché l'hai sposato?!” le ho gridato un giorno.

“Perché lo amavo”, ha risposto lei guardandomi negli occhi. “Perché lo amo.”

La guerra era sempre la grande giustificazione, quella che secondo lei doveva mettere a tacere ogni cosa. “Non puoi capire”, diceva, quando si trovava con le spalle al muro, “tuo padre ha fatto la guerra. E stato un partigiano.”

La guerra era quella sui monti. Era stato via parecchio tempo e nessuno aveva avuto sue notizie. Che cosa avesse fatto in quegli anni non lo raccontava neanche lui.

Io conoscevo Tex Willer, Pecos Bill e un paio d'altri che avevano fatto delle cose importanti. Gli eroi dei film e dei fumetti non avevano niente a che vedere con mio padre. Erano coraggiosi, forti. Prima di sparare, guardavano sempre i nemici nel bianco degli occhi. Chi prende a calci le sedie e i muri - pensavo -  è solo e soltanto un uomo che ha paura. Un vile vigliacco con l'insulto perpetuo sulle labbra. Non c'era niente di grande in mio padre, niente di memorabile. Neanche per attraversare la strada gli avresti dato la mano, non parliamo trovarsi sull'orlo di un burrone.

L'unica cosa notevole in lui era il disprezzo. Era qualcosa di così forte che, già da bambino, ero in grado di sentirne l'odore. Era acido, acuto, doveva essere un misto di ormoni e adrenalina. Stava intorno a lui e lo seguiva come una nube.

Nelle giornate di loquacità, anche lui cominciava con la guerra. Succedeva quando mi lamentavo di non poter fare o avere qualcosa. In quel momento attaccava: “Ci vorrebbe la guerra”, diceva, “vorrei vederti correre con le bombe che ti sibilano intorno o fuggire a un rastrellamento. Ti ci vorrebbe un tedesco che ti insegue con una Luger in mano. Dovresti piangere per il freddo e per la fame”.

Andava avanti per ore con amenità del genere. Appena mi distraevo, batteva il pugno sul tavolo e gridava:  “Ascolta!” Il succo di tutto questo era che dovevo ritenermi fortunato. Una guerra era finita e ancora non ne era scoppiata un'altra.

Qualche anno dopo ho sentito una storia, una storia che sarebbe piaciuta a mio padre. Riguardava un ragazzo americano, nato da una coppia sopravvissuta ai lager nazisti. Era venuto al mondo quando le ceneri erano ormai spente. Ciononostante, dal giorno stesso in cui aveva cominciato a comprendere il significato delle parole, i suoi genitori non avevano fatto altro che ripetergli: “Non hai vissuto quello che abbiamo vissuto noi, non conosci l'orrore, la deportazione, la fame, l'umiliazione. Non sei degno di esistere”. Lui non aveva mai replicato, aveva aspettato pazientemente di crescere. Il giorno stesso del compimento della maggiore età, si era arruolato nei marines ed era andato in Vietnam. Era tornato alla fine della guerra, cieco, senza né braccia né gambe. Suo padre e sua madre spingevano a turno la carrozzella. Mentre andavano per le strade piene di colori, lui diceva: “Non sapete cosa vuol dire vivere con il buio intorno. Non sapete cosa vuol dire non poter camminare, non poter cogliere un fiore”.

Sarebbe piaciuta molto a mio padre perché è quello che si è sempre augurato per il mio futuro: un figlio menomato dal furore della storia. Non sono mai riuscito a classificare questo suo sentimento. Le gatte difendono i loro piccoli con le unghie e con i denti e così fanno tutti gli altri esseri viventi. Non c’è niente di più prezioso da proteggere del patrimonio genetico. Lo dice la scienza, non io. Forse, in qualche modo, anche mio padre si ispirava a Darwin. Mio padre pensava al trionfo della legge del più forte. Esporre i neonati al gelo e alle intemperie, esporli alle ferite, minare continuamente la fragilità fisiologica del loro corpo: questo era un ottimo sistema per vedere se funzionavano. Se non funzionavano, pazienza, voleva dire che non erano degni di vedere la luce. Morto un papa, se ne fa un altro. Così avrebbe dovuto essere anche per i figli.

L'altro sentimento che lo teneva vivo era l'odio. L'odio e il disprezzo erano come Castore e Polluce, due gemelli che andavano avanti tenendosi per mano. Lo sguardo di uno serviva per osservare le cose, quello dell'altro, per sputarci sopra. “Tuo padre ha combattuto per un mondo migliore”, mi ripeteva mia madre. Io mi guardavo intorno e mi chiedevo, dov'è questo mondo? “Ha rischiato la vita per combattere i nazisti, i fascisti, gli ustascia. Tante altre persone non avrebbero avuto il coraggio di farlo”, era il ritornello che sentivo in casa. Senza di lui, senza quelli come lui, il mondo non sarebbe mai cambiato. Questo era vero, i cattivi non c'erano più. Quelle divise, quelle croci con le gambe per aria si vedevano ormai soltanto nei film o in qualche vecchio documentario.

A scuola avevamo studiato la seconda guerra mondiale. Bambini più fortunati di me avevano anche dei modellini aerei della Wehrmacht, la maestra ci aveva detto che guerre così non sarebbero più scoppiate. A noi, di guerra sarebbe toccata la terza. La peggiore di tutte. Con due o tre bombe avrebbero fatto piazza pulita. Da quelle bombe sarebbe venuto un vento caldo, un vento più caldo di qualsiasi altra cosa al mondo: al soffio di quel vento saremmo tutti esplosi come fantocci. Con noi sarebbero morti le piante e gli animali, sarebbe scomparsa quasi ogni forma di vita e per quelle sopravvissute, sarebbe stato ancora peggio.

Una volta la stessa maestra ci aveva portati in visita didattica al Museo di scienze. Appesa al soffitto, c'era una grande balena impagliata. Aveva tanti denti e sembrava sorridesse. Tutto intorno c'erano bacheche di vetro. Erano piene di vasi con un liquido giallognolo. Nel liquido galleggiavano delle cose dall'aspetto traslucido. “Sono feti”, ci aveva spiegato, indicandoli con un gesto ampio. “Anche voi eravate così prima di nascere.” C'era il feto di un cane e quello di un istrice, con già tutti gli aculei. Stavo osservando proprio l'istrice quando lei ha battuto le mani. “Bambini, attenti!” ha esclamato. Ci siamo girati e lei ha indicato un vaso più grande. Dentro c'era un bambino pallido come un fantasma. Invece di avere una testa, ne aveva due. Due teste complete di ogni cosa: quattro occhi, due nasi, due bocche, quattro orecchie... “Hiroshima”, ha detto la maestra, “Hiroshima e Nagasaki, ricordate? Laggiù, dopo la bomba sono nati bambini così. Ecco cosa succede: di colpo, la natura non si ricorda più il modo giusto di fare le cose. Due teste, sei braccia, tre gambe, ecco...” Naturalmente, queste parole avevano suscitato degli immediati sghignazzi nei miei compagni. Le moltiplicazioni a cui tutti ammiccavano erano quelle delle parti sessuali.

A me, invece, interessava di più il raddoppio della testa. Pensavo: forse la natura avrebbe dovuto fare così fin dall'inizio, una testa sola è davvero insufficiente. C’è poco spazio là dentro e troppa confusione. A molta gente serve soltanto da supporto per il viso, oppure per far crescere i capelli, come avere un giardino con buona terra per i fiori. Persino le Lambrette hanno le ruote di scorta, perché non potrebbe essere così anche per la testa? Una di rappresentanza e una che funzioni davvero.

Quel fatto che la natura potesse perdere la forma mi aveva impressionato parecchio. Vedevo una signora anziana, scarmigliata, che si aggirava in una casa in disordine. Tutto era per aria, i cassetti, gli armadi, come dopo il passaggio dei ladri. Vagava per le stanze con lo sguardo smarrito, senza saper più cosa cercare. In fondo, mi dicevo, creare l'uomo non era stata una buona idea. Averlo lì a razzolare per la terra equivaleva al covarsi una serpe in seno. Da quando il mondo era mondo, gli animali facevano le stesse cose: nascevano, si accoppiavano, accudivano i cuccioli, si divoravano tra specie diverse per tirare avanti; poi, un giorno, morivano e, invece di nutrire i cuccioli, nutrivano le iene, i corvi, i saprofiti, la terra e i fiori che vi crescevano sopra.

Non c'era mai stato un orso o un leone che avesse pianificato la distruzione. L'uomo, invece, lo ha fatto fin da subito o quasi. Ha cominciato nel momento stesso in cui, anziché essere in due sulla superficie della terra, sono stati in quattro.

Se Adamo avesse ucciso Eva, o viceversa, la storia sarebbe finita all'inizio. Invece sono arrivati anche Caino e Abele. E dopo un po', Caino ha ucciso Abele solo perché ad Abele le cose andavano meglio che a lui. Abele aveva degli agnellini candidi a cui spazzolava il pelo e Caino non lo poteva sopportare. Così ha preso un bastone e l'ha fatto fuori. “Dov'è tuo fratello?” gli ha chiesto Dio, poco dopo. Lui non ha saputo cosa rispondere. Acqua in bocca e sguardo basso. Mentre errava fra le lande desertiche, si sentiva soltanto un disgraziato. Non sapeva di essere importante come un re o un imperatore. Dopo di lui, gli uomini si sono comportati quasi tutti nello stesso modo. E stato lui il vero principe. Invidia e pregiudizio, da allora, sono stati il motore del mondo.

La notte della visita al museo ricordo di aver fatto un sogno. Camminavo per un prato e, a un tratto, un vento caldo mi veniva incontro. Sembrava si fosse messo in moto un asciugacapelli gigante. Ho alzato lo sguardo e ho visto che il cielo era buio. Sopra a tutto, c'era uno straordinario fuoco d'artificio. Non avevo mai visto una luce così: sembrava che entrasse dritta dentro il corpo. In quello stesso istante ho provato una sensazione singolare: le cellule e gli atomi, le ossa e i tendini si stavano fondendo. Invece di dolore, sentivo caldo. Non era una sensazione spiacevole. Poi il calore si è trasformato in qualcosa di diverso. Al posto delle braccia, avevo delle ali. Erano lunghe e potenti come quelle di un pellicano. Ho cominciato a muoverle e lentamente sono salito in alto, sempre più in alto. Sotto di me gli alberi erano dei puntini e così le case. Vedevo la mia non più grande di una briciola. Intorno c'era il paese, poi la città e la regione intera, i bordi frastagliati della costa e quelli appuntiti dei monti. Le ali rispondevano benissimo ai miei comandi, era bello stare lassù, con un corpo che non era più il mio.

 

 

III

 

La regione in cui sono nato è una regione infelice. Sta sul confine di tre paesi. Per questo spesso l'ha attraversata la guerra. Il padre di mio padre, cioè mio nonno, era nato nel centro Italia. Quando era poco più di un ragazzo era venuto quassù per combattere. Apparteneva al corpo degli Arditi. Dal nome si capisce già, erano i soldati più coraggiosi. Avevano solo una baionetta in mano e strisciavano al suolo verso le linee nemiche. Strisciavano nel buio e, strisciando, tagliavano le gole di tutti quelli che capitavano a tiro. Non ho grandi ricordi di lui. E morto che ero ancora bambino. Quel poco che c’è nella mia memoria, è soltanto incredulità. Lo sentivo gloriarsi di tutte quelle imprese di gioventù ma di fronte a me vedevo un vecchio dallo sguardo mite. Una delle due immagini non poteva essere vera. Forse parlava in quel modo per avere un po' di attenzione, perché qualcuno lo ascoltasse nel silenzio della stanza.

Lui non sopportava che non gli si credesse. Per questo, all'inizio della bella stagione, insisteva per andare tutti insieme a fare una gita, sempre la stessa. Caricavamo sulla Seicento i plaid, la radio e i contenitori di moplen con dentro il cibo per il picnic. Il prato dov'eravamo diretti non era un prato qualsiasi, ma uno di quelli in cui mio nonno aveva combattuto. Lì era stato ferito. Per quella ferita aveva ricevuto la croce di bronzo al valor militare. Nella gita se la portava appuntata sul risvolto della giacca. Raccontava sempre gli stessi episodi, come fossero successi l'altro ieri e nessuno lo ascoltava più. Mia madre ripeteva ogni tanto “Sì, papà”, mentre mio padre teneva la radio incollata all'orecchio per via delle partite. Eppure, nonostante quel disinteresse, il nonno era contento lo stesso. Tornava a casa e diceva: “Che bella giornata abbiamo passato...”

L'ultima di queste scampagnate - quand'ero già abbastanza grande per avere un barlume di pensiero – ho realizzato che era ben buffo andare a fare il picnic su un prato che si era nutrito di tante vite precocemente spente.

Il nonno diceva che era stata una vera e propria carneficina. C'erano talmente tanti corpi là, uno sopra l'altro, che era impossibile fare un solo passo. Ci volevano delle gambe da gigante per scavalcare tutti e andare avanti. Diceva questo e io intanto guardavo il prato e i fiori. Tra l'erba c'erano le genzianelle e le pulsatille, i loro petali erano straordinariamente delicati, il vento li muoveva appena e sopra c'era il cielo. Lo stesso identico cielo del giorno della strage.

Guardavo tutto questo e mi domandavo, dov'è il senso?

Caino, in qualche modo, si era vergognato della sua azione. Non risulta da nessuna parte che sia andato in giro a vantarsi, aveva fatto una cosa brutta e lo sapeva. Invece mio nonno era contento, non l'ho mai sentito dire: penso alle famiglie di quelli che ho ucciso o qualcosa del genere. Era solo felice di essere stato più svelto e di aver avuto fortuna. Del resto non gli importava niente. Eppure non era cattivo. Quando è morto, al suo funerale c'erano tante persone e piangevano tutte.

Una volta ho chiesto a mia madre: “Ma il nonno è un assassino?” Lei si è girata e ha detto: “Dove le peschi queste sciocchezze?”

Allora, almeno una cosa l'avevo capita, se si uccide senza divisa, si è degli assassini; se si uccide con la divisa, si ricevono delle croci al merito. Già da bambino avevo una natura piuttosto speculativa. Non potevo fare a meno di chiedermi se la vita di chi muore avesse un valore diverso. Prima di diventare grandi e poi cadaveri, quegli uomini erano stati ragazzi, neonati e anche feti. Delle madri li avevano messi al mondo, li avevano nutriti e cresciuti. Forse speravano già di avere dei nipotini e invece le loro speranze erano finite disperse tra il greto di un torrente e il fango di un prato.

Un giorno, a scuola, l'avevo chiesto persino all'insegnante. Ce n'era una che mi ispirava una particolare fiduciò. Lei aveva ascoltato in silenzio e poi aveva detto: “Queste sono domande molto grandi.” Poi aveva aggiunto qualcosa che non ho capito bene, sulla storia che va avanti e porta con sé disgrazie. La storia, ho pensato allora, deve essere una sorta di carro a cui si sono rotti i freni. Un carro senza nessuno a bordo che precipita da una discesa e travolge ogni cosa.

Nella storia più piccola - quella di casa mia - c'era però un punto che mi appariva alquanto oscuro. Anche mio padre aveva fatto la guerra - in ordine cronologico, la seconda - eppure non eravamo mai andati a fare un picnic nei suoi posti e, in cucina, sulla credenza, non c'era la foto di lui in divisa. Tra me e lui, già a quell'epoca, l'unica forma di comunicazione era il silenzio. Così non avevo il coraggio di interrogarlo sulle sue eventuali azioni gloriose. Lui non parlava e io non domandavo. Le ipotesi però non potevano essere che due. O aveva fatto la guerra e non aveva ucciso, e quindi si vergognava di aver mancato al suo dovere. Oppure aveva ucciso ma non aveva la divisa, e allora la vergogna che provava era quella dell'assassino.

Quale delle due fosse l'ipotesi vera in fondo non mi importava più di tanto. Ormai avevo compreso che, nella nostra casa, c'era una bomba che non era ancora esplosa. Era sepolta sotto tonnellate di detriti. Quei detriti erano le parole non dette. La polvere esplosiva era asciutta e fresca, il suo meccanismo a orologeria pulsava con regolare precisione. Era la bomba il vero cuore della casa, quello che adesso ci teneva uniti e un giorno forse ci avrebbe fatto esplodere.

Nell'atrio della scuola c'era un manifesto, era a colori e copriva tutta una bacheca. Sopra c'erano tante vignette come quelle dei fumetti. C'erano dei bambini con i calzoni corti e giocavano nei campi. Giocando, trovavano un oggetto dalla forma strana. Erano curiosi e così, per vedere cosa c'era dentro, vi battevano sopra con una pietra. Subito dopo c'era un grande fuoco d'artificio: i bambini volavano indietro come spinti da una mano invisibile. Nel disegno, poi, c'erano ancora loro ma non erano più quelli di prima: a uno mancava una gamba, a un altro il braccio, il terzo era diventato cieco. Bambini, attenzione! - c'era scritto, alla fine - se trovate qualcosa di strano non toccatelo, avvertite subito i genitori o la polizia. Sotto erano disegnati vari oggetti. Uno sembrava una pigna oppure un ananas, altri supposte giganti. C'erano bombe dentro le persone, dunque. E quelle nascoste nel terreno come i bulbi dei gigli. Anche quei bulbi, forse, erano disgrazie che seminava la storia. Uccideva i nonni, i padri, poi lasciava dei regalini per i figli e per i nipoti. Il suo carro era passato già da tempo, non c'erano più nemici da una parte e dall'altra. Eppure la gente moriva lo stesso.

 

 

IV

 

Mia madre, da giovane, non era stata credente, lo era diventata negli anni in cui mio padre combatteva sui monti. La guerra li aveva separati all'inizio del loro amore. Lei credeva di essere approdata in un'isola salda e rigogliosa nella quale avrebbe trascorso il resto della vita. E invece, da un giorno all'altro, si era trovata sospesa in bilico su un precipizio. Lui era scomparso, non per settimane, ma per anni. I primi tempi, aveva avuto ancora qualche lettera, qualche messaggio passato di bocca in bocca. Poi sul suo destino era sceso un lungo silenzio. Era stato proprio allora che aveva deciso di rivolgersi al più potente di tutti, cioè a Dio. Il loro patto era stato molto semplice. Ti seguirò per sempre, gli aveva detto, se lo farai tornare sano e salvo.

Si potevano dire tante cose di mia madre, tranne che non fosse una persona di parola. Quando prendeva un impegno, era fedele e puntuale nell'assolverlo. Mio padre era tornato e lei aveva creduto. All'inizio, su questo, dovevano avere litigato molto. Lui non riusciva a sopportare che la sua compagna si fosse trasformata in una specie di beghina. “Ti sei fatta imbrogliare come tutti gli altri”, le gridava ancora quando io ero grande. Mia madre è morta per prima, gli ha dato un distacco di quasi dieci anni. A quel tempo io vivevo già a Roma, dei loro destini non me ne importava niente. Mio padre doveva essere pieno di rabbia. Tutto era cominciato con un mal di stomaco, le persone vicine dicevano: “Sono i dispiaceri. Se sono troppi e non sanno più dove andare, si sistemano là”. Lei ci aveva creduto. Quando era andata dal dottore, ormai era troppo tardi: i dispiaceri si erano sparsi per tutto il corpo. In silenzio, diligentemente, avevano cominciato a divorare le parti interne.

Da anni non avevo più rapporti con loro.

Un giorno, senza aspettarla, me la sono trovata davanti alla porta. Saranno state le dieci o le undici di mattina. La sera prima avevo bevuto. La testa era pesante e l'umore cattivo. Aprire la porta e vederla davanti, era stata una brutta sorpresa. La scatola con la bomba a orologeria era alle mie spalle, così almeno credevo. Non avevo chiesto di vederla e neppure ne avevo il desiderio, la nostalgia dei miei genitori era un sentimento che non conoscevo. Non capivo la ragione di quella visita a sorpresa. La scrutavo senza nascondere il fastidio, mentre stava davanti a me, con la sua borsetta lucida stretta in mano.

“E successo qualcosa?” le ho chiesto, prima ancora di farla entrare. Lei aveva un'aria smarrita. Ha detto piano: “Non  è successo niente. Avevo solo voglia di vederti”.

La donna che avevo di fronte era diversa da quella che ricordavo. Era cambiata, certo. Ma pensavo che quel cambiamento fosse dovuto soltanto agli anni. Ero troppo giovane, troppo inesperto, troppo furioso, per leggere i segni di una grave malattia.

Se lei mi avesse detto “sto morendo” forse tutto sarebbe andato in modo diverso. Avrei dilatato quella giornata fino a farla diventare un tempo quasi eterno. Invece l'ho subito avvolta in una nube di malumore.

“Volevo vedere Roma”, aveva invece sussurrato, come scusandosi. Allora l'ho portata a fare un giro con la circolare. Per tutto il percorso siamo rimasti in silenzio. Lei osservava le antichità con la faccia di una scolaretta in gita. Seduto dietro, guardavo in continuazione l'orologio, ogni ingorgo o rallentamento mi faceva perdere la pazienza. Al Colosseo siamo scesi e abbiamo mangiato un tramezzino. Era il crepuscolo quando siamo risaliti sulla circolare. Un crepuscolo invernale, battuto da un vento freddo di tramontana.

“La luce sembra oro”, aveva detto lei e subito dopo aveva chiesto: “Sei felice?” “Credi ancora a queste sciocchezze?” le avevo risposto. “La felicità non esiste.”

Il suo treno ripartiva la sera stessa. Avevo da fare e non mi andava di perdere tempo accompagnandola alla stazione. Così l'avevo portata fino alla grande strada dove fermavano gli autobus. Su un foglietto, le avevo scritto dove doveva scendere e con che numero doveva fare il cambio, per giungere a destinazione. Era ora di cena e sulla pensilina c'eravamo noi due soli. Quando l'autobus è comparso sul rettilineo, lei mi ha improvvisamente abbracciato. Sono rimasto sorpreso, non era mai stata espansiva. Di riflesso l'ho abbracciata anch'io. Solo in quell'istante mi sono accorto che, sotto il suo cappotto nero con il colletto di rat musqué, di lei non era rimasto quasi niente.

Intanto l'autobus era arrivato e aveva aperto le porte. A bordo c'erano poche persone. Mentre si allontanava, l'ho vista salutarmi con la mano aperta dal finestrino posteriore, aveva lo stesso sorriso debole di un bambino che non sa dove andare. Cadeva una pioggia sottile e appiccicosa. Nell'oscurità, il suo palmo spiccava straordinariamente bianco.

Due mesi dopo ho trovato un messaggio di mio padre sulla segreteria telefonica. Più che addolorata, la sua voce sembrava spenta: dietro il tono di circostanza, si percepiva la rabbia tenuta a freno. “Tua madre è morta”, diceva, “e l'ho anche seppellita.” Diceva proprio così, sembrava che l'avesse sepolta con le sue stesse mani, come un dobermann con il suo osso. Dopo il messaggio, c'era solo il “clic”. Né un saluto, né un invito a richiamare. E così io non l'ho fatto. Non mi interessava sapere cosa l'avesse uccisa, non c'era più. Questo era l'unico fatto degno di nota. Mia madre, quando è morta, non aveva ancora sessant'anni. A me, però, sembrava vecchia. Con il cinismo della giovinezza facevo rientrare la sua scomparsa nel corso della fisiologia naturale. Per quel che mi riguardava, mi sentivo orfano dalla nascita. Non riuscivo a provare nessun rimpianto.

E morta, mi sono detto quella sera, al momento di chiudere gli occhi. Volevo vedere se mi faceva effetto, poteva spuntare una lacrima o qualcosa del genere. Non è successo nulla. Mi sono girato dall'altra parte e mi sono addormentato. A metà della notte all'improvviso ho aperto gli occhi. Sentivo uno strano rumore nella stanza. Veniva dalla mia bocca. C'era furore nei miei denti, e forza. Li stringevo gli uni contro gli altri come se volessi romperli.

Allora ignoravo che le cose che ci accadono non sono mai neutre. Noi possiamo crederci, possiamo essere convinti. Un seme di trifoglio mantiene intatta la sua vitalità per ottant'anni interi. Così succede per i fatti, anche se li ricopriamo sotto una coltre di indifferenza, se vi soffiamo sopra per mandarli lontano, loro stanno lì quieti. Sono il germe di qualcosa che, prima o poi, uscirà fuori.

Alle persone troppo sensibili accade spesso una cosa strana. Crescendo, diventano le più crudeli. Il corpo ha le sue leggi e, tra le sue leggi, è compresa questa. Se qualcosa mina la sua saldezza, immediatamente si mettono in moto gli anticorpi. La violenza e il cinismo non sono altro che questo, ribaltano la visione del mondo per regalare forza. Non mi sono mai stupito nel leggere le vite dei grandi criminali, c'era gente che sterminava popolazioni intere e la sera innaffiava i fiori, commuovendosi per un uccellino caduto dal nido. Da qualche parte, dentro di noi, c’è un interruttore. A seconda del bisogno, attacca e stacca la corrente del cuore.

Mio padre e mia madre non erano persone ignoranti. Lei era maestra e aveva insegnato con passione. Lui lavorava ai cantieri navali, era un disegnatore tecnico. Un paio d'anni prima della mia nascita era scivolato durante la perlustrazione di uno scafo ed era diventato invalido, una gamba era rimasta più corta. Malgrado ciò rifiutava il bastone. Entrambi sapevano che ero intelligente e riponevano grandi speranze nel mio futuro. Naturalmente le speranze erano sempre le loro, mia madre mi vedeva professore di lettere o di filosofia, mio padre, ingegnere. Credo che neppure per un istante si fossero chiesti quale fosse davvero la mia passione. E, in effetti, neanch'io lo sapevo. Da piccolo, immaginavo di fare il pilota di aerei o il poliziotto. Il pilota, per volare sopra le cose, il poliziotto, per portare più giustizia nel mondo. Già in quinta elementare però - al tempo della morte del mio compagno – questi sogni erano scomparsi. L'unica cosa di cui ero cosciente era l'agguato del vuoto intorno. Era difficile muoversi, immaginare qualcosa, con quella spada perennemente puntata alla gola.

Mi sentivo solo, e mi pesava.

All'inizio avevo provato a comunicare a qualcuno i miei pensieri. Le reazioni però non erano state delle migliori; dopo avermi ascoltato, restavano tutti in un imbarazzato silenzio oppure cambiavano discorso, come si fa con le persone fuori di testa.

Nella solitudine della mia stanza io allora mi chiedevo perché vedessi cose che nessun altro vedeva. Sarebbe stato più semplice, pensavo, avere un talento per la meccanica o la fisica, tutti sarebbero rimasti ammirati dalle mie domande. Con pochi calcoli precisi, avrei potuto dimostrare perché una cosa funzionava o no. Le domande che mi facevo, invece, non riguardavano mai nulla di concreto. C'erano delle incongruenze nella realtà, da queste ero ossessionato, le persone parlavano in un modo e si comportavano in un altro. Mio padre aveva lottato per un mondo migliore e in lui non c'era niente di eroico, di esemplare. Odio e disprezzo erano l'alone che si portava appresso. Tra il dire e il fare, diceva sempre la mia maestra, c’è di mezzo il mare. Ecco, era questo mare che volevo indagare.

In realtà, osservando i miei genitori, avevo già capito che il mondo era diviso in almeno due grandi settori.

Quello di chi credeva che, dietro all'universo, ci fosse qualcos'altro; e quello di chi credeva che, nella partita della vita, ci fosse solo un tempo. Io però non riuscivo a schierarmi né da una parte né dall'altra. Entrambe avevano una serie pressoché infinita di risposte preconfezionate mentre quelle che mi davo io erano come quelle di un sarto. Calzavano bene a me e a nessun altro.

Per tutta la fanciullezza sono rimasto in bilico su quel vuoto tremendo. Poi è venuta l'adolescenza e mi sono tuffato. Un giorno volevo studiare medicina per andare in Africa a salvare i bambini che morivano di fame, il giorno dopo volevo essere soltanto un assassino. Il pomeriggio, invece di studiare, andavo in giro per i campi o per la città. Camminavo per ore con i pugni in tasca, lo sguardo basso. Camminare non alleviava per niente la mia pena, al contrario la faceva più grande, ogni passo era un ragionamento, una domanda che non trovava risposta. Parlavo a voce alta, ridevo da solo. Sapevo di sembrare pazzo e non me ne importava niente. Se la norma era quella che da quindici anni mi vedevo davanti, se la norma erano gli insulti e gli sguardi spenti, quella tristezza trascinata nei giorni come un manto, io neanche per un secondo della mia esistenza volevo appartenervi.

Su una bancarella, nella città vecchia, avevo trovato un libro di poesie. Era di Holderlin. A parte quelle studiate a scuola, per forza noiose, non avevo mai letto un verso.

Aprire quelle pagine e provare un'emozione assoluta era stato tutt'uno.

Lì dentro c'erano cose che provavo anch'io, malinconia, dolore, autunno, senso di caducità delle cose. A un tratto non sono più stato solo. Tra il credere e il non credere, c'era uno spazio intermedio, una specie di intercapedine in cui vivevano gli sguardi inquieti. C'era la verità, l'avevo in mano. Se avessero aperto gli occhi, l'avrebbero potuta avere anche tutti gli altri. Quelle frasi mi aspettavano da quando ero nato. Adesso erano lì, erano mie, facevano parte della mia vita. Poesia e pazzia, mi dicevo camminando, sono come i due lati di una foglia. Uno ha gli stomi e guarda in alto, l'altro scarica anidride carbonica verso il basso. Da un lato all'altro, c’è un continuo passaggio di umori, lo scorrere delle molecole e dei fluidi.

Mi avvinceva il destino di tanti poeti divenuti folli. Lo sentivo vicino, anch'io un giorno avrei cambiato nome e mi sarei rinchiuso in una torre. Holderlin era diventato il signor Scardanelli. Aveva trascorso il resto dei suoi giorni chiuso lassù, a suonare il pianoforte. Ogni tanto guardava giù il placido corso del Neckar ed era contento. Certo, lui aveva trovato un'anima più che si era preso cura di lui, era stato un onore, per il falegname, poter essere il custode di uno spirito così grande. Avevo il sospetto che, ai nostri giorni, i falegnami fossero diversi. Gli appartamenti erano piccoli, senza torri né stalle. Non c'era spazio neanche per i nonni, figuriamoci per i poeti. E poi, un punto a mio sfavore era che non ero un poeta. Almeno non ancora.

In tempi molto rapidi la mia vita piombò nel disordine. Non c'era alcun movimento dietro di me, nessuna protesta. Scuotevo le cose perché vi apparisse uno spiraglio di verità. Lo avevo sempre fatto. Soltanto che adesso, per quella verità, cercavo le parole.

Mia madre fu chiamata a scuola. Il ragazzo, le dissero, ha qualche problema, è disattento, disordinato, e si lava poco. Per caso, insinuarono, anche lei ha notato qualcosa di strano?

A quell'epoca, alla televisione c'erano i primi dibattiti sulla droga. Mia madre li aveva visti e, da quel momento, viveva nell'incubo. Una volta, cercando dei soldi, avevo persino trovato un ritaglio di giornale in cui, da uno a dieci, come un decalogo, c'erano scritti i motivi per cui un genitore doveva cominciare a insospettirsi. Ne ricordo alcuni: scarsa puntualità, scarsa pulizia, discorsi strani, tendenza a mentire, anomala dilatazione delle pupille. Ricordo anche la sua faccia quando  è tornata da quel colloquio. Aveva gli occhi di una lince, il naso di un segugio. Si  è seduta sul mio letto e mi ha detto: “E meglio che mi dici tutto”. Poi, davanti al mio silenzio, con l'aria di una che ha già perso il figlio ha aggiunto: “Se non confessi a me, dovrò dirlo a tuo padre”. Ero scoppiato a ridere:

“Al padre alcolizzato, di' che ha il figlio drogato”, cantavo, saltellandole intorno.

Mio padre e l'alcol. Un argomento che non si poteva toccare. Da bambino lo vedevo bere un bicchiere di vino dietro l'altro e volevo imitarlo. Il vino è per i grandi, diceva mia madre, sporcando appena l'acqua con un po' di colore. Soltanto qualche anno dopo ho capito che il vino non era per tutti i grandi, ma per pochi. Quei pochi erano come le auto, invece di andare avanti a benzina, andavano ad alcol.

La mattina, mentre mangiavo il pane con il caffellatte, lui versava nella sua tazza le stesse proporzioni di caffè nero e grappa. Alle otto di sera, non era quasi mai a casa. Mia madre mi mandava a chiamarlo. Trovarlo era facile, i bar e le osterie che frequentava non erano più di tre o quattro. Dentro di me speravo sempre che non ci fosse, che avesse avuto un incidente. Invece, ogni volta, lo trovavo. Vedevo la sua schiena massiccia, era seduto a un tavolino con gli amici. Parlava a voce alta, gesticolava. I suoi amici erano come lui, lo trovavano divertente. In effetti mio padre a loro raccontava un mucchio di cose, era molto diverso: a casa non diceva una sola parola. Lo fissavo e i piedi mi diventavano pesanti. Non avevo nessuna voglia di raggiungerlo e dire come nei film: “La cena è servita”. Stavo per un po' fermo alle sue spalle. Poi, uno dei suoi amici si accorgeva di me; gli toccava la spalla, dicendo: “Renzo, c’è tuo figlio”. Allora lui si girava. Era lento e pesante come un orso, aveva gli occhi gonfi. “Cosa vuoi?” gridava rabbioso e io, invece di parlare, mantenendo la giusta distanza - quella di sicurezza - gli mostravo l'orologio sul muro.

L'effetto dell'alcol svaniva, o meglio mutava direzione, non appena metteva piede a casa. La loquacità diventava mutismo. Mia madre, ogni tanto, cercava di tenere viva la conversazione. Raccontava quello che le era successo durante il giorno. Quando ancora insegnava, parlava di qualcosa che era accaduto a scuola. Ma era come un tennista che gioca senza uno sfidante, senza neppure un muro.

Le sue parole volavano nell'aria, quando finiva la spinta della voce, si dissolvevano nel nulla. Lui mangiava con gli occhi nel piatto e così avevo imparato a fare anch'io. Se sentiva il mio sguardo su di lui, si girava subito ruggendo:

“Cos'hai da guardarmi?”

Si comportava come se avesse la coda di paglia. Una coda lunga, grande e vaporosa come quella di una volpe. Bastava un errore minimo nel movimento perché sfiorasse le braci e andasse a fuoco. Per questo si guardava spesso alle spalle con lo sguardo feroce di chi è pronto ad attaccare.

Dopo cena si metteva in poltrona. Il più delle volte si addormentava davanti alla televisione. Quando il sonno non arrivava, si metteva a commentare i programmi, lo faceva a voce alta, una specie di continuo borbottio. Per lui erano tutti dei fetenti, sporchi capitalisti sfruttatori e finocchi marci. Mia madre seduta vicino ornava dei cuscini a piccolo punto. Lo sproloquio per lei era come il rumore del mare, rimbombava nelle sue orecchie da talmente tanto tempo da non farci più caso.

Io avevo un sacro terrore dell'alcol. Lo vedevo come qualcosa che entrava dentro e guastava le persone. Quando il disordine è entrato nella mia vita, è entrato come elemento puro. Era aria di montagna, diamante, quarzo, non qualcosa di ottuso e sporco che seguiva il vizio. La lucidità era il suo punto di forza, al posto dello sguardo, avevo un binocolo a infrarossi. Scandagliavo, smuovevo. Ero certo che la banalità apparente non fosse altro che uno scudo da infrangere. Dai suoi cocci sarebbe nata la poesia. Non quella degli altri, che leggevo sui libri, ma quella che sarebbe stata soltanto mia. Dentro di me c'erano tanti movimenti. Dalla stasi dell'infanzia ero passato al moto perpetuo. Pensieri, idee, sentimenti, si muovevano come all'orizzonte si muovono le nuvole sospinte dal vento. Invece di andare a scuola, camminavo per il Carso. Camminando, ripetevo a voce alta i versi di Kosovel:

Io sono l'arco spezzato di un cerchio,

io sono la forza che l'asprezza ha schiantato.

Quelle parole erano il mio vangelo. Sentivo di avere una forza tremenda. Sapevo di essere grande. Non ero più Atlante, ma un titano dalle spalle sgombre. Da sempre sentivo la confusione e il disordine del mondo. Adesso per la prima volta non ne ero più dentro, il disordine era solo mio. Lo creavo e lo disfavo ogni giorno. Ero certo che, da quel disordine, sarebbe nato l'ordine, un ordine chiaro, cristallino nel quale, per primo, avrei chiamato le cose per nome.

Nella mia vita di camminatore non avevo amici. Quello che interessava i miei coetanei, a me non interessava affatto. Non c'era nessuno con cui confidarmi tranne il cielo aperto dei campi, il vento e, di notte, il buio e il silenzio della mia stanza.

Adesso so che sarebbe bastata una persona, una sola, per rendere il mio destino diverso. Sarebbe bastato uno sguardo, un pomeriggio trascorso insieme, il barlume di una comprensione. Qualcuno con uno scalpello in mano: lo scalpello e l'attitudine a scavare per far esplodere lo stampo di creta in cui ero compresso.

Da sedici anni la solitudine e la disperazione erano all'opera dentro di me, come due mantici. Soffiavano e soffiavano senza mai fermarsi. Ormai ogni sentimento, ogni percezione erano gonfi fino all'inverosimile. Li chiamavo grandezza, poesia. Invece, forse, erano soltanto il desiderio di farla finita. Mi svegliavo nel cuore della notte e su un piccolo album scarabocchiavo parole che avrebbero dovuto essere versi. In quegli istanti, ero come ubriaco, mi tremava il braccio, il polso, tremava la penna sulla carta. Sentivo che, nella mia testa, finalmente si era aperta una saracinesca. Il velo dell'illusione era scomparso. La verità risplendeva lucida. Era un paesaggio di primavera ravvivato nei colori dalla pioggia. Vedevo le gemme e l'erba tenera e, fra l'erba, i boccioli aprirsi e divenire fiori. Quando tornavo a letto una gran pace mi scendeva dentro. Mi addormentavo felice come un bambino amato fin dal giorno del concepimento. Mi sembrava di aver raggiunto un punto fermo. Un punto dal quale era possibile partire e rifondare tutto in modo diverso. Quella felicità però era di breve durata, il tempo di fare colazione e lavarsi la faccia. Appena mi sedevo alla scrivania e rileggevo i fogli, sentivo l'universo crollarmi addosso. Non c'era alcuna luce, in quelle frasi, non si apriva uno spazio più grande, c'erano solo i miei pensieri di sempre, più confusi che durante il giorno. Le parole che li esprimevano erano banali come le lettere delle ragazzine alla posta del cuore.

Tuttavia non mi arrendevo. Dopo lo sconforto, nasceva il furore. Mi dicevo, ho scavato, ma non abbastanza, il disordine non è sufficiente, ci sono ancora tante pentole che bollono con il coperchio sopra.

Poi ho scoperto Baudelaire. Mi è venuta la febbre leggendolo. A essere sinceri mi sono sentito anche un po' defraudato, erano parole mie quelle, le parole più profonde del mio essere. Il faut etre toujours ivre. Come potevo negare la verità di questa affermazione? Il disordine non bastava più. Per raggiungere quello che cercavo, ci voleva ancora qualcosa, era come essere bambino e dover raggiungere un oggetto su un armadio, si sale su una sedia e, se non basta, si aggiunge uno sgabello. La droga, l'alcol non erano il centro, ma soltanto una scala per raggiungere ciò che era nascosto.

A scuola ho trovato dell'hashish. Per fumarlo ho atteso di essere solo in mezzo a un bosco. Non avevo arrotolato mai neanche una sigaretta, le mani mi tremavano per l'emozione. Quando ho dato la prima boccata mi sentivo come Alì Babà davanti alla caverna magica. Quel fumo era l'Apriti Sesamo, la chiave magica che avrebbe aperto la porta di un'altra dimensione. Mi aspettavo esplosioni di luce e di colore, draghi, figure meravigliose. Non successe niente, gli alberi erano spogli, l'erba gialla. C'era una ghiandaia, sopra di me, gracchiando sgraziatamente saltava da un ramo all'altro. A parte la nausea e il giramento di testa, ogni cosa era come l'avevo sempre vista. Su quel prato ho trascorso un paio d'ore. Poco prima dell'imbrunire sono andato a casa e lì l'Apriti Sesamo ha fatto effetto.

E successo durante la cena. Mio padre è entrato in cucina e all'improvviso non era più lui, ma un orso da circo. Un orso con un cappellino in testa e una minuscola bicicletta sotto le zampe. La trasfigurazione era così reale che sono scoppiato a ridere. In quell'istante, anche mia madre è diventata una bertuccia. Vedevo i loro musi agitarsi davanti a me, erano talmente comici che la mia risata è diventata un latrato.

“Si può sapere perché ridi?” ha gridato mia madre.

Mio padre ha battuto un pugno sul tavolo: “Questa casa è diventata un manicomio”.

Allora ho smesso di ridere. “Lo è sempre stata”, ho risposto.

Poi ho fatto quello che di solito faceva lui, ho dato una pedata all'armadio e sono uscito sbattendo la porta.

Fuori faceva freddo ma non me ne importava niente. Le strade erano deserte, le cucine illuminate. Sbirciando oltre i vetri intravedevo decine e decine di piccoli inferni domestici, gli officianti erano intorno al desco e al televisore. Non sentivo le parole, ma le sapevo tutte lo stesso. Percepivo l'infelicità filtrare attraverso i vetri.

Ho imboccato la strada principale del paese, alla stazione del tram mi sono fermato per comprare delle sigarette, poi ho proseguito per la strada nazionale. Avevo bisogno di un respiro più grande, volevo vedere il mare. Il tram mi  è passato accanto. A parte il conducente, a bordo c'era soltanto un vecchio con la barba lunga. L'ho salutato con la mano, come fanno i bambini, poi il tram  è scomparso con tutte le sue luci. Sono rimasto solo nella notte e ho cominciato a cantare.

Nella piazzola dell'obelisco c'era una macchina con una coppietta dentro. Mi sono seduto sul parapetto del belvedere e ho acceso una sigaretta. A dire il vero, era abbastanza schifosa ma bruciava, mi piaceva vedere quel piccolo cerchio di fuoco contro il nero del cielo.

Sotto di me c'era la grande città e in fondo lo spazio scuro del mare. Poco fuori dalla rada si intravedeva la sagoma enorme di una portaerei. Tutto intorno brillavano le luci più piccole dei pescherecci. Era strano, in quel momento sentivo ogni cosa dentro di me. Comprendevo tutto, ero tutto. Sentivo le parole dei pescatori e vedevo le loro mogli a casa che li aspettavano guardando la televisione. Vedevo i pesci nuotare tra le alghe e la rete bianca che gli piombava davanti. Vedevo i taxi fermi alla stazione e le persone in arrivo sul treno che guardavano fuori dal finestrino. Percepivo i loro pensieri, i loro pensieri erano i miei così come lo erano quelli del bambino che, in quell'istante, il padre stava picchiando o quelli della vecchia che, tutta sola, stava morendo all'ospizio e quelli del piccione che sulla sua finestra la guardava morire. Non c'erano mai stati così tanti pensieri nella mia testa, non c'era mai stato un sentimento così preciso di quello che mi stava intorno.

Non so a che ora mi sono mosso da lì, a un certo punto ho avuto un brivido di freddo. Le troppe emozioni mi avevano stancato, gli innamorati non c'erano più. Ho acceso un'altra sigaretta e mi sono avviato verso casa.

Quasi tutte le finestre erano spente, vegliavano soltanto gli insonni e i malati. Anche casa mia era al buio.

Non sapevo che ora' fosse e non me ne importava niente. Ho premuto il carnpanello e ho atteso. Non è successo niente. Ho aspettato ancora qualche minuto, poi ho sferrato un calcio al portone e me ne sono andato.

Ormai avevo davvero freddo, ho pensato che la stazione poteva essere l'unico luogo caldo. Lungo la strada c'era un grande piazzale. Lì spesso i camion provenienti da est si fermavano per la notte. Infatti ce n'erano tre. Venivano dalla Bulgaria ed erano diretti al macello, andavano tutti là i camion che passavano il confine con il bestiame.

Uno portava cavalli, un altro mucche, il terzo non si vedeva bene. Mi sono avvicinato e ho guardato dentro, c'erano degli agnellini. Erano così piccoli e bassi che sembravano un tappeto, un morbido tappeto bianco e ondulato. Qualcuno di loro mi deve aver visto. Uno, in particolare, si è levato sulle zampe e mi è venuto incontro. Faceva beee caracollando tra gli altri. Forse, per qualche ragione misteriosa, mi aveva scambiato per la madre. Ha messo il muso tra le feritoie, i suoi occhi erano neri e lucidi, c'era un interrogativo dentro quegli occhi. Ho allungato la mano e gli ho toccato la fronte, era tiepida come quella di un neonato. “Cosa c’è?” gli ho chiesto piano e in quello stesso istante l'incantesimo dell'Apriti Sesamo è finito. Sono scoppiato a piangere. Lui belava e io piangevo, piangendo sbattevo la testa contro la fiancata del camion.

Il mondo è dolore, non altro.

Il giorno dopo mia madre non mi ha rivolto la parola. Mio padre non l'ho neanche visto. Invece di andare a scuola, sono rimasto a casa a dormire. Della scuola non me ne importava più niente. Facevo il liceo classico e dovevo rompermi la testa sugli aoristi. Studiavamo cose morte e sepolte, e di questo studio non riuscivo a farmi una ragione. Persino la filosofia, che in qualche modo avrebbe potuto interessarmi, era insegnata in modo tremendo. C’èrano tanti signori che parlavano come statue in un deserto: il noumeno e le monadi, il trascendente e l'immanente. Sembravano dei pazzi che descrivevano un mondo noto soltanto a loro. C'era la morte, la solitudine, il vuoto, l'enigma della nascita e del destino; c'era la sofferenza che, nella sua morsa, stritolava ogni ora del giorno. Che relazione aveva tutto questo con quelle formule incomprensibili che dovevamo mandare a memoria?

Con l'aria da vati, i professori proclamavano: “Adesso non ne vedete il senso ma quando sarete adulti capirete l'importanza del greco e del latino”. Il loro atteggiamento mi sembrava quello di mio padre quando diceva: “Ti ci vorrebbe un'altra guerra”. Sentivo sotto una sottile crudeltà, il desiderio di far scontare ad altri il tempo insensato della loro giovinezza.

In quel periodo stavano anche cominciando i primi fermenti studenteschi. Per curiosità sono andato a due o tre riunioni del collettivo della scuola. Si parlava di lotta al capitalismo e dittatura del proletariato, le stesse identiche cose per cui aveva lottato anche mio padre, non c'era niente di nuovo sotto il sole. Le persone, mi dicevo, amano riproporsi sempre le stesse illusioni, tutti hanno paura, così inventano un sogno, qualcosa che dia loro complicità e senso, è bello far parte del coro, ripetere tutti le stesse cose. Ai pulcini piace stare al caldo sotto la luce dell'incubatrice, agli uomini piace il tepore delle utopie, delle promesse impossibili. Non tutti possono andare fuori, non tutti hanno la forza di contemplare l'essenza reale, il lungo tunnel buio che - dalla nascita alla morte - siamo costretti a percorrere, carponi.

Quando ero ancora in quarta ginnasio, un pomeriggio d'autunno sono andato alla festa di compleanno di una delle mie compagne. Saremo stati una quindicina in tutto.

Non eravamo più piccoli e non eravamo abbastanza grandi, non sapevamo come comportarci. C'era un buffet con le tartine e le bibite e un mangiadischi. Tutti avevamo i brufoli e difficoltà a parlare. A un certo punto, uno ha detto: “Facciamo il gioco delle sedie!” e abbiamo cominciato a giocare.

Il gioco era molto semplice: il numero delle sedie era di un'unità inferiore a quello dei partecipanti, si metteva un disco nel mangiadischi e tutti cominciavano a camminare in tondo per la stanza, poi, a sorpresa, la musica finiva e bisognava subito sedersi. C'era un gran correre e sgomitare e, alla fine, uno restava in piedi. Quell'uno ero sempre io, ogni volta c'era un pegno da pagare. Alla terza volta - il pegno era quello di togliermi una scarpa e saltare per tre minuti su una gamba sola, leccare la Coca-Cola dalla ciotola del cane, e andare a quattro zampe, con la compagna più grassa sulla schiena - ho detto “mi ritiro” e ho lasciato il gioco. Qualcuno ha protestato debolmente qualcun altro ha fischiato, ma io ho fatto finta di niente.

Erano i primi di dicembre. Davanti al salotto c'era un balcone. Incurante del freddo, ho aperto la porta e sono uscito fuori. Malgrado fosse pomeriggio, il cielo era già buio e pieno di stelle, la bora soffiava e puliva ogni cosa, le antenne vibravano e così i fili che le collegavano agli apparecchi, una sinfonia di cavi e ferraglia. Oltre la tenda leggera, vedevo i miei compagni, il pavimento della sala era di marmo, brillava lucido e disinfettato come una lastra dell'obitorio. Loro continuavano a correre in circolo, intorno alle sedie. Vedevo le smorfie, gli ammiccamenti, gli imbarazzi. Per me erano già tutti teschi, mandibole, tibie. La confusione li avvolgeva, li avrebbe avvolti per sempre. Le loro vite mi apparivano come il piano di una casa in costruzione. C'erano le fondamenta e le pareti, le tubature dell'acqua e il tetto. Sapevo ogni cosa del loro futuro, avrebbero fatto tutto quello che bisognava fare. Loro stavano là dentro, alla luce, al caldo, si riempivano la bocca di parole vuote. Io ero oltre il vetro.

Solo, al buio, con il gelo della notte intorno.

 

 

V

 

Un giorno mia madre mi ha fatto una sorpresa. Sono tornato a casa e ho trovato il prete.

«Cos’è? E morto qualcuno?» ho chiesto vedendolo.

«Non essere irriverente», ha detto lei piano.

«Passavo per caso», ha risposto don Tonino. «Se dò fastidio tolgo subito il disturbo.»

«La prego...» ha fatto mia madre, e lui è rimasto seduto.

Mio padre non c'era quel giorno così si è fermato a pranzo con noi.

Abbiamo mangiato in silenzio. O meglio, io sono stato zitto e loro hanno parlato di un imminente pellegrinaggio a Lourdes.

«Mi piacerebbe tanto venire», diceva mia madre,  “ma capisce... con mio marito.»

“Quel che conta  è il desiderio”, rispondeva il prete, “e poi vedrà che prima o poi ci sarà l'occasione.”

Esaurito quest'argomento, avevano parlato ancora un po' delle campane, c'era una colletta per comprarne delle nuove ma si era ben lontani dal raggiungere la cifra. Di amenità in amenità siamo arrivati al caffè. A quel punto mia madre si è alzata e, con il rossore della bugia dipinto in faccia, ha detto:

«Spero che mi scuserete se mi ritiro a riposare, mi è venuto un tremendo mal di testa».

«Dovresti imparare a recitare un po' meglio», ho risposto senza girarmi. Su quelle parole, lei ha chiuso la porta della stanza.

Così siamo rimasti noi due soli, con molliche e bucce di arancia in mezzo al tavolo. C’è stato un silenzio piuttosto lungo, poi lui ha cominciato a sfregarsi le mani come se avesse freddo e ha detto:

“E allora come va?”

“Perché è così ipocrita?” ho chiesto io.

“Non sono ipocrita”, ha risposto lui. “Voglio davvero sapere come stai. Tua madre è preoccupata per te.”

Ho cambiato la posizione delle gambe e la sedia ha scricchiolato.

“Poteva preoccuparsi prima di mettermi al mondo.”

Don Tonino giocava con la mollica, faceva delle palline e poi le schiacciava con l'indice. Era con lui che avevo studiato dottrina. Da bambino mi sembrava vecchio, soltanto in quel momento osservandolo mi sono accorto che doveva aver da poco superato i cinquant'anni. Non avevo mai provato antipatia per lui ma, in quel momento, era il nemico.

Abbiamo trascorso quasi un'ora insieme, lui parlava,  parlava, e io non ascoltavo. Ogni tanto mi giungeva qualche parola “...i talenti... il figliol prodigo...” Fuori aveva cominciato a piovere, trovavo molto più interessante osservare la traiettoria delle gocce, il modo in cui correvano sui fili della luce, sui rami lucidi e spogli dell'albero di fronte. Quando se ne è andato, non mi sono alzato per accompagnarlo alla porta.

Le cose intanto stavano degenerando. Non c'era più un solo istante in cui fossi calmo. Invece di parlare, urlavo. Riuscivo a star fermo soltanto quando ero in uno stato di sfinimento.

Una sera, sdraiato nel letto, mi sono accorto che nelle vene non pulsava più il sangue, al suo posto correva la lava incandescente dei vulcani, sospinta dal cuore vorticava dai piedi alla testa, inondava il cervello, giungeva agli occhi e li mutava in braci.

Di notte non dormivo quasi nulla. Mi era tornata l'insonnia dell'infanzia. Tutt'al più, se avevo bevuto o fumato, sprofondavo per un paio d'ore in un pozzo nero senza immagini né suoni. Il risveglio era sempre improvviso, di colpo avevo gli occhi sbarrati. Non ricordo sogni particolari, se non uno. Alzo gli occhi e sopra di me, su una roccia, vedo un enorme leone immobile, già la sua ombra è spaventosa. Intuisco che sta per saltarmi addosso, nel suo sguardo la ferocia è pura, paralizza ogni mio desiderio di fuga. Vorrei gridare ma non ci riesco. Nell'attimo in cui balza capisco che non è più un leone, è una capra, un toro, un pitone, un figlio remoto del demonio. Gli occhi hanno un'intensità di un altro mondo, le narici e la lingua sono tizzoni, sopra di me gli artigli insanguinati volano come scintille fuggite dal fuoco. Solo allora ho gridato e, con il grido, mi sono svegliato. Dalla strada giungeva il rumore dei camion, imboccando la salita cambiavano marciò. In cucina, un rubinetto gocciolava. Mio padre russava nella stanza accanto. Mi sforzavo di riprendere sonno ma non ci riuscivo. Il resto della notte lo passavo immerso in un dormiveglia senza quiete, digrignavo i denti, sbattevo la testa contro il muro, strappavo le lenzuola come fossero una camicia di forza.

La mattina dopo, ero stanco morto. Alzarsi era duro, andare a scuola impossibile. Uscivo con i libri in mano, andavo in città e mi infilavo nel primo bar aperto. Il furore aveva portato con sé la sete, la gola mi bruciava sempre e così lo stomaco. C'era un incendio e dovevo spegnerlo, al mattino la birra era la cosa migliore, mi sentivo subito meglio. Già dopo il primo boccale diventavo più calmo. Sete e nervosismo ormai erano una sola cosa.

Così senza neanche accorgermi ho cominciato a bere. Sapevo e non sapevo di farlo, in ogni modo mi ripetevo:

“E un caso diverso da mio padre. Lui beve perché è  un fallito, io ho solo bisogno di un aiuto per conoscermi meglio. Al mondo non bisogna demonizzare niente. Le cose non valgono per sé ma per quello a cui servono”.

A casa ci evitavamo l'un l'altro, eravamo due specchi che non potevano riflettersi. All'ora di pranzo, lui non c'era mai e anch'io cercavo di non esserci. Mia madre si era persino abituata, non mi chiedeva più neanche: “Dove sei stato?” Mangiava sola davanti alla televisione poi metteva via il piatto e prendeva il cucito.

Nell'ultimo anno le erano venuti molti capelli bianchi. Con il bianco doveva essere giunta anche la stanchezza, in qualche modo, forse, era contenta di quella quiete apparente. Ma la quiete era appunto apparente, stavamo tutti camminando su un filo teso con un'asta in mano. A un tratto l'asta è sfuggita e siamo caduti.

E successo una domenica. Mia madre aveva fatto l'arrosto e lo stava tagliando, ha messo la fetta nel piatto di mio padre nello stesso istante in cui io sono entrato in cucina. Si sono voltati a guardarmi come se fossi un marziano. Erano pallidi, immobili, sembravano statue di sale. Ho spostato la sedia rumorosamente e mi sono lasciato cadere sopra. Mio padre aveva i riflessi lenti, è passato qualche secondo prima che sbattesse il pugno sul tavolo. Le posate sono sobbalzate e così i bicchieri.

“Questa casa non è un albergo!” ha gridato.

Ho preso una patata novella dal piatto, era tenera, saporita. “Strano, non me ne ero mai accorto”, ho risposto, mordendola.

Allora lui si è alzato in piedi.

“Sei un disgraziato!” ha urlato, sollevando il braccio per darmi uno schiaffo.

Io sono stato più svelto, con il destro ho parato e con il sinistro ho colpito: il pugno gli è arrivato in pieno viso, ho sentito precisamente l'osso del naso curvarsi. Si è accasciato sulla sedia,scoprendosi il volto con le mani. Con calma ho raggiunto la porta.

“E tu cosa sei?” gli ho detto mentre mia madre con un fazzoletto gli tamponava la ferita.

Nei pomeriggi di domenica le strade sono spaventosamente vuote e tristi. Avevo voglia di svagarmi. Dei manifesti sui muri annunciavano l'arrivo in città di un grande luna park. Ho preso un autobus e l'ho raggiunto. Per tutto il pomeriggio sono andato sull'autoscontro, appena vedevo una persona dallo sguardo felice, giravo l'auto e gli andavo addosso.

Sono partito con quelli delle giostre. All'ora di chiusura ho domandato loro se avevano bisogno di un aiuto.

“Una mano serve sempre”, mi hanno risposto. Nessuno ha chiesto quanti anni avevo e perché volessi andare via, non c'era paga, soltanto qualche mancia, un tetto, qualcosa da mangiare e la possibilità di divertirsi tutti i giorni.

La mattina dopo abbiamo smontato le strutture e siamo partiti. Avrei potuto telefonare a casa, chiedere come stava mio padre ma il pensiero non mi ha sfiorato neanche per un istante. Nella mia mente si era creato una specie di vortice nero, roteando su se stesso aveva ingurgitato il mio passato.

Dalla mattina alla sera vivevo in compagnia. Faceva freddo e pioveva. Tutti, per andare avanti, si aiutavano con l'alcol, era la prima volta che mi capitava di bere assieme ad altre persone, l'effetto non mi dispiaceva affatto.

Ero brillante, simpatico. Quando parlavo, chi stava intorno si divertiva sempre. Cambiavamo piazza ogni giorno o quasi. Non siamo mai andati molto lontani, frequentavamo le fiere, i mercati, le feste rionali.

Di quel periodo - non saranno state più di due o tre settimane - non ho un ricordo preciso. Era come se avessi in mano un caleidoscopio. Ciò che dominava erano soprattutto delle tinte: il grigio di un capannone abbandonato, la carta da parati di un'osteria sulle colline, l'azzurro di una corriera sbucata dalla nebbia, l'arancio intenso dei cachi in un giardino spoglio.

Avevo cancellato il passato. Cancellandolo, avevo cancellato anche il futuro. Al posto dei pensieri e della coscienza di me stesso, c'era soltanto una specie di febbre. In quei giorni la chiamavo divertimento, dal gran parlare e dal gran ridere mi bruciava la gola. Bevevo e bevevo, e

ormai nessuna bevanda spegneva quel fuoco. Poi, un pomeriggio, nel gabinetto di un bar ho visto il mio volto riflesso nello specchio. Chi era quella persona che mi stava guardando? Quegli occhi non erano i miei, non avevo mai avuto degli occhi così piatti. Sembravano gli occhi di un pollo o di un tacchino, lustri, levigati, vuoti. E, sotto agli occhi, c'erano due borse gonfie e un colorito che andava dal grigio al giallo. Che diavolo! mi sono detto, sarà colpa della luce che in questo cesso fa schifo. Stavo per uscire quando, all'improvviso, ho avuto la sensazione di non essere solo là dentro. C'era qualcun altro con me, e questo qualcun altro era triste. Non lo vedevo, ma sentivo che c'era.

D'un tratto, senza nessuna ragione, mi è venuto in mente l'angelo custode. Quel gabinetto era freddo, umido, puzzolente, aveva una porta a soffietto di plastica, il pavimento era bagnato di urina, la luce fioca. Cosa mai poteva fare lì l'angelo? Più che vivere nelle latrine, ho pensato, gli angeli seguono i bambini sull'orlo dei dirupi o sui ponticelli di corda sospesi sul vuoto.

Era pomeriggio e, di lì a un'ora, avremmo dovuto aprire l'autoscontro, l'osteria era abbastanza lontana dal paese dove c'era la giostra. Eravamo in quattro quel giorno, ci avevano detto che lassù il vino era buono, per questo eravamo andati in collina. Il tempo era passato bevendo e giocando a carte. Quando ci siamo rimessi in moto, eravamo in forte ritardo. Dalla pianura saliva la nebbia, la strada era piena di buchi e di curve, la vecchia 850 aveva le sospensioni rotte. Stavo dietro e ho pensato, stiamo correndo troppo. In quell'attimo, di fronte a noi, si è materializzata la sagoma scura di un camion.

 

 

VI

 

Nell'ultimo anno - prima della mia maggiore età - sono successe soltanto due cose importanti. Dopo un mese di ospedale sono andato dritto in un centro per giovani sbandati con problemi di alcolismo. E questa è una. La seconda è che lì, finalmente, ho trovato un amico. Si chiamava Andrea e dormiva nella mia stessa stanza. Quando l'ho visto per la prima volta stava sdraiato sul letto con le mani raccolte dietro la nuca. Aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Ho detto “salve” e non si è girato. Mi sono presentato porgendogli la mano ed è rimasto immobile. Per due giorni interi mi ha ignorato. L'unico contatto fra di noi erano gli occhi. Ovunque mi seguiva con il suo sguardo. Lui mi guardava e io non riuscivo a fare altrettanto. Le sue iridi erano di uno strano colore sospeso tra l'azzurro e il verde chiaro, la sensazione era quella di una superficie acquea imprigionata dal ghiaccio. Erano acqua ma anche fuoco, bruciavano al minimo contatto. Il viso era un bel viso, lineamenti regolari e tinte chiare, accanto a lui mi sentivo goffo, malfatto. Stava sempre solo, in disparte.

La sera, dopo cena, tutti gli ospiti del centro si raccoglievano in una stanza a guardare la televisione e a giocare a carte. Non era permesso rimanere nelle camere. C'era un rumore molto forte, così lui girava la sedia contro il muro dando la schiena al resto della stanza. Per due sere mi sono unito alla compagnia, partecipavo alla briscola e commentavo i programmi a voce alta. In realtà mi sentivo più solo di prima. Così la terza sera l'ho imitato, assieme a lui mi sono messo a guardare il muro. “Mi copi?” aveva chiesto allora lui senza voltarsi.

“No”, avevo risposto, “soltanto non sopporto tutto il resto.”

Quella notte nella stanza avevamo parlato a lungo, il buio celava il suo sguardo. Ci interessavano le stesse cose, per descriverle usavamo le stesse parole.

Da quel momento non ci siamo più lasciati.

Il centro era una specie di villetta costruita all'interno del parco dell'ospedale psichiatrico. I padiglioni più importanti avevano l'aria piuttosto vecchia, dovevano risalire all'inizio del secolo, quasi tutte le finestre erano protette da grosse grate e i vetri, dietro le grate, erano opachi. Da lì ogni tanto filtravano delle grida che non avevano niente di umano. Ne avevo sentite di simili soltanto nei film ambientati nella giungla amazzonica, sembravano urla di scimmie arboricole.

Una volta, passando davanti al reparto dei cronici, Andrea mi ha raccontato di aver sentito dire che là dentro era rinchiusa una ragazza della nostra età che non poteva stare senza la camicia di forza neppure per un attimo. Appena aveva le mani libere infatti cominciava a distruggersi, si strappava i capelli, si lacerava il viso con le unghie, si azzannava gli avambracci come fosse un cane con il suo osso. Non c'era niente, assolutamente niente da fare, si comportava così fin da piccola, una lesione al momento del parto o qualcosa del genere. Si sarebbe comportata così fino alla fine dei suoi giorni.

“Tenere in vita persone di questo tipo”, aveva detto Andrea, una mattina che camminavamo accanto al padiglione, “è una delle tante ipocrisie. Basterebbe un'iniezione per farle felici.” Poi aveva fatto una pausa. “In qualche modo”, aveva aggiunto, “noi e loro siamo legati dallo stesso destino. “

L'ho guardato senza capire. Allora lui mi ha spiegato che la struttura del genere umano è quella di una piramide. Nella piramide, quegli infelici stavano nel gradino più basso, dove il mondo animato si congiungeva con quello inerte. Noi, al contrario, stavamo al livello più alto, sulla sommità. Era il livello della nostra coscienza a portarci lassù. Come loro erano a contatto con la nuda terra, così noi eravamo a contatto con l'aria infinita del cielo. Stavamo rinchiusi in quell'ospedale per la legge degli opposti. Per motivi diversi, il livello più basso e quello più alto davano entrambi fastidio a chi vegetava nel mezzo. O meglio, uno dava fastidio e l'altro rappresentava una minaccia.

“Viviamo nella dittatura della norma, non te ne sei mai accorto?” mi aveva detto, sfiorandomi una spalla.

“Nessuno sopporta il superuomo.”

“Chi è il superuomo?” avevo chiesto io allora.

“Sono io”, aveva risposto lui senza alcun dubbio.

“Sei tu. Siamo noi, che vediamo ciò che gli altri non vedono.”

Poi aveva parlato della natura. Anche lì, le cose procedevano allo stesso modo. C'erano gli erbivori, i carnivori e, sopra di loro, i superpredatori, che non erano altro che dei carnivori più cattivi di tutti gli altri. A parte le intemperie o i cacciatori, non c'era nessuno in grado di far loro del male.

“Per gli animali”, aveva detto Andrea, “si tratta solo della maniera di sopravvivere. Chi mangia e chi viene mangiato. Per gli uomini, la questione è molto più sottile. Ci sono esseri primitivi, il cui solo scopo è riempirsi la pancia e accoppiarsi. Questi esseri sono la base larga della piramide, la loro mente è primitiva, vivono soprattutto in base alle pulsioni. Dài loro uno stimolo e puoi essere certo della risposta, i loro riflessi non sono molto diversi da quelli di un'ameba. Sopra a loro ci sono le persone appena di poco superiori, persone che hanno un po' di coscienza, ma è una coscienza diluita come il sale nell'acqua della pasta. Per sopravvivere, alle volte, si inventano un ideale o qualcosa del genere, si tratta di invenzioni deboli, infantili. Sono degli zoppi, hanno bisogno del bastone per andare avanti, se glielo togli, cascano a terra e strisciano sul pavimento come vermi. Sopra questa melma”, aveva continuato Andrea, “stanno gli eletti. Gli eletti hanno avuto ogni talento in dose superiore alla norma. Non sono vermi ma aquile, la loro condizione naturale è il volo, conoscono la bellezza e la verità, non si mischiano con la sporcizia che sta sotto. Solo ogni tanto chiudono le ali e vanno giù in picchiata, con la loro maestosa potenza, e distruggono il nemico. “

Io ascoltavo questi suoi discorsi affascinato, non avevo mai sentito qualcuno parlare così. Nel momento stesso in cui le sue parole giungevano alle mie orecchie, provavo un istante di sbalordimento. Passato quell'istante, le riconoscevo subito come giuste, la verità era quella. Non c'era alcuna eguaglianza sulla terra. Anche se tutti avevamo due gambe, due braccia e una testa, in realtà appartenevamo a specie diverse. Pensavo ai volti paonazzi degli amici di osteria di mio padre o ad alcuni compagni di scuola che avevano in testa soltanto le ragazze o i motori, con loro mi ero sempre sentito a disagio. Quella volta ignoravo ancora che, tra me e loro, c'era un abisso. Io appartenevo al mondo delle aquile, loro a quello dei protozoi. Dalla mattina alla sera reagivano unicamente alla legge stimolo risposta.

Le parole di Andrea mi provocavano la stessa esaltazione delle prime poesie che avevo letto. A questa, però, si aggiungeva un senso profondo di rilassamento. Il mondo andava avanti così, come non averlo capito prima?

Dopo mangiato, ce ne andavamo a fumare una sigaretta vicino alla recinzione del parco. La primavera stava arrivando, le mimose e gli arbusti precoci erano già in fiore, il sole ormai tiepido. Stavamo lì a chiacchierare fino all'ora della terapia.

“Perché non lo dicono subito?” ho chiesto un giorno. “Sarebbe tutto più semplice.»

Andrea ha risposto con un'altra domanda: “Secondo te, da chi è governato il mondo?”

Mi sono vergognato per la mia superficialità. Era evidente che la realtà più diffusa era proprio quella dei protozoi, gli esseri stimolo-risposta, erano loro ad avere in mano le redini, ne avevo incontrati a decine, a centinaia, fin dal tempo dell'asilo. Il loro potere era quello della quantità, non della qualità, erano lo zoccolo duro della piramide, mai nessuna luce, mai nessun brivido. Era davvero impossibile che svelassero come stavano veramente le cose. Non per cattiveria o calcolo, ma per pura ignoranza dell'essenza del mondo.

Andrea diceva sempre che la soluzione migliore l'avevano trovata gli indiani, con l'invenzione delle caste. Lì, tutto era chiaro fin dal principio. Non c'erano annaspamenti, inutili perdite di energie.

“Solo qui da noi, le persone perdono tempo a inseguire delle cose che non potranno mai raggiungere. E poi, naturalmente, c’è la questione della razza. A seconda del continente in cui si viene al mondo, si hanno più o meno possibilità di salire al vertice. Pensa ad esempio ai negri”, aggiungeva Andrea passeggiando, “hai mai visto un negro dirigere un'orchestra? Eppure nelle gare di atletica sono i primi, nessuno salta e corre come loro. Questo cosa fa pensare? Che sono più vicini ai leoni che ai filosofi. E una riflessione naturale, logica, ti sale spontanea alla bocca, però non si può mai dire. Viviamo nel tempo dell'incontrastata ipocrisia. Siamo tutti uguali, è questo che vogliono farci ripetere come automi.”

Se non fosse stato per l'amicizia di Andrea, quel periodo sarebbe stato davvero triste. La vita là dentro era regolata da orari rigidi, non si poteva uscire né ricevere visite, si mangiava male e si era costretti a fare delle terapie. Gli ospiti saranno stati una quindicina, tutti piuttosto giovani. Con loro però non avevo quasi rapporti. Andrea e io ci eravamo costruiti intorno un bozzolo, lui parlava e io ascoltavo. Ero un cervo assetato che beveva acqua chlara.

Le terapie si facevano tutti insieme o da soli. C'erano delle signorine gentili che fingevano che tu fossi molto importante per loro. Io sapevo benissimo che l'unica cosa davvero importante era lo stipendio a fine mese, il fatto che loro, e non altri, stessero lì a scaldare quella sedia.

Per quello potevano permettersi quella bonomia, perché, almeno per un istante, nella giungla della competizione, ce l'avevano fatta.

Il più delle volte stavo in silenzio davanti a loro. Nella stanza c'era soltanto il ticchettio dell'orologio. Sapevo che il silenzio dava loro molto fastidio, anche se facevano finta di niente. Mi guardavano sorridendo, poi cominciavano a giocherellare con la penna o con gli orecchini, li tiravano avanti e indietro, come se avessero voluto staccarsi l'intero lobo.

Il silenzio era una strategia che mi aveva insegnato Andrea. “Se ti diverte dire cazzate”, mi aveva detto, “parla pure, loro sono felici. Le trangugiano come una bibita. Se invece non ti va, stai zitto e vedrai che diventeranno matte.”

In quell'ora muta mi venivano in mente tante cose. Cose che non riguardavano me, ma la signorina di fronte. Vedevo la sua vita come una fila di diapositive: il diploma di maturità, il primo bacio, la decisione di studiare psicologia, la soddisfazione dopo gli esami e la festa di laurea in una triste pizzeria, con i parenti vestiti bene e gli amici. E poi, l'affannosa ricerca di un posto, gli stratagemmi leciti e meno leciti per ottenerlo, l'abbandono del fidanzato: “Non sopporto che ti occupi tanto degli altri”. I pianti, i tranquillanti, la decisione di puntare tutto sul lavoro. Congressi, raduni di società, corsi di specializzazione, sgambetti e minuscole ascese di potere. E l'abbigliamento che si modificava, come i lineamenti. La rotta ormai era quella della zitella, una zitella stimata e intelligente che percorreva una strada dritta. Al capolinea, come a tutti, la aspettava una cassa di zinco foderata del legno più caro. Alcuni minuti prima dello scadere dell'ora, la signorina si sporgeva un po' in avanti e chiedeva:

“Ti è venuto in mente qualcosa in particolare?”

Io la guardavo negli occhi e rispondevo:

“Niente”.

Andrea diceva che uno dei poteri delle aquile era quello di vedere le vite altrui senza alcun paravento. “Davanti a noi sono tutti nudi, tutti inermi. Ci offrono le viscere come la frutta sui banchi del mercato.” Quando uscivo dalla stanza con la psicologa, sapevo che era vero.

Andrea era figlio di profughi istriani. Non c'era cosa che detestasse più dei rossi. “Loro”, diceva, “sono il cancro che corrode questa società. Con le loro sciocchezze ubriacano i mediocri. Perché non nuocciano, bisogna schiacciarli sotto il tacco della scarpa, come vermi, lasciare solo una poltiglia al suolo.” Secondo lui non c'erano mai state tante tragedie al mondo come da quando era nato il delirio comunista. “La società umana”, diceva, “esiste da parecchie migliaia di anni, ed è sempre andata avanti così. Chi è più bravo, comanda, gli altri devono solo ubbidire. Invece loro hanno costruito un potere paranoico, ribaltano le cose, così i meno capaci hanno il potere di decisione. Per questo che tutto poi va a rotoli. Se sei un operaio, puoi fare di tutto, se sei un professore sei soltanto una merda, ti fanno pulire i cessi o rompere le pietre per fare asfalto per le strade. Ogni mattina devi baciare gli stivali dei tuoi capi per il semplice fatto che, ancora, non hanno deciso di sopprimerti.

“Per loro”, continuava Andrea, “le persone non esistono. Esistono soltanto i mestieri e i ruoli di partito e, fra tutti, il preferito è quello della spia. Il fratello denuncia il fratello, i figli denunciano il padre. La delazione e il tradimento sono l'ossatura del sistema. Un sistema betoniera che, invece del pietrisco, tritura esseri umani.”

Io lo ascoltavo in silenzio. Lui aveva molta più esperienza di me, conosceva più cose, e poi c'era un tono nella sua voce che pareva non ammettere alcun tipo di obiezione. Da mezze frasi, accenni, avevo capito che suo padre doveva essere sopravvissuto a qualcosa di terribile, il furore che spesso coglieva Andrea nel mezzo dei suoi discorsi forse non era altro che questo, l'eco di un colpo ch'era stato inferto a suo padre. L'eco del mio era stato molto diverso, con la sua lotta eroica per cambiare il mondo mi aveva vaccinato contro tutte le possibili rivoluzioni. Per questo mi ero sempre e soltanto occupato di quello che avevo dentro. Ciò che stava intorno, mi era piuttosto indifferente. E mio padre, in quei discorsi, era la mia coda di paglia. Per nulla al mondo volevo perdere la stima di Andrea. Se fosse venuto a sapere che era comunista, avrebbe potuto pensare che lo ero anch'io. Così tacevo.

Un pomeriggio, però, ho preso il coraggio a due mani. Stavamo fumando una sigaretta sulla panchina del parco

“Sai”, ho detto tutto d'un fiato, “hai proprio ragione. Mio padre è comunista ed  è uno stronzo.”

Aveva voluto subito sapere tutto. Se era un attivista o meno, se aveva combattuto e dove. L'ho un po' deluso con la mia risposta.

“Lui non ne parlava mai. So che è stato partigiano e basta.”

Andrea ha spento la cicca sotto il tacco della scarpa.

“Probabilmente ha la coscienza sporca.”

Più volte, ai tempi della scuola, lui si era scontrato con i rossi. “Non ci crederai”, diceva spesso, “ma mi facevano persino pena. Qualcuno lo conoscevo fin dalle scuole medie. Erano ragazzi simpatici, di buon senso. E sul buon senso e sulla sensibilità che agiscono quei vermi. Nell'età in cui la gente è più sensibile, nell'età in cui si sogna un mondo migliore, loro buttano la rete. E una rete a strascico e dentro ci finiscono un mucchio di pesci. Libertà, giustizia, uguaglianza. E bello riempirsi la bocca con queste parole. Sono solo specchietti per allodole, le allodole ci cascano sopra. Per questo fanno pena, non vedono la mano che sta dietro. E una mano adunca, sporca, appena si muove gronda sangue. Poi, magari, succede anche che, ogni tanto, qualcuno si accorge del trucco. Sarebbe bastata quell'invasione dell'Ungheria per capire che tutto era sbagliato. Ma  è triste scendere dal treno, hai viaggiato per tanto tempo su quel convoglio con persone che cantavano le tue stesse canzoni. Non vedevi niente del paesaggio a lato, assieme agli altri guardavi avanti, in qualche luogo imprecisato c'era il futuro. Un futuro radioso come l'alba. Era lì che stavate andando, fiduciosi. Come fai a scendere? Se scendi, resti solo nel deserto, ti rendi conto della fame, del freddo. Il treno, con le sue luci, si allontana, c’è la notte che cala e i lupi che corrono dietro. Perché dovrei rischiare tanto, è molto meglio restare a bordo. Si resta anche quando si sa che il futuro non è radioso, ma non importa. A bordo si mangia e si canta. Le parole che canti ti fanno sentire diverso, le frasi nobili sono il tuo impegno. Hai un senso nel mondo per questo. Se smetti, sei un disfattista. Canta, continua a cantare, raglia con gli altri, come un ciuco. Come un ciuco, mettiti i paraocchi per non vedere fuori. Questa colossale menzogna è la bestia, hai capito? Il 666 nella sua forma finale, prima che il millennio si compia avrà distrutto il mondo.”

Non sapevo che cosa fosse il 666. In linea di massima, potevo pensare al numero di una camera di albergo. Così ho chiesto:

“ Ma questo numero cos’è? Non l'ho mai sentito prima”.

“L'apocalisse di San Giovanni, 666, la bestia. Satana capisci, il signore del mondo.”

“Il comunismo è Satana?”

“Già.”

Tutt'a un tratto, ho cominciato a pensare a un gatto che si morde la coda. Quando, a suo tempo, avevo chiesto a mio padre se c'era il diavolo, lui aveva risposto che erano i fascisti. Per Andrea, invece, erano i comunisti. E allora? Se uno dava la colpa all'altro, e viceversa, di chi era davvero la colpa? Ripresi a tormentarmi con quell'antico problema. Là dentro non c'era neanche un prete, se ci fosse stato gli avrei fatto due o tre domande su ciò che sta o non sta in alto. Di interlocutori, oltre ad Andrea, c'era soltanto la psicologa. Così, un giorno, all'inizio della seduta, le ho chiesto a bruciapelo:

“Chi è il diavolo?”

Lei ha sorriso, era visibilmente soddisfatta. “Qual  è l'associazione che te l'ha fatto venire in mente?”

Non me la sentivo di esporle la questione delle forze opposte, i rossi e i neri che si dividono la scacchiera, perciò ho detto:

“Stando qua dentro ho avuto tanto tempo per riflettere. Pensavo a tutto quello che mi è successo. Mi sarebbe tanto piaciuto essere buono, ma non ne sono capace. Allora mi chiedo se è colpa mia, oppure di qualcun altro che ci mette lo zampino”.

“Non c’è niente oltre te stesso”, ha risposto rassicurante. “Quello che tu chiami il diavolo, sono le tue insicurezze, le paure che ti porti dietro fin da quando eri bambino.” Ha fatto una pausa, poi, con voce più bassa, ha aggiunto: “Pensi di volerne parlare?”

Ormai ero in ballo e dovevo ballare. Così, come se tirassi fuori le parole da una cavità profonda, ho cominciato a raccontare di quando ero bambino, del fatto che ero venuto al mondo e non mi ero sentito desiderato da nessuno. Ogni volta che mio padre entrava in camera mia, avevo l'impressione che fosse il killer mandato da un regno vicino. Io ero l'erede al trono e lui, per un problema di supremazia territoriale, aveva il compito di uccidermi.

Ascoltando, lei annuiva con gli occhi. Vedevo già la relazione che avrebbe fatto al prossimo congresso. Era bello avere un uditorio attento - i cantastorie dovevano provare più o meno la stessa emozione - dovevo semplicemente proseguire con dettagli sempre più strabilianti. Non facevo nessuna fatica a farlo, non sapevo dove stavo andando. Ogni frase che usciva dalla mia bocca, prima di ogni cosa sorprendeva me stesso.

Allo scadere dell'ora, la psicologa ha aperto la mia cartella e con la penna biro ha fatto dei segni come se stesse compilando una schedina. Poi si  è alzata e mi ha accompagnato all'uscita, dicendo:

“Ho l'impressione che stiamo arrivando al nocciolo”.

Le ho risposto con un sorriso mite.

Non avevo voglia di tornare in stanza. I discorsi di Andrea mi avevano portato a una specie di saturazione. Non ero stufo, né irritato, avevo soltanto bisogno di una pausa di silenzio. Troppe idee e in troppo poco tempo. Mi sarebbe piaciuto avere lì una spiaggia, un luogo aperto dove poter camminare con l'orizzonte davanti. Siccome non c'era, sono andato a fare un giretto intorno ai padiglioni.

Una volta, in una mostra sugli strumenti di tortura, avevo visto una palla di metallo. Al suo interno, un tempo, venivano messi dei carboni ardenti. Grazie al cielo, non me ne ricordavo l'uso, ma sentivo di avere all'interno qualcosa di simile. C'era ancora fuoco nel mio corpo, percepivo benissimo il calore, soltanto che, ormai, era un fuoco domestico, le sue fiamme non lambivano più ogni cosa come quando erano alimentate dall'alcol. L'unica differenza era la fragilità. Essere sobrio era come avere un interruttore spento. Passeggiavo per il parco e mi domandavo, avrò mai bisogno di riaccenderlo? Si può vivere così, con i motori al minimo?

 

 

VII

 

Il legame stretto che univa me ad Andrea non è rimasto a lungo inosservato. Mentre gli altri si annoiavano a morte, noi stavamo sempre insieme a parlare. Questo doveva fare una certa invidia, così una mattina, fuori dalla stanza, abbiamo trovato scritto: “Checche.

Pensavo che Andrea si sarebbe infuriato, invece ha soltanto alzato le spalle. “Melma”, ha detto, “la melma non pensa che a quello. Il loro orizzonte è troppo basso per poter contemplare la grandezza della nostra amicizia.”

La notte dopo ci hanno separati, niente doveva ostacolare il nostro processo di guarigione. Dividevo la stanza con tre sconosciuti, uno di loro puzzava al punto tale da rendere l'aria irrespirabile. Avevamo l'obbligo, durante il giorno, di non stare troppo vicini. Ciononostante un pomeriggio, dopo mangiato, Andrea mi ha raggiunto sulla panchina e mi ha sussurrato:

“Domani scappiamo “.

Senza cambiare l'espressione del volto ho sussurrato:

“Cosa? Sei matto?!

“Hai paura?” aveva chiesto lui allora.

“No, ma mi sembra una follia, tra neanche un mese potrai tornare a casa.”

Si era alzato di scatto.

“Allora resta nella melma”, aveva detto prima di andarsene.

Per tutto il pomeriggio sono stato molto agitato. Avevo fatto una figura da verme, dopo tante belle parole non ero stato capace di accettare un gesto minimo di ribellione. Tra l'amicizia di Andrea e la norma, avevo scelto la norma. Avevo paura di immaginare quello che mi sarebbe successo se fossi andato fuori. Ero stato un pulcino, non un'aquila, un pulcino che da grande sarebbe diventato un pollo. Durante la cena l'ho visto mangiare solo, seduto in un tavolo vicino alla finestra. Più che mangiare sbocconcellava, aveva un'aria malinconica che non gli avevo mai visto.

Al momento di raggiungere la sala della ricreazione gli sono passato accanto con indifferenza e ho detto piano:

“Va bene”.

“All'una davanti alle cucine”, ha risposto.

Era maggio e l'aria tiepida della notte era già satura dell'odore dolciastro dei fiori. In silenzio abbiamo raggiunto il retro dei padiglioni dell'ospedale psichiatrico.

Dietro il deposito dei rifiuti, Andrea aveva scoperto un buco nella rete. Il mio cuore batteva veloce, ero diviso tra il sentimento di euforia e la paura per quello che stavamo facendo.

Appena fuori ci siamo messi a correre, c'erano dei campi sterrati e alla fine una piccola strada asfaltata dove non passava nessuno. Non sapevo dove eravamo diretti, infantilmente avevo creduto che Andrea avesse organizzato già tutto. Ci saremmo imbarcati come mozzi su una nave in partenza, o qualcosa del genere.

“Dove andiamo?” ho chiesto, dopo un po'.

“Non ne ho la minima idea”, ha risposto, incurante.

“E allora perché mi hai fatto uscire?” ho quasi gridato.

“Nessuno ti ha costretto, sei uscito da solo, con le tue gambe. Per quanto mi riguarda avevo voglia di andarmene per un po' in giro, a notte fonda.”

“E se ci scoprono?”

“Ci impiccheranno.”

Mi è scivolato addosso un malumore soffocante, l'idea della grande avventura era sfumata, stavo soltanto correndo un rischio inutile. Per un istante ho pensato anche di tornare indietro, in meno di mezz'ora sarei stato di nuovo nel mio letto. Andrea intanto camminava avanti, aveva le mani in tasca e sembrava assorto, indifferente come una pietra alla mia presenza. Ero io a non poter fare a meno di seguirlo, avevo quasi la sensazione che avrei dovuto proteggerlo.

Alla fine siamo arrivati a un parcheggio, c'erano parecchie auto ferme, Andrea ha tirato fuori dalla tasca una chiavetta per la carne in scatola e ne ha aperta una.

“E tua?” gli ho chiesto.

Mi ha risposto: “Vieni?”

Siamo usciti dalla città prendendo la tangenziale, Andrea mi sembrava cupo e avevo paura. Non osavo più fare domande, ma una parte di me era convinta che quella corsa fosse una corsa incontro alla morte. A un certo punto, lui avrebbe girato il volante e saremmo andati a sbattere contro la parete di roccia, oppure contro il guardrail e poi giù dritti nel mare. Non si trattava di una distrazione o di un incidente ma di qualcosa che lui aveva voluto fin dal primo istante. Perché mi ero fatto incastrare? Tenevo le gambe rigide davanti a me come se, sotto i miei piedi, ci fossero i pedali.

Invece, dopo qualche chilometro, lui ha messo la freccia e ha imboccato una strada bianca. La strada saliva in alto con curve strette, dopo due o tre tornanti si è fermato in un piazzale, ha spento il motore, poi  è uscito dall'auto e ha fatto un respiro profondo. Sotto di noi c'era il mare, tutto intorno piccoli campi, vigneti scoscesi, frutteti.

“E adesso?” ho chiesto.

“Adesso siamo qui.”

La luna era alta e illuminava il suo volto, sembrava meno teso di prima, anzi quasi allegro. Ci siamo seduti sull'erba vicino a un muretto di pietra, le viti avevano lasciato il posto a due grandi ciliegi.

“Ecco”, ha esclamato Andrea, “era questo che volevo. Almeno per una notte, vedere l'orizzonte e lo spazio aperto. Avevo sete di questo.”

Provavo la stessa sensazione. Ho detto: “La psicologia e le stanze chiuse restringono la testa”. Poi gli ho raccontato della prima volta che mi ero fatto una canna, dell'effetto scoppiato in ritardo, di quel bisogno identico di vedere l'orizzonte, la linea del mare, la linea del cielo e di come quell'orizzonte, e tutto quello che in mezzo vi era compreso, a un tratto si fosse riversato al mio interno. Tutto viveva dentro di me e quel tutto, prima di ogni altra cosa, era dolore.

Abbiamo parlato a lungo quella sera, anche se non avevamo bevuto niente le nostre parole avevano la confidenziale rilassatezza di chi è un po' ubriaco. I satelliti sopra le nostre teste si mischiavano alle stelle, dall'erba saliva il fruscio dei primi grilli, il canto prepotente di un usignolo riempiva gli spazi di silenzio.

“Chissà”, ha detto a un certo punto Andrea, “se lassù c’è un grande cappello con tutti i nostri nomi dentro, come alle lotterie, alle tombole. A un certo punto viene fuori Walter o Andrea e tu devi andare in quel posto, vedi la tua casa, i tuoi genitori e sai già che sarai infelice con loro, lo sai ma non puoi ribellarti.”

“Se c’è il cappellaio”, ho aggiunto io, “è un cappellaio matto. O matto o cieco, comunque manda tutti nel posto sbagliato. Mio padre, chi mai l'avrebbe voluto? E invece è toccato proprio a me, è chiaro che sono stato costretto. Non è gentile, no?”

“ Non è gentile per niente”, ha risposto Andrea, “anch'io, se avessi potuto scegliere, avrei scelto qualcosa di diverso.”

Dopo un po' non c’è stata più alcuna regola, alcun filo nei nostri discorsi. Abbiamo parlato a lungo di quello che ci sarebbe piaciuto essere, se non fossimo stati noi. Andrea avrebbe voluto essere un cavaliere e vivere nel medioevo, con una splendida armatura e un cavallo lucido, e la possibilità di fare giustizia da solo, con la spada e la mazza. Io esitavo, ero indeciso, confuso. In realtà la vita a cui anelavo era di estrema quiete, così alla fine ho detto:

“Io vorrei essere un ragioniere”.

“Un ragioniere? ! “ ha gridato Andrea e poi è scoppiato a ridere. Era la prima volta da quando lo conoscevo. Mi ha mollato una forte pacca sulla spalla: “Un ragioniere! Ma dài, non scherzare! “

“Non scherzo. Prova a immaginare, uno che fin da piccolo pensa solo ai conti, fa le somme e quando tira la riga sotto tutto è esatto, tutto torna.” Ho fatto una pausa.

“Sarebbe bellissimo”, ho aggiunto.

Poi il sonno ci ha colti. Ci siamo addormentati uno vicino all'altro, io sentivo il suo calore e lui il mio. Eravamo un unico respiro, lui era il cavaliere e io facevo quadrare ogni cosa. La volta celeste non era più minacciosa ma rassicurante. Dormivamo là sotto come due cuccioli stanchi che non hanno più alcun bisogno di fare domande.

Durante il nostro breve sonno è salita una brezza leggera, ha scosso gli alberi di ciliegio e ha fatto cadere i petali. Ho aperto gli occhi e mi sono trovato coperto da una strana neve, una neve profumata e tiepida. Andrea dormiva ancora, teneva le mani intrecciate sulla pancia. La sua espressione era davvero quella di un cavaliere, aveva petali sugli occhi, sulle guance, tra i capelli. Sono rimasto a osservarlo per un po'. Senza il furore degli occhi, senza il sarcasmo delle parole, il suo volto diventava qualcos'altro, sui lineamenti regolari e forti c'era un velo di tristezza. Era un cavaliere colpito da un sortilegio nel bel mezzo di un comba'ttimento, giaceva a terra e dal suo corpo emanava il vento freddo della tragedia.

Era ancora buio quando siamo saliti in macchina, dovevamo tornare presto per non essere scoperti. L'umore di Andrea non era più quello di prima. Contro il cielo scuro, spiccavano le chiome bianche dei ciliegi. Prima di andarsene si è girato a guardarli.

“E di questo che ci si dimentica troppo spesso”, mi ha detto.

“Di questo cosa?”

“Della bellezza.”

Poi ha aggiunto: “Così mi piacerebbe morire, in un prato, coperto da qualcosa di bianco. Neve o petali di rosa “.

Si avvicinava il giorno del rilascio. E, con il rilascio, la grande domanda su cosa avrei fatto del mio futuro.

Mancavano pochi mesi alla mia maggiore età. Quei mesi li avrei trascorsi con i miei genitori.

Un'assistente sociale nel frattempo aveva lavorato per ricostruire i nostri rapporti. Aveva persino convinto mia madre a fare qualche seduta dalla stessa psicologa, perché - doveva aver detto - se io ero così, in qualche modo la colpa doveva essere anche loro.

Sentivo già le parole di mia madre: “Questo figlio è la mia disperazione. Da piccolo, era un tesoro. Anche se non siamo benestanti, non gli abbiamo mai fatto mancare niente