Susanna Tamaro
Anima Mundi
Non meravigliarti se ho detto: dovete nascere in modo
nuovo. Il
vento soffia dove vuole: uno lo sente, ma non può dire da dove viene
né dove va. Lo stesso accade con chiunque è nato dallo Spirito.
Giovanni 3.7,8
Fuoco
I
In principio era il vuoto. Poi il vuoto si è
contratto, è diventato più piccolo di una capocchia di spillo. E
stata una sua volontà o qualcosa l'ha costretto? Nessuno può
saperlo, ciò che è troppo compresso alla fine esplode, con rabbia,
con furore. Dal vuoto è nato un intollerabile bagliore, si è
sparso nello spazio, non c'era più buio lassù, ma luce. Dalla
luce è scaturito l'universo, schegge impazzite di energia proiettate
nello spazio e nel tempo. Correndo e correndo, hanno formato le stelle e i
pianeti. Il fuoco e la materia. Sarebbe potuto bastare questo, eppure non
è bastato. Le molecole di amminoacidi hanno continuato, millennio dopo
millennio, a modificarsi finché è nata la vita: microscopici
esseri unicellulari che, per respirare, hanno avuto bisogno di un batterio. Da
lì, da quelle pozze primordiali, con un movimento progressivo di ordine,
ha avuto inizio ogni forma vivente: i grandi cetacei degli abissi e le
farfalle, le farfalle e i fiori che ospitano le loro larve.
E l'uomo, che invece di andare a quattro zampe si erge su
due. Da quattro a due le cose cambiano, il cielo è più vicino, le
mani sono sgombre: quattro dita che si muovono e un pollice snodato possono
afferrare tutto. E allora è libertà, dominio dello spazio, azione,
movimento, possibilità di fare ordine o disordine. Intanto l'universo si
apre, le stelle sono sempre più lontane, fuggono ai bordi come palle da
biliardo. Tutto questo lo ha fatto qualcuno o è andato avanti da
sé, con l'inerzia di una valanga? Si dice: la materia ha le sue leggi, a
quella temperatura, a quelle condizioni non poteva fare altro che questo,
l'universo. L'universo e la minuscola galassia con dentro, sospeso, il giardino
fiorito della terra. Un centinaio di specie di piante e di animali sarebbe
già stato più che sufficiente per trasformare il nostro pianeta
in qualcosa di diverso dagli altri. Invece di forme di vita differenti ce ne
sono decine e decine di migliaia, nessun uomo in una sola esistenza potrebbe
imparare a riconoscerle tutte. Spreco o ricchezza? Se la materia ha le sue
leggi, chi ha fatto le leggi della materia? Chi ha fatto ordine? Nessuno? Un
dio della luce? O un dio dell'ombra? Quale spirito alimenta chi, programmando
una cosa, ne programma anche la sua distruzione? E poi, che importanza
può avere? Noi siamo in mezzo, costantemente schiacciati fra i due
princìpi. Una forma fugace di ordine, le cellule si aggregano nel nostro
corpo, nel nostro volto. Il nostro volto ha un nome. Il nome, un destino. La
fine del percorso è uguale per tutti, l'ordine si dirada, diventa
disordine, gli enzimi partono con i loro messaggi e non trovano più
nessuno ad accoglierli. Staffette di un esercito che non esiste più da
nessuna parte. Intorno cè il silenzio sordo della morte.
Ordine, disordine, vita, morte, luce, ombra. Dal momento
in cui avevo preso coscienza del mio esistere, non avevo fatto altro che
interrogarmi, mi facevo domande a cui nessuno poteva rispondere. La saggezza
forse è solo non chiedersi niente. Non sono saggio, non lo sono mai stato.
Il mio elemento non è il quarzo ma il mercurio. Materia instabile,
mobile, febbricitante. L'argento vivo destinato a muoversi sempre. E sempre nel
disordine. Pensavo queste cose appoggiato al cancello del cimitero aspettando
la salma di mio padre. Faceva freddo, c'era vento, gli unici uccelli capaci di
sfidarlo erano i corvi. Il furgone del comune è arrivato in ritardo
avvolto in una nube nera di gasolio. Dov'è il prete? mi hanno chiesto scaricandolo. Il prete non viene,
ho risposto. Tutto si è svolto in maniera rapida, il loculo era
già aperto, gli uomini hanno issato la bara e l'hanno infilata dentro,
poi l'hanno chiusa con una lastra bianca. Per fissarla hanno usato il trapano.
C'era solo quel rumore intorno e il gracchiare dei corvi. Invece di fare un
discorso, i suoi tre amici - gli unici ancora vivi - si sono messi a cantare
qualcosa che assomigliava all'Internazionale. Cantavano debolmente, come
possono cantare le persone molto vecchie. Il vento soffiava a raffiche, le note
uscivano e subito venivano strappate via. Io guardavo loro e loro non
guardavano me. Avevano tre garofani rossi in mano, li tenevano con goffa
timidezza, come bambini che non sanno a chi darli. Fuori dal loculo c'era un
vasetto ma era troppo alto per essere raggiunto. Si sono guardati un po'
intorno, indecisi sul da farsi, poi hanno aperto le dita e li hanno fatti
cadere per terra. La notte aveva piovuto, la melma del suolo ha intriso i
petali. Non erano più fiori ma rifiuti.
Siamo usciti uno dopo l'altro con lo sguardo basso.
Davanti al cancello del cimitero ho dato una mancia ai becchini, e senza dire
una parola ho stretto la mano ai suoi amici. A sud il color piombo del cielo si
stava aprendo in una fessura più chiara. Tutto era finito, chiuso,
chiuso per sempre.
Mio padre era alto un metro e ottantacinque, pesava una
novantina di chili. Aveva scarpe enormi. Da piccolo ci mettevo i piedi dentro,
per me non erano scarpe ma piroghe della Polinesia, il battipanni era il remo e
così andavo in giro per la stanza.
Era nato qualche anno dopo la fine della grande guerra.
Con il suo corpo massiccio aveva attraversato gran parte del secolo. Assieme a
lui, lo avevano attraversato i suoi succhi gastrici, i neuroni cerebrali con
gli alberelli dei dendriti, il cuore con i ventricoli e le orecchiette, il
viavai di sangue arterioso e venoso, le ossa, i tendini, le pareti spugnose dei
polmoni, quelle lisce e scivolose dell'intestino.
Per ottant'anni quell'insieme di funzioni che rispondeva
al nome di Renzo si era mosso tra lo spazio e il tempo.
Aveva combattuto per qualcosa e contro qualcos'altro;
aveva urlato, sbraitato, consumato un numero imprecisato di ettolitri di
bevande alcoliche. Aveva fatto vivere nel terrore mia madre e divertire gli
amici dell'osteria; aveva messo al mondo un figlio. E proprio quel figlio,
quella stessa mattina, l'aveva sepolto e aveva dato la mancia ai becchini. Quel
figlio non era triste ma stupito. Forse succede sempre così quando
l'ultimo genitore se ne va. A un tratto si è soli e, in quella solitudine,
molto cambia. Non si è più figli, non cè più
nessuno contro cui agire. La fine che in ordine naturale si profila
all'orizzonte è la nostra. Mia madre diceva che il mondo l'aveva fatto
Dio, mio padre sosteneva che Dio se l'erano inventati i preti per fare stare
buona la gente. Io, fino a un certo punto, ho preferito pensare a qualcosa di
più semplice, a un prestigiatore ad esempio. Avevo visto un giorno uno
spettacolo dove un signore, con un colpo di bacchetta, tirava fuori da un
cappello un coniglio. Con la stessa bacchetta, poco dopo, rimetteva insieme i
cocci di un bicchiere. Con una bacchetta, dunque, si potevano fare un mucchio
di cose. La bacchetta la usava anche il direttore della banda. Agitandola in
aria trasformava quella confusione di sgorbi neri sulla carta in una musica che
faceva piangere.
Ho creduto al prestigiatore abbastanza a lungo. Poi, da
un giorno all'altro, non ho creduto più a niente. E successo quando
è morto un mio compagno di scuola. Andava in bicicletta a comprare le
sigarette per la madre. Era l'imbrunire e ci si vedeva poco, una macchina l'ha
urtato e poi l'ha preso sotto. Non eravamo amici in modo particolare, soltanto,
il giorno prima, mi aveva imprestato la sua gomma da cancellare. A un tratto il
suo banco era vuoto e la gomma è rimasta in fondo alla mia cartella, non
c'era più nessuno a cui restituirla. Tutto qui. Prima c'era Damiano e
poi, al suo posto, c'era il vuoto.
Eravamo andati ai funerali con il grembiule e il fiocco,
i due più alti reggevano una grande corona. Per arrivare al cimitero si
passava davanti alla sua casa. La madre si era scordata di ritirare il bucato,
i suoi pantaloni e le sue camicie erano ancora lì, stesi sul filo,
battuti dal vento come bandiere di un paese scomparso. Quando il prete ha
detto: Pensiamo al tuo piccolo sorriso lassù, tra i pascoli del cielo,
sono scoppiato a piangere. Non piangevo di commozione, ma di rabbia.
Perché ci prendono in giro? mi dicevo. Lui non cè più da
nessuna parte. La gomma è fredda nella mia tasca.
Quel giorno ho capito di essere come quei fachiri che, in
India, vivono per anni appollaiati sulla sommità dei pali. Ero solo,
seduto in cima a un palo, con il vuoto intorno e, nella testa, i miei pensieri.
Probabilmente anche gli altri erano così, soltanto che sembravano non
accorgersene.
Una volta, la maestra ci aveva spiegato che i saprofiti
erano uno dei fondamenti su cui posava la nostra esistenza. Potevano essere sia
piante che animali, il loro compito era di decomporre tutto ciò che un
giorno aveva avuto vita propria. Scindevano le molecole complesse in semplici.
L'ammoniaca, i nitrati, l'anidride carbonica dei nostri corpi aiutavano le
piante a crescere. Gli animali mangiavano le piante e noi mangiavamo gli
animali e le piante. La quadratura del cerchio. Prima del vuoto totale c'erano
queste piccole creature, gli umili trasformatori. Mentre gli amici di mio padre
biascicavano l'Internazionale, era proprio a loro che pensavo. Guardavo i tre
vecchi e mi domandavo se sentivano quel brulichio ansioso sotto i loro piedi.
Anche loro in fondo non erano che mangime per i saprofiti, e laggiù lo
sapevano. Non era serio e neanche gentile pensare questo, ma non riuscivo a
togliermelo dalla testa.'A più di vent'anni di distanza mi erano tornate
in mente tutte le fantasie sulla morte della mia infanzia.
Quando se ne era andata la nonna, mia madre mi aveva
spiegato che la morte è una specie di finta perché non si muore
mai per sempre. Un giorno, mi aveva detto, suoneranno le trombe del
giudizio. Quelle trombe saranno una specie di grande sveglia e tutti usciranno
dalle loro tombe. Ero rimasto perplesso. Conoscevo già l'esistenza del
paradiso, del purgatorio e dell'inferno. Così mi chiedevo, com'è
possibile? Quando si muore, si va in alto oppure in basso o ci si ferma per un
po' a mezza strada. Dipende se si è stati buoni o meno. Che cosa
c'entrano allora i sarcofagi scoperchiati? Là dentro non doveva esserci
più niente. Non riuscivo a farmi una ragione del perché, a un
certo punto, bisognasse precipitarsi di nuovo tutti nelle tombe, come un'adunata.
Pensando a quella cosa, mi venivano in mente le mattine in cui, pur essendo
sveglio, facevo finta di dormire. Mi piaceva essere svegliato da mia madre,
così appena sentivo i suoi passi chiudevo di nuovo gli occhi, era una
specie di gioco. Forse un giorno tutte le persone morte, per far piacere a Dio,
avrebbero fatto solo finta di essere gi
morte. A un segno convenuto,
dall'inferno dal paradiso e dal purgatorio, con un gran fuggi fuggi si
sarebbero precipitate tutte nel luogo in cui erano state sepolte.
Ma anche se così fosse stato, c'erano comunque dei
problemi pressoch insormontabili. Avevo visto come avevano chiuso la nonna e
sapevo quanto era piccola. Come avrebbe fatto a liberarsi da quel coperchio?
Per lei anche uno stuzzicadenti sarebbe stato troppo pesante. E tutti quei
poveretti che erano stati fatti a pezzi sui campi di battaglia? I corpi dei
soldati di Pirro e di Annibale mischiati ai corpi enormi degli elefanti?
Com'era possibile che, allo squillo della tromba, ognuno trovasse il suo pezzo?
Se nella fretta qualcuno, per sbaglio, avesse afferrato la gamba di un nemico
o, peggio, la rotula di un elefante? Cosa sarebbe successo? Sarebbe andato al
cospetto di Dio conciato in quel modo? E gli abitanti dell'India, che nessuno
aveva avvertito, e continuavano a farsi bruciare? Anche la cenere poteva
risorgere?
Sono arrivato a casa dopo il funerale con queste idee in
mente e ho subito cercato qualcosa da bere. C'era solo una mezza bottiglia di
un liquore dolce, ancora quello che mia madre usava per fare le torte. Non
aveva più alcun profumo ma l'alcol c'era lo stesso così l'ho
bevuto senza neanche prendere un bicchiere. Avrei voluto sdraiarmi ma non era
possibile, il divano era soltanto uno striminzito divanetto di skai.
Ero seduto in quello stesso posto, con i piedi che
neanche toccavano per terra, quando avevo chiesto a mia madre: Il diavolo
esiste? Lei stava lavando i piatti, vedevo la schiena con il grembiule
allacciato poco sopra il sedere. Cosa ti salta in mente? era stata la sua
risposta vagamente sorpresa. La mia domanda era stata neutralizzata da un'altra
domanda. Niente, avevo detto allora, alzando le spalle.
Qualche giorno dopo, avevo ripetuto la stessa domanda a
mio padre. Era scoppiato a ridere. Certo che esiste, era stata la sua risposta,
il diavolo sono i fascisti. Allora mi era stato chiaro che nessuno di loro
era in grado di rispondermi.
Pensavo spesso a quello scheletro con una falce in mano,
dipinto sulle pareti della chiesa. Tagliava il fieno e il fieno erano le nostre
vite. Se Dio era buono come dicevano, chi aveva inventato quello scheletro?
Forse Dio non era così buono. O forse era buono ma distratto. O forse
aveva avuto un giorno di malumore e, in quel giorno, aveva creato il diavolo.
Il diavolo e la morte.
Quando mia madre mi vedeva assorto, diceva sempre:
Perché non vai in cortile a giocare con gli altri? Adesso nessuno mi
diceva più niente. Ero tornato a casa. La casa era vuota e io ero
grande. Le domande che mi ponevo erano le stesse di quando non riuscivo, dal
divano, a toccare terra con i piedi.
Una volta, al cinema domenicale, avevo visto Moby Dick.
Una frazione di secondo prima che la balena bianca erompesse fuori dalle acque,
il proiettore aveva preso fuoco. C'era stata una fiammata e subito dopo, nel
buio della sala, era ricomparso il lenzuolo bianco..
Mi è tornato in mente pensando al mio passato.
Cosa era successo in tutti quegli anni?
Ero scappato, fuggito lontano. In quella fuga, mi ero
illuso di costruire una vita diversa. Poi ero tornato. Come un bravo figlio, avevo
seppellito mio padre e dato la manciò ai becchini. Nel darla, mi ero
reso conto che, dietro di me, c'erano soltanto fotogrammi bruciati. Il
leviatano non era morto n scomparso. Stava ancora lì, appena sotto la
superficie dell'acqua. Camminando tra le stanze vuote intravedevo la sua
sagoma, era minacciosa, grigiastra, silente, pronta ancora a balzare fuori e a
distruggere ogni cosa.
II
La casa in cui sono nato è una palazzina di tre
piani edificata all'inizio degli anni Cinquanta. Cemento grigio fuori e
squallore interno, non cè niente ad abbellirla. Le finestre della
cucina danno sulla strada e quelle delle camere da letto sul cortile. Un
cortile dove non crescono fiori ma rottami di automobili. Le tapparelle di
plastica, un tempo azzurre, ora sono di un colore indefinito. Per le scale
cè un forte odore di umidità misto al tanfo di pipì di
gatto. Dapprima ci abitava solo mia madre, poi, quando si è sposata,
è venuto a starci anche mio padre.
Malgrado ci sia, sulla credenza, una foto di loro due con
me piccolo in braccio e malgrado loro sorridano, non ricordo un solo istante
del mio passato in cui, fra quelle quattro mura, ci sia stato qualcosa di
simile alla felicità.
Non dico quella dei vecchi film americani, dove tutti si
parlano con musi da cerbiatti. Mi sarei accontentato di qualcosa di più
semplice, di più essenziale. Se penso a qualcosa di fisico, penso a una
colla tiepida. Una colla che tiene assieme i pezzi. Io sono qui e tu sei qui
vicino, la colla ci unisce, ci aiuta a capire quel che facciamo. Invece niente,
c'erano due persone in quella casa, e quelle due persone avevano la stessa
vicinanza di un muro e una scarpa. Poi ne è venuta una terza, ed era
un'altra cosa ancora, una vanga, ad esempio. Il muro, la scarpa e la vanga
vivevano insieme sotto lo stesso tetto. Tutto qui.
Onora il padre e la madre. Questo comandamento, a un
certo momento della mia vita, mi ha fatto più paura di qualsiasi altro.
Avevo ormai imparato come nascono i bambini e la legge prepotente che fa andare
avanti il mondo. In un determinato momento, tutti i mammiferi entrano in
fregola: i maschi cercano le femmine e così avviene l'accoppiamento. La
natura ha una fantasia tremenda, ha immaginato un'infinità di
stratagemmi affinché questo possa compiersi. A loro modo si accoppiano
anche gli alberi. Tutto procede con questa musica forzata.
Lentamente ho compreso che quel comandamento non vuol
dire, come tutti pensano, sii gentile con i tuoi genitori, porta a casa il
resto giusto della spesa e non rispondere male. Vogliono far credere ai bambini
che sia questo, ma non è vero niente, è solo una copertura, una
toppa sul maglione per coprire il buco. La verità è ben diversa
ed è imbarazzante anche solo intuirla.
Onora il padre e la madre vuol dire: non immaginare mai
l'istante in cui ti hanno concepito. Continua a pensare alle cicogne e ai
cavoli, a stormi di cicogne e latifondi di cavoli. Fallo fino alla fine dei
tuoi giorni perché altrimenti dovresti renderti conto che in
quell'istante, nella maggioranza dei casi, non c'era un progetto d'amore ma un
richiamo ben più terreno. Nessuno ha immaginato l'essere che sarebbe
venuto al mondo, nessuno l'ha desiderato, nessuno ha atteso la sua
diversità, i suoi occhi, le sue mani, il suo modo nuovo di vedere le
cose. Semplicemente, c'era un prurito da qualche parte, quel prurito andava
soddisfatto. Cè stato un attimo di disattenzione e, in quell'attimo,
tua madre e tuo padre sono diventati te.
Naturalmente esistono le eccezioni. Ci sono sempre alcuni
- pochi - fortunati al mondo, ma io, a quattordici anni, ero cosciente di non
esserlo. Guardavo il grande orco mangiare. Rompeva il pane in pezzi, lo gettava
nella minestra, ruminava con lo sguardo sempre basso. Lo guardavo mangiare e
sapevo che mi aveva concepito allo stesso modo. Mentre da morula diventavo
blastula, mentre il mio essere cresceva, lui russava sconciamente con il fiato
pesante e la bocca aperta.
Ero ormai alle soglie dell'adolescenza. Mi sentivo come
un animale alla fine del letargo. Per tutto il tempo delle medie avevo pensato
solamente al vuoto. Al vuoto e a ciò che c'era e non c'era dietro. Erano
stati pensieri velati di tristezza, c'era malinconia in ogni mio movimento.
Alle volte passavo pomeriggi interi in camera mia a guardare fuori dalla
finestra. Fissando il vuoto succedeva persino che mi mettessi a piangere.
Andavo così lontano nei miei pensieri che non riuscivo più a
trovare la strada per tornare indietro. Ero triste e basta, e quel pianto in
qualche senso era una specie di consolazione. A scuola si erano accorti di
questo mutamento. Avevano chiamato mia madre e le avevano detto: Non è
normale, il ragazzo si comporta come un vecchio. Anche a mio padre non era
sfuggito il mio stato. Durante una cena, indicandomi con il mento, aveva
chiesto a mia madre: Cosa cè? E malato? Ero sempre stupefatto da come
non mi rivolgesse mai la parola. Temeva forse che parlassi una lingua diversa?
Ogni volta che doveva chiedere qualcosa si rivolgeva a mia madre: Dove va?
chiedeva, oppure, Perché torna così tardi? Io li guardavo
parlare, come un sordomuto seguivo il discorso dalle labbra di uno alle labbra
dell'altra.
Questo stato di apatia è durato fino a quattordici
anni o quasi. A quell'epoca è avvenuta una sorta di sbrinamento
interiore. Era come se il sangue avesse cambiato colore, intensità di
corsa, propulsione. C'era un'altra vitalità in me, ogni giorno ero
più alto, più forte. Con un po' di fortuna genetica sarei
diventato alto come mio padre, altrettanto forte. Allora avrei potuto
finalmente pararmi davanti a lui e dirgli: Ti odio. L'odio era il sentimento
che provavo nei suoi confronti da quando avevo memoria di me stesso. Non penso
che lui sentisse la stessa cosa, non almeno fino a quel momento. Per gran parte
dell'infanzia credo di essergli stato completamente indifferente. Qualche volta
un fastidio, questo sì, ma non altro. Dei bambini dovevano occuparsi le
donne, gli uomini subentravano in un secondo momento. Mi immaginavo una specie
di fermata di autobus, mia madre sarebbe scesa e mi avrebbe lasciato lì;
poco dopo sarebbe arrivato mio padre e mi avrebbe portato con sé per
un'altra parte del tragitto. Ero un pacco ordinato per corrispondenza, il
contenuto doveva essere conforme a ciò che era scritto sul catalogo, se
era diverso, bisognava rispedirlo al mittente. Io sono nato presto, troppo
presto. Se fossi nato adesso, mio padre avrebbe utilizzato le vie più
moderne della genetica. Avrebbe riempito un modulo con tante crocette, una
accanto a maschio, una vicino a buona salute, una terza accanto a
comunista, una quarta accanto a non finocchio.
Mio padre si riteneva così perfetto da non
riuscire a immaginare neanche lontanamente che io avrei potuto essere qualcosa
di meno di una sua fotocopia. Lui era il massimo e io dovevo essere uguale a
questo massimo. Questa è la grande, spaventosa contraddizione. Gli
esseri umani, più di ogni altra cosa, hanno paura della diversità
e, malgrado ciò, continuano a mettere al mondo dei figli. Ma un figlio,
per forza di cose, è sempre diverso. E allora è veleno che
mescoli al tuo stesso cibo.
In realtà, la via giusta per riprodursi sarebbe
quella scelta, o meglio subìta, da Frankenstein. Un fantoccio con delle
molle in testa, nelle molle passa l'elettricità e il gioco è
fatto. Cè un'altra forma di vita, identica al modello che stava sdraiato
lì accanto. Il mondo sarebbe più tranquillo, noioso forse, ma con
meno sofferenza. Invece un bel giorno tua madre ti lascia alla fermata
dell'autobus, stai lì smarrito come Pollicino, poi arriva tuo padre, ti
guarda e dice, cosè questo schifo? E tu non sai più cosa pensare
di te stesso.
Una sera, mentre parlava di me con mia madre io ero
lì con loro, nella stanza ' invece di dire, come aveva sempre fatto, il
bambino o il ragazzo - che equivaleva a dire il cane - ha detto tuo
figlio. Ha detto così, come se mia madre fosse una lumaca o una di
quelle creature che hanno il dono di poter fare tutto da sole. Ha detto tuo
figlio e, nel dirlo, c'era un tono che non era neutro per niente. Così
ho capito una delle leggi di natura - che non è scritta da nessuna parte
- e cioè che se i figli vanno bene, sono del padre, se invece non
funzionano, restano per tutta la vita un'appendice della madre. Mia madre era
una donna silenziosa e tranquilla. Sono rimasto piuttosto sorpreso quando mi ha
detto che aveva conosciuto mio padre a un ballo. Era la sagra di ferragosto e
avevano ballato insieme tutta la notte. All'epoca, lei aveva diciassette anni,
frequentava l'ultimo anno delle magistrali. Le piacevano molto i bambini e
comunque, allora, per le ragazze che studiavano non c'era molta scelta. O
maestre o dattilografe. C'era una sua foto con il grembiule nero e tutta la
classe intorno fatta poco prima del diploma. Io la guardavo spesso. E
più la guardavo, più mi convincevo che quella ragazza non era mia
madre ma un'altra persona. C'era luce nei suoi occhi, e un sorriso che avrebbe
fatto innamorare anche i sassi. Non potevo fare altro che domandarmi: quale
delle due è la vera, l'allegra o la triste? Crescendo si cambia, me
l'hanno sempre detto. Ma perché il cambiamento deve essere sempre in
peggio? C'era stato quel ballo e Ada aveva conosciuto Renzo. Non era stato un
semplice incontro, ma un colpo di fulmine. Poi c'era stata la guerra, un
fulmine ancora più grande. La guerra li aveva separati. Per tutto quel periodo
lei lo aveva atteso, non si era distratta dal pensiero di lui neppure per un
istante. Al ritorno si erano sposati. Poi, un bel po' di anni dopo, ero nato
io, che ero sarei dovuto essere - il coronamento di quel sogno. Una storia
bella, toccante, se fosse stata una commedia. Alla fine, per l'entusiasmo,
tutti avrebbero battuto le mani. Invece di entusiasmante non c'era proprio
niente. Quando stavamo tutti e tre a casa, eravamo come tre pesci rossi chiusi
in una boccia di vetro senza ricambio di acqua. La mancanza di ossigeno
intossicava le branchie, quando aprivamo la bocca uscivano soltanto bolle
d'aria.
Mio padre perdeva sempre la pazienza. La perdeva per un
nonnulla, perché al mattino non trovava una calza o perché nella
minestra c'era troppo sale o perché, studiando, con una matita mi
grattavo la testa. In casa era un'esplosione continua, lui bestemmiava le cose
peggiori, buttava tutto per terra, dava calci alle mura e agli armadi. Poi,
quando non c'era più niente da rompere, usciva di casa sbattendo la porta.
Una volta, in un libro, ho letto che anche i gabbiani
fanno così quando si arrabbiano tra di loro. Invece di darsi addosso
cominciano a strappare l'erba con furore. La strappano e la buttano per terra,
polverizzano tutto quello che capita a tiro del becco. Vanno avanti fino allo
stremo delle forze. Soltanto allora si fermano e riprendono l'attività
di prima come se niente fosse. Fanno così non per bontà ma
perché è più conveniente. Va contro le leggi della sopravvivenza
distruggere individui della propria specie.
Il comportamento di mio padre era uguale a quello dei
gabbiani. Rompeva i piatti e le sedie per non rompere la testa a sua moglie e a
suo figlio.
Sono cresciuto nel terrore. Crescendo nel terrore ho
imparato che, alla fine, anche il terrore viene a noia. Sognavo sempre che un
giorno, all'improvviso, succedesse qualcosa di diverso. Non so, che lui
sbraitasse: Non cè sale e lei rispondesse: Vattelo a prendere,
oppure che lui si mettesse a tavola e dicesse: Non ho mai mangiato niente di
così straordinariamente buono. Non succedeva mai.
Gli inferni sono lastricati dalla buona volontà
dei singoli. Si scelgono le battute di un radiodramma e sono sempre quelle. E
un po' come gli asini che tirano la macina, alla fine, per la monotonia di
girare intorno, si convincono che non esiste una sorte migliore di quella.
Così, fino a una certa età, mi sono sentito
il protettore di mia madre, la sua consolazione. Una volta addirittura, quando
già sapevo andare in bicicletta, le ho proposto di scappare insieme. Io
porterò il latte la mattina nelle case, le avevo detto, e vivremo felici
per sempre, lui non ci troverà e, anche se ci dovesse trovare, non gli
apriremo la porta. Avevo quell'età ingenua in cui ci si aspetta una
risposta chiara. Ancora non conoscevo la questione del radiodramma, ero
convinto che lei fosse una vittima e, come vittima, non avrebbe potuto fare
altro che dire: Sì, va bene, fuggiamo insieme.
Che mia madre fosse complice l'ho capito molto più
tardi, in piena adolescenza, quando lei, invece di difendermi, ha cominciato ad
attaccarmi. Soltanto allora mi sono reso conto che per quanto incomprensibile,
pazzo, irragionevole fosse, la cosa più importante era il loro rapporto.
Il radiodramma d'odio. Per tanti anni io avevo fatto il rumore di fondo. Ero le
porte che si aprono e si chiudono, il cigolio di un letto, un colpo di tosse,
uno starnuto. Ero - e sarei dovuto rimanere - tutto questo.
Il giorno stesso in cui ho alzato la testa e la voce,
chiedendo una parte tutta per me, anche mia madre mi si è rivoltata
contro.
E stata forse questa, fra tutte le cose, la più
dura, la più pesante. Per tanti alcuni le nostre esistenze si erano
garantite a vicenda: esistevamo uno per l'altra e viceversa. Poi, a un tratto,
lei ha preso un pennarello nero e ha coperto gli occhi e il sorriso.
Cosè successo a quel punto? Mi sono pentito di
essere bravo. Proprio così. Da un giorno all'altro, avrei voluto
cancellare il mio passato. Mi vergognavo di tutto ciò che ero stato.
Della mia bontà, della mia arrendevolezza, del fatto che ringraziando
il cielo, non davo nessun pensiero. Non mi era costato nessuno sforzo. Essere
silenzioso e gentile faceva parte della mia natura, era un modo per vivere,
spendendo meno energie. Nella testa avevo pensieri tremendi, eppure dicevo
sempre: Sì, signora maestra.
Non ero il primo della classe, neanche il secondo o il
terzo. Primeggiare era comunque uno spreco idiota di energie. Tuttavia ero
indicato a dito. Le mamme e le maestre dicevano: Guardate Walter come non
dà fastidio.
Così ho pensato, se rinasco, faccio pipì
sui banchi, inchiodo i gattini alle porte. Se rinasco, dò fastidio fin
dal primo istante. Non cè un solo motivo di rendere la vita facile a
chi, poi, te la renderà difficile.
Per i primi quindici anni avevo perso la partita. Averlo
capito era già un fatto importante. Era come se fossi salito su una
sedia. Il paesaggio che vedevo era lo stesso di sempre, solo che lo vedevo da
una prospettiva diversa. Ho cominciato così a provocare. Non c'era
giorno in cui non dicessi qualche cattiveria a mia madre. Con mio padre ancora
non osavo, insultare lei era un modo per saggiare il terreno. Se uno esce dal
radiodramma, mi chiedevo, cosa succede?
Così la provocavo. Ti fai trattare come una
ciabatta, le dicevo, per lui il mondo intero è solo carta per pulirsi
il culo, tu sei un foglietto, ma io non voglio esserlo. Allora lei iniziava a
fare qualcosa con le mani. Puliva una mensola con una spugnetta o altre cose
del genere.
Lo stratagemma era sempre lo stesso dei gabbiani, puliva
fissando ciò che stava pulendo e intanto sibilava: Non parlare
così di tuo padre, non te lo permetto. E perché mai non
dovrei? rispondevo io. Tu hai paura a dire la verità ma io no. La
verità è che è uno stronzo. Dove hai imparato a parlare
in questo modo? Dove? Dove? Lo vuoi proprio sapere? Prova a immaginare,
sforzati. Da quello stronzo di mio padre.
Andavamo avanti così per ore, fino allo
sfinimento. Lei continuava a pulire e io continuavo a urlare, andando avanti e
indietro per la stanza. Non c'erano vittorie e non c'erano sconfitte. Entrambi
volevamo cose impossibili. Lei, che io tornassi a essere il rumore di fondo.
Io, che lei ammettesse il suo odio.
Perché l'hai sposato?! le ho gridato un giorno.
Perché lo amavo, ha risposto lei guardandomi
negli occhi. Perché lo amo.
La guerra era sempre la grande giustificazione, quella
che secondo lei doveva mettere a tacere ogni cosa. Non puoi capire, diceva,
quando si trovava con le spalle al muro, tuo padre ha fatto la guerra. E stato
un partigiano.
La guerra era quella sui monti. Era stato via parecchio
tempo e nessuno aveva avuto sue notizie. Che cosa avesse fatto in quegli anni
non lo raccontava neanche lui.
Io conoscevo Tex Willer, Pecos Bill e un paio d'altri che
avevano fatto delle cose importanti. Gli eroi dei film e dei fumetti non
avevano niente a che vedere con mio padre. Erano coraggiosi, forti. Prima di
sparare, guardavano sempre i nemici nel bianco degli occhi. Chi prende a calci
le sedie e i muri - pensavo - è
solo e soltanto un uomo che ha paura. Un vile vigliacco con l'insulto perpetuo
sulle labbra. Non c'era niente di grande in mio padre, niente di memorabile.
Neanche per attraversare la strada gli avresti dato la mano, non parliamo
trovarsi sull'orlo di un burrone.
L'unica cosa notevole in lui era il disprezzo. Era
qualcosa di così forte che, già da bambino, ero in grado di
sentirne l'odore. Era acido, acuto, doveva essere un misto di ormoni e
adrenalina. Stava intorno a lui e lo seguiva come una nube.
Nelle giornate di loquacità, anche lui cominciava
con la guerra. Succedeva quando mi lamentavo di non poter fare o avere
qualcosa. In quel momento attaccava: Ci vorrebbe la guerra, diceva, vorrei
vederti correre con le bombe che ti sibilano intorno o fuggire a un
rastrellamento. Ti ci vorrebbe un tedesco che ti insegue con una Luger in mano.
Dovresti piangere per il freddo e per la fame.
Andava avanti per ore con amenità del genere.
Appena mi distraevo, batteva il pugno sul tavolo e gridava: Ascolta! Il succo di tutto questo era che
dovevo ritenermi fortunato. Una guerra era finita e ancora non ne era scoppiata
un'altra.
Qualche anno dopo ho sentito una storia, una storia che
sarebbe piaciuta a mio padre. Riguardava un ragazzo americano, nato da una
coppia sopravvissuta ai lager nazisti. Era venuto al mondo quando le ceneri
erano ormai spente. Ciononostante, dal giorno stesso in cui aveva cominciato a
comprendere il significato delle parole, i suoi genitori non avevano fatto
altro che ripetergli: Non hai vissuto quello che abbiamo vissuto noi, non
conosci l'orrore, la deportazione, la fame, l'umiliazione. Non sei degno di
esistere. Lui non aveva mai replicato, aveva aspettato pazientemente di
crescere. Il giorno stesso del compimento della maggiore età, si era
arruolato nei marines ed era andato in Vietnam. Era tornato alla fine della
guerra, cieco, senza né braccia né gambe. Suo padre e sua madre
spingevano a turno la carrozzella. Mentre andavano per le strade piene di
colori, lui diceva: Non sapete cosa vuol dire vivere con il buio intorno. Non
sapete cosa vuol dire non poter camminare, non poter cogliere un fiore.
Sarebbe piaciuta molto a mio padre perché è
quello che si è sempre augurato per il mio futuro: un figlio menomato
dal furore della storia. Non sono mai riuscito a classificare questo suo
sentimento. Le gatte difendono i loro piccoli con le unghie e con i denti e
così fanno tutti gli altri esseri viventi. Non cè niente di
più prezioso da proteggere del patrimonio genetico. Lo dice la scienza,
non io. Forse, in qualche modo, anche mio padre si ispirava a Darwin. Mio padre
pensava al trionfo della legge del più forte. Esporre i neonati al gelo
e alle intemperie, esporli alle ferite, minare continuamente la
fragilità fisiologica del loro corpo: questo era un ottimo sistema per
vedere se funzionavano. Se non funzionavano, pazienza, voleva dire che non
erano degni di vedere la luce. Morto un papa, se ne fa un altro. Così
avrebbe dovuto essere anche per i figli.
L'altro sentimento che lo teneva vivo era l'odio. L'odio
e il disprezzo erano come Castore e Polluce, due gemelli che andavano avanti
tenendosi per mano. Lo sguardo di uno serviva per osservare le cose, quello
dell'altro, per sputarci sopra. Tuo padre ha combattuto per un mondo
migliore, mi ripeteva mia madre. Io mi guardavo intorno e mi chiedevo,
dov'è questo mondo? Ha rischiato la vita per combattere i nazisti, i
fascisti, gli ustascia. Tante altre persone non avrebbero avuto il coraggio di
farlo, era il ritornello che sentivo in casa. Senza di lui, senza quelli come
lui, il mondo non sarebbe mai cambiato. Questo era vero, i cattivi non c'erano
più. Quelle divise, quelle croci con le gambe per aria si vedevano ormai
soltanto nei film o in qualche vecchio documentario.
A scuola avevamo studiato la seconda guerra mondiale.
Bambini più fortunati di me avevano anche dei modellini aerei della
Wehrmacht, la maestra ci aveva detto che guerre così non sarebbero
più scoppiate. A noi, di guerra sarebbe toccata la terza. La peggiore di
tutte. Con due o tre bombe avrebbero fatto piazza pulita. Da quelle bombe
sarebbe venuto un vento caldo, un vento più caldo di qualsiasi altra
cosa al mondo: al soffio di quel vento saremmo tutti esplosi come fantocci. Con
noi sarebbero morti le piante e gli animali, sarebbe scomparsa quasi ogni forma
di vita e per quelle sopravvissute, sarebbe stato ancora peggio.
Una volta la stessa maestra ci aveva portati in visita
didattica al Museo di scienze. Appesa al soffitto, c'era una grande balena
impagliata. Aveva tanti denti e sembrava sorridesse. Tutto intorno c'erano
bacheche di vetro. Erano piene di vasi con un liquido giallognolo. Nel liquido
galleggiavano delle cose dall'aspetto traslucido. Sono feti, ci aveva
spiegato, indicandoli con un gesto ampio. Anche voi eravate così prima
di nascere. C'era il feto di un cane e quello di un istrice, con già
tutti gli aculei. Stavo osservando proprio l'istrice quando lei ha battuto le
mani. Bambini, attenti! ha esclamato. Ci siamo girati e lei ha indicato un
vaso più grande. Dentro c'era un bambino pallido come un fantasma.
Invece di avere una testa, ne aveva due. Due teste complete di ogni cosa:
quattro occhi, due nasi, due bocche, quattro orecchie... Hiroshima, ha detto
la maestra, Hiroshima e Nagasaki, ricordate? Laggiù, dopo la bomba sono
nati bambini così. Ecco cosa succede: di colpo, la natura non si ricorda
più il modo giusto di fare le cose. Due teste, sei braccia, tre gambe,
ecco... Naturalmente, queste parole avevano suscitato degli immediati
sghignazzi nei miei compagni. Le moltiplicazioni a cui tutti ammiccavano erano
quelle delle parti sessuali.
A me, invece, interessava di più il raddoppio
della testa. Pensavo: forse la natura avrebbe dovuto fare così fin
dall'inizio, una testa sola è davvero insufficiente. Cè poco
spazio là dentro e troppa confusione. A molta gente serve soltanto da
supporto per il viso, oppure per far crescere i capelli, come avere un giardino
con buona terra per i fiori. Persino le Lambrette hanno le ruote di scorta,
perché non potrebbe essere così anche per la testa? Una di
rappresentanza e una che funzioni davvero.
Quel fatto che la natura potesse perdere la forma mi
aveva impressionato parecchio. Vedevo una signora anziana, scarmigliata, che si
aggirava in una casa in disordine. Tutto era per aria, i cassetti, gli armadi,
come dopo il passaggio dei ladri. Vagava per le stanze con lo sguardo smarrito,
senza saper più cosa cercare. In fondo, mi dicevo, creare l'uomo non era
stata una buona idea. Averlo lì a razzolare per la terra equivaleva al
covarsi una serpe in seno. Da quando il mondo era mondo, gli animali facevano
le stesse cose: nascevano, si accoppiavano, accudivano i cuccioli, si
divoravano tra specie diverse per tirare avanti; poi, un giorno, morivano e,
invece di nutrire i cuccioli, nutrivano le iene, i corvi, i saprofiti, la terra
e i fiori che vi crescevano sopra.
Non c'era mai stato un orso o un leone che avesse
pianificato la distruzione. L'uomo, invece, lo ha fatto fin da subito o quasi.
Ha cominciato nel momento stesso in cui, anziché essere in due sulla
superficie della terra, sono stati in quattro.
Se Adamo avesse ucciso Eva, o viceversa, la storia
sarebbe finita all'inizio. Invece sono arrivati anche Caino e Abele. E dopo un
po', Caino ha ucciso Abele solo perché ad Abele le cose andavano meglio
che a lui. Abele aveva degli agnellini candidi a cui spazzolava il pelo e Caino
non lo poteva sopportare. Così ha preso un bastone e l'ha fatto fuori.
Dov'è tuo fratello? gli ha chiesto Dio, poco dopo. Lui non ha saputo
cosa rispondere. Acqua in bocca e sguardo basso. Mentre errava fra le lande
desertiche, si sentiva soltanto un disgraziato. Non sapeva di essere importante
come un re o un imperatore. Dopo di lui, gli uomini si sono comportati quasi
tutti nello stesso modo. E stato lui il vero principe. Invidia e pregiudizio,
da allora, sono stati il motore del mondo.
La notte della visita al museo ricordo di aver fatto un
sogno. Camminavo per un prato e, a un tratto, un vento caldo mi veniva
incontro. Sembrava si fosse messo in moto un asciugacapelli gigante. Ho alzato
lo sguardo e ho visto che il cielo era buio. Sopra a tutto, c'era uno
straordinario fuoco d'artificio. Non avevo mai visto una luce così:
sembrava che entrasse dritta dentro il corpo. In quello stesso istante ho
provato una sensazione singolare: le cellule e gli atomi, le ossa e i tendini
si stavano fondendo. Invece di dolore, sentivo caldo. Non era una sensazione
spiacevole. Poi il calore si è trasformato in qualcosa di diverso. Al
posto delle braccia, avevo delle ali. Erano lunghe e potenti come quelle di un
pellicano. Ho cominciato a muoverle e lentamente sono salito in alto, sempre
più in alto. Sotto di me gli alberi erano dei puntini e così le
case. Vedevo la mia non più grande di una briciola. Intorno c'era il
paese, poi la città e la regione intera, i bordi frastagliati della
costa e quelli appuntiti dei monti. Le ali rispondevano benissimo ai miei
comandi, era bello stare lassù, con un corpo che non era più il
mio.
III
La regione in cui sono nato è una regione
infelice. Sta sul confine di tre paesi. Per questo spesso l'ha attraversata la
guerra. Il padre di mio padre, cioè mio nonno, era nato nel centro
Italia. Quando era poco più di un ragazzo era venuto quassù per
combattere. Apparteneva al corpo degli Arditi. Dal nome si capisce già,
erano i soldati più coraggiosi. Avevano solo una baionetta in mano e
strisciavano al suolo verso le linee nemiche. Strisciavano nel buio e,
strisciando, tagliavano le gole di tutti quelli che capitavano a tiro. Non ho
grandi ricordi di lui. E morto che ero ancora bambino. Quel poco che cè
nella mia memoria, è soltanto incredulità. Lo sentivo gloriarsi
di tutte quelle imprese di gioventù ma di fronte a me vedevo un vecchio
dallo sguardo mite. Una delle due immagini non poteva essere vera. Forse
parlava in quel modo per avere un po' di attenzione, perché qualcuno lo
ascoltasse nel silenzio della stanza.
Lui non sopportava che non gli si credesse. Per questo,
all'inizio della bella stagione, insisteva per andare tutti insieme a fare una
gita, sempre la stessa. Caricavamo sulla Seicento i plaid, la radio e i
contenitori di moplen con dentro il cibo per il picnic. Il prato dov'eravamo
diretti non era un prato qualsiasi, ma uno di quelli in cui mio nonno aveva
combattuto. Lì era stato ferito. Per quella ferita aveva ricevuto la
croce di bronzo al valor militare. Nella gita se la portava appuntata sul
risvolto della giacca. Raccontava sempre gli stessi episodi, come fossero
successi l'altro ieri e nessuno lo ascoltava più. Mia madre ripeteva
ogni tanto Sì, papà, mentre mio padre teneva la radio incollata
all'orecchio per via delle partite. Eppure, nonostante quel disinteresse, il
nonno era contento lo stesso. Tornava a casa e diceva: Che bella giornata
abbiamo passato...
L'ultima di queste scampagnate - quand'ero già
abbastanza grande per avere un barlume di pensiero ho realizzato che era ben
buffo andare a fare il picnic su un prato che si era nutrito di tante vite
precocemente spente.
Il nonno diceva che era stata una vera e propria
carneficina. C'erano talmente tanti corpi là, uno sopra l'altro, che era
impossibile fare un solo passo. Ci volevano delle gambe da gigante per
scavalcare tutti e andare avanti. Diceva questo e io intanto guardavo il prato
e i fiori. Tra l'erba c'erano le genzianelle e le pulsatille, i loro petali
erano straordinariamente delicati, il vento li muoveva appena e sopra c'era il
cielo. Lo stesso identico cielo del giorno della strage.
Guardavo tutto questo e mi domandavo, dov'è il
senso?
Caino, in qualche modo, si era vergognato della sua
azione. Non risulta da nessuna parte che sia andato in giro a vantarsi, aveva
fatto una cosa brutta e lo sapeva. Invece mio nonno era contento, non l'ho mai
sentito dire: penso alle famiglie di quelli che ho ucciso o qualcosa del
genere. Era solo felice di essere stato più svelto e di aver avuto
fortuna. Del resto non gli importava niente. Eppure non era cattivo. Quando
è morto, al suo funerale c'erano tante persone e piangevano tutte.
Una volta ho chiesto a mia madre: Ma il nonno è
un assassino? Lei si è girata e ha detto: Dove le peschi queste
sciocchezze?
Allora, almeno una cosa l'avevo capita, se si uccide
senza divisa, si è degli assassini; se si uccide con la divisa, si
ricevono delle croci al merito. Già da bambino avevo una natura
piuttosto speculativa. Non potevo fare a meno di chiedermi se la vita di chi
muore avesse un valore diverso. Prima di diventare grandi e poi cadaveri,
quegli uomini erano stati ragazzi, neonati e anche feti. Delle madri li avevano
messi al mondo, li avevano nutriti e cresciuti. Forse speravano già di
avere dei nipotini e invece le loro speranze erano finite disperse tra il greto
di un torrente e il fango di un prato.
Un giorno, a scuola, l'avevo chiesto persino
all'insegnante. Ce n'era una che mi ispirava una particolare fiduciò.
Lei aveva ascoltato in silenzio e poi aveva detto: Queste sono domande molto
grandi―. Poi
aveva aggiunto qualcosa che non ho capito bene, sulla storia che va avanti e
porta con sé disgrazie. La storia, ho pensato allora, deve essere una
sorta di carro a cui si sono rotti i freni. Un carro senza nessuno a bordo che
precipita da una discesa e travolge ogni cosa.
Nella storia più piccola - quella di casa mia -
c'era però un punto che mi appariva alquanto oscuro. Anche mio padre
aveva fatto la guerra - in ordine cronologico, la seconda - eppure non eravamo
mai andati a fare un picnic nei suoi posti e, in cucina, sulla credenza, non
c'era la foto di lui in divisa. Tra me e lui, già a quell'epoca, l'unica
forma di comunicazione era il silenzio. Così non avevo il coraggio di
interrogarlo sulle sue eventuali azioni gloriose. Lui non parlava e io non
domandavo. Le ipotesi però non potevano essere che due. O aveva fatto la
guerra e non aveva ucciso, e quindi si vergognava di aver mancato al suo dovere.
Oppure aveva ucciso ma non aveva la divisa, e allora la vergogna che provava
era quella dell'assassino.
Quale delle due fosse l'ipotesi vera in fondo non mi
importava più di tanto. Ormai avevo compreso che, nella nostra casa,
c'era una bomba che non era ancora esplosa. Era sepolta sotto tonnellate di
detriti. Quei detriti erano le parole non dette. La polvere esplosiva era
asciutta e fresca, il suo meccanismo a orologeria pulsava con regolare
precisione. Era la bomba il vero cuore della casa, quello che adesso ci teneva
uniti e un giorno forse ci avrebbe fatto esplodere.
Nell'atrio della scuola c'era un manifesto, era a colori
e copriva tutta una bacheca. Sopra c'erano tante vignette come quelle dei
fumetti. C'erano dei bambini con i calzoni corti e giocavano nei campi.
Giocando, trovavano un oggetto dalla forma strana. Erano curiosi e così,
per vedere cosa c'era dentro, vi battevano sopra con una pietra. Subito dopo
c'era un grande fuoco d'artificio: i bambini volavano indietro come spinti da
una mano invisibile. Nel disegno, poi, c'erano ancora loro ma non erano
più quelli di prima: a uno mancava una gamba, a un altro il braccio, il
terzo era diventato cieco. Bambini, attenzione! - c'era scritto, alla fine - se
trovate qualcosa di strano non toccatelo, avvertite subito i genitori o la
polizia. Sotto erano disegnati vari oggetti. Uno sembrava una pigna oppure un
ananas, altri supposte giganti. C'erano bombe dentro le persone, dunque. E
quelle nascoste nel terreno come i bulbi dei gigli. Anche quei bulbi, forse, erano
disgrazie che seminava la storia. Uccideva i nonni, i padri, poi lasciava dei
regalini per i figli e per i nipoti. Il suo carro era passato già da
tempo, non c'erano più nemici da una parte e dall'altra. Eppure la gente
moriva lo stesso.
IV
Mia madre, da giovane, non era stata credente, lo era
diventata negli anni in cui mio padre combatteva sui monti. La guerra li aveva
separati all'inizio del loro amore. Lei credeva di essere approdata in un'isola
salda e rigogliosa nella quale avrebbe trascorso il resto della vita. E invece,
da un giorno all'altro, si era trovata sospesa in bilico su un precipizio. Lui
era scomparso, non per settimane, ma per anni. I primi tempi, aveva avuto
ancora qualche lettera, qualche messaggio passato di bocca in bocca. Poi sul
suo destino era sceso un lungo silenzio. Era stato proprio allora che aveva
deciso di rivolgersi al più potente di tutti, cioè a Dio. Il loro
patto era stato molto semplice. Ti seguirò per sempre, gli aveva detto,
se lo farai tornare sano e salvo.
Si potevano dire tante cose di mia madre, tranne che non
fosse una persona di parola. Quando prendeva un impegno, era fedele e puntuale
nell'assolverlo. Mio padre era tornato e lei aveva creduto. All'inizio, su
questo, dovevano avere litigato molto. Lui non riusciva a sopportare che la sua
compagna si fosse trasformata in una specie di beghina. Ti sei fatta
imbrogliare come tutti gli altri, le gridava ancora quando io ero grande. Mia
madre è morta per prima, gli ha dato un distacco di quasi dieci anni. A
quel tempo io vivevo già a Roma, dei loro destini non me ne importava
niente. Mio padre doveva essere pieno di rabbia. Tutto era cominciato con un
mal di stomaco, le persone vicine dicevano: Sono i dispiaceri. Se sono troppi
e non sanno più dove andare, si sistemano là. Lei ci aveva
creduto. Quando era andata dal dottore, ormai era troppo tardi: i dispiaceri si
erano sparsi per tutto il corpo. In silenzio, diligentemente, avevano
cominciato a divorare le parti interne.
Da anni non avevo più rapporti con loro.
Un giorno, senza aspettarla, me la sono trovata davanti
alla porta. Saranno state le dieci o le undici di mattina. La sera prima avevo
bevuto. La testa era pesante e l'umore cattivo. Aprire la porta e vederla
davanti, era stata una brutta sorpresa. La scatola con la bomba a orologeria
era alle mie spalle, così almeno credevo. Non avevo chiesto di vederla e
neppure ne avevo il desiderio, la nostalgia dei miei genitori era un sentimento
che non conoscevo. Non capivo la ragione di quella visita a sorpresa. La scrutavo
senza nascondere il fastidio, mentre stava davanti a me, con la sua borsetta
lucida stretta in mano.
E successo qualcosa? le ho chiesto, prima ancora di
farla entrare. Lei aveva un'aria smarrita. Ha detto piano: Non è successo niente. Avevo solo voglia
di vederti.
La donna che avevo di fronte era diversa da quella che
ricordavo. Era cambiata, certo. Ma pensavo che quel cambiamento fosse dovuto
soltanto agli anni. Ero troppo giovane, troppo inesperto, troppo furioso, per
leggere i segni di una grave malattia.
Se lei mi avesse detto sto morendo forse tutto sarebbe
andato in modo diverso. Avrei dilatato quella giornata fino a farla diventare
un tempo quasi eterno. Invece l'ho subito avvolta in una nube di malumore.
Volevo vedere Roma, aveva invece sussurrato, come
scusandosi. Allora l'ho portata a fare un giro con la circolare. Per tutto il
percorso siamo rimasti in silenzio. Lei osservava le antichità con la
faccia di una scolaretta in gita. Seduto dietro, guardavo in continuazione l'orologio,
ogni ingorgo o rallentamento mi faceva perdere la pazienza. Al Colosseo siamo
scesi e abbiamo mangiato un tramezzino. Era il crepuscolo quando siamo risaliti
sulla circolare. Un crepuscolo invernale, battuto da un vento freddo di
tramontana.
La luce sembra oro, aveva detto lei e subito dopo aveva
chiesto: Sei felice? Credi ancora a queste sciocchezze? le avevo risposto.
La felicità non esiste.
Il suo treno ripartiva la sera stessa. Avevo da fare e
non mi andava di perdere tempo accompagnandola alla stazione. Così
l'avevo portata fino alla grande strada dove fermavano gli autobus. Su un
foglietto, le avevo scritto dove doveva scendere e con che numero doveva fare
il cambio, per giungere a destinazione. Era ora di cena e sulla pensilina c'eravamo
noi due soli. Quando l'autobus è comparso sul rettilineo, lei mi ha
improvvisamente abbracciato. Sono rimasto sorpreso, non era mai stata
espansiva. Di riflesso l'ho abbracciata anch'io. Solo in quell'istante mi sono
accorto che, sotto il suo cappotto nero con il colletto di rat musqué,
di lei non era rimasto quasi niente.
Intanto l'autobus era arrivato e aveva aperto le porte. A
bordo c'erano poche persone. Mentre si allontanava, l'ho vista salutarmi con la
mano aperta dal finestrino posteriore, aveva lo stesso sorriso debole di un
bambino che non sa dove andare. Cadeva una pioggia sottile e appiccicosa.
Nell'oscurità, il suo palmo spiccava straordinariamente bianco.
Due mesi dopo ho trovato un messaggio di mio padre sulla
segreteria telefonica. Più che addolorata, la sua voce sembrava spenta:
dietro il tono di circostanza, si percepiva la rabbia tenuta a freno. Tua
madre è morta, diceva, e l'ho anche seppellita. Diceva proprio
così, sembrava che l'avesse sepolta con le sue stesse mani, come un
dobermann con il suo osso. Dopo il messaggio, c'era solo il clic. Né
un saluto, né un invito a richiamare. E così io non l'ho fatto.
Non mi interessava sapere cosa l'avesse uccisa, non c'era più. Questo
era l'unico fatto degno di nota. Mia madre, quando è morta, non aveva
ancora sessant'anni. A me, però, sembrava vecchia. Con il cinismo della
giovinezza facevo rientrare la sua scomparsa nel corso della fisiologia
naturale. Per quel che mi riguardava, mi sentivo orfano dalla nascita. Non
riuscivo a provare nessun rimpianto.
E morta, mi sono detto quella sera, al momento di
chiudere gli occhi. Volevo vedere se mi faceva effetto, poteva spuntare una
lacrima o qualcosa del genere. Non è successo nulla. Mi sono girato
dall'altra parte e mi sono addormentato. A metà della notte
all'improvviso ho aperto gli occhi. Sentivo uno strano rumore nella stanza.
Veniva dalla mia bocca. C'era furore nei miei denti, e forza. Li stringevo gli
uni contro gli altri come se volessi romperli.
Allora ignoravo che le cose che ci accadono non sono mai
neutre. Noi possiamo crederci, possiamo essere convinti. Un seme di trifoglio
mantiene intatta la sua vitalità per ottant'anni interi. Così
succede per i fatti, anche se li ricopriamo sotto una coltre di indifferenza,
se vi soffiamo sopra per mandarli lontano, loro stanno lì quieti. Sono
il germe di qualcosa che, prima o poi, uscirà fuori.
Alle persone troppo sensibili accade spesso una cosa
strana. Crescendo, diventano le più crudeli. Il corpo ha le sue leggi e,
tra le sue leggi, è compresa questa. Se qualcosa mina la sua saldezza,
immediatamente si mettono in moto gli anticorpi. La violenza e il cinismo non
sono altro che questo, ribaltano la visione del mondo per regalare forza. Non
mi sono mai stupito nel leggere le vite dei grandi criminali, c'era gente che
sterminava popolazioni intere e la sera innaffiava i fiori, commuovendosi per
un uccellino caduto dal nido. Da qualche parte, dentro di noi, cè un
interruttore. A seconda del bisogno, attacca e stacca la corrente del cuore.
Mio padre e mia madre non erano persone ignoranti. Lei
era maestra e aveva insegnato con passione. Lui lavorava ai cantieri navali,
era un disegnatore tecnico. Un paio d'anni prima della mia nascita era
scivolato durante la perlustrazione di uno scafo ed era diventato invalido, una
gamba era rimasta più corta. Malgrado ciò rifiutava il bastone.
Entrambi sapevano che ero intelligente e riponevano grandi speranze nel mio
futuro. Naturalmente le speranze erano sempre le loro, mia madre mi vedeva
professore di lettere o di filosofia, mio padre, ingegnere. Credo che neppure
per un istante si fossero chiesti quale fosse davvero la mia passione. E, in
effetti, neanch'io lo sapevo. Da piccolo, immaginavo di fare il pilota di aerei
o il poliziotto. Il pilota, per volare sopra le cose, il poliziotto, per
portare più giustizia nel mondo. Già in quinta elementare
però - al tempo della morte del mio compagno questi sogni erano
scomparsi. L'unica cosa di cui ero cosciente era l'agguato del vuoto intorno.
Era difficile muoversi, immaginare qualcosa, con quella spada perennemente
puntata alla gola.
Mi sentivo solo, e mi pesava.
All'inizio avevo provato a comunicare a qualcuno i miei
pensieri. Le reazioni però non erano state delle migliori; dopo avermi
ascoltato, restavano tutti in un imbarazzato silenzio oppure cambiavano
discorso, come si fa con le persone fuori di testa.
Nella solitudine della mia stanza io allora mi chiedevo
perché vedessi cose che nessun altro vedeva. Sarebbe stato più
semplice, pensavo, avere un talento per la meccanica o la fisica, tutti
sarebbero rimasti ammirati dalle mie domande. Con pochi calcoli precisi, avrei
potuto dimostrare perché una cosa funzionava o no. Le domande che mi
facevo, invece, non riguardavano mai nulla di concreto. C'erano delle incongruenze
nella realtà, da queste ero ossessionato, le persone parlavano in un
modo e si comportavano in un altro. Mio padre aveva lottato per un mondo
migliore e in lui non c'era niente di eroico, di esemplare. Odio e disprezzo
erano l'alone che si portava appresso. Tra il dire e il fare, diceva sempre la
mia maestra, cè di mezzo il mare. Ecco, era questo mare che volevo
indagare.
In realtà, osservando i miei genitori, avevo
già capito che il mondo era diviso in almeno due grandi settori.
Quello di chi credeva che, dietro all'universo, ci fosse
qualcos'altro; e quello di chi credeva che, nella partita della vita, ci fosse
solo un tempo. Io però non riuscivo a schierarmi né da una parte
né dall'altra. Entrambe avevano una serie pressoché infinita di
risposte preconfezionate mentre quelle che mi davo io erano come quelle di un
sarto. Calzavano bene a me e a nessun altro.
Per tutta la fanciullezza sono rimasto in bilico su quel
vuoto tremendo. Poi è venuta l'adolescenza e mi sono tuffato. Un giorno
volevo studiare medicina per andare in Africa a salvare i bambini che morivano
di fame, il giorno dopo volevo essere soltanto un assassino. Il pomeriggio,
invece di studiare, andavo in giro per i campi o per la città. Camminavo
per ore con i pugni in tasca, lo sguardo basso. Camminare non alleviava per
niente la mia pena, al contrario la faceva più grande, ogni passo era un
ragionamento, una domanda che non trovava risposta. Parlavo a voce alta, ridevo
da solo. Sapevo di sembrare pazzo e non me ne importava niente. Se la norma era
quella che da quindici anni mi vedevo davanti, se la norma erano gli insulti e
gli sguardi spenti, quella tristezza trascinata nei giorni come un manto, io
neanche per un secondo della mia esistenza volevo appartenervi.
Su una bancarella, nella città vecchia, avevo
trovato un libro di poesie. Era di Holderlin. A parte quelle studiate a scuola,
per forza noiose, non avevo mai letto un verso.
Aprire quelle pagine e provare un'emozione assoluta era
stato tutt'uno.
Lì dentro c'erano cose che provavo anch'io, malinconia,
dolore, autunno, senso di caducità delle cose. A un tratto non sono
più stato solo. Tra il credere e il non credere, c'era uno spazio
intermedio, una specie di intercapedine in cui vivevano gli sguardi inquieti.
C'era la verità, l'avevo in mano. Se avessero aperto gli occhi,
l'avrebbero potuta avere anche tutti gli altri. Quelle frasi mi aspettavano da
quando ero nato. Adesso erano lì, erano mie, facevano parte della mia
vita. Poesia e pazzia, mi dicevo camminando, sono come i due lati di una foglia.
Uno ha gli stomi e guarda in alto, l'altro scarica anidride carbonica verso il
basso. Da un lato all'altro, cè un continuo passaggio di umori, lo
scorrere delle molecole e dei fluidi.
Mi avvinceva il destino di tanti poeti divenuti folli. Lo
sentivo vicino, anch'io un giorno avrei cambiato nome e mi sarei rinchiuso in
una torre. Holderlin era diventato il signor Scardanelli. Aveva trascorso il
resto dei suoi giorni chiuso lassù, a suonare il pianoforte. Ogni tanto
guardava giù il placido corso del Neckar ed era contento. Certo, lui
aveva trovato un'anima più che si era preso cura di lui, era stato un
onore, per il falegname, poter essere il custode di uno spirito così
grande. Avevo il sospetto che, ai nostri giorni, i falegnami fossero diversi.
Gli appartamenti erano piccoli, senza torri né stalle. Non c'era spazio
neanche per i nonni, figuriamoci per i poeti. E poi, un punto a mio sfavore era
che non ero un poeta. Almeno non ancora.
In tempi molto rapidi la mia vita piombò nel
disordine. Non c'era alcun movimento dietro di me, nessuna protesta. Scuotevo
le cose perché vi apparisse uno spiraglio di verità. Lo avevo
sempre fatto. Soltanto che adesso, per quella verità, cercavo le parole.
Mia madre fu chiamata a scuola. Il ragazzo, le dissero,
ha qualche problema, è disattento, disordinato, e si lava poco. Per
caso, insinuarono, anche lei ha notato qualcosa di strano?
A quell'epoca, alla televisione c'erano i primi dibattiti
sulla droga. Mia madre li aveva visti e, da quel momento, viveva nell'incubo.
Una volta, cercando dei soldi, avevo persino trovato un ritaglio di giornale in
cui, da uno a dieci, come un decalogo, c'erano scritti i motivi per cui un
genitore doveva cominciare a insospettirsi. Ne ricordo alcuni: scarsa
puntualità, scarsa pulizia, discorsi strani, tendenza a mentire, anomala
dilatazione delle pupille. Ricordo anche la sua faccia quando è tornata da quel colloquio. Aveva
gli occhi di una lince, il naso di un segugio. Si è seduta sul mio letto e mi ha detto: E meglio che mi
dici tutto. Poi, davanti al mio silenzio, con l'aria di una che ha già
perso il figlio ha aggiunto: Se non confessi a me, dovrò dirlo a tuo
padre. Ero scoppiato a ridere:
Al padre alcolizzato, di' che ha il figlio drogato,
cantavo, saltellandole intorno.
Mio padre e l'alcol. Un argomento che non si poteva
toccare. Da bambino lo vedevo bere un bicchiere di vino dietro l'altro e volevo
imitarlo. Il vino è per i grandi, diceva mia madre, sporcando appena
l'acqua con un po' di colore. Soltanto qualche anno dopo ho capito che il vino
non era per tutti i grandi, ma per pochi. Quei pochi erano come le auto, invece
di andare avanti a benzina, andavano ad alcol.
La mattina, mentre mangiavo il pane con il caffellatte,
lui versava nella sua tazza le stesse proporzioni di caffè nero e
grappa. Alle otto di sera, non era quasi mai a casa. Mia madre mi mandava a
chiamarlo. Trovarlo era facile, i bar e le osterie che frequentava non erano
più di tre o quattro. Dentro di me speravo sempre che non ci fosse, che
avesse avuto un incidente. Invece, ogni volta, lo trovavo. Vedevo la sua
schiena massiccia, era seduto a un tavolino con gli amici. Parlava a voce alta,
gesticolava. I suoi amici erano come lui, lo trovavano divertente. In effetti
mio padre a loro raccontava un mucchio di cose, era molto diverso: a casa non
diceva una sola parola. Lo fissavo e i piedi mi diventavano pesanti. Non avevo
nessuna voglia di raggiungerlo e dire come nei film: La cena è
servita. Stavo per un po' fermo alle sue spalle. Poi, uno dei suoi amici si
accorgeva di me; gli toccava la spalla, dicendo: Renzo, cè tuo
figlio. Allora lui si girava. Era lento e pesante come un orso, aveva gli
occhi gonfi. Cosa vuoi? gridava rabbioso e io, invece di parlare, mantenendo
la giusta distanza - quella di sicurezza - gli mostravo l'orologio sul muro.
L'effetto dell'alcol svaniva, o meglio mutava direzione,
non appena metteva piede a casa. La loquacità diventava mutismo. Mia
madre, ogni tanto, cercava di tenere viva la conversazione. Raccontava quello
che le era successo durante il giorno. Quando ancora insegnava, parlava di
qualcosa che era accaduto a scuola. Ma era come un tennista che gioca senza uno
sfidante, senza neppure un muro.
Le sue parole volavano nell'aria, quando finiva la spinta
della voce, si dissolvevano nel nulla. Lui mangiava con gli occhi nel piatto e
così avevo imparato a fare anch'io. Se sentiva il mio sguardo su di lui,
si girava subito ruggendo:
Cos'hai da guardarmi?
Si comportava come se avesse la coda di paglia. Una coda
lunga, grande e vaporosa come quella di una volpe. Bastava un errore minimo nel
movimento perché sfiorasse le braci e andasse a fuoco. Per questo si
guardava spesso alle spalle con lo sguardo feroce di chi è pronto ad
attaccare.
Dopo cena si metteva in poltrona. Il più delle volte
si addormentava davanti alla televisione. Quando il sonno non arrivava, si
metteva a commentare i programmi, lo faceva a voce alta, una specie di continuo
borbottio. Per lui erano tutti dei fetenti, sporchi capitalisti sfruttatori e
finocchi marci. Mia madre seduta vicino ornava dei cuscini a piccolo punto. Lo
sproloquio per lei era come il rumore del mare, rimbombava nelle sue orecchie
da talmente tanto tempo da non farci più caso.
Io avevo un sacro terrore dell'alcol. Lo vedevo come
qualcosa che entrava dentro e guastava le persone. Quando il disordine è
entrato nella mia vita, è entrato come elemento puro. Era aria di
montagna, diamante, quarzo, non qualcosa di ottuso e sporco che seguiva il
vizio. La lucidità era il suo punto di forza, al posto dello sguardo,
avevo un binocolo a infrarossi. Scandagliavo, smuovevo. Ero certo che la
banalità apparente non fosse altro che uno scudo da infrangere. Dai suoi
cocci sarebbe nata la poesia. Non quella degli altri, che leggevo sui libri, ma
quella che sarebbe stata soltanto mia. Dentro di me c'erano tanti movimenti.
Dalla stasi dell'infanzia ero passato al moto perpetuo. Pensieri, idee,
sentimenti, si muovevano come all'orizzonte si muovono le nuvole sospinte dal
vento. Invece di andare a scuola, camminavo per il Carso. Camminando, ripetevo
a voce alta i versi di Kosovel:
Io sono l'arco spezzato di un cerchio,
io sono la forza che l'asprezza ha schiantato.
Quelle parole erano il mio vangelo. Sentivo di avere una
forza tremenda. Sapevo di essere grande. Non ero più Atlante, ma un
titano dalle spalle sgombre. Da sempre sentivo la confusione e il disordine del
mondo. Adesso per la prima volta non ne ero più dentro, il disordine era
solo mio. Lo creavo e lo disfavo ogni giorno. Ero certo che, da quel disordine,
sarebbe nato l'ordine, un ordine chiaro, cristallino nel quale, per primo,
avrei chiamato le cose per nome.
Nella mia vita di camminatore non avevo amici. Quello che
interessava i miei coetanei, a me non interessava affatto. Non c'era nessuno
con cui confidarmi tranne il cielo aperto dei campi, il vento e, di notte, il
buio e il silenzio della mia stanza.
Adesso so che sarebbe bastata una persona, una sola, per
rendere il mio destino diverso. Sarebbe bastato uno sguardo, un pomeriggio
trascorso insieme, il barlume di una comprensione. Qualcuno con uno scalpello
in mano: lo scalpello e l'attitudine a scavare per far esplodere lo stampo di
creta in cui ero compresso.
Da sedici anni la solitudine e la disperazione erano
all'opera dentro di me, come due mantici. Soffiavano e soffiavano senza mai
fermarsi. Ormai ogni sentimento, ogni percezione erano gonfi fino
all'inverosimile. Li chiamavo grandezza, poesia. Invece, forse, erano soltanto
il desiderio di farla finita. Mi svegliavo nel cuore della notte e su un
piccolo album scarabocchiavo parole che avrebbero dovuto essere versi. In
quegli istanti, ero come ubriaco, mi tremava il braccio, il polso, tremava la
penna sulla carta. Sentivo che, nella mia testa, finalmente si era aperta una
saracinesca. Il velo dell'illusione era scomparso. La verità risplendeva
lucida. Era un paesaggio di primavera ravvivato nei colori dalla pioggia.
Vedevo le gemme e l'erba tenera e, fra l'erba, i boccioli aprirsi e divenire
fiori. Quando tornavo a letto una gran pace mi scendeva dentro. Mi addormentavo
felice come un bambino amato fin dal giorno del concepimento. Mi sembrava di
aver raggiunto un punto fermo. Un punto dal quale era possibile partire e
rifondare tutto in modo diverso. Quella felicità però era di
breve durata, il tempo di fare colazione e lavarsi la faccia. Appena mi sedevo
alla scrivania e rileggevo i fogli, sentivo l'universo crollarmi addosso. Non
c'era alcuna luce, in quelle frasi, non si apriva uno spazio più grande,
c'erano solo i miei pensieri di sempre, più confusi che durante il
giorno. Le parole che li esprimevano erano banali come le lettere delle
ragazzine alla posta del cuore.
Tuttavia non mi arrendevo. Dopo lo sconforto, nasceva il
furore. Mi dicevo, ho scavato, ma non abbastanza, il disordine non è
sufficiente, ci sono ancora tante pentole che bollono con il coperchio sopra.
Poi ho scoperto Baudelaire. Mi è venuta la febbre
leggendolo. A essere sinceri mi sono sentito anche un po' defraudato, erano
parole mie quelle, le parole più profonde del mio essere. Il faut etre toujours ivre. Come potevo negare la verità di questa
affermazione? Il disordine non bastava più. Per raggiungere quello che
cercavo, ci voleva ancora qualcosa, era come essere bambino e dover raggiungere
un oggetto su un armadio, si sale su una sedia e, se non basta, si aggiunge uno
sgabello. La droga, l'alcol non erano il centro, ma soltanto una scala per
raggiungere ciò che era nascosto.
A scuola ho trovato dell'hashish. Per fumarlo ho atteso
di essere solo in mezzo a un bosco. Non avevo arrotolato mai neanche una
sigaretta, le mani mi tremavano per l'emozione. Quando ho dato la prima boccata
mi sentivo come Alì Babà davanti alla caverna magica. Quel fumo
era l'Apriti Sesamo, la chiave magica che avrebbe aperto la porta di un'altra
dimensione. Mi aspettavo esplosioni di luce e di colore, draghi, figure
meravigliose. Non successe niente, gli alberi erano spogli, l'erba gialla.
C'era una ghiandaia, sopra di me, gracchiando sgraziatamente saltava da un ramo
all'altro. A parte la nausea e il giramento di testa, ogni cosa era come
l'avevo sempre vista. Su quel prato ho trascorso un paio d'ore. Poco prima
dell'imbrunire sono andato a casa e lì l'Apriti Sesamo ha fatto effetto.
E successo durante la cena. Mio padre è entrato in
cucina e all'improvviso non era più lui, ma un orso da circo. Un orso
con un cappellino in testa e una minuscola bicicletta sotto le zampe. La
trasfigurazione era così reale che sono scoppiato a ridere. In
quell'istante, anche mia madre è diventata una bertuccia. Vedevo i loro
musi agitarsi davanti a me, erano talmente comici che la mia risata è
diventata un latrato.
Si può sapere perché ridi? ha gridato mia
madre.
Mio padre ha battuto un pugno sul tavolo: Questa casa
è diventata un manicomio.
Allora ho smesso di ridere. Lo è sempre stata,
ho risposto.
Poi ho fatto quello che di solito faceva lui, ho dato una
pedata all'armadio e sono uscito sbattendo la porta.
Fuori faceva freddo ma non me ne importava niente. Le
strade erano deserte, le cucine illuminate. Sbirciando oltre i vetri intravedevo
decine e decine di piccoli inferni domestici, gli officianti erano intorno al
desco e al televisore. Non sentivo le parole, ma le sapevo tutte lo stesso.
Percepivo l'infelicità filtrare attraverso i vetri.
Ho imboccato la strada principale del paese, alla
stazione del tram mi sono fermato per comprare delle sigarette, poi ho
proseguito per la strada nazionale. Avevo bisogno di un respiro più
grande, volevo vedere il mare. Il tram mi
è passato accanto. A parte il conducente, a bordo c'era soltanto
un vecchio con la barba lunga. L'ho salutato con la mano, come fanno i bambini,
poi il tram è scomparso con
tutte le sue luci. Sono rimasto solo nella notte e ho cominciato a cantare.
Nella piazzola dell'obelisco c'era una macchina con una
coppietta dentro. Mi sono seduto sul parapetto del belvedere e ho acceso una
sigaretta. A dire il vero, era abbastanza schifosa ma bruciava, mi piaceva
vedere quel piccolo cerchio di fuoco contro il nero del cielo.
Sotto di me c'era la grande città e in fondo lo
spazio scuro del mare. Poco fuori dalla rada si intravedeva la sagoma enorme di
una portaerei. Tutto intorno brillavano le luci più piccole dei
pescherecci. Era strano, in quel momento sentivo ogni cosa dentro di me.
Comprendevo tutto, ero tutto. Sentivo le parole dei pescatori e vedevo le loro
mogli a casa che li aspettavano guardando la televisione. Vedevo i pesci
nuotare tra le alghe e la rete bianca che gli piombava davanti. Vedevo i taxi
fermi alla stazione e le persone in arrivo sul treno che guardavano fuori dal
finestrino. Percepivo i loro pensieri, i loro pensieri erano i miei così
come lo erano quelli del bambino che, in quell'istante, il padre stava
picchiando o quelli della vecchia che, tutta sola, stava morendo all'ospizio e
quelli del piccione che sulla sua finestra la guardava morire. Non c'erano mai
stati così tanti pensieri nella mia testa, non c'era mai stato un
sentimento così preciso di quello che mi stava intorno.
Non so a che ora mi sono mosso da lì, a un certo
punto ho avuto un brivido di freddo. Le troppe emozioni mi avevano stancato,
gli innamorati non c'erano più. Ho acceso un'altra sigaretta e mi sono
avviato verso casa.
Quasi tutte le finestre erano spente, vegliavano soltanto
gli insonni e i malati. Anche casa mia era al buio.
Non sapevo che ora' fosse e non me ne importava niente.
Ho premuto il carnpanello e ho atteso. Non è successo niente. Ho
aspettato ancora qualche minuto, poi ho sferrato un calcio al portone e me ne
sono andato.
Ormai avevo davvero freddo, ho pensato che la stazione
poteva essere l'unico luogo caldo. Lungo la strada c'era un grande piazzale.
Lì spesso i camion provenienti da est si fermavano per la notte. Infatti
ce n'erano tre. Venivano dalla Bulgaria ed erano diretti al macello, andavano
tutti là i camion che passavano il confine con il bestiame.
Uno portava cavalli, un altro mucche, il terzo non si
vedeva bene. Mi sono avvicinato e ho guardato dentro, c'erano degli agnellini.
Erano così piccoli e bassi che sembravano un tappeto, un morbido tappeto
bianco e ondulato. Qualcuno di loro mi deve aver visto. Uno, in particolare, si
è levato sulle zampe e mi è venuto incontro. Faceva beee
caracollando tra gli altri. Forse, per qualche ragione misteriosa, mi aveva
scambiato per la madre. Ha messo il muso tra le feritoie, i suoi occhi erano
neri e lucidi, c'era un interrogativo dentro quegli occhi. Ho
allungato la mano e gli ho
toccato la fronte, era tiepida come quella di un
neonato. Cosa cè? gli ho chiesto piano e in quello stesso istante l'incantesimo dell'Apriti Sesamo è finito. Sono scoppiato a piangere. Lui belava e
io piangevo, piangendo sbattevo la testa contro la fiancata del camion.
Il
mondo è
dolore, non altro.
Il
giorno dopo mia madre non mi ha rivolto la parola. Mio padre non l'ho neanche
visto. Invece di andare a scuola,
sono rimasto a casa a dormire. Della scuola non me ne
importava più niente. Facevo il liceo classico e dovevo rompermi la
testa sugli aoristi. Studiavamo cose morte e sepolte, e di questo studio non
riuscivo a farmi una ragione.
Persino la filosofia, che in qualche modo avrebbe potuto
interessarmi, era insegnata in modo tremendo. Cèrano tanti signori che
parlavano come statue in un deserto: il
noumeno e le monadi, il trascendente e l'immanente. Sembravano dei pazzi che descrivevano un mondo
noto soltanto a loro. C'era la
morte, la solitudine, il vuoto, l'enigma della nascita e del destino; c'era la
sofferenza che, nella sua morsa, stritolava ogni ora del giorno. Che relazione
aveva tutto questo con quelle formule incomprensibili che dovevamo mandare a
memoria?
Con
l'aria da vati, i professori proclamavano: Adesso non ne vedete il senso ma quando sarete
adulti capirete l'importanza del greco
e del latino. Il
loro atteggiamento mi sembrava quello di
mio padre quando diceva: Ti ci vorrebbe un'altra guerra. Sentivo sotto una sottile crudeltà, il desiderio di far scontare ad altri il tempo
insensato della loro giovinezza.
In
quel periodo stavano anche cominciando i primi fermenti
studenteschi. Per curiosità sono
andato a due o tre riunioni del collettivo
della scuola. Si parlava di lotta al
capitalismo e dittatura del proletariato, le stesse identiche cose per cui
aveva lottato anche mio padre, non c'era niente
di nuovo sotto il sole. Le persone, mi dicevo, amano riproporsi sempre le
stesse illusioni, tutti hanno paura, così inventano un sogno, qualcosa che dia loro
complicità e
senso, è
bello far parte del coro, ripetere tutti le stesse cose. Ai pulcini piace stare al caldo sotto la
luce dell'incubatrice, agli uomini piace il tepore delle utopie, delle promesse
impossibili. Non tutti possono andare fuori, non tutti
hanno la forza di contemplare l'essenza reale, il lungo tunnel buio che - dalla nascita alla morte -
siamo costretti a percorrere, carponi.
Quando
ero ancora in quarta ginnasio, un pomeriggio d'autunno
sono andato alla festa di compleanno di una delle
mie compagne. Saremo stati una quindicina in tutto.
Non
eravamo più piccoli e non eravamo abbastanza grandi, non sapevamo come
comportarci. C'era un buffet con le
tartine e le bibite e un mangiadischi. Tutti avevamo i brufoli e difficoltà a parlare. A un
certo punto, uno ha detto:
Facciamo il gioco
delle sedie! e
abbiamo cominciato a giocare.
Il
gioco era molto semplice: il numero delle sedie era di un'unità
inferiore a quello dei partecipanti, si metteva un
disco nel mangiadischi e tutti cominciavano a camminare in tondo per la stanza,
poi, a sorpresa, la musica finiva e bisognava subito sedersi. C'era un gran
correre e sgomitare e, alla fine, uno restava in piedi. Quell'uno ero sempre
io, ogni volta c'era un pegno da pagare. Alla terza volta - il pegno era quello di togliermi una
scarpa e saltare per tre minuti su una
gamba sola, leccare la Coca-Cola dalla
ciotola del cane, e andare a quattro zampe, con la compagna più grassa sulla schiena - ho
detto mi ritiro e ho lasciato il gioco. Qualcuno ha protestato
debolmente qualcun altro ha
fischiato, ma io ho fatto finta di niente.
Erano
i primi di dicembre. Davanti al salotto c'era un balcone.
Incurante del freddo, ho aperto la porta e sono uscito
fuori. Malgrado fosse pomeriggio, il cielo era già buio e pieno di
stelle, la bora soffiava e puliva ogni cosa, le
antenne vibravano e così i
fili che le collegavano agli apparecchi,
una sinfonia di cavi e ferraglia. Oltre la tenda leggera,
vedevo i miei compagni, il pavimento della sala era
di marmo, brillava lucido e disinfettato come una lastra dell'obitorio. Loro
continuavano a correre in circolo, intorno
alle sedie. Vedevo le smorfie, gli ammiccamenti, gli
imbarazzi. Per me erano già
tutti teschi, mandibole, tibie.
La confusione li avvolgeva, li avrebbe avvolti per sempre. Le loro vite mi apparivano come il piano
di una casa in costruzione.
C'erano le fondamenta e le pareti, le tubature
dell'acqua e il tetto. Sapevo ogni cosa del loro futuro,
avrebbero fatto tutto quello che bisognava fare. Loro
stavano là
dentro, alla luce, al caldo, si riempivano la
bocca di parole vuote. Io ero oltre il vetro.
Solo,
al buio, con il gelo della notte intorno.
V
Un
giorno mia madre mi ha fatto una sorpresa. Sono tornato a casa e ho trovato il
prete.
«Cosè?
E morto qualcuno?» ho chiesto vedendolo.
«Non
essere irriverente», ha detto lei piano.
«Passavo
per caso», ha risposto don Tonino. «Se dò fastidio tolgo subito il
disturbo.»
«La
prego...» ha fatto mia madre, e lui è
rimasto seduto.
Mio
padre non c'era quel giorno così si è fermato a pranzo
con noi.
Abbiamo
mangiato in silenzio. O meglio, io sono stato zitto e loro hanno parlato di un
imminente pellegrinaggio a Lourdes.
«Mi
piacerebbe tanto venire», diceva mia madre, ma
capisce... con mio marito.»
Quel che conta è il
desiderio, rispondeva il prete, e poi vedrà che
prima o poi ci sarà
l'occasione.
Esaurito
quest'argomento, avevano parlato ancora un po'
delle campane, c'era una colletta per comprarne delle nuove ma si era ben lontani dal raggiungere la
cifra. Di amenità in amenità
siamo arrivati al caffè. A
quel punto mia madre si è alzata e, con il rossore della bugia dipinto in faccia, ha detto:
«Spero
che mi scuserete se mi ritiro a riposare, mi è venuto un tremendo mal di
testa».
«Dovresti
imparare a recitare un po' meglio», ho risposto senza girarmi. Su quelle
parole, lei ha chiuso la porta
della stanza.
Così siamo rimasti noi due soli, con molliche e
bucce di arancia in mezzo al
tavolo. Cè
stato un silenzio piuttosto lungo, poi lui ha cominciato a sfregarsi le mani
come se avesse freddo e ha detto:
E allora come va?
Perché è così
ipocrita? ho chiesto io.
Non sono ipocrita, ha risposto lui. Voglio davvero sapere come stai. Tua madre è preoccupata per te.
Ho
cambiato la posizione delle gambe e la sedia ha scricchiolato.
Poteva preoccuparsi prima di mettermi al mondo.
Don
Tonino giocava con la mollica, faceva delle palline e poi le schiacciava con
l'indice. Era con lui che avevo studiato
dottrina. Da bambino mi sembrava vecchio, soltanto in quel momento osservandolo
mi sono accorto che doveva
aver da poco superato i cinquant'anni. Non avevo mai
provato antipatia per lui ma, in quel momento, era il nemico.
Abbiamo
trascorso quasi un'ora insieme, lui parlava, parlava,
e io non ascoltavo. Ogni tanto mi giungeva qualche parola ...i talenti... il figliol prodigo... Fuori aveva cominciato
a piovere, trovavo molto più interessante osservare la traiettoria delle
gocce, il modo in cui correvano sui
fili della luce, sui rami lucidi e spogli dell'albero di fronte. Quando
se ne è
andato, non mi sono alzato per accompagnarlo alla porta.
Le
cose intanto stavano degenerando. Non c'era più un solo istante in cui fossi calmo. Invece di
parlare, urlavo. Riuscivo a star fermo
soltanto quando ero in uno stato di sfinimento.
Una
sera, sdraiato nel letto, mi sono accorto che nelle vene non pulsava più il sangue, al suo
posto correva la lava incandescente
dei vulcani, sospinta dal cuore vorticava dai piedi
alla testa, inondava il cervello, giungeva agli occhi e li mutava in braci.
Di
notte non dormivo quasi nulla. Mi era tornata l'insonnia dell'infanzia. Tutt'al
più, se avevo bevuto o fumato, sprofondavo
per un paio d'ore in un pozzo nero senza immagini
né
suoni. Il risveglio era sempre improvviso, di colpo
avevo gli occhi sbarrati. Non ricordo sogni particolari, se non uno. Alzo gli
occhi e sopra di me, su una roccia,
vedo un enorme leone immobile, già la
sua ombra è spaventosa.
Intuisco che sta per saltarmi addosso, nel suo sguardo
la ferocia è
pura, paralizza ogni mio desiderio di
fuga. Vorrei gridare ma non ci riesco. Nell'attimo in cui balza capisco che non è più un
leone, è una
capra, un toro, un pitone, un
figlio remoto del demonio. Gli occhi hanno
un'intensità di
un altro mondo, le narici e la lingua sono
tizzoni, sopra di me gli artigli insanguinati volano come scintille fuggite dal fuoco. Solo allora ho
gridato e, con il grido, mi sono
svegliato. Dalla strada giungeva il rumore
dei camion, imboccando la salita cambiavano marciò. In cucina, un
rubinetto gocciolava. Mio padre russava nella
stanza accanto. Mi sforzavo di riprendere sonno ma non ci riuscivo. Il resto della notte lo passavo
immerso in un dormiveglia senza
quiete, digrignavo i denti, sbattevo la
testa contro il muro, strappavo le lenzuola come fossero una camicia di forza.
La
mattina dopo, ero stanco morto. Alzarsi era duro, andare
a scuola impossibile. Uscivo con i libri in mano, andavo
in città e mi infilavo nel primo bar aperto. Il furore aveva portato con sé la sete, la gola mi bruciava sempre e così lo stomaco. C'era un incendio e dovevo
spegnerlo, al mattino la birra era la cosa migliore, mi sentivo subito meglio. Già dopo il primo boccale diventavo più
calmo. Sete e nervosismo ormai erano una sola cosa.
Così senza neanche accorgermi ho cominciato a bere. Sapevo e non sapevo di farlo, in ogni modo mi
ripetevo:
E un caso diverso da mio padre. Lui beve
perché è
un fallito,
io ho solo bisogno di un aiuto per conoscermi meglio. Al mondo non bisogna
demonizzare niente. Le cose non
valgono per sé ma
per quello a cui servono.
A
casa ci evitavamo l'un l'altro, eravamo due specchi che non potevano riflettersi. All'ora di pranzo,
lui non c'era mai e anch'io
cercavo di non esserci. Mia madre si era
persino abituata, non mi chiedeva più neanche: Dove sei
stato? Mangiava sola davanti
alla televisione poi metteva via il piatto e prendeva il cucito.
Nell'ultimo
anno le erano venuti molti capelli bianchi. Con il bianco doveva essere giunta
anche la stanchezza, in qualche modo, forse, era contenta di quella quiete apparente. Ma la quiete era appunto apparente,
stavamo tutti camminando su un
filo teso con un'asta in mano. A un
tratto l'asta è
sfuggita e siamo caduti.
E
successo una domenica. Mia madre aveva fatto l'arrosto e lo stava tagliando, ha
messo la fetta nel piatto di mio
padre nello stesso istante in cui io sono entrato in cucina. Si sono voltati a guardarmi come se
fossi un marziano. Erano pallidi, immobili, sembravano statue di sale. Ho spostato la sedia rumorosamente e mi sono
lasciato cadere sopra. Mio
padre aveva i riflessi lenti, è
passato qualche secondo prima
che sbattesse il pugno sul tavolo. Le
posate sono sobbalzate e così i
bicchieri.
Questa casa non è un albergo! ha gridato.
Ho
preso una patata novella dal piatto, era tenera, saporita.
Strano, non me ne ero
mai accorto, ho
risposto, mordendola.
Allora
lui si è
alzato in piedi.
Sei un disgraziato! ha urlato, sollevando il braccio per darmi uno schiaffo.
Io
sono stato più svelto, con il destro ho parato e con il sinistro ho colpito: il pugno gli è arrivato in pieno viso, ho sentito precisamente l'osso del naso
curvarsi. Si è
accasciato sulla sedia,scoprendosi il volto con le mani. Con calma ho raggiunto la porta.
E tu cosa sei? gli ho detto mentre mia madre con un fazzoletto gli tamponava la ferita.
Nei
pomeriggi di domenica le strade sono spaventosamente vuote e tristi. Avevo
voglia di svagarmi. Dei manifesti sui muri annunciavano l'arrivo in
città di un grande luna
park. Ho preso un autobus e l'ho raggiunto. Per tutto il pomeriggio sono andato sull'autoscontro,
appena vedevo una persona dallo sguardo felice, giravo l'auto e gli andavo addosso.
Sono
partito con quelli delle giostre. All'ora di chiusura ho domandato loro se
avevano bisogno di un aiuto.
Una mano serve sempre, mi hanno risposto. Nessuno ha chiesto quanti anni avevo e perché
volessi andare via, non
c'era paga, soltanto qualche mancia, un tetto, qualcosa da mangiare e la
possibilità di
divertirsi tutti i giorni.
La
mattina dopo abbiamo smontato le strutture e siamo partiti. Avrei potuto
telefonare a casa, chiedere come stava
mio padre ma il pensiero non mi ha sfiorato neanche per un istante. Nella mia mente si era creato
una specie di vortice nero,
roteando su se stesso aveva ingurgitato il mio
passato.
Dalla
mattina alla sera vivevo in compagnia. Faceva freddo
e pioveva. Tutti, per andare avanti, si aiutavano con
l'alcol, era la prima volta che mi capitava di bere assieme ad altre persone,
l'effetto non mi dispiaceva affatto.
Ero
brillante, simpatico. Quando parlavo, chi stava intorno si divertiva sempre.
Cambiavamo piazza ogni giorno o quasi.
Non siamo mai andati molto lontani, frequentavamo le fiere, i mercati, le feste
rionali.
Di
quel periodo - non saranno state più di due o tre settimane - non ho un ricordo preciso. Era come
se avessi in mano un
caleidoscopio. Ciò che dominava erano soprattutto delle tinte: il grigio
di un capannone abbandonato, la carta da parati di un'osteria sulle colline,
l'azzurro di una corriera
sbucata dalla nebbia, l'arancio intenso dei cachi
in un giardino spoglio.
Avevo
cancellato il passato. Cancellandolo, avevo cancellato anche il futuro. Al
posto dei pensieri e della coscienza di me stesso, c'era soltanto una specie di
febbre. In quei giorni la
chiamavo divertimento, dal gran parlare e dal
gran ridere mi bruciava la gola. Bevevo e bevevo, e
ormai
nessuna bevanda spegneva quel fuoco. Poi,
un pomeriggio, nel gabinetto di un bar ho visto il
mio volto riflesso nello specchio. Chi era quella persona che mi stava guardando? Quegli occhi non erano i
miei, non avevo mai avuto degli
occhi così
piatti. Sembravano gli occhi di un pollo
o di un tacchino, lustri, levigati, vuoti. E,
sotto agli occhi, c'erano due borse gonfie e un colorito che andava dal grigio al giallo. Che diavolo! mi
sono detto, sarà
colpa della luce che in questo cesso fa schifo. Stavo per uscire quando,
all'improvviso, ho avuto la sensazione di non essere solo là dentro. C'era qualcun altro con me, e questo qualcun altro era triste. Non lo
vedevo, ma sentivo che c'era.
D'un
tratto, senza nessuna ragione, mi è
venuto in mente l'angelo
custode. Quel gabinetto era freddo, umido, puzzolente,
aveva una porta a soffietto di plastica, il pavimento era bagnato di urina, la
luce fioca. Cosa mai poteva fare
lì l'angelo?
Più che vivere nelle latrine, ho pensato, gli
angeli seguono i bambini sull'orlo dei dirupi o sui ponticelli di corda sospesi
sul vuoto.
Era
pomeriggio e, di lì a
un'ora, avremmo dovuto aprire
l'autoscontro, l'osteria era abbastanza lontana dal paese dove c'era la giostra. Eravamo in quattro
quel giorno, ci avevano detto che lassù il vino era buono, per questo
eravamo andati in collina. Il tempo era passato bevendo e giocando a carte.
Quando ci siamo rimessi in moto, eravamo
in forte ritardo. Dalla pianura saliva la nebbia, la strada era piena di buchi e di curve, la vecchia
850 aveva le sospensioni rotte.
Stavo dietro e ho pensato, stiamo correndo troppo. In quell'attimo, di fronte a
noi, si è
materializzata la sagoma scura di un camion.
VI
Nell'ultimo
anno - prima della mia maggiore età -
sono successe soltanto due cose
importanti. Dopo un mese di ospedale
sono andato dritto in un centro per giovani sbandati con problemi di alcolismo.
E questa è una.
La seconda è che
lì,
finalmente, ho trovato un amico. Si chiamava Andrea
e dormiva nella mia stessa stanza. Quando l'ho visto
per la prima volta stava sdraiato sul letto con le mani raccolte dietro la nuca. Aveva gli occhi aperti
e fissava il soffitto. Ho detto salve e
non si è
girato. Mi sono presentato porgendogli la mano ed è rimasto immobile. Per
due giorni interi mi ha ignorato. L'unico contatto fra di noi erano gli occhi. Ovunque mi seguiva
con il suo sguardo. Lui mi
guardava e io non riuscivo a fare altrettanto. Le sue iridi erano di uno strano
colore sospeso tra l'azzurro e il verde
chiaro, la sensazione era quella di una superficie
acquea imprigionata dal ghiaccio. Erano acqua ma
anche fuoco, bruciavano al minimo contatto. Il viso era un bel viso, lineamenti regolari e tinte
chiare, accanto a lui mi sentivo
goffo, malfatto. Stava sempre solo, in disparte.
La
sera, dopo cena, tutti gli ospiti del centro si raccoglievano in una stanza a
guardare la televisione e a giocare a
carte. Non era permesso rimanere nelle camere. C'era un rumore molto forte, così lui girava la sedia contro il muro dando la schiena al resto della stanza. Per
due sere mi sono unito alla
compagnia, partecipavo alla briscola e commentavo
i programmi a voce alta. In realtà mi sentivo più solo di prima. Così la terza sera l'ho imitato, assieme a lui mi sono messo a guardare il muro. Mi copi?
aveva chiesto allora lui senza voltarsi.
No,
avevo risposto, soltanto
non sopporto tutto il resto.
Quella
notte nella stanza avevamo parlato a lungo, il buio
celava il suo sguardo. Ci interessavano le stesse cose, per descriverle usavamo le stesse parole.
Da
quel momento non ci siamo più lasciati.
Il
centro era una specie di villetta costruita all'interno del parco dell'ospedale psichiatrico. I padiglioni più importanti avevano
l'aria piuttosto vecchia, dovevano
risalire all'inizio del secolo, quasi tutte le
finestre erano protette da grosse grate e i vetri, dietro le grate, erano opachi. Da lì ogni tanto filtravano delle grida che non avevano niente di umano. Ne avevo
sentite di simili soltanto nei
film ambientati nella giungla amazzonica, sembravano urla di scimmie
arboricole.
Una
volta, passando davanti al reparto dei cronici, Andrea
mi ha raccontato di aver sentito dire che là dentro era
rinchiusa una ragazza della nostra età che
non poteva stare senza la camicia
di forza neppure per un attimo. Appena aveva le mani libere infatti cominciava
a distruggersi, si strappava i
capelli, si lacerava il viso con le unghie, si azzannava
gli avambracci come fosse un cane con il suo osso.
Non c'era niente, assolutamente niente da fare, si comportava così fin da piccola, una lesione al momento del parto o qualcosa del genere. Si sarebbe
comportata così fino alla fine dei suoi giorni.
Tenere in vita persone di questo tipo, aveva detto Andrea,
una mattina che camminavamo accanto al padiglione, è una delle tante ipocrisie. Basterebbe
un'iniezione per farle felici. Poi
aveva fatto una pausa. In
qualche modo, aveva aggiunto, noi e loro siamo legati dallo stesso destino.
L'ho
guardato senza capire. Allora lui mi ha spiegato che
la struttura del genere umano è
quella di una piramide. Nella piramide, quegli infelici stavano nel gradino
più basso, dove il mondo
animato si congiungeva con quello inerte.
Noi, al contrario, stavamo al livello più alto, sulla sommità. Era
il livello della nostra coscienza a portarci lassù.
Come loro erano a contatto con la nuda terra, così noi eravamo a
contatto con l'aria infinita del cielo. Stavamo rinchiusi in quell'ospedale per
la legge degli opposti. Per motivi diversi, il livello più basso e
quello più alto davano entrambi
fastidio a chi vegetava nel mezzo. O
meglio, uno dava fastidio e l'altro rappresentava una minaccia.
Viviamo nella dittatura della norma, non te ne
sei mai accorto? mi aveva detto, sfiorandomi una spalla.
Nessuno sopporta il superuomo.
Chi è il
superuomo? avevo chiesto io
allora.
Sono io,
aveva risposto lui senza alcun dubbio.
Sei tu. Siamo noi, che vediamo ciò che
gli altri non vedono.
Poi
aveva parlato della natura. Anche lì, le
cose procedevano allo stesso modo. C'erano gli erbivori, i carnivori e, sopra di loro, i superpredatori, che non
erano altro che dei carnivori
più cattivi di tutti gli altri. A parte le intemperie o i cacciatori,
non c'era nessuno in grado di far loro del
male.
Per gli animali, aveva detto Andrea, si tratta solo della
maniera di sopravvivere. Chi mangia e chi viene mangiato.
Per gli uomini, la questione è
molto più sottile. Ci
sono esseri primitivi, il cui solo scopo è
riempirsi la pancia e accoppiarsi.
Questi esseri sono la base larga della piramide,
la loro mente è
primitiva, vivono soprattutto in base
alle pulsioni. Dài
loro uno stimolo e puoi essere certo della
risposta, i loro riflessi non sono molto diversi da quelli di un'ameba. Sopra a loro ci sono le persone
appena di poco superiori,
persone che hanno un po' di coscienza, ma è una coscienza diluita come il sale nell'acqua
della pasta. Per sopravvivere, alle
volte, si inventano un ideale o qualcosa
del genere, si tratta di invenzioni deboli, infantili. Sono degli zoppi, hanno bisogno del bastone per
andare avanti, se glielo
togli, cascano a terra e strisciano sul pavimento come vermi. Sopra questa
melma, aveva continuato
Andrea, stanno gli eletti. Gli
eletti hanno avuto ogni talento
in dose superiore alla norma. Non sono vermi ma aquile,
la loro condizione naturale è il
volo, conoscono la bellezza e la
verità, non si mischiano con la sporcizia che sta sotto. Solo ogni tanto chiudono le ali e
vanno giù in picchiata, con la loro maestosa potenza, e
distruggono il nemico.
Io
ascoltavo questi suoi discorsi affascinato, non avevo mai sentito qualcuno
parlare così. Nel
momento stesso in cui le sue parole
giungevano alle mie orecchie, provavo un
istante di sbalordimento. Passato quell'istante, le riconoscevo subito come
giuste, la verità era quella. Non c'era alcuna
eguaglianza sulla terra. Anche se tutti avevamo due gambe, due braccia e una testa, in realtà
appartenevamo a specie diverse.
Pensavo ai volti paonazzi degli amici di osteria
di mio padre o ad alcuni compagni di scuola che avevano
in testa soltanto le ragazze o i motori, con loro mi
ero sempre sentito a disagio. Quella volta ignoravo ancora che, tra me e loro,
c'era un abisso. Io appartenevo al mondo
delle aquile, loro a quello dei protozoi. Dalla mattina
alla sera reagivano unicamente alla legge stimolo risposta.
Le
parole di Andrea mi provocavano la stessa esaltazione delle prime poesie che
avevo letto. A questa, però, si aggiungeva un senso profondo di rilassamento. Il
mondo andava avanti così, come non averlo capito prima?
Dopo
mangiato, ce ne andavamo a fumare una sigaretta vicino alla recinzione del
parco. La primavera stava arrivando,
le mimose e gli arbusti precoci erano già in fiore, il sole ormai tiepido. Stavamo lì a chiacchierare fino all'ora della terapia.
Perché non lo dicono
subito? ho chiesto un giorno.
Sarebbe tutto
più semplice.»
Andrea
ha risposto con un'altra domanda: Secondo te, da chi è governato il mondo?
Mi
sono vergognato per la mia superficialità. Era
evidente che la realtà più diffusa era proprio quella dei
protozoi, gli esseri stimolo-risposta, erano loro ad avere in mano le redini, ne avevo incontrati a decine, a
centinaia, fin dal tempo
dell'asilo. Il loro potere era quello della quantità, non della qualità, erano lo zoccolo duro della piramide, mai nessuna luce, mai nessun brivido.
Era davvero impossibile che svelassero come stavano veramente le cose. Non per cattiveria o calcolo, ma per pura
ignoranza dell'essenza del
mondo.
Andrea
diceva sempre che la soluzione migliore l'avevano trovata gli indiani, con
l'invenzione delle caste. Lì, tutto era chiaro fin dal principio. Non c'erano
annaspamenti, inutili perdite di energie.
Solo qui da noi, le persone perdono tempo a
inseguire delle cose che non potranno mai raggiungere. E poi, naturalmente, cè la questione della
razza. A seconda del continente
in cui si viene al mondo, si hanno più o meno possibilità di
salire al vertice. Pensa ad esempio ai negri, aggiungeva
Andrea passeggiando, hai
mai visto un negro dirigere un'orchestra?
Eppure nelle gare di atletica sono i primi,
nessuno salta e corre come loro. Questo cosa fa pensare?
Che sono più vicini ai leoni che ai filosofi. E una riflessione naturale, logica, ti sale spontanea
alla bocca, però non si può mai
dire. Viviamo nel tempo dell'incontrastata ipocrisia. Siamo tutti uguali, è questo che vogliono farci ripetere come automi.
Se
non fosse stato per l'amicizia di Andrea, quel periodo sarebbe stato davvero
triste. La vita là
dentro era regolata da orari
rigidi, non si poteva uscire né
ricevere visite, si mangiava
male e si era costretti a fare delle terapie. Gli ospiti saranno stati una quindicina, tutti
piuttosto giovani. Con loro però non avevo quasi rapporti. Andrea e io ci eravamo costruiti intorno un bozzolo,
lui parlava e io ascoltavo. Ero un cervo assetato che beveva
acqua chlara.
Le
terapie si facevano tutti insieme o da soli. C'erano delle signorine gentili che fingevano che tu
fossi molto importante per loro.
Io sapevo benissimo che l'unica cosa davvero
importante era lo stipendio a fine mese, il fatto che
loro, e non altri, stessero lì a
scaldare quella sedia.
Per
quello potevano permettersi quella bonomia, perché, almeno per un istante, nella giungla della
competizione, ce l'avevano fatta.
Il
più delle volte stavo in silenzio davanti a loro. Nella stanza c'era soltanto il ticchettio
dell'orologio. Sapevo che il
silenzio dava loro molto fastidio, anche se facevano finta di niente. Mi guardavano sorridendo, poi
cominciavano a giocherellare con la
penna o con gli orecchini, li tiravano avanti
e indietro, come se avessero voluto staccarsi l'intero lobo.
Il
silenzio era una strategia che mi aveva insegnato Andrea.
Se ti diverte dire
cazzate, mi aveva detto, parla pure, loro sono felici. Le trangugiano
come una bibita. Se invece non ti va,
stai zitto e vedrai che diventeranno matte.
In
quell'ora muta mi venivano in mente tante cose. Cose
che non riguardavano me, ma la signorina di fronte. Vedevo la sua vita come una fila di diapositive:
il diploma di maturità, il primo bacio, la decisione di studiare
psicologia, la soddisfazione dopo gli esami e la festa di laurea in una triste pizzeria, con i parenti vestiti
bene e gli amici. E poi, l'affannosa
ricerca di un posto, gli stratagemmi leciti e meno leciti per ottenerlo, l'abbandono
del fidanzato: Non
sopporto che ti occupi tanto degli altri. I
pianti, i tranquillanti, la
decisione di puntare tutto sul lavoro. Congressi, raduni di società, corsi di specializzazione, sgambetti e
minuscole ascese di potere. E l'abbigliamento che si
modificava, come i lineamenti. La rotta ormai era quella della zitella, una zitella stimata e
intelligente che percorreva una strada dritta. Al capolinea, come a tutti, la
aspettava una cassa di zinco foderata del legno più caro. Alcuni minuti prima dello scadere dell'ora, la
signorina si sporgeva un po' in avanti e chiedeva:
Ti
è venuto in mente qualcosa in particolare?
Io la
guardavo negli occhi e rispondevo:
Niente.
Andrea
diceva che uno dei poteri delle aquile era quello
di vedere le vite altrui senza alcun paravento. Davanti a noi sono tutti nudi, tutti inermi. Ci
offrono le viscere come la frutta sui banchi del mercato. Quando uscivo dalla
stanza con la psicologa, sapevo che era vero.
Andrea
era figlio di profughi istriani. Non c'era cosa che
detestasse più dei rossi. Loro, diceva, sono
il cancro che corrode questa società. Con
le loro sciocchezze ubriacano
i mediocri. Perché non nuocciano, bisogna schiacciarli
sotto il tacco della scarpa, come vermi, lasciare solo
una poltiglia al suolo.
Secondo lui non c'erano mai state
tante tragedie al mondo come da quando era nato il delirio comunista. La società
umana, diceva, esiste da parecchie
migliaia di anni, ed è
sempre andata avanti così. Chi è
più bravo, comanda, gli altri devono solo ubbidire. Invece loro hanno costruito un potere paranoico,
ribaltano le cose, così i
meno capaci hanno il potere di decisione. Per
questo che tutto poi va a rotoli. Se sei un operaio, puoi fare di tutto, se sei un professore sei
soltanto una merda, ti fanno pulire
i cessi o rompere le pietre per fare asfalto
per le strade. Ogni mattina devi baciare gli stivali dei tuoi capi per il semplice fatto che, ancora,
non hanno deciso di sopprimerti.
Per loro,
continuava Andrea, le
persone non esistono. Esistono soltanto i mestieri e i ruoli di partito e, fra tutti, il preferito è quello della spia. Il fratello denuncia il fratello, i figli denunciano il padre. La
delazione e il tradimento sono l'ossatura del sistema. Un sistema betoniera che, invece del pietrisco, tritura esseri umani.
Io lo
ascoltavo in silenzio. Lui aveva molta più esperienza di me, conosceva
più cose, e poi c'era un tono nella sua
voce che pareva non ammettere alcun tipo di obiezione. Da mezze frasi, accenni,
avevo capito che suo padre doveva
essere sopravvissuto a qualcosa di terribile, il furore che spesso coglieva
Andrea nel mezzo dei suoi discorsi forse
non era altro che questo, l'eco di un colpo ch'era stato inferto a suo padre. L'eco del mio era
stato molto diverso, con la sua
lotta eroica per cambiare il mondo mi aveva
vaccinato contro tutte le possibili rivoluzioni. Per questo mi ero sempre e soltanto occupato di
quello che avevo dentro. Ciò che stava intorno, mi era piuttosto indifferente. E mio padre, in quei discorsi, era
la mia coda di paglia. Per nulla al mondo volevo perdere la stima di Andrea. Se fosse venuto a sapere che era
comunista, avrebbe potuto pensare
che lo ero anch'io. Così
tacevo.
Un
pomeriggio, però, ho
preso il coraggio a due mani. Stavamo fumando una sigaretta sulla panchina del
parco
Sai, ho
detto tutto d'un fiato, hai
proprio ragione. Mio padre
è comunista ed è uno stronzo.
Aveva
voluto subito sapere tutto. Se era un attivista o
meno, se aveva combattuto e dove. L'ho un po' deluso con la mia risposta.
Lui non ne parlava mai. So che è stato partigiano e basta.
Andrea
ha spento la cicca sotto il tacco della scarpa.
Probabilmente ha la coscienza sporca.
Più
volte, ai tempi della scuola, lui si era scontrato con i rossi. Non ci crederai, diceva spesso, ma mi facevano persino pena. Qualcuno lo
conoscevo fin dalle scuole
medie. Erano ragazzi simpatici, di buon senso. E sul
buon senso e sulla sensibilità che
agiscono quei vermi. Nell'età in cui la gente è più sensibile, nell'età in cui si sogna
un mondo migliore, loro buttano la rete. E una rete a strascico e dentro ci finiscono un mucchio di
pesci. Libertà,
giustizia, uguaglianza. E bello riempirsi la bocca con queste parole. Sono solo specchietti per
allodole, le allodole ci cascano
sopra. Per questo fanno pena, non vedono la mano che sta dietro. E una mano
adunca, sporca, appena si muove gronda
sangue. Poi, magari, succede anche che, ogni tanto, qualcuno si accorge del
trucco. Sarebbe bastata quell'invasione dell'Ungheria per capire che tutto era sbagliato. Ma è
triste scendere dal treno, hai viaggiato per tanto tempo su quel convoglio con
persone che cantavano le tue
stesse canzoni. Non vedevi niente del paesaggio
a lato, assieme agli altri guardavi avanti, in qualche luogo imprecisato c'era
il futuro. Un futuro radioso come
l'alba. Era lì che
stavate andando, fiduciosi. Come fai a
scendere? Se scendi, resti solo nel deserto, ti rendi conto della fame, del freddo. Il treno, con le
sue luci, si allontana, cè
la notte che cala e i lupi che corrono dietro. Perché
dovrei rischiare tanto, è
molto meglio restare a bordo.
Si resta anche quando si sa che il futuro non è radioso, ma non importa.
A bordo si mangia e si canta. Le
parole che canti ti fanno sentire diverso, le frasi nobili sono il tuo impegno. Hai un senso nel mondo per questo. Se smetti, sei un disfattista. Canta, continua a
cantare, raglia con gli altri, come un ciuco. Come un ciuco, mettiti i paraocchi per non vedere fuori. Questa colossale
menzogna è la
bestia, hai capito? Il 666 nella sua forma finale, prima che il millennio si compia avrà distrutto il mondo.
Non
sapevo che cosa fosse il 666. In linea di massima, potevo pensare al numero di una camera di
albergo. Così ho chiesto:
Ma questo numero cosè? Non l'ho mai
sentito prima.
L'apocalisse di San Giovanni, 666, la bestia.
Satana capisci, il signore
del mondo.
Il comunismo è Satana?
Già.
Tutt'a
un tratto, ho cominciato a pensare a un gatto che
si morde la coda. Quando, a suo tempo, avevo chiesto a mio padre se c'era il diavolo, lui aveva risposto
che erano i fascisti. Per
Andrea, invece, erano i comunisti. E allora? Se
uno dava la colpa all'altro, e viceversa, di chi era davvero la colpa? Ripresi
a tormentarmi con quell'antico problema. Là dentro non c'era neanche un prete, se ci fosse stato gli avrei fatto due o tre domande su
ciò che sta o non
sta in alto. Di interlocutori, oltre ad Andrea, c'era soltanto la psicologa. Così, un
giorno, all'inizio della seduta, le ho chiesto a
bruciapelo:
Chi è il
diavolo?
Lei
ha sorriso, era visibilmente soddisfatta. Qual è l'associazione che te l'ha
fatto venire in mente?
Non
me la sentivo di esporle la questione delle forze opposte,
i rossi e i neri che si dividono la scacchiera, perciò ho detto:
Stando qua dentro ho avuto tanto tempo per
riflettere. Pensavo a tutto quello che mi è successo. Mi sarebbe tanto piaciuto essere buono, ma non ne sono
capace. Allora mi chiedo se è
colpa mia, oppure di qualcun altro che ci
mette lo zampino.
Non cè niente oltre te stesso, ha risposto rassicurante. Quello che tu chiami il diavolo, sono le tue
insicurezze, le paure che ti porti dietro fin da quando eri bambino. Ha fatto una pausa, poi, con voce più
bassa, ha aggiunto: Pensi
di volerne parlare?
Ormai
ero in ballo e dovevo ballare. Così,
come se tirassi fuori le
parole da una cavità profonda, ho cominciato a raccontare di quando ero
bambino, del fatto che ero venuto
al mondo e non mi ero sentito desiderato da nessuno. Ogni volta che mio padre
entrava in camera mia, avevo l'impressione che fosse il killer mandato da un
regno vicino. Io ero l'erede al
trono e lui, per un problema di supremazia
territoriale, aveva il compito di uccidermi.
Ascoltando,
lei annuiva con gli occhi. Vedevo già la
relazione che avrebbe fatto al prossimo congresso. Era bello avere un uditorio attento - i cantastorie
dovevano provare più o meno la
stessa emozione - dovevo semplicemente proseguire
con dettagli sempre più strabilianti. Non facevo nessuna fatica a farlo,
non sapevo dove stavo andando. Ogni
frase che usciva dalla mia bocca, prima di ogni cosa sorprendeva me stesso.
Allo
scadere dell'ora, la psicologa ha aperto la mia cartella
e con la penna biro ha fatto dei segni come se stesse compilando una schedina.
Poi si è alzata e mi ha accompagnato
all'uscita, dicendo:
Ho l'impressione che stiamo arrivando al
nocciolo.
Le ho
risposto con un sorriso mite.
Non
avevo voglia di tornare in stanza. I discorsi di Andrea
mi avevano portato a una specie di saturazione. Non
ero stufo, né
irritato, avevo soltanto bisogno di una pausa
di silenzio. Troppe idee e in troppo poco tempo. Mi
sarebbe piaciuto avere lì una spiaggia, un luogo aperto dove poter camminare con l'orizzonte davanti.
Siccome non c'era, sono andato
a fare un giretto intorno ai padiglioni.
Una
volta, in una mostra sugli strumenti di tortura, avevo
visto una palla di metallo. Al suo interno, un tempo, venivano messi dei carboni ardenti. Grazie al
cielo, non me ne ricordavo l'uso,
ma sentivo di avere all'interno qualcosa di simile. C'era ancora fuoco nel mio
corpo, percepivo benissimo il calore, soltanto che, ormai, era un fuoco domestico, le sue fiamme non lambivano
più ogni cosa come
quando erano alimentate dall'alcol. L'unica differenza era la fragilità.
Essere sobrio era come avere un interruttore spento. Passeggiavo per il parco e
mi domandavo, avrò mai bisogno di riaccenderlo? Si può vivere così, con i
motori al minimo?
VII
Il
legame stretto che univa me ad Andrea non è rimasto a lungo
inosservato. Mentre gli altri si annoiavano a morte, noi stavamo sempre insieme a parlare. Questo
doveva fare una certa invidia, così una mattina, fuori dalla stanza, abbiamo
trovato scritto: Checche!.
Pensavo
che Andrea si sarebbe infuriato, invece ha soltanto
alzato le spalle. Melma, ha detto, la melma non
pensa che a quello. Il loro orizzonte è
troppo basso per poter contemplare
la grandezza della nostra amicizia.
La
notte dopo ci hanno separati, niente doveva ostacolare il nostro processo di
guarigione. Dividevo la stanza con
tre sconosciuti, uno di loro puzzava al punto tale da rendere l'aria irrespirabile. Avevamo l'obbligo,
durante il giorno, di non stare
troppo vicini. Ciononostante un pomeriggio, dopo mangiato, Andrea mi ha
raggiunto sulla panchina e mi ha
sussurrato:
Domani scappiamo .
Senza
cambiare l'espressione del volto ho sussurrato:
Cosa? Sei matto?!
Hai paura?
aveva chiesto lui allora.
No, ma mi sembra una follia, tra neanche un mese potrai tornare a casa.
Si
era alzato di scatto.
Allora resta nella melma, aveva detto prima di andarsene.
Per
tutto il pomeriggio sono stato molto agitato. Avevo fatto una figura da verme,
dopo tante belle parole non ero
stato capace di accettare un gesto minimo di ribellione. Tra l'amicizia di
Andrea e la norma, avevo scelto la norma.
Avevo paura di immaginare quello che mi sarebbe successo
se fossi andato fuori. Ero stato un pulcino, non un'aquila,
un pulcino che da grande sarebbe diventato un
pollo. Durante la cena l'ho visto mangiare solo, seduto in un tavolo vicino
alla finestra. Più che mangiare sbocconcellava,
aveva un'aria malinconica che non gli avevo
mai visto.
Al
momento di raggiungere la sala della ricreazione gli
sono passato accanto con indifferenza e ho detto piano:
Va bene.
All'una davanti alle cucine, ha risposto.
Era
maggio e l'aria tiepida della notte era già satura dell'odore
dolciastro dei fiori. In silenzio abbiamo raggiunto il retro dei padiglioni
dell'ospedale psichiatrico.
Dietro
il deposito dei rifiuti, Andrea aveva scoperto un buco
nella rete. Il mio cuore batteva veloce, ero diviso tra il sentimento di euforia e la paura per quello
che stavamo facendo.
Appena
fuori ci siamo messi a correre, c'erano dei campi
sterrati e alla fine una piccola strada asfaltata dove non passava nessuno. Non sapevo dove eravamo
diretti, infantilmente avevo
creduto che Andrea avesse organizzato già
tutto. Ci saremmo imbarcati come mozzi su una nave
in partenza, o qualcosa del genere.
Dove andiamo? ho chiesto, dopo un po'.
Non ne ho la minima idea, ha risposto, incurante.
E allora perché mi hai fatto uscire? ho quasi gridato.
Nessuno ti ha costretto, sei uscito da solo, con
le tue gambe. Per quanto mi
riguarda avevo voglia di andarmene per un po' in giro, a notte fonda.
E se ci scoprono?
Ci impiccheranno.
Mi è scivolato addosso un malumore soffocante,
l'idea della grande avventura era sfumata, stavo soltanto correndo un rischio
inutile. Per un istante ho pensato anche di
tornare indietro, in meno di mezz'ora sarei stato di nuovo nel mio letto.
Andrea intanto camminava avanti, aveva le
mani in tasca e sembrava assorto, indifferente come una pietra alla mia presenza. Ero io a non poter
fare a meno di seguirlo, avevo
quasi la sensazione che avrei dovuto proteggerlo.
Alla
fine siamo arrivati a un parcheggio, c'erano parecchie auto ferme, Andrea ha
tirato fuori dalla tasca una chiavetta
per la carne in scatola e ne ha aperta una.
E tua? gli
ho chiesto.
Mi ha
risposto: Vieni?
Siamo
usciti dalla città prendendo la tangenziale, Andrea mi sembrava cupo e
avevo paura. Non osavo più fare domande,
ma una parte di me era convinta che quella corsa
fosse una corsa incontro alla morte. A un certo punto, lui avrebbe girato il
volante e saremmo andati a sbattere contro la parete di roccia, oppure contro
il guardrail e poi giù dritti nel mare. Non si trattava di una
distrazione o di un incidente ma
di qualcosa che lui aveva voluto fin dal
primo istante. Perché mi ero fatto incastrare? Tenevo le gambe rigide davanti a me come se, sotto i
miei piedi, ci fossero i pedali.
Invece,
dopo qualche chilometro, lui ha messo la freccia
e ha imboccato una strada bianca. La strada saliva in alto con curve strette, dopo due o tre
tornanti si è
fermato in un piazzale, ha spento il motore, poi è
uscito dall'auto e ha fatto un respiro profondo. Sotto di noi c'era il mare, tutto intorno piccoli campi, vigneti scoscesi,
frutteti.
E adesso? ho
chiesto.
Adesso siamo qui.
La
luna era alta e illuminava il suo volto, sembrava meno
teso di prima, anzi quasi allegro. Ci siamo seduti sull'erba vicino a un muretto di pietra, le viti
avevano lasciato il posto a due grandi ciliegi.
Ecco, ha
esclamato Andrea, era
questo che volevo. Almeno per una notte, vedere l'orizzonte e lo spazio aperto. Avevo sete di questo.
Provavo
la stessa sensazione. Ho detto: La
psicologia e le stanze chiuse restringono la testa. Poi gli ho raccontato della prima volta che mi
ero fatto una canna, dell'effetto scoppiato in ritardo, di quel bisogno
identico di vedere l'orizzonte, la
linea del mare, la linea del cielo e di come
quell'orizzonte, e tutto quello che in mezzo vi era compreso,
a un tratto si fosse riversato al mio interno. Tutto
viveva dentro di me e quel tutto, prima di ogni altra cosa, era dolore.
Abbiamo
parlato a lungo quella sera, anche se non avevamo
bevuto niente le nostre parole avevano la confidenziale rilassatezza di chi è un po' ubriaco. I satelliti sopra le nostre
teste si mischiavano alle stelle, dall'erba saliva il fruscio dei primi grilli, il canto prepotente
di un usignolo riempiva gli spazi di silenzio.
Chissà, ha
detto a un certo punto Andrea, se
lassù
cè un grande cappello con tutti i nostri nomi dentro, come alle lotterie, alle tombole. A un certo
punto viene fuori Walter o Andrea
e tu devi andare in quel posto, vedi la
tua casa, i tuoi genitori e sai già che
sarai infelice con loro, lo sai ma non
puoi ribellarti.
Se cè il cappellaio, ho aggiunto io, è un cappellaio matto. O matto o cieco, comunque
manda tutti nel posto sbagliato. Mio padre, chi mai l'avrebbe voluto? E invece è
toccato proprio a me, è
chiaro che sono stato costretto.
Non è gentile, no?
Non è
gentile per niente, ha
risposto Andrea, anch'io,
se avessi potuto scegliere, avrei scelto qualcosa di
diverso.
Dopo
un po' non cè stata più alcuna regola, alcun filo nei nostri discorsi. Abbiamo parlato a
lungo di quello che ci sarebbe
piaciuto essere, se non fossimo stati noi. Andrea
avrebbe voluto essere un cavaliere e vivere nel medioevo, con una splendida
armatura e un cavallo lucido, e la
possibilità di
fare giustizia da solo, con la spada e la mazza.
Io esitavo, ero indeciso, confuso. In realtà la vita a cui anelavo era di estrema quiete, così alla fine ho detto:
Io vorrei essere un ragioniere.
Un ragioniere? ! ha gridato Andrea e poi è scoppiato a ridere. Era la prima volta da
quando lo conoscevo. Mi ha
mollato una forte pacca sulla spalla: Un
ragioniere! Ma dài,
non scherzare!
Non scherzo. Prova a immaginare, uno che fin da piccolo pensa solo ai conti, fa le somme e
quando tira la riga sotto tutto è esatto, tutto torna. Ho fatto una pausa.
Sarebbe bellissimo, ho aggiunto.
Poi
il sonno ci ha colti. Ci siamo addormentati uno vicino
all'altro, io sentivo il suo calore e lui il mio. Eravamo un unico respiro, lui
era il cavaliere e io facevo quadrare ogni cosa. La volta celeste non era
più minacciosa ma rassicurante.
Dormivamo là
sotto come due cuccioli stanchi che non hanno più alcun bisogno di fare
domande.
Durante
il nostro breve sonno è salita una brezza leggera, ha scosso gli alberi
di ciliegio e ha fatto cadere i petali.
Ho aperto gli occhi e mi sono trovato coperto da una
strana neve, una neve profumata e tiepida. Andrea dormiva
ancora, teneva le mani intrecciate sulla pancia. La
sua espressione era davvero quella di un cavaliere, aveva petali sugli occhi,
sulle guance, tra i capelli. Sono rimasto a osservarlo per un po'. Senza il
furore degli occhi, senza
il sarcasmo delle parole, il suo volto diventava qualcos'altro, sui lineamenti
regolari e forti c'era un velo di tristezza.
Era un cavaliere colpito da un sortilegio nel bel mezzo
di un comba'ttimento, giaceva a terra e dal suo corpo emanava il vento freddo
della tragedia.
Era
ancora buio quando siamo saliti in macchina, dovevamo tornare presto per non
essere scoperti. L'umore di
Andrea non era più quello di prima. Contro il cielo scuro, spiccavano le chiome bianche dei ciliegi.
Prima di andarsene si è girato a guardarli.
E di questo che ci si dimentica troppo spesso, mi ha
detto.
Di questo cosa?
Della bellezza.
Poi
ha aggiunto: Così mi piacerebbe morire, in un prato, coperto da qualcosa di bianco. Neve o
petali di rosa .
Si
avvicinava il giorno del rilascio. E, con il rilascio, la grande domanda su cosa avrei fatto del mio
futuro.
Mancavano
pochi mesi alla mia maggiore età.
Quei mesi li avrei trascorsi con
i miei genitori.
Un'assistente
sociale nel frattempo aveva lavorato per ricostruire
i nostri rapporti. Aveva persino convinto mia madre
a fare qualche seduta dalla stessa psicologa, perché - doveva aver detto - se io ero così, in qualche modo la colpa doveva essere anche loro.
Sentivo già le parole di mia madre: Questo figlio è la mia disperazione. Da piccolo, era un tesoro. Anche se non siamo benestanti, non gli abbiamo mai fatto mancare niente