ALLA DILETTA E VENERATA
SUA MOGLIE
ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
LA QUALE INSIEME CON LE
AFFEZIONI CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATERNA POTÉ SERBARE UN ANIMO
VERGINALE CONSACRA QUESTO ADELCHI
L'AUTORE
DOLENTE DI NON POTERE A
PIÙ SPLENDIDO E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO RACCOMANDARE IL CARO NOME E
LA MEMORIA DI TANTA VIRTÙ.
NOTIZIE STORICHE
[I] FATTI ANTERIORI
ALL'AZIONE COMPRESA NELLA TRAGEDIA
Nell'anno 568, la nazione
longobarda, guidata dal suo re Alboino, uscì dalla Pannonia, che
abbandonò agli Avari; e ingrossata di ventimila Sassoni e
d'uomini d'altre nazioni nordiche, scese in Italia, la quale allora
era soggetta agl'imperatori greci; ne occupò una parte, e le diede
il suo nome, fondandovi il regno, di cui Pavia fu poi la residenza
reale[1].
Con l'andar del tempo, i Longobardi dilatarono in più
riprese i loro possessi in Italia, o estendendo i confini del regno,
o fondando ducati, più o meno dipendenti dal re. Alla metà
dell'ottavo secolo, il continente italico era occupato da loro, meno
alcuni stabilimenti veneziani in terra ferma, l'esarcato di Ravenna
tenuto ancora dall'Impero, come pure alcune città marittime della
Magna Grecia. Roma col suo ducato apparteneva pure in titolo agli
imperatori; ma la loro autorità vi si andava restringendo e
indebolendo di giorno in giorno, e vi cresceva quella de' pontefici[2].
I Longobardi fecero, in diversi tempi, delle scorrerie
su queste terre; e tentarono anche d'impossessarsene stabilmente.
754
Astolfo, re de'
Longobardi, ne invade alcune, e minaccia il rimanente. Il papa
Stefano II si porta a Parigi, e chiede soccorso a Pipino, che unge
in re de' Franchi. Pipino scende in Italia; caccia Astolfo in Pavia,
dove lo assedia, e, per intercessione del papa, gli accorda un
trattato, in cui Astolfo giura di sgomberare le città occupate.
755
Ripartiti i Franchi,
Astolfo non mantiene il patto, anzi assedia Roma, e ne devasta i
contorni. Stefano ricorre di nuovo a Pipino: questo scende di nuovo:
Astolfo corre in fretta alle Chiuse dell'Alpi: Pipino le supera, e
spinge Astolfo in Pavia. Vicino a questa città, si presentarono a
Pipino due messi di Costantino Copronimo imperatore, a pregarlo, con
promesse di gran doni, che rimettesse all'Impero le città
dell’esarcato, che aveva riprese ai Longobardi. Ma Pipino rispose
che non avea combattuto per servire né per piacere agli uomini, ma
per divozione a San Pietro, e per la remissione de' suoi peccati; e
che, per tutto l'oro del mondo, non vorrebbe ritogliere a San Pietro
ciò che una volta gli aveva dato[3].
Così fu troncata brevemente nel fatto quella curiosa questione, sul
diritto della quale s'è disputato fino ai nostri giorni
inclusivamente: tanto l'ingegno umano si ferma con piacere in una
questione mal posta. Astolfo, stretto in Pavia, venne di nuovo a
patti, e rinnovò le vecchie promesse. Pipino se ne tornò in Francia,
e mandò al papa la donazione in iscritto.
756
Muore Astolfo: Desiderio,
nobile di Brescia[4],
duca longobardo, aspira al regno; raduna i Longobardi della Toscana,
dove si trovava, speditovi da Astolfo[5],
e viene da essi eletto re. Ratchis, quel fratello d'Astolfo, ch'era
stato re prima di lui, e s'era fatto monaco, ambisce di nuovo il
regno; esce dal chiostro, fa raccolta di uomini e va contro
Desiderio. Questo ricorre al papa ; il quale, fattogli promettere
che consegnerebbe le città già occupate da Astolfo, e non ancora
rilasciate[6],
consente a favorirlo, e consiglia a Ratchis di
ritornarsene a Montecassino. Ratchis ubbidisce e Desiderio rimane re
de' Longobardi.
Non si sa precisamente in
qual anno, ma certo in uno dei primi del suo regno, Desiderio fondò,
insieme con Ansa sua moglie, il monastero di San
Salvatore, che fu poi detto di Santa Giulia, in
Brescia: Ansberga, o Anselperga, figlia di Desiderio, ne fu la prima
badessa[7].
758
Alboino, duca di
Benevento, e Liutprando, duca di Spoleto, si ribellano a Desiderio,
mettendosi sotto la protezione di Pipino. Desiderio gli attacca, gli
sconfigge, fa prigioniero Alboino, e mette in fuga Liutprando[8].
In quest'anno, o nel seguente, fu associato al regno il
figliuolo di Desiderio, nelle lettere de' papi e nelle cronache
chiamato Adelgiso, Atalgiso, o anche Algiso, ma negli atti pubblici,
Adelchis.
Nell'anno 768 morì Pipino;
il regno de' Franchi fu diviso fra Carlo e Carlomanno suoi figli. Le
lettere a Pipino, di Paolo I e di Stefano III, successori di Stefano
II, sono piene di lamenti e di richiami contro Desiderio, il quale
non restituiva le città promesse, anzi faceva nuove occupazioni.
770
Bertrada, vedova di
Pipino, desiderosa di stringer legami d'amicizia tra la sua casa e
quella di Desiderio, viene in Italia, e propone due matrimoni: di
Desiderata o Ermengarda[9],
figlia di Desiderio, con uno de' suoi figli, e di Gisla
sua figlia con Adelchi. Stefano III scrive ai re Franchi la celebre
lettera, con la quale cerca di dissuaderli dal contrarre un tal
parentado[10].
Ciononostante, Bertrada condusse seco in Francia
Ermengarda; e Carlo, che fu poi detto il magno, la sposò[11].
Il matrimonio di Gisla con Adelchi non fu concluso.
771
Carlo, non si sa bene per
qual cagione, ripudia Ermengarda, e sposa Ildegarde, di nazione
Sveva[12].
La madre di Carlo biasimò il divorzio; e questo fu
cagione del solo dissapore che sia mai nato tra loro[13].
Muore Carlomanno: Carlo accorre a Carbonac nella Selva
Ardenna, al confine de' due regni: ottiene i voti degli elettori: è
nominato re in luogo del fratello; e riunisce così gli stati divisi
alla morte di Pipino. Gerberga, vedova di Carlomanno, fugge co' suoi
due figli, e con alcuni baroni, e si ricovera presso Desiderio.
Carlo ne fu punto sul vivo[14].
772
A Stefano III succede
Adriano. Desiderio gli spedisce un'ambasciata per chiedergli la sua
amicizia: il nuovo papa risponde che desidera stare in pace con quel
re, come con tutti i cristiani; ma che non vede come possa fidarsi
d'un uomo il quale non ha mai voluto adempir la promessa, fatta con
giuramento, di rendere alla Chiesa ciò che le appartiene. Desiderio
invade altre terre della Donazione[15].
FATTI COMPRESI NELL'AZIONE
DELLA TRAGEDIA
772-774
Mentre Carlo combatteva
contro i Sassoni, ai quali prese Eresburgo (secondo alcuni[16],
Stadtberg nella Vestfalia), Desiderio, per vendicarsi
di lui, e inimicarlo a un tempo col papa, pensò d'indur questo a
incoronar re de' Franchi i due figli di Gerberga; e gli propose, con
grande istanza, un abboccamento. Per un re barbaro e di tempi
barbari, il ritrovato non era senza merito. Ma Adriano si mostrò,
come doveva, allienissimo dal secondare un tal disegno; del resto,
disse d'esser pronto ad abboccarsi col re, dove a quei fosse
piaciuto, quando però fossero state restituite alla Chiesa le terre
occupate[17].
Desiderio ne invase dell'altre, e le mise a ferro e
fuoco[18].
In tali angustie, e dopo avere invano spedito
un'ambasciata, a supplicarlo e ad ammonirlo, Adriano mandò un legato
a chieder soccorso a Carlo[19].
Poco dopo, arrivarono a Roma tre inviati di questo,
Albino suo confidente[20],
Giorgio vescovo, e Wulfardo abate, per accertarsi se le
città della Chiesa erano state sgomberate, come Desiderio voleva far
credere in Francia. Il papa, quando partirono, mandò in loro
compagnia una nuova ambasciata, per fare un ultimo tentativo con
Desiderio; il quale, non potendo più ingannar nessuno, disse che non
voleva render nulla[21].
Con questa risposta i Franchi se ne tornarono a Carlo,
il quale svernava in Thionville; dove gli si presentò pure Pietro,
il legato d'Adriano[22].
Circa quel tempo, dovette
il re de' Franchi ricevere una men nobile ambasciata, inviatagli
segretamente da alcuni tra' principali longobardi, per invitarlo a
scendere in Italia, e ad impadronirsi del regno, promettendogli di
dargli in mano Desiderio o le sue ricchezze[23].
Carlo radunò il campo
di maggio, o, come lo chiamano alcuni annalisti, il sinodo,
in Ginevra; e la guerra vi fu decisa[24].
S'avviò quindi con l'esercito alle Chiuse d'Italia.
Erano queste una linea di mura, di bastite e di torri, verso lo
sbocco di Val di Susa, al luogo che serba ancora il nome di Chiusa.
Desiderio le aveva ristaurate e accresciute[25];
e accorse col suo esercito a difenderle. I Franchi di Carlo vi
trovarono molto maggior resistenza, che quelli di Pipino[26].
Il monaco della Novalesa, citato or ora, racconta che
Adelchi, robusto, come valoroso, e avvezzo a portare in battaglia
una mazza di ferro, gli appostava dalle Chiuse, e piombando loro
addosso all'improvviso, co' suoi, percoteva a destra e a sinistra, e
ne faceva gran macello[27].
Carlo, disperando di superare le Chiuse, né sospettando
che ci fosse altra strada per isboccare in Italia, aveva già
stabilito di ritornarsene[28],
quando arrivò al campo de' Franchi un diacono, chiamato Martino,
spedito da Leone, arcivescovo di Ravenna; e insegnò a Carlo il passo
per scendere in Italia. Questo Martino fu poi uno de' successori di
Leone su quella sede[29].
Mandò Carlo per luoghi
scoscesi una parte scelta dell'esercito, la quale riuscì alle spalle
de' Longobardi, e gli assalì; questi, sorpresi dalla parte dove non
avevano pensato a guardarsi, e essendo tra loro de' traditori, si
dispersero. Carlo entrò allora col resto de' suoi nelle Chiuse
abbandonate[30].
Desiderio, con parte di quelli che gli eran rimasti fedeli, corse a
chiudersi in Pavia; Adelchi in Verona, dove condusse Gerberga co'
figliuoli[31].
Molti degli altri Longobardi sbandati ritornarono alle
loro città: di queste alcune s'arresero a Carlo, altre si chiusero e
si misero in difesa. Tra quest'ultime fu Brescia, di cui era duca il
nipote di Desiderio, Poto, che, con inflessione leggiera, e conforme
alle variazioni usate nello scrivere i nomi germanici, è in questa
tragedia nominato Baudo. Questo, con Answaldo suo fratello, vescovo
della stessa città, si mise alla testa di molti nobili, e resistette
a Ismondo conte, mandato da Carlo a soggiogare quella città. Più
tardi, il popolo, atterrito dalle crudeltà che Ismondo esercitava
contro i resistenti che gli venivano nelle mani, costrinse i
due fratelli ad arrendersi[32].
Carlo mise l'assedio a
Pavia, fece venire al campo la nuova sua moglie, Ildegarde; e
vedendo che quella città non si sarebbe arresa così presto,
andò, con vescovi, conti e soldati, a Roma, per visitare i
limini apostolici e Adriano, dal quale fu accolto come un figlio
liberatore[33].
L'assedio di Pavia durò parte dell'anno 773 e del
seguente: non credo che si possa fissar più precisamente il tempo,
senza incontrar contradizioni tra i cronisti, e questioni inutili al
caso nostro, e forse insolubili. Ritornato Carlo al campo sotto
Pavia, i Longobardi, stanchi dall'assedio, gli apriron le porte[34].
Desiderio, consegnato da' suoi Fedeli al nemico[35] fu
condotto prigioniero in Francia, e confinato nel monastero di
Corbie, dove visse santamente il resto de' suoi giorni[36].
I Longobardi accorsero da tutte le parti a sottomettersi[37],
e a riconoscer Carlo per loro re. Non si sa bene quando
si presentasse sotto Verona: al suo avvicinarsi, Gerberga gli andò
incontro coi figli, e si mise nelle sue mani. Adelchi abbandonò
Verona, che s'arrese; e di là si rifugiò a Costantinopoli, dove,
accolto onorevolmente, si fermò: dopo vari anni, ottenne il comando
d'alcune truppe greche, sbarcò con esse in Italia[38],
diede battaglia ai Franchi, e rimase ucciso[39].
Nella tragedia, la fine di
Adelchi si è trasportata al tempo che uscì da Verona. Questo
anacronismo, e l'altro d'aver supposta Ansa già morta prima del
momento in cui comincia l'azione (mentre in realtà quella regina fu
condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono le due
sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e certi
della storia. Per ciò che riguarda la parte morale, s'è cercato
d'accomodare i discorsi de' personaggi all'azioni loro conosciute, e
alle circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d'un
personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di
fondamenti storici: i disegni d'Adelchi, i suoi giudizi sugli
avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è
inventato di pianta, e intruso tra i caratteri storici, con
un'infelicità, che dal più difficile e dal più malevolo lettore non
sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall'autore.
USANZE CARATTERISTICHE
ALLE QUALI SI ALLUDE NELLA TRAGEDIA.
ATTO I, Scena II, v. 149
Il segno dell'elezione de'
re longobardi era di mettere loro in mano un'asta[40].
SCENA III, v. 212
Alle giovani longobarde si
tagliavano i capelli quando andavano in marito: le nubili sono dette
nelle leggi: figlie in capelli[41].
Il Muratori dice, senza però addurne prove, ch'erano chiamate
intonse; e vuole che di qui sia venuta la voce tosa, che
vive ancora in qualche dialetto di Lombardia[42].
SCENA V, v. 335
Tutti i Longobardi in caso
di portar l'armi, e che possedevano un cavallo, eran tenuti a
marciare; il Giudice poteva dispensarne un piccolissimo numero[43].
ATTO III, SCENA I, v.
78
Ne' costumi germanici, il
dipendere personalmente da' principali era, già ai tempi di Tacito,
una distinzione ambita[44].
Questa dipendenza, nel medio evo, comprendeva il
servizio domestico e il militare; ed era un misto di sudditanza
onorevole e di devozione affettuosa. Quelli che esercitavano questa
condizione erano dai Longobardi chiamati Gasindi: ne' secoli
posteriori invalse il titolo domicellus; e di qui il
donzello, che è rimasto nella parte storica della lingua.
Questa condizione, diversa affatto dalla servile, si trova
ugualmente ne' secoli eroici; ed è una delle non poche somiglianze
che hanno quei tempi con quelli che Vico chiamò della barbarie
seconda. Patroclo, ancor giovinetto, dopo aver ucciso, in una
rissa, il figlio d'Anfidamante, è mandato da suo padre in rifugio in
casa del cavalier Peleo, il quale lo alleva, e lo mette al
servizio d'Achille, suo figlio[45].
SCENA IV, v. 212
L'omaggio si prestava dai
Franchi in ginocchio, e mettendo le mani in quelle del nuovo signore[46].
ATTO IV, SCENA II, v. 221
Una delle formalità del
giuramento presso i Longobardi, era di metter le mani su dell'armi,
benedette prima da un sacerdote[47].
CORO NELL'ATTO IV, ST. 7
Carlo, come i suoi
nazionali, era portato per la caccia[48].
Un poeta anonimo, suo contemporaneo, imitatore studioso di Virgilio,
come si poteva esserlo nel secolo IX, descrive lungamente una caccia
di Carlo, e le donne della famiglia reale, che la stanno guardando
da un'altura[49].
CORO SUDDETTO, ST. 10
Si dilettava anche molto
dei bagni d'acque termali: e perciò fece fabbricare il palazzo
d'Aquisgrana.[50]
Il vocabolo Fedele,
che torna spesso in questa tragedia, c'è sempre adoperato nel
senso che aveva ne' secoli barbari, cioè come un titolo di
vassallaggio. Non trovando altro vocabolo da sostituire, e per
evitar l'equivoco che farebbe col senso attuale, non s'è potuto far
altro che distinguerlo con l'iniziale grande. Drudo,
che aveva la stessa significazione, ed è d'evidente origine
germanica[51],
riuscirebbe più strano, essendo serbato a un senso ancor più
esclusivo. Nella lingua francese, il fidelis barbarico s'è
trasformato in féal, e c'è rimasto; e le cagioni della
differente fortuna di questo vocabolo nelle due lingue, si trovano
nella storia de' due popoli. Ma c'è pur troppo, tra quelle così
differenti vicende, una trista somiglianza: i Francesi hanno
conservato nel loro idioma questa parola a forza di lacrime e di
sangue; e a forza di lacrime e di sangue è stata cancellata dal
nostro.
PERSONAGGI
LONGOBARDI
DESIDERIO, re
ADELCHI, suo figlio, re
ERMENGARDA, figlia di
Desiderio
ANSBERGA, figlia di
Desiderio, badessa
VERMONDO, scudiero di
Desiderio
ANFRIDO, TEUDI, scudieri
d'Adelchi
BAUDO, duca di Brescia
GISELBERTO, duca di Verona
ILDECHI, INDOLFO,
FARVALDO,ERVIGO, GUNTIGI, duchi
AMRI, scudiero di Guntigi
SVARTO, soldato
FRANCHI
CARLO, re
ALBINO, legato
RUTLANDO, ARVINO, conti
LATINI
PIETRO, legato d'ADRIANO
papa
MARTINO, diacono di
Ravenna
DUCHI, SCUDIERI, SOLDATI
LONGOBARDI; DONZELLE, SUORE DEL MONASTERO DI SAN SALVATORE; CONTI E
VESCOVI FRANCHI; UN ARALDO
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Palazzo reale in Pavia
DESIDERIO, ADELCHI,
VERMONDO
VERMONDO
O mio re Desiderio, e tu
del regno
Nobil collega, Adelchi; il
doloroso
Ed alto ufizio che alla
nostra fede
Commetteste, è fornito.
All'arduo muro
Che Val di Susa chiude, e
dalla franca
La longobarda signoria
divide,
Come imponeste, noi
ristemmo; ed ivi,
Tra le franche donzelle, e
gli scudieri,
Giunse la nobilissima
Ermengarda;
E da lor mi divise, ed
alla nostra
Fida scorta si pose. I
riverenti
Lunghi commiati del
corteggio, e il pianto
Mal trattenuto in ogni
ciglio, aperto
mostrar che degni eran
color d'averla
Sempre a regina, e che de'
Franchi stessi
Complice alcuno in suo
pensier non era
Del vil rifiuto del suo
re; che vinti
Tutti i cori ella avea,
trattone un solo.
Compimmo il resto della
via. Nel bosco
Che intorno al vallo
occidental si stende,
La real donna or posa: io
la precorsi,
L'annunzio ad arrecar.
DESIDERIO
L'ira del cielo,
E l'abbominio della terra,
e il brando
Vendicator, sul capo
dell'iniquo,
Che pura e bella dalle man
materne
La mia figlia si prese, e
me la rende
Con l'ignominia d'un
ripudio in fronte!
Onta a quel Carlo, al
disleal, per cui
Annunzio di sventura al
cor d'un padre
È udirsi dir che la sua
figlia è giunta!
Oh! questo dì gli sia
pagato: oh! cada
Tanto in fondo costui, che
il più tapino,
L'ultimo de' soggetti si
sollevi
Dalla sua polve, e gli
s'accosti, e possa
Dirgli senza timor: tu
fosti un vile,
Quando oltraggiasti una
innocente.
ADELCHI
O padre,
Ch'io corra ad
incontrarla, e ch'io la guidi
Al tuo cospetto. Oh lassa
lei, che invano
Quel della madre cercherà!
Dolore
Sopra dolor! Su queste
soglie, ahi! troppe
Memorie acerbe
affolleransi intorno
A quell'anima offesa. Al
fiero assalto
Sprovveduta non venga, e
senta prima
Una voce d'amor che la
conforti.
DESIDERIO
Figlio, rimanti. E tu,
fedel Vermondo,
Riedi alla figlia mia;
dille che aperte
De' suoi le braccia ad
aspettarla stanno...
De' suoi, che il cielo in
questa luce ancora
Lascia. Tu al padre ed al
fratel rimena
Quel desiato volto. Alla
sua scorta
Due fidate donzelle, e
teco Anfrido
Saran bastanti: per la via
segreta
Al palazzo venite, e
inosservati
Quanto si puote: in più
drappelli il resto
Della gente dividi, e, per
diverse
Parti, gli invia dentro le
mura.
(Vermondo parte)
SCENA SECONDA
DESIDERIO, ADELCHI
DESIDERIO
Adelchi,
Che pensiero era il tuo?
Tutta Pavia
Far di nostr'onta testimon
volevi?
E la ria moltitudine a
goderne,
Come a festa, invitar?
Dimenticasti
Che ancor son vivi, che ci
stan d'intorno
Quei che le parti
sostenean di Rachi,
Quand'egli osò di
contrastarmi il soglio?
Nemici ascosi, aperti un
tempo; a cui
L'abbattimento delle
nostre fronti
È conforto e vendetta!
ADELCHI
Oh prezzo amaro
Del regno! oh stato, del
costor, di quello
De' soggetti più rio! se
anche il lor guardo
Temer ci è forza, ed
occultar la fronte
Per la vergogna; e se non
ci è concesso,
Alla faccia del sol, d'una
diletta
La sventura onorar!
DESIDERIO
Quando all'oltraggio
Pari fia la mercé, quando
la macchia
Fia lavata col sangue;
allor, deposti
I vestimenti del dolor,
dall'ombre
La mia figlia uscirà:
figlia e sorella
Non indarno di re, sovra
la folla
Ammiratrice, leverà la
fronte
Bella di gloria e di
vendetta. - E il giorno
Lungi non è; l'arme, io la
tengo; e Carlo,
Ei me la die': la vedova
infelice
Del fratel suo, di cui con
arti inique
Ei successor si feo,
quella Gerberga
Che a noi chiese un asilo,
e i figli all'ombra
Del nostro soglio ricovrò.
Quei figli
Noi condurremo al Tebro, e
per corteggio
un esercito avranno: al
Pastor sommo
Comanderem che le
innocenti teste
Unga, e sovr'esse
proferisca i preghi
Che danno ai Franchi un
re. Sul franco suolo
Li porterem dov'ebbe regno
il padre,
Ove han fautori a torme,
ove sopita
Ma non estinta in mille
petti è l'ira
Contro l'iniquo usurpator.
ADELCHI
Ma incerta
È la risposta d'Adrian? di
lui
Che stretto a Carlo di
cotanti nodi,
Voce udir non gli fa che
di lusinga
E di lode non sia, voce di
padre
Che benedice? A lui
vittoria e regno
E gloria, a lui l'alto
favor di Piero
Promette e prega; e in
questo punto ancora
I suoi legati accoglie, e
contro noi
Certo gl'implora; contro
noi la terra
E il santuario di querele
assorda
Per le città rapite.
DESIDERIO
Ebben, ricusi:
Nemico aperto ei fia;
questa incresciosa
Guerra eterna di lagni e
di messaggi
E di trame fia tronca; e
quella al fine
Comincerà dei brandi: e
dubbia allora
La vittoria esser può?
Quel dì che indarno
I nostri padri sospirar,
serbato
È a noi: Roma fia nostra:
e, tardi accorto,
Supplice invan, delle
terrene spade
Disarmato per sempre, ai
santi studi
Adrian tornerà; re delle
preci,
Signor del Sacrifizio, il
soglio a noi
Sgombro darà.
ADELCHI
Debellator de' Greci,
E terror de' ribelli, uso
a non mai
Tornar che dopo la
vittoria, innanzi
Alla tomba di Pier due
volte Astolfo
Piegò l'insegne, e si
fuggì; due volte
Dell'antico pontefice la
destra,
Che pace offrìa, respinse,
e sordo stette
All'impotente gemito.
Oltre l'Alpe
Fu quel gemito udito: a
vendicarlo
Pipin due volte le varcò:
que' Franchi
Da noi soccorsi tante
volte e vinti,
Dettaro i patti qui. Veggo
da questa
Reggia il pian vergognoso
ove le tende
Abborrite sorgean, dove
scorrea
L'ugna de' franchi
corridor.
DESIDERIO
Che parli
Or tu d'Astolfo e di
Pipin? Sotterra
Giacciono entrambi: altri
mortali han regno,
Altri tempi si volgono,
brandite
Sono altre spade. Eh! se
il guerrier che il capo
Al primo rischio offerse,
e il muro ascese,
Cadde e perì, gli altri
fuggir dovranno,
E disperar? Questi i
consigli sono
Del mio figliuol? Quel mio
superbo Adelchi
Dov'è, che imberbe ancor
vide Spoleti
Rovinoso venir, qual su la
preda
Giovinetto sparviero, e
nella strage
Spensierato tuffarsi, e su
la turba
De' combattenti sfolgorar,
siccome
Lo sposo nel convito?
Insiem col vinto
Duca ribelle ei ritornò:
sul campo,
Consorte al regno il
chiesi: un grido sorse
Di consenso e di plauso, e
nella destra
- Tremenda allor - l'asta
real fu posta.
Ed or quel desso altro
veder che inciampi
E sventure non sa? Dopo
una rotta
Così parlar non mi
dovresti. Oh cielo!
Chi mi venisse a riferir
che tali
Son di Carlo i pensier,
quali or gli scorgo
Nel mio figliuol, mi
colmeria di gioia.
ADELCHI
Deh! perché non è qui!
Perché non posso
In campo chiuso essergli a
fronte, io solo,
Io, fratel d'Ermengarda! e
al tuo cospetto,
Nel giudizio di Dio, nella
mia spada,
La vendetta ripor del
nostro oltraggio!
E farti dir, che troppo
presta, o padre,
Una parola dal tuo labbro
uscia!
DESIDERIO
Questa è voce d'Adelchi.
Ebben, quel giorno
Che tu brami, io
l'affretto.
ADELCHI
O padre, un altro
Giorno io veggo
appressarsi. Al grido imbelle,
Ma riverito, d'Adrian,
vegg'io
Carlo venir con tutta
Francia; e il giorno
Quello sarà de' successor
d'Astolfo
Incontro al figlio di
Pipin. Rammenta
Di chi siam re; che nelle
nostre file
Misti ai leali, e più di
lor fors'anco,
Sono i nostri nemici; e
che la vista
D'un'insegna straniera
ogni nemico
In traditor ti cangia. Il
core, o padre,
Basta a morir; ma la
vittoria e il regno
È pel felice che ai
concordi impera.
Odio l'aurora che
m'annunzia il giorno
Della battaglia, incresce
l'asta e pesa
Alla mia man, se nel
pugnar, guardarmi
Deggio dall'uom che mi
combatte al fianco.
DESIDERIO
Chi mai regnò senza
nemici? il core
Che importa? e re siam
dunque indarno? e i brandi
Tener chiusi dovrem nella
vagina
Infin che spento ogni
livor non sia?
Ed aspettar sul soglio
inoperosi
Chi ci percota? Havvi
altra via di scampo
Fuorché l'ardir? Tu, che
proponi alfine?
ADELCHI
Quel che, signor di gente
invitta e fida,
In un dì di vittoria, io
proporrei:
Sgombriam le terre de'
Romani; amici
Siam d'Adriano: ei lo
desia.
DESIDERIO
Perire,
Perir sul trono, o nella
polve, in pria
Che tanta onta soffrir.
Questo consiglio
Più dalle labbra non ti
sfugga: il padre
Te lo comanda.
SCENA TERZA
VERMONDO che precede
ERMENGARDA e DETTI, DONZELLE che l'accompagnano
VERMONDO
O
regi, ecco Ermengarda.
DESIDERIO
Vieni, o figlia; fa cor.
(Vermondo parte: le
Donzelle si scostano)
ADELCHI
Sei nelle braccia
Del fratel tuo, dinanzi al
padre, in mezzo
Ai fidi antichi tuoi; sei
nel palagio
De' re, nel tuo, più
riverita e cara
D'allor che ne partisti.
ERMENGARDA
Oh benedetta
Voce de' miei! Padre,
fratello, il cielo
Queste parole vi ricambi;
il cielo
Sia sempre a voi, quali
voi siete ad una
Vostra infelice. Oh! se
per me potesse
Sorgere un lieto dì,
questo sarebbe,
Questo, in cui vi riveggo
- Oh dolce madre!
Qui ti lasciai: le tue
parole estreme
Io non udii; tu qui morivi
- ed io...
Ah! di lassù certo or ci
guardi: oh! vedi;
Quella Ermengarda tua, che
di tua mano
Adornavi quel dì, con
tanta gioia,
Con tanta pièta, a cui tu
stessa il crine
Recidesti quel dì, vedi
qual torna!
E benedici i cari tuoi,
che accolta
Hanno così questa reietta.
ADELCHI
Ah! nostro
È il tuo dolor, nostro
l'oltraggio.
DESIDERIO
E nostro
Sarà il pensier della
vendetta.
ERMENGARDA
Oh padre,
Tanto non chiede il mio
dolor; l'obblìo
Sol bramo; e il mondo
volentier l'accorda
Agl'infelici; oh! basta;
in me finisca
La mia sventura. D'amistà,
di pace
Io la candida insegna
esser dovea:
Il ciel non volle: ah! non
si dica almeno
Ch'io recai meco la
discordia e il pianto
Dovunque apparvi, a tutti
a cui di gioia
Esser pegno dovea.
DESIDERIO
Di quell'iniquo
Forse il supplizio ti
dorrìa? quel vile,
Tu l'ameresti ancor?
ERMENGARDA
Padre, nel fondo
Di questo cor che vai
cercando? Ah! nulla
Uscir ne può che ti
rallegri: io stessa
Temo d'interrogarlo: ogni
passata
Cosa è nulla per me.
Padre, un estremo
Favor ti chieggio: in
questa corte, ov'io
Crebbi adornata di
speranze, in grembo
Di quella madre, or che
farei? ghirlanda
Vagheggiata un momento, in
su la fronte
Posta per gioco un dì
festivo, e tosto
Gittata a' piè del
passeggiero. Al santo
Di pace asilo e di pietà,
che un tempo
La veneranda tua consorte
ergea,
- Quasi presaga - ove la
mia diletta
Suora, oh felice! la sua
fede strinse
A quello Sposo che non mai
rifiuta,
lascia ch'io mi ricovri. A
quelle pure
Nozze aspirar più non
poss'io, legata
D'un altro nodo; ma non
vista, in pace
Ivi potrò chiudere i
giorni.
ADELCHI
Al vento
Questo presagio: tu
vivrai: non diede
Così la vita de' migliori
il cielo
All'arbitrio de' rei: non
e' in lor mano
Ogni speranza inaridir,
dal mondo
Tôrre ogni gioia.
ERMENGARDA
Oh! non avesse mai
Viste le rive del Ticin
Bertrada!
Non avesse la pia, del
longobardo
Sangue una nuora desiata
mai,
Né gli occhi vòlti sopra
me!
DESIDERIO
Vendetta,
Quanto lenta verrai!
ERMENGARDA
Trova il mio prego
grazia appo te?
DESIDERIO
Sollecito fu sempre
Consigliero il dolor più
che fedele,
E di vicende e di pensieri
il tempo
Impreveduto apportator. Se
nulla
Al tuo proposto ei muta,
alla mia figlia
Nulla disdir vogl'io.
SCENA QUARTA
ANFRIDO, e DETTI
DESIDERIO
Che rechi, Anfrido?
ANFRIDO
Sire, un legato è nella
reggia, e chiede
Gli sia concesso
appresentarsi ai regi.
DESIDERIO
Donde vien? Chi l'invia?
ANFRIDO
Da Roma ei viene,
Ma legato è d'un re.
ERMENGARDA
Padre, concedi
Ch'io mi ritragga.
DESIDERIO
O
donne, alle sue stanze
La mia figlia scorgete; a'
suoi servigi
Io vi destino: di regina
il nome
Abbia e l'onor.
(Ermengarda parte con le
Donzelle)
DESIDERIO
D'un re dicesti, Anfrido?
Un legato... di Carlo?
ANFRIDO
O re, l'hai detto.
DESIDERIO
Che pretende costui? quali
parole
Cambiar si ponno fra di
noi? qual patto
Che di morte non sia?
ANFRIDO
Di gran messaggio
Apportator si dice: ai
duchi intanto,
Ai conti, a quanti nella
reggia incontra,
Favella in atto di
blandir.
DESIDERIO
Conosco
L'arti di Carlo.
ADELCHI
Al
suo stromento il tempo
D'esercitarle non si dia.
DESIDERIO
Raduna
Tosto i Fedeli, Anfrido, e
in un con essi
Ei venga.
(Anfrido parte)
DESIDERIO
Il giorno
della prova è giunto:
Figlio, sei tu con me?
ADELCHI
Sì dura inchiesta
Quando, o padre, mertai?
DESIDERIO
Venuto è il giorno
Che un voler solo, un solo
cor domanda:
Dì, l'abbiam noi? Che
pensi far?
ADELCHI
Risponda
Il passato per me: gli
ordini tuoi
Attender penso, ed
eseguirli.
DESIDERIO
E quando
A' tuoi disegni opposti
sieno?
ADELCHI
O padre!
Un nemico si mostra, e tu
mi chiedi
Ciò ch'io farò? Più non
son io che un brando
Nella tua mano. Ecco il
legato: il mio
Dover fia scritto nella
tua risposta.
SCENA QUINTA
DESIDERIO, ADELCHI,
ALBINO,
FEDELI LONGOBARDI
DESIDERIO
Duchi, e Fedeli; ai vostri
re mai sempre
Giova compagni ne'
consigli avervi,
Come nel campo. -
Ambasciator, che rechi?
ALBINO
Carlo, il diletto a Dio
sire de' Franchi,
De' Longobardi ai re
queste parole
Manda per bocca mia:
Volete voi
Tosto le terre abbandonar
di cui
L'uomo illustre Pipin fe'
dono a Piero?
DESIDERIO
Uomini longobardi! in
faccia a tutto
Il popol nostro, testimoni
voi
Di ciò mi siate; se
dell'uom che questi
Or v'ha nomato, e ch'io
nomar non voglio,
Il messo accolsi, e la
proposta intesi,
Sacro dover di re solo
potea
Piegarmi a tanto. - Or tu,
straniero, ascolta.
Lieve domando il tuo non
è; tu chiedi
Il segreto de' re: sappi
che ai primi
Di nostra gente, a quelli
sol da cui
Leal consiglio ci
aspettiamo, a questi
Alfin che vedi intorno a
noi, siam usi
Di confidarlo: agli
stranier non mai.
Degna risposta al tuo
domando è quindi
Non darne alcuna.
ALBINO
E
tal risposta è guerra.
Di Carlo in nome io la
v'intimo, a voi
Desiderio ed Adelchi, a
voi che poste
Sul retaggio di Dio le
mani avete,
E contristato il Santo. A
questa illustre
Gente nemico il mio signor
non viene:
Campion di Dio, da Lui
chiamato, a Lui
Il suo braccio consacra; e
suo malgrado
Lo spiegherà contro chi
voglia a parte
Star del vostro peccato.
DESIDERIO
Al tuo re torna,
Spoglia quel manto che ti
rende ardito,
Stringi un acciar, vieni,
e vedrai se Dio
Sceglie a campione un
traditor. - Fedeli!
Rispondete a costui.
MOLTI FEDELI
Guerra!
ALBINO
E l'avrete,
E tosto, e qui: l'angiol
di Dio, che innanzi
Al destrier di Pipin corse
due volte,
Il guidator che mai non
guarda indietro,
Già si rimette in via.
DESIDERIO
Spieghi ogni duca
Il suo vessillo; della
guerra il bando
Ogni Giudice intìmi, e
l'oste aduni;
Ogni uom che nutre un
corridor, lo salga,
E accorra al grido de'
suoi re. La posta
È alle Chiuse dell'Alpi.
(al Legato)
Al re de' Franchi
Questo invito riporta.
ADELCHI
E digli ancora,
Che il Dio di tutti, il
Dio che i giuri ascolta
Che al debole son fatti, e
ne malleva
L'adempimento o la
vendetta, il Dio,
Di cui talvolta più si
vanta amico
Chi più gli è in ira, in
cor del reo sovente
Mette una smania, che alla
pena incontro
Correr lo fa; digli che
mal s'avvisa
Chi va de' brandi
longobardi in cerca,
Poi che una donna
longobarda offese.
(partono da un lato i re
con la più parte de' longobardi e dall'altro il legato)
SCENA SESTA
DUCHI rimasti
INDOLFO
Guerra, egli ha detto!
FARVALDO
In questa guerra è il fato
Del regno.
INDOLFO
E
il nostro.
ERVIGO
E inerti ad
aspettarlo
Staremci?
ILDECHI
Amici, di
consulte il loco
Questo non è. Sgombriam;
per vie diverse
Alla casa di Svarto ognuno
arrivi.
SCENA SETTIMA
Casa di SVARTO
SVARTO
Un messaggier di Carlo! Un
qualche evento,
Qual ch'ei pur sia,
sovrasta. - In fondo all'urna,
Da mille nomi ricoperto,
giace
Il mio; se l'urna non si
scote, in fondo
Si rimarrà per sempre; e
in questa mia
Oscurità morrò, senza che
alcuno
Sappia nemmeno ch'io
d'uscirne ardea.
- Nulla son io. Se in
questo tetto i grandi
S'adunano talor, quelli a
cui lice
Essere avversi ai re; se i
lor segreti
Saper m'è dato, è perché
nulla io sono.
Chi pensa a Svarto? chi
spiar s'affanna
Qual piede a questo
limitar si volga?
Chi m'odia? chi mi teme? -
Oh! se l'ardire
Desse gli onor! se non
avesse in pria
Comandato la sorte! e se
l'impero
Si contendesse a spade,
allor vedreste,
Duchi superbi, chi di noi
l'avria.
Se toccasse all'accorto! A
tutti voi
Io leggo in cor; ma il mio
v'è chiuso. Oh! quanto
Stupor vi prenderia,
quanto disdegno,
Se ci scorgeste mai che un
sol desio
A voi tutti mi lega, una
speranza...
D'esservi pari un dì! -
D'oro appagarmi
Credete voi. L'oro!
gittarlo al piede
Del suo minor, quello è
destin; ma inerme,
Umil tender la mano ad
afferrarlo,
Come il mendico...
SCENA OTTAVA
SVARTO, ILDECHI; poi altri
che sopraggiungono
ILDECHI
Il
ciel ti salvi, o Svarto:
Nessuno è qui?
SVARTO
Nessun. Qual nuove, o Duca?
ILDECHI
Gravi; la guerra abbiam
coi Franchi: il nodo
Si ravviluppa, o Svarto; e
fia mestieri
Sciorlo col ferro: il dì
s'appressa, io spero,
Del guiderdon per tutti.
SVARTO
Io nulla attendo,
Fuor che da voi.
ILDECHI
(a Farvaldo che
sopraggiunge)
Farvaldo, alcun ti segue?
FARVALDO
Vien su' miei passi
Indolfo.
ILDECHI
Eccolo.
INDOLFO
Amici!
ILDECHI
Vila! Ervigo!
(ad altri che entrano)
Fratelli! Ebben: supremo
È il momento, il vedete: i
vinti in questa
Guerra, qual siasi il
vincitor, siam noi,
Se un gran partito non si
prende. Arrida
La sorte ai re;
svelatamente addosso
Ci piomberan; Carlo
trionfi; in preso
Regno, che posto ci riman?
Con uno
De' combattenti è forza
star. - Credete
Che in cor di questi re
siavi un perdono
Per chi voleva un altro
re?
INDOLFO
Nessuna
Pace con lor.
ALTRI DUCHI
Nessuna!
ILDECHI
È d'uopo un patto
Stringer con Carlo.
FARVALDO
Al
suo legato...
ERVIGO
È cinto
Dagli amici de' regi; io
vidi Anfrido
Porglisi al fianco: e fu
pensier d'Adelchi.
ILDECHI
Vada adunque un di noi;
rechi le nostre
Promesse a Carlo, e con le
sue ritorni,
O le rimandi.
INDOLFO
Bene sta.
ILDECHI
Chi piglia
Quest'impresa?
SVARTO
Io
v'andrò. Duchi, m'udite.
Se alcun di voi quinci
sparisce, i guardi
Fieno intesi a cercarlo;
ed il sospetto
Cercherà l'orme sue, fin
che le scopra.
Ma che un gregario
cavalier, che Svarto
Manchi, non fia che più
s'avvegga il mondo,
Che d'un pruno scemato
alla foresta.
Se alla chiamata alcun mi
noma, e chiede:
Dov'è? dica un di voi:
Svarto? io lo vidi
Scorrer lungo il Ticino;
il suo destriero
Imbizzarrì, giù
dall'arcion nell'onda
Lo scosse; armato egli
era, e più non salse.
Sventurato! diranno; e più
di Svarto
Non si farà parola. A voi
non lice
Inosservati andar: ma nel
mio volto
Chi fisserà lo sguardo? Al
calpestio
Del mio ronzin che solo
arrivi, appena
Qualche Latin fia che si
volga; e il passo
Tosto mi sgombrerà.
ILDECHI
Svarto, io da tanto
Non ti credea.
SVARTO
Necessità lo zelo
Rende operoso; e ad
arrecar messaggi
Non è mestier che di
prontezza.
ILDECHI
Amici!
Ch'ei vada?
I DUCHI
Ei
vada.
ILDECHI
Al di novello in pronto
Sii, Svarto; e in un gli
ordini nostri il fieno.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Campo de' Franchi in Val
di Susa
CARLO, PIETRO
PIETRO
Carlo invitto, che udii?
Toccato ancora
Il suol non hai dove il
secondo regno
Il Signor ti destina; e di
ritorno
Per tutto il campo si
bisbiglia! Oh! possa,
Dal tuo labbro real tosto
smentita,
L'empia voce cader! L'età
ventura
Non abbia a dir che sul
principio tronca
Giacque un'impresa
risoluta in cielo,
Abbracciata da te. No;
ch'io non torni
Al Pastor santo, e debba
dirgli: il brando,
Che suscitato Iddio
t'avea, ricadde
Nella guaina; il tuo gran
figlio volle,
Volle un momento, e
disperò.
CARLO
Quant'io
Per la salvezza di tal
padre oprai,
Uomo di Dio, tu lo
vedesti, il vide
Il mondo, e fede ne farà.
Di quello
Che resti a far, dal mio
desir consiglio
Non prenderò, quando m'ha
dato il suo
Necessità. L'Onnipotente è
un solo.
Quando all'orecchio mi
pervenne il grido
Del Pastor minacciato, io,
su gl'infranti
Idoli vincitor, dietro
l'infido
Sassone camminava; e la
sua fuga
Mi batteva la via;
ristetti in mezzo
Della vittoria, e
patteggiai là dove
Tre dì più tardi comandar
potea.
Tenni il campo in Ginevra;
al voler mio
Ogni voler piegò; Francia
non ebbe
Più che un affar; tutta si
mosse, al varco
D'Italia s'affacciò
volenterosa,
Come al racquisto di sue
terre andria.
Ora, a che siam tu il
vedi: il varco è chiuso.
Oh! se frapposti tra il
conquisto e i Franchi
Fosser uomini sol, questa
parola
Il re de' Franchi proferir
potrebbe:
Chiusa è la via? Natura al
mio nemico
Il campo preparò, gli
abissi intorno
Gli scavò per fossati; e
questi monti,
Che il Signor fabbricò,
son le sue torri
E i battifredi: ogni più
picciol varco
Chiuso è di mura, onde
insultare ai mille
Potrieno i dieci, ed ai
guerrier le donne.
- Già troppo, in opra ove
il valer non basta,
Di valenti io perdei:
troppo, fidando
Nel suo vantaggio, il
fiero Adelchi ha tinta
Di Franco sangue la sua
spada. Ardito
Come un leon presso la
tana, ei piomba,
Percote, e fugge. Oh ciel!
più volte io stesso,
Nell'alta notte visitando
il campo,
Fermo presso le tende,
udii quel nome
Con terror proferito. I
Franchi miei
Ad una scola di terror più
a lungo
Io non terrò. S'io del
nemico a fronte
Venir poteva in campo
aperto, oh! breve
Era questa tenzon, certa
l'impresa...
Fin troppo certa per la
gloria. E Svarto,
Un guerrier senza nome, un
fuggitivo,
L'avria con me divisa, ei
che già vinti
Mi rassegnò tanti nemici.
Un giorno,
Men che un giorno bastava:
Iddio mel niega.
Non se ne parli più.
PIETRO
Re, all'umil servo
Di Colui che t'elesse, e
pose il regno
Nella tua casa, non vorrai
tu i preghi
Anco inibir. Pensa a che
man tu lasci
Quel che padre tu nomi. Il
suo nemico
Già provocato a guerra
avevi, in armi
Già tu scendevi, e ancor
di rabbia insano,
Più che di tema, il crudo
veglio al santo
Pastor mandava ad intimar,
che ai Franchi
Desse altri re: - tu li
conosci. - Ei tale
Mandò risposta a quel
tiranno: immota
Sia questa man per sempre;
inaridisca
Il crisma santo su l'altar
di Dio,
Pria che, sparso da me,
seme diventi
Di guerra contro il
figliuol mio. - T'aiti
Quel tuo figliuol, fe'
replicargli il rege;
Ma pensa ben, che, s'ei ti
manca un giorno,
Fia risoluta fra noi due
la lite".
CARLO
A che ritenti questa
piaga? In vani
Lamenti vuoi che anch'io
mi perda? o pensi
Che abbia Carlo mestier di
sproni al fianco?
- È in periglio Adrian;
forse è mestieri
Che altri a Carlo il
rimembri? Il vedo, il sento;
E non è detto di mortal
che possa
Crescere il cruccio che il
mio cor ne prova.
Ma superar queste bastite,
al suo
Scampo volar... de'
Franchi il re nol puote.
Detto io te l'ho; né
volentier ripeto
Questa parola. - Io da'
miei Franchi ottenni
Tutto finor, perché sol
grandi io chiesi
E fattibili cose. All'uom
che stassi
Fuor degli eventi e guata,
arduo talvolta
Ciò ch'è più lieve appar,
lieve talvolta
Ciò che la possa de'
mortali eccede.
Ma chi tenzona con le
cose, e deve
Ciò ch'egli agogna
conseguir con l'opra,
Quei conosce i momenti. -
E che potea
Io far di più? Pace al
nemico offersi,
Sol che le terre dei
Romani ei sgombri;
Oro gli offersi per la
pace; e l'oro
Ei ricusò! Vergogna! a
ripararla
Sul Vèsero ne andrò.
SCENA SECONDA
ARVINO, e DETTI
ARVINO
Sire, nel campo
Un uom latino è giunto, e
il tuo cospetto
Chiede.
PIETRO
Un Latin?
CARLO
Donde arrivò? Le Chiuse
Come varcò?
ARVINO
Per calli sconosciuti,
Declinandole, ei venne; e
a te si vanta
Grande avviso recar.
CARLO
Fa' ch'io gli parli.
(Arvino parte)
E tu meco l'udrai. Nulla
intentato
Per la salvezza d'Adriano
io voglio
Lasciar: di questo
testimon ti chiamo.
SCENA TERZA
MARTINO introdotto da
ARVINO, e DETTI
(Arvino si ritira)
CARLO
Tu se' latino, e qui? tu
nel mio campo,
Illeso, inosservato?
MARTINO
Inclita speme
Dell'ovil santo e del
Pastor, ti veggo;
E de' miei stenti e de'
perigli è questa
Ampia mercé; ma non è
sola. Eletto
A strugger gli empi! ad
insegnarti io vengo
La via.
CARLO
Qual via?
MARTINO
Quella ch'io feci.
CARLO
E come
Giungesti a noi? Chi se'?
Donde l'ardito
Pensier ti venne?
MARTINO
All'ordin sacro ascritto
De' diaconi io son:
Ravenna il giorno
Mi dié: Leone, il suo
Pastor, m'invia.
Vanne, ei mi disse, al
salvator di Roma;
Trovalo: Iddio sia teco; e
s'Ei di tanto
Ti degna, al re sii
scorta: a lui di Roma
Presenta il pianto, e
d'Adrian.
CARLO
Tu vedi
Il suo legato.
PIETRO
Ch'io la man ti stringa,
Prode concittadino: a noi
tu giungi
Angel di gioia.
MARTINO
Uom peccator son io;
Ma la gioia è dal cielo, e
non fia vana.
CARLO
Animoso Latin, ciò che
veduto,
Ciò che hai sofferto, il
tuo cammino e i rischi,
Tutto mi narra.
MARTINO
Di
Leone al cenno,
Verso il tuo campo io mi
drizzai; la bella
Contrada attraversai, che
nido è fatta
Del Longobardo e da lui
piglia il nome.
Scorsi ville e città, sol
di latini
Abitatori popolate: alcuno
Dell'empia razza a te
nemica e a noi
Non vi riman, che le
superbe spose
De' tiranni e le madri, ed
i fanciulli
Che s'addestrano all'armi,
e i vecchi stanchi,
Lasciati a guardia de'
cultor soggetti,
Come radi pastor di folto
armento.
Giunsi presso alle Chiuse:
ivi addensati
Sono i cavalli e l'armi;
ivi raccolta
Tutta una gente sta,
perché in un colpo
Strugger la possa il
braccio tuo.
CARLO
Toccasti,
Il campo lor? qual è? che
fan?
MARTINO
Securi
Da quella parte che
all'Italia è volta,
Fossa non hanno, né ripar,
né schiere
In ordinanza: a fascio
stanno; e solo
Si guardan quinci, donde
solo han tema
Che tu attinger li possa.
A te, per mezzo
Il campo ostil, quindi
venir non m'era
Possibil cosa; e nol
tentai; ché cinto
Al par di rocca è questo
lato; e mille
Volte nemico tra costor
chiarito
M'avria la breve chioma,
il mento ignudo,
L'abito, il volto ed il
sermon latino.
Straniero ed inimico,
inutil morte
Trovato avrei; reddir
senza vederti
M'era più amaro che il
morir. Pensai
Che dall'aspetto salvator
di Carlo
Un breve tratto mi partia:
risolsi
La via cercarne, e la
rinvenni.
CARLO
E come
Nota a te fu? come al
nemico ascosa?
MARTINO
Dio gli accecò. Dio mi
guidò. Dal campo
Inosservato uscii; l'orme
ripresi
Poco innanzi calcate; indi
alla manca
Piegai verso aquilone, e
abbandonando
I battuti sentieri, in
un'angusta
Oscura valle m'internai:
ma quanto
Più il passo procedea,
tanto allo sguardo
Più spaziosa ella si fea.
Qui scorsi
Gregge erranti e tuguri:
era codesta
L'ultima stanza de'
mortali. Entrai
Presso un pastor, chiesi
l'ospizio, e sovra
Lanose pelli riposai la
notte.
Sorto all'aurora, al buon
pastor la via
Addimandai di Francia. -
Oltre quei monti
Sono altri monti, ei
disse, ed altri ancora;
E lontano lontan Francia;
ma via
Non avvi; e mille son que'
monti, e tutti
Erti, nudi, tremendi,
inabitati,
Se non da spirti, ed uom
mortal giammai
Non li varcò. - Le vie di
Dio son molte,
Più assai di quelle del
mortal, risposi;
E Dio mi manda. - E Dio ti
scorga, ei disse:
Indi, tra i pani che
teneva in serbo,
Tanti pigliò di quanti un
pellegrino
Puote andar carco; e, in
rude sacco avvolti,
Ne gravò le mie spalle: il
guiderdone
Io gli pregai dal cielo, e
in via mi posi.
Giunsi in capo alla valle,
un giogo ascesi,
E in Dio fidando, lo
varcai. Qui nulla
Traccia d'uomo apparia;
solo foreste
D'intatti abeti, ignoti
fiumi, e valli
Senza sentier: tutto
tacea; null'altro
Che i miei passi io
sentiva, e ad ora ad ora
Lo scrosciar dei torrenti,
o l'improvviso
Stridir del falco, o
l'aquila, dall'erto
Nido spiccata sul mattin,
rombando
Passar sovra il mio capo,
o, sul meriggio,
Tocchi dal sole, crepitar
del pino
Silvestre i coni. Andai
così tre giorni;
E sotto l'alte piante, o
ne' burroni
Posai tre notti. Era mia
guida il sole;
Io sorgeva con esso, e il
suo viaggio
Seguia, rivolto al suo
tramonto. Incerto
Pur del cammino io gìa, di
valle in valle
Trapassando mai sempre; o
se talvolta
D'accessibil pendio
sorgermi innanzi
Vedeva un giogo, e
n'attingea la cima,
Altre più eccelse cime,
innanzi, intorno
Sovrastavanmi ancora;
altre, di neve
Da sommo ad imo
biancheggianti, e quasi
Ripidi, acuti padiglioni,
al suolo
Confitti; altre ferrigne,
erette a guisa
Di mura insuperabili. -
Cadeva
Il terzo sol quando un
gran monte io scersi,
Che sovra gli altri ergea
la fronte, ed era
Tutto una verde china, e
la sua vetta
Coronata di piante. A
quella parte
Tosto il passo io rivolsi.
- Era la costa
Oriental di questo monte
istesso,
A cui, di contro al sol
cadente, il tuo
Campo s'appoggia, o sire.
- In su le falde
Mi colsero le tenebre: le
secche
Lubriche spoglie degli
abeti, ond'era
Il suol gremito, mifur
letto, e sponda
Gli antichissimi tronchi.
Una ridente
Speranza, all'alba,
risvegliommi; e pieno
Di novello vigor la costa
ascesi.
Appena il sommo ne toccai,
l'orecchio
Mi percosse un ronzio che
di lontano
Parea venir, cupo,
incessante; io stetti,
Ed immoto ascoltai. Non
eran l'acque
Rotte fra i sassi in giù;
non era il vento
Che investia le foreste,
e, sibilando,
D'una in altra scorrea, ma
veramente
Un rumor di viventi, un
indistinto
Suon di favelle e d'opre e
di pedate
Brulicanti da lungi, un
agitarsi
D'uomini immenso. Il cuor
balzommi; e il passo
Accelerai. Su questa, o
re, che a noi
Sembra di qui lunga ed
acuta cima
Fendere il ciel, quasi
affilata scure,
Giace un'ampia pianura, e
d'erbe è folta,
Non mai calcate in pria.
Presi di quella
Il più breve tragitto: ad
ogni istante
Si fea il rumor più
presso: divorai
L'estrema via: giunsi
sull'orlo: il guardo
Lanciai giù nella valle, e
vidi... oh! vidi
Le tende d'Israello, i
sospirati
Padiglion di Giacobbe: al
suol prostrato,
Dio ringraziai, li
benedissi, e scesi.
CARLO
Empio colui che non vorrà
la destra
Qui riconoscer
dell'Eccelso!
PIETRO
E quanto
Più manifesta apparirà
nell'opra,
A cui l'Eccelso ti
destina!
CARLO
Ed io
La compirò.
(a Martino)
Pensa, o Latino, e certa
Sia la risposta: a
cavalieri il passo
Dar può la via che
percorresti?
MARTINO
Il puote.
E a che l'avrebbe
preparata il Cielo?
Per chi, signor? perché un
mortale oscuro
Al re de' Franchi narrator
venisse
D'inutile portento?
CARLO
Oggi a riposo
Nella mia tenda rimarrai:
sull'alba,
Ad un'eletta di guerrier
tu scorta
Per quella via sarai. -
Pensa, o valente,
Che il fior di Francia
alla tua scorta affido.
MARTINO
Con lor sarò: di mie
promesse pegno
Il mio capo ti fia.
CARLO
Se
di quest'alpe
Mi sferro alfine, e
vincitore al santo
Avel di Piero, al desiato
amplesso
Del gran padre Adrian
giunger m'è dato,
Se grazia alcuna al suo
cospetto un mio
Prego aver può, le
pastorali bende
Circonderan quel capo; e
faran fede
In quanto onor Carlo lo
tenga. - Arvino!
(entra Arvino)
I Conti e i Sacerdoti.
(al legato e a Martino)
E voi, le mani
Alzate al Ciel; le grazie
a lui rendute
Preghiera sian che favor
novo impetri.
(partono il Legato e
Martino)
SCENA QUARTA
CARLO
Così, Carlo reddiva. Il
riso amaro
Del suo nemico e dell'età
ventura
Gli stava innanzi; ma
l'avea giurato,
Egli in Francia reddia. -
Qual de' miei prodi,
Qual de' miei fidi, per
consiglio o prego,
Smosso m'avria dal mio
proposto? E un solo,
Un uom di pace, uno
stranier, m'apporta
Novi pensier! No: quei che
in petto a Carlo
Rimette il cor, non è
costui. La stella
Che scintillava al mio
partir, che ascosa
Stette alcun tempo, io la
riveggo. Egli era
Un fantasma d'error quel
che parea
Dall'Italia rispingermi;
bugiarda
Era la voce che diceami in
core:
No, mai, no, rege esser
non puoi nel suolo
Ove nacque Ermengarda. -
Oh! del tuo sangue
Mondo son io; tu vivi: e
perché dunque
Ostinata così mi stavi
innanzi,
Tacita, in atto di
rampogna, afflitta,
Pallida, e come dal
sepolcro uscita?
Dio riprovata ha la tua
casa, ed io
Starle unito dovea? Se
agli occhi miei
Piacque Ildegarde, al
letto mio compagna
Non la chiamava alta
ragion di regno?
Se minor degli eventi è il
femminile
Tuo cor, che far poss'io?
Che mai faria
Colui che tutti, pria
d'oprar, volesse
Prevedere i dolori? Un re
non puote
Correr l'alta sua via,
senza che alcuno
Cada sotto il suo piè.
Larva cresciuta
Nel silenzio e nell'ombra,
il sol si leva,
Squillan le trombe; ti
dilegua.
SCENA QUINTA
CARLO, CONTI e VESCOVI
CARLO
A dura
Prova io vi posi, o miei
guerrier; vi tenni
A perigli ozïosi, a
patimenti
Che parean senza onor: ma
voi fidaste
Nel vostro re, voi gli
ubbidiste come
In un dì di battaglia. Or
della prova
È giunto il fine; e un
guiderdon s'appressa
Degno de' Franchi. Al sol
nascente, in via
Una schiera porrassi. -
Eccardo, il duce
Tu ne sarai. -
Dell'inimico in cerca
N'andranno, e tosto il
giungeran là dove
Ei men s'aspetta. Ordin
più chiari, Eccardo,
Io ti darò. Nel longobardo
campo
Ho amici assai; come li
scerna, e d'essi
Ti valga, udrai. Da queste
Chiuse il resto
Voi sniderete di leggier:
noi tosto
Le passerem senza
contrasto, e tutti
Ci rivedremo in campo
aperto. - Amici!
Non più muraglie, né
bastie, né frecce
Da' merli uscite, e
feritor che rida
Da' ripari impunito, o che
improvviso
Piombi su noi; ma insegne
aperte al vento,
Destrier contra destrier,
genti disperse
Nel piano, e petti non da
noi più lunge
Che la misura d'una
lancia. Il dite
A' miei soldati; dite lor,
che lieto
Vedeste il re, siccome il
dì che certa
La vittoria predisse in
Eresburgo;
Che sian pronti a pugnar;
che di ritorno
Si parlerà dopo il
conquisto, e quando
Fia diviso il bottin. Tre
giorni; e poi
La pugna e la vittoria;
indi il riposo
Là nella bella Italia, in
mezzo ai campi
Ondeggianti di spighe, e
ne' frutteti
Carchi di poma ai padri
nostri ignote;
Fra i tempii antichi e gli
atrii, in quella terra
rallegrata dai canti, al
sol diletta,
Che i signori del mondo in
sen racchiude,
E i martiri di Dio; dove
il supremo
Pastore alza le palme, e
benedice
Le nostre insegne; ove
nemica abbiamo
Una piccola gente, e
questa ancora
Tra sé divisa, e mezza
mia; la stessa
Gente su cui due volte il
mio gran padre
Corse; una gente che si
scioglie. Il resto
Tutto è per noi, tutto ci
aspetta. - Intento,
Dalle vedette sue, miri il
nemico
Moversi il nostro campo; e
si rallegri.
Sogni il nostro fuggir,
sogni del tempio
La scellerata preda, in
sua man servo
Sogni il sommo Levita, il
comun padre,
Il nostro amico, in fin
che giunga Eccardo,
Risvegliator non
aspettato. - E voi,
Vescovi santi e Sacerdoti,
al campo
Intimate le preci. A Dio
si voti
Questa impresa, ch'è sua.
Come i miei Franchi,
Umiliati nella polve,
innanzi
Al Re de' regi abbasseran
la fronte,
Tale i nemici innanzi a
lor nel campo.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Campo de' Longobardi.
Piazza dinanzi alla tenda di Adelchi
ADELCHI, ANFRIDO
ANFRIDO (che
sopraggiunge)
Signor!
ADELCHI
Diletto
Anfrido; ebben, che fanno
Codesti Franchi? non dan
segno ancora
Le tende al tutto di
levar?
ANFRIDO
Nessuno
Finora: immoti tuttavia si
stanno,
Quali sull'alba li
vedesti, quali
Son da tre dì, poi che le
prime schiere
Cominciar la ritratta. Una
gran parte
Scorsi del vallo,
esaminando; ascesi
Una torre, e guatai:
stretti li vidi
In ordinanza, folti,
all'erta, in atto
Di chi assalir non pensa,
ed in sospetto
Sta d'un assalto; e più si
guarda, quanto
Più scemato è di forze; e
senza offesa
Ritrarsi agogna, ed il
momento aspetta.
ADELCHI
E lo potrà, pur troppo! Ei
parte, il vile
Offensor d'Ermengarda, ei
che giurava
Di spegner la mia casa; ed
io non posso
Spingergli addosso il mio
destrier, tenerlo,
Dibattermi con esso. e
riposarmi
Sull'armi sue! Non posso!
In campo aperto
Stargli a fronte, non
posso! In queste Chiuse,
La fé de' pochi che a
guardarle io scelsi,
Il cor di quelli ch'io
prendea tra i pochi,
Compagni alle sortite,
alla salvezza
Poté bastar d'un regno: i
traditori
Stetter lontani dalla
pugna, inerti,
Ma contenuti. In campo
aperto, al Franco
Abbandonato da costor
sarei,
Solo coi pochi. Oh vil
trionfo! Il messo
Che mi dirà: Carlo è
partito, un lieto
Annunzio mi darà: gioia mi
fia
Che lunge ei sia dalla mia
spada!
ANFRIDO
O dolce
Signor, ti basti questa
gloria. Come
Un vincitor sopra la
preda, ei scese
Su questo regno, e vinto
or torna; ei vinto
Si confessò quando implorò
la pace,
Quando il prezzo ne
offerse; e tu sei quello
Che l'hai respinto. Il
padre tuo n'esulta;
Tutto il campo il
confessa: i fidi tuoi
Alteri van della tua
gloria, alteri
Di dividerla teco; e quei
codardi
Che a non amarti si
dannar, temerti
Dovranno or più che mai.
ADELCHI
La gloria? il mio
Destino è d'agognarla, e
di morire
Senza averla gustata. Ah
no! codesta
Non è ancor gloria,
Anfrido. Il mio nemico
Parte impunito; a nuove
imprese ei corre;
Vinto in un lato, ei di
vittoria altrove
Andar può in cerca; ei che
su un popol regna
D'un sol voler, saldo,
gittato in uno,
Siccome il ferro del suo
brando; e in pugno
Come il brando lo tiensi.
Ed io sull'empio
Che m'offese nel cor, che
per ammenda
Il mio regno assalì,
compier non posso
La mia vendetta! Un'altra
impresa, Anfrido,
Che sempre increbbe al mio
pensier, né giusta
Né gloriosa, si presenta;
e questa
Certa ed agevol fia.
ANFRIDO
Torna agli antichi
Disegni il re?
ADELCHI
Dubbiar ne puoi? Securo
Dalle minacce d'esti
Franchi, incontro
L'apostolico sire il campo
tosto
Ei moverà: noi guiderem
sul Tebro
Tutta Longobardia, pronta,
concorde
Contro gl'inermi, e fida
allor che a certa
E facil preda la conduci.
Anfrido,
Qual guerra! e qual
nemico! Ancor ruine
Sopra ruine ammucchierem:
l'antica
Nostr'arte è questa: ne'
palagi il foco
Porremo e ne' tuguri;
uccisi i primi,
I signori del suolo, e
quanti a caso
Nell'asce nostre ad
inciampar verranno,
Fia servo il resto, e tra
di noi diviso;
E ai più sleali e più
temuti, il meglio
Toccherà della preda. -
Oh! mi parea,
Pur mi parea che ad altro
io fossi nato,
Che ad esser capo di
ladron; che il cielo
Su questa terra altro da
far mi desse
Che, senza rischio e senza
onor, guastarla.
- O mio diletto! O de'
miei giorni primi,
De' giochi miei, dell'armi
poi, de' rischi
Solo compagno e de'
piacer; fratello
Della mia scelta, innanzi
a te soltanto
Tutto vola sui labbri il
mio pensiero.
Il mio cor m'ange,
Anfrido: ei mi comanda
Alte e nobili cose; e la
fortuna
Mi condanna ad inique; e
strascinato
Vo per la via ch'io non mi
scelsi, oscura,
Senza scopo; e il mio cor
s'inaridisce,
Come il germe caduto in
rio terreno,
E balzato dal vento.
ANFRIDO
Alto infelice!
Reale amico! Il tuo fedel
t'ammira,
E ti compiange. Toglierti
la tua
Splendida cura non
poss'io, ma posso
Teco sentirla almeno. Al
cor d'Adelchi
Dir che d'omaggi, di
potenza e d'oro
Sia contento, il poss'io?
dargli la pace
De' vili, il posso? e lo
vorrei, potendo?
- Soffri e sii grande: il
tuo destino è questo,
Finor: soffri, ma spera:
il tuo gran corso
Comincia appena; e chi sa
dir, quai tempi,
Quali opre il cielo ti
prepara? Il cielo
Che re ti fece, ed un tal
cor ti diede.
SCENA SECONDA.
ADELCHI, DESIDERIO
(Anfrido si ritira)
DESIDERIO
Figlio, a te, rege qual
son io, m'è tolto
Esser largo d'onor: farti
più grande
Nessun mortale il può; ma
un premio io tengo
Caro alla tua pietà, la
gioia e l'alte
Lodi d'un padre. Salvator
d'un regno,
La tua gloria or comincia:
altro più largo
E agevol campo le si
schiude. I dubbi,
Ed il timor, che a' miei
disegni un giorno
Tu frapponevi, ecco, gli
ha sciolti il tuo
Braccio; ogni scusa il tuo
valor ti fura.
Dissipator di Francia! io
ti saluto
Conquistator di Roma: al
nobil serto
Che non intero mai passò
sul capo
Di venti re, tu di tua man
porrai
L'ultima fronda, e la più
bella.
ADELCHI
A quale
Tu vogli impresa, il tuo
guerriero, o padre,
Ubbidiente seguiratti.
DESIDERIO
E a tanto
Acquisto, o figlio,
ubbidienza sola
Spinger ti può?
ADELCHI
Questa è in mia mano; e intera
L'avrai, fin ch'io
respiro.
DESIDERIO
Ubbidiresti
Biasmando?
ADELCHI
Ubbidirei.
DESIDERIO
Gloria e tormento
Della canizie mia, braccio
del padre
Nella battaglia, e ne'
consigli inciampo!
Sempre così, sempre fia
d'uopo a forza
Traggerti alla vittoria?
SCENA TERZA
Uno SCUDIERO frettoloso e
atterrito, e DETTI
LO SCUDIERO
I Franchi! i Franchi!
DESIDERIO
Che dici, insano?
UN ALTRO SCUDIERO
I
Franchi, o re.
DESIDERIO
Che Franchi?
(la scena s'affolla di
Longobardi fuggitivi) (entra Baudo)
ADELCHI
Baudo, che fu?
BAUDO
Morte e sventura! Il campo
È invaso e rotto d'ogni
parte: al dorso
Piombano i Franchi ad
assalirci.
DESIDERIO
I Franchi!
Per qual via?
BAUDO
Chi lo sa?
ADELCHI
Corriamo; ei fia
Un drappello sbandato.
(in atto di partire)
BAUDO
Un'oste intera:
Gli sbandati siam noi:
tutto è perduto.
DESIDERIO
Tutto è perduto?
ADELCHI
Ebben, compagni, i Franchi?
Non siamo noi qui per
essi? Andiam: che importa
Da che parte sian giunti?
I nostri brandi,
Per riceverli, abbiamo. I
brandi in pugno!
Ei gli han provati: è una
battaglia ancora:
Non v'è sorpresa pel
guerrier: tornate;
Via, Longobardi, indietro;
ove correte,
Per Dio? La via che avete
presa è infame:
Il nemico è di là. Seguite
Adelchi.
(entra Anfrido)
Anfrido!
ANFRIDO
O re, son
teco.
ADELCHI (avviandosi)
O padre; accorri.
Veglia alle Chiuse.
(parte seguito da Anfrido,
da Baudo e da alcuni Longobardi)
DESIDERIO (ai fuggitivi
che attraversano la scena)
Sciagurati! almeno
Alle Chiuse con me: se
tanto a core
Vi sta la vita, ivi son
torri e mura
Da porla in salvo.
(sopraggiungono soldati
fuggitivi dalla parte opposta a quella da cui è partito Adelchi)
UN SOLDATO FUGGITIVO
O
re, tu qui? Deh! fuggi.
(attraversa le scene)
DESIDERIO
Infame! al re questo
consiglio? E voi,
Da chi fuggite? In
abbandon le Chiuse
Voi lasciate così? Che fu?
Viltade
V'ha tolto il senno.
(i soldati continuano a
fuggire. Desiderio appunta la spada al petto d'uno di essi e lo
ferma)
Senza cor, se il ferro
Fuggir ti fa, questo è pur
ferro, e uccide
Come quello de' Franchi.
Al re favella:
Perché fuggite dalle
Chiuse?
SOLDATI
I Franchi
Dall'altra parte hanno
sorpreso il campo;
Gli abbiam veduti dalle
torri. I nostri
Son dispersi.
DESIDERIO
Tu
menti. Il figliuol mio
Gli ha radunati, e li
conduce incontro
A que' pochi nemici.
Indietro!
SOLDATI
O sire,
Non è più tempo: e' non
son pochi; e' giungono;
Scampo non v'è: schierati
ei sono; e i nostri
Chi qua, chi là,
senz'arme, in fuga: Adelchi
Non li raduna: siam
traditi.
DESIDERIO (ai fuggitivi
che s'affollano)
O vili!
Alle Chiuse salviamci; ivi
a difesa
Restar si può.
UN SOLDATO
Sono deserte: i Franchi
Le passeranno; e noi siam
posti intanto
Tra due nemici: un piccol
varco appena
Resta alla fuga: or or fia
chiuso.
DESIDERIO
Ebbene;
Moriam qui da guerrier.
UN ALTRO SOLDATO
Siamo traditi;
Siam venduti al macello.
UN ALTRO SOLDATO
In giusta guerra
Morir vogliam, come a
guerrier conviensi,
Non isgozzati a
tradimento.
ALTRO SOLDATO
I Franchi!
MOLTI SOLDATI
Fuggiamo!
DESIDERIO
Ebben, correte; anch'io con voi
Fuggo: è destin di chi
comanda ai tristi.
(s'avvia coi fuggitivi)
SCENA QUARTA
(parte del campo
abbandonato da' Longobardi, sotto alle Chiuse)
CARLO circondato da CONTI
FRANCHI, SVARTO
CARLO
Ecco varcate queste
Chiuse. A Dio
Tutto l'onor. Terra
d'Italia, io pianto
Nel tuo sen questa lancia,
e ti conquisto.
È una vittoria senza
pugna. Eccardo
Tutto ha già fatto.
(A uno de' Conti)
Su
quel colle ascendi,
Guarda se vedi la sua
schiera, e tosto
Vieni a darmene avviso.
(il Conte parte)
SCENA QUINTA
RUTLANDO e detti
CARLO
E che? Rutlando,
Tu riedi dal conflitto?
RUTLANDO
O re, ti chiamo
In testimonio, e voi
Conti, che in questo
Vil giorno il brando io
non cavai: ferisca
Oggi chi vuol: gregge
atterrito e sperso,
Io non l'inseguo.
CARLO
E
non trovasti alcuno
Che mostrasse la fronte?
RUTLANDO
Incontro io vidi
Un drappello venirmi, ed
alla testa
Più duchi avea: sopra lor
corsi; e quelli
Calar tosto i vessilli, e
fecer segni
Di pace, e amici si
gridaro. - Amici?
Noi l'eravam più assai,
quando alle Chiuse
Ci scontravam - Chiesero
il re; le spalle
Lor volsi; or li vedrai.
No: s'io sapea
A qual nemico si venia,
per certo
Mosso di Francia non
sarei.
CARLO
T'accheta,
Prode tra' prodi miei.
Bello è d'un regno,
Sia comunque, l'acquisto;
in lungo, il vedi,
Non andrà questo; e non
temer che manchi
Da far: Sassonia non è
vinta ancora.
(entra il Conte spedito da
Carlo)
CONTE (a Carlo)
Eccardo è in campo, e
verso noi s'avanza;
Ei procede in battaglia: i
Longobardi,
Tra il nostro campo e il
suo, sfilati, in folla,
Sfuggono a destra ed a
sinistra: il piano,
Che da lui ci divide, or
or fia sgombro.
CARLO
Esser dovea così.
CONTE
Vidi un drappello,
Che s'arrendette ai
nostri; e a questa volta
Venia correndo.
ALTRO CONTE
È
qui.
CARLO
Svarto, son quelli
Che m'annunziasti?
SVARTO
Il
son. - Compagni!
SCENA SESTA
ILDECHI ed altri DUCHI,
GIUDICI, SOLDATI LONGOBARDI e DETTI
ILDECHI
O Svarto,
Il re!
CARLO
Son desso.
ILDECHI
(s'inginocchia e mette le
sue mani tra quelle di Carlo)
O re de' Franchi e nostro!
Nella tua man vittoriosa
accogli
La nostra man devota, e
dalla bocca
De' Longobardi tuoi
l'omaggio accetta,
A te promesso da gran
tempo.
CARLO
Svarto,
Conte di Susa...
SVARTO
O
re, qual grazia?...
CARLO
Il nome
Dimmi di questi a me
devoti.
SVARTO
Il duca
Di Trento Ildechi, di
Cremona Ervigo,
Ermenegildo di Milano,
Indolfo
Di Pisa, Vila di Piacenza:
questi
Giudici son; questi
guerrieri.
CARLO
Alzatevi,
Fedeli miei, giudici e
duchi, ognuno
Nel grado suo, per ora. I
primi istanti
Che di riposo avremo, io
li destino
Al guiderdon de' vostri
merti: il tempo
Questo è d'oprar. Prodi
Fedeli, ai vostri
Fratei tornate; dite lor,
che ad una
Gente germana, di german
guerrieri
Capo, guerra io non porto:
una famiglia
Riprovata dal ciel, del
solio indegna,
A balzarnela io venni. Al
vostro regno
Non fia mutato altro che
il re. Vedete
Quel sol? qualunque, in
pria ch'ei scenda, omaggio
In mia mano a far venga, o
de' Fedeli
Franchi, o di voi, nel
grado suo serbato,
Mio Fedel diverrà. Chi a
me dinanzi
Tragga i due che fur regi,
un premio aspetti
Pari all'opra.
(i Longobardi partono)
CARLO (a Rutlando in
disparte)
Rutlando, ho io chiamati
Prodi costor?
RUTLANDO
Pur troppo.
CARLO
Errato ha il labbro
Del re. Questa parola ai
Franchi miei
In guiderdon la serbo. Oh!
possa ognuno
Dimenticar ch'io proferita
or l'abbia.
(s'avvia)
SCENA SETTIMA
ANFRIDO ferito, portato da
due FRANCHI, e DETTI
RUTLANDO
Ecco un nemico. Ove si
pugna?
UN FRANCO
Il solo
Che pugnasse, è costui.
CARLO
Solo?
IL FRANCO
Gran parte
Gettan l'arme, o si danno;
in fuga a torme
Altri ne van. Lento
ritrarsi e solo
Costui vedemmo, che alle
barde, all'armi,
Uom d'alto affar parea:
quattro guerrieri
Da un drappel ci
spiccammo, e a tutta briglia
Sull'orme sue, pei campi.
Egli inseguito
Nulla affrettò della sua
fuga; e quando
Sopra gli fummo, si
rivolse. Arrenditi,
Gli gridiamo; ei ne
affronta: al più vicino
Vibra l'asta, e lo
abbatte: la ritira,
Prostra il secondo ancor:
ma nello stesso
Ferir, percosso dalle
nostre ei cadde.
Quando fu al suol, tese le
mani in atto
Di supplicante, e ci pregò
che, posto
Ogni rancor, sull'aste
nostre ei fosse
Portato lungi dal tumulto,
in loco
Dove in pace ei si muoia.
Invitto sire,
Meglio da far quivi non
c'era: al prego
Ci arrendemmo.
CARLO
E
ben feste: a chi resiste
L'ire vostre serbate.
(a Svarto)
Il riconosci?
SVARTO
Anfrido egli è, scudier
d'Adelchi.
CARLO
Anfrido,
Tu solo andavi contro a
lor?
ANFRIDO
Bisogno
C'è di compagni per morir?
CARLO
Rutlando,
Ecco un prode.
(ad Anfrido)
O
guerrier, perché gittavi
Una vita sì degna? e non
sapevi
Che nostra divenia? che, a
noi cedendo,
Guerrier restavi e non
prigion di Carlo?
ANFRIDO
Io viver tuo guerrier,
quand'io potea
Morir quello d'Adelchi? Al
ciel diletto
È Adelchi, o re. Da questo
giorno infame
Trarrallo il ciel, lo
spero, e ad un migliore
Vorrà serbarlo; ma, se
mai... rammenta
Che, regnante o caduto, è
tale Adelchi,
Che chi l'offende, il Dio
del cielo offende
Nella più pura immagin
sua. Lo vinci
Tu di fortuna e di poter,
ma d'alma
Nessun mortale: un che si
muor tel dice.
CARLO (ai Conti)
Amar così deve un Fedel.
(ad Anfrido)
Tu porti
Teco la nostra stima. È il
re de' Franchi
Che ti stringe la man,
d'onore in segno,
E d'amistà. Nel suol de'
prodi, o prode,
Il tuo nome vivrà; le
franche donne
L'udran dal nostro labbro,
e il ridiranno
Con riverenza e con pietà:
riposo
Ti pregheran. Fulrado, a
questo pio
Presta gli estremi ufizi.
(ai soldati che rimangono)
In lui vedete
Un amico del re. Conti, ad
Eccardo
Incontro andiam: nobil
saluto ei merta.
SCENA OTTAVA
Bosco solitario
DESIDERIO, VERMONDO, altri
LONGOBARDI fuggiaschi in disordine
VERMONDO
Siamo in salvo, o mio re:
scendi, e su queste
Erbe l'antico e venerabil
fianco
Riposa alquanto. O mio
signor, ripiglia
Gli affaticati spirti.
Assai dal campo
Siam lunge, e fuor di
strada: al nostro orecchio
Lo scellerato mormorio non
giunge.
Cinto non sei che di
leali.
DESIDERIO
E Adelchi?
VERMONDO
Or or fia qui, lo spero;
alla sua traccia
Più d'un fido inviai, che
lo ritragga
Dall'empio rischio, a
miglior pugna il serbi,
E a questa posta de' leali
il guidi.
DESIDERIO
O mio Vermondo, il vecchio
rege è stanco,
È stanco - dalla fuga.
VERMONDO
Ahi, traditori!
DESIDERIO
Vili! Nel fango han
trascinato i bianchi
Capelli del lor re;
l'hanno costretto,
Come un vile, a fuggir. -
Fuggire! e quinci
Non sorgerò che per fuggir
di nuovo?
A che pro? dove? in
traccia d'un sepolcro
Privo di gloria? - E
comple? Io, per costoro,
Fuggir? Chi il regno mi
rapì, mi tolga
La vita. Ebben! quand'io
sarò sotterra,
Che mi farà codesto Carlo?
VERMONDO
O nostro
Re per sempre, fa cor: son
molti i fidi;
La sorpresa gli ha spersi;
a te d'intorno
Li chiamerà l'onor; ti
restan tante
Città munite; e Adelchi
vive, io spero.
DESIDERIO
Maledetto quel dì che
sopra il monte
Alboino salì, che in giù
rivolse
Lo sguardo, e disse:
Questa terra è mia!
Una terra infedel, che
sotto i piedi
De' successori suoi doveva
aprirsi,
Ed ingoiarli! Maledetto il
giorno,
Che un popol vi guidò, che
la dovea
Guardar così! che vi
fondava un regno,
Che un'esecranda ora
d'infamia ha spento!
VERMONDO
Il re!
DESIDERIO
Figlio, sei
tu?
SCENA NONA
ADELCHI, e DETTI
ADELCHI
Padre, ti trovo!
(s'abbracciano)
DESIDERIO
S'io t'avessi ascoltato!
ADELCHI
Oh! che rammenti?
Padre, tu vivi; un alto
scopo ancora
È serbato a' miei dì;
spender li posso
In tua difesa. - O mio
signor, la lena
Come ti regge?
DESIDERIO
Oh! per la prima volta
Sento degli anni e degli
stenti il peso.
Di gravi io ne portai, ma
allor non era
Per fuggire un nemico.
ADELCHI (ai Longobardi)
Ecco, o guerrieri,
Il vostro re.
UN LONGOBARDO
Noi morirem per lui!
MOLTI LONGOBARDI
Tutti morrem!
ADELCHI
Quand'è così, salvargli
Forse potrem più che la
vita. - E a questa
Causa, or sì dubbia ma
ognor sacra, afflitta
Ma non perduta, voi legate
ancora
La vostra fede?
UN LONGOBARDO
A'
tuoi guerrieri, Adelchi,
Risparmia i giuri: ai
longobardi labbri
Disdicon oggi, o re:
somiglian troppo
Allo spergiuro. Opre ci
chiedi: il solo
Segno de' fidi è questo
omai.
ADELCHI
V'ha dunque
De' Longobardi ancora! -
Ebben; corriamo
Sopra Pavia; fuggiam,
salviam per ora
La nostra vita, ma per
farla in tempo
Cara costar; donarla al
tradimento
Non è valor. Quanti potrem
dispersi
Raccoglierem per via;
misti con noi
Ritorneran soldati. Entro
Pavia,
A riposo, a difesa, o
padre, intanto
Restar potrai: cinta di
mura intatte,
Ricca d'arme è Pavia: due
volte Astolfo
Vi si chiuse fuggiasco, e
re ne uscìo.
Io mi getto in Verona. O
re, trascegli
L'uom che restar deva al
tuo fianco.
DESIDERIO
Il
duca
D'Ivrea.
ADELCHI (a Guntigi che
s'avanza)
Guntigi, io ti
confido il padre.
Il duca di Verona ov'è?
GISELBERTO
(si avanza)
Tra i fidi.
ADELCHI
Meco verrai: nosco trarrem
Gerberga.
Triste colui che nella sua
sventura
Gli sventurati obblia!
Baudo, il tuo posto
Lo sai: chiuditi in
Brescia; ivi difendi
Il tuo ducato, ed
Ermengarda. - E voi,
Alachi, Ansuldo, Ibba,
Cunberto, Ansprando,
(li sceglie tra la folla)
Tornate al campo: oggi pur
troppo ai Franchi
Ponno senza sospetto i
Longobardi
Mischiarsi: esaminate i
duchi, i conti
Esplorate, e i guerrier:
dai traditori
Discernete i sorpresi, e a
quei che mesti
Vergognosi, vedrete da
codesto
Orrido sogno di viltà
destarsi,
Dite ch'è tempo ancor, che
i re son vivi,
Che si combatte, che una
via rimane
Di morir senza infamia; e
li guidate
Alle città munite. Ei
diverranno
Invitti: il brando del
guerrier pentito
È ritemprato a morte. Il
tempo, i falli
Dell'inimico, il vostro
cor, consigli
Inaspettati vi daranno. Il
tempo
Porterà la salute; il
regno è sperso
In questo dì, ma non
distrutto!
(partono gli indicati da
Adelchi)
DESIDERIO
O figlio!
Tu m'hai renduto il mio
vigor: partiamo.
ADELCHI
Padre, io t'affido a
questi prodi; or ora
Anch'io teco sarò.
DESIDERIO
Che attendi?
ADELCHI
Anfrido.
Ei dal mio fianco si
disgiunse, e volle
Seguirmi da lontan; più
presso al rischio
Star, per guardarmi; io
non potei dal duro
Voler, da tanta fedeltà
distorlo.
Seco indugiarmi, di tua
vita in forse,
Io non potea: ma tu sei
salvo, e quinci
Non partirò, fin ch'ei non
giunga.
DESIDERIO
E teco
Aspetterò.
ADELCHI
Padre...
(a un soldato che
sopraggiunge)
Vedesti Anfrido?
IL SOLDATO
Re, che mi chiedi?
ADELCHI
O
ciel! favella.
IL SOLDATO
Il vidi
Morto cader.
ADELCHI
Giorno d'infamia e d'ira,
Tu se' compiuto! O mio
fratel, tu sei
Morto per me! tu
combattesti!... ed io...
Crudel! perché volesti ad
un periglio
Solo andar senza me? Non
eran questi
I nostri patti. Oh Dio!...
Dio, che mi serbi
In vita ancor, che un gran
dover mi lasci,
Dammi la forza per
compirlo. - Andiamo.
CORO
Dagli atrii muscosi, dai
fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse
fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di
servo sudor,
Un volgo disperso repente
si desta;
Intende l'orecchio,
solleva la testa
Percosso da novo crescente
romor.
Dai guardi dubbiosi, dai
pavidi volti,
Qual raggio di sole da
nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera
virtù:
Ne' guardi, ne' volti,
confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo
spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un
tempo che fu.
S'aduna voglioso, si
sperde tremante,
Per torti sentieri, con
passo vagante,
Fra tema e desire,
s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira
scorata e confusa
De' crudi signori la turba
diffusa,
Che fugge dai brandi, che
sosta non ha.
Ansanti li vede, quai
trepide fere,
Irsuti per tema le fulve
criniere,
Le note latebre del covo
cercar;
E quivi, deposta l'usata
minaccia,
Le donne superbe, con
pallida faccia,
I figli pensosi pensose
guatar.
E sopra i fuggenti, con
avido brando,
Quai cani disciolti,
correndo, frugando,
Da ritta, da manca,
guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto
contento,
Con l'agile speme precorre
l'evento,
E sogna la fine del duro
servir.
Udite! Quei forti che
tengono il campo,
Che ai vostri tiranni
precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per
aspri sentier:
Sospeser le gioie dei
prandi festosi,
Assursero in fretta dai
blandi riposi,
Chiamati repente da
squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del
tetto natio
Le donne accorate,
tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il
pianto troncò:
Han carca la fronte de'
pesti cimieri,
Han poste le selle sui
bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo
sonò.
A torme, di terra
passarono in terra,
Cantando giulive canzoni
di guerra,
Ma i dolci castelli
pensando nel cor:
Per valli petrose, per
balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le
gelide notti,
Membrando i fidati
colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di
stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le
corse affannose,
Il rigido impero, le fami
durâr;
Si vider le lance calate
sui petti,
A canto agli scudi,
rasente agli elmetti,
Udiron le frecce
fischiando volar.
E il premio sperato,
promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi,
rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por
fine al dolor?
Tornate alle vostre
superbe ruine,
All'opere imbelli
dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo
sudor.
Il forte si mesce col
vinto nemico,
Col novo signore rimane
l'antico;
L'un popolo e l'altro sul
collo vi sta.
Dividono i servi, dividon
gli armenti;
Si posano insieme sui
campi cruenti
D'un volgo disperso che
nome non ha.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Giardino del monastero di
San Salvatore in Brescia
ERMENGARDA, sostenuta da
due DONZELLE, ANSBERGA
ERMENGARDA
Qui sotto il tiglio, qui.
(s'adagia sur un sedile)
Come è soave
Questo raggio d'april!
come si posa
Sulle frondi nascenti!
Intendo or come
Tanto ricerchi il sol
colui, che, d'anni
Carco, fuggir sente la
vita!
(alle Donzelle)
A voi
Grazie, a voi, che,
reggendo il fianco infermo,
Pago feste l'amor ch'oggi
mi prese
Di circondarmi ancor di
queste aperte
Aure, ch'io prime
respirai, del Mella;
Sotto il mio cielo di
sedermi, e tutto
Vederlo ancor, fin dove il
guardo arriva.
- Dolce sorella, a Dio
sacrata madre,
Pietosa Ansberga!
(le porge la mano: le
Donzelle si ritirano: Ansberga siede)
-
Di tue cure il fine
S'appressa, e di mie pene.
Oh! con misura
Le dispensa il Signor.
Sento una pace
Stanca, foriera della
tomba: incontro
L'ora di Dio più non
combatte questa
Mia giovinezza doma; e
dolcemente,
Più che sperato io non
avrei, dal laccio
L'anima, antica nel dolor,
si solve.
L'ultima grazia ora ti
chiedo: accogli
Le solenni parole, i voti
ascolta
Della morente, in cor li
serba, e puri
Rendili un giorno a quei
ch'io lascio in terra.
- Non turbarti, o diletta:
oh! non guardarmi
Accorata così. Di Dio, nol
vedi?,
Questa è pietà. Vuoi che
mi lasci in terra
Pel dì che Brescia
assaliran? per quando
Un tal nemico appresserà?
che a questo
Ineffabile strazio Ei qui
mi tenga?
ANSBERGA
Cara infelice, non temer:
lontane
Da noi son l'armi ancor:
contra Verona,
Contra Pavia, de' re, dei
fidi asilo,
Tutte le forze sue
quell'empio adopra;
E, spero in Dio, non
basteranno. Il nostro
Nobil cugin, l'ardito
Baudo, il santo
Vescovo Ansvaldo, a queste
mura intorno
Del Benaco i guerrieri e
delle valli
Han radunati; e immoti
stanno, accinti
A difesa mortal. Quando
Verona
Cada e Pavia (Dio, nol
consenti!) un novo
Lungo conflitto...
ERMENGARDA
Io
nol vedrò: disciolta
Già d'ogni tema e d'ogni
amor terreno,
Dal rio sperar, lunge io
sarò; pel padre
Io pregherò, per
quell'amato Adelchi,
Per te, per quei che
soffrono, per quelli
Che fan soffrir, per
tutti. - Or tu raccogli
La mia mente suprema. Al
padre, Ansberga,
Ed al fratel, quando li
veda - oh questa
Gioia negata non vi sia! -
dirai
Che, all'orlo estremo
della vita, al punto
In cui tutto s'obblia,
grata e soave
Serbai memoria di quel dì,
dell'atto
Cortese, allor che a me
tremante, incerta
Steser le braccia risolute
e pie,
Né una reietta vergognar;
dirai
Che al trono del Signor,
caldo, incessante,
Per la vittoria lor stette
il mio prego;
E s'Ei non l'ode, alto
consiglio è certo
Di pietà più profonda: e
ch'io morendo
Gli ho benedetti. - Indi,
sorella... oh! questo
Non mi negar... trova un
Fedel che possa,
Quando che sia, dovunque,
a quel feroce
Di mia gente nemico
approssimarsi...
ANSBERGA
Carlo!
ERMENGARDA
Tu l'hai
nomato: e sì gli dica:
Senza rancor passa
Ermengarda: oggetto
D'odio in terra non
lascia, e di quel tanto
Ch'ella sofferse, Iddio
scongiura, e spera
Ch'Egli a nessun conto ne
chieda, poi
Che dalle mani sue tutto
ella prese.
Questo gli dica, e... se
all'orecchio altero
Troppo acerba non giunge
esta parola...
Ch'io gli perdono. - Lo
farai?
ANSBERGA
L'estreme
Parole mie riceva il ciel,
siccome
Queste tue mi son sacre.
ERMENGARDA
Amata! e d'una
Cosa ti prego ancor: della
mia spoglia,
Cui mentre un soffio
l'animò, sì larga
Fosti di cure, non ti sia
ribrezzo
Prender l'estrema; e la
componi in pace.
Questo anel che tu vedi
alla mia manca,
Scenda seco nell'urna; ei
mi fu dato
Presso all'altar, dinanzi
a Dio. Modesta
Sia l'urna mia: - tutti
siam polve: ed io
Di che mi posso gloriar? -
ma porti
Di regina le insegne: un
sacro nodo
Mi fe' regina: il don di
Dio, nessuno
Rapir lo puote, il sai:
come la vita,
Dee la morte attestarlo.
ANSBERGA
Oh! da te lunge
Queste memorie dolorose! -
Adempi
Il sagrifizio; odi: di
questo asilo,
Ove ti addusse pellegrina
Iddio,
Cittadina divieni; e sia
la casa
Del tuo riposo tua. La
sacra spoglia
Vesti, e lo spirto seco, e
d'ogni umana
Cosa l'obblio.
ERMENGARDA
Che mi proponi, Ansberga?
Ch'io mentisca al Signor!
Pensa ch'io vado
Sposa dinanzi a Lui; sposa
illibata,
Ma d'un mortal. - Felici
voi! felice
Qualunque, sgombro di
memorie il core
Al Re de' regi offerse, e
il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria
di fissarli
In fronte all'uom! Ma -
d'altri io sono.
ANSBERGA
Oh mai
Stata nol fossi!
ERMENGARDA
Oh
mai! ma quella via,
Su cui ci pose il ciel,
correrla intera
Convien, qual ch'ella sia,
fino all'estremo.
- E, se all'annunzio di
mia morte, un novo
Pensier di pentimento e di
pietade
Assalisse quel cor? Se,
per ammenda
Tarda, ma dolce ancor, la
fredda spoglia
Ei richiedesse come sua,
dovuta
Alla tomba real? - Gli
estinti, Ansberga,
Talor de' vivi son più
forti assai.
ANSBERGA
Oh! nol farà.
ERMENGARDA
Tu
pia, tu poni un freno
Ingiurioso alla bontà di
Lui,
Che tocca i cor, che gode,
in sua mercede,
Far che ripari, chi lo
fece, il torto?
ANSBERGA
No, sventurata, ei nol
farà. - Nol puote.
ERMENGARDA
Come? perché nol puote?
ANSBERGA
O mia diletta,
Non chieder oltre; obblia.
ERMENGARDA
Parla! alla tomba
Con questo dubbio non
mandarmi.
ANSBERGA
Oh! l'empio
il suo delitto consumò.
ERMENGARDA
Prosegui!
ANSBERGA
Scaccialo al tutto dal tuo
cor. Di nuove
Inique nozze ei si fe'
reo: sugli occhi
Degli uomini e di Dio,
l'inverecondo,
Come in trionfo, nel suo
campo ei tragge
Quella Ildegarde sua...
(Ermengarda sviene)
Tu impallidisci!
Ermengarda! non m'odi? Oh
ciel! sorelle,
Accorrete! oh che feci!
(entrano le due Donzelle e
varie Suore)
Oh! chi soccorso
Le dà? Vedete: il suo
dolor l'uccide.
PRIMA SUORA
Fa core; ella respira.
SECONDA SUORA
Oh sventurata!
A questa età, nata in tal
loco, e tanto
Soffrir!
UNA DONZELLA
Dolce mia
donna!
PRIMA SUORA
Ecco le luci
Apre.
ANSBERGA
Oh che
sguardo! Ciel! che fia?
ERMENGARDA (in delirio)
Scacciate
Quella donna, o scudieri!
Oh! non vedete
Come s'avanza ardimentosa,
e tenta
Prender la mano al re?
ANSBERGA
Svegliati: oh Dio!
Non dir così; ritorna in
te; respingi
Questi fantasmi; il nome
santo invoca.
ERMENGARDA (in delirio)
Carlo! non lo soffrir:
lancia a costei
Quel tuo sguardo severo.
Oh! tosto in fuga
Andranne: io stessa, io
sposa tua, non rea
Pur d'un pensiero,
intraveder nol posso
Senza tutta turbarmi. - Oh
ciel! che vedo?
Tu le sorridi? Ah no!
cessa il crudele
Scherzo; ei mi strazia, io
nol sostengo. - O Carlo,
Farmi morire di dolor, tu
il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu
stesso un giorno
Dolor ne avresti. - Amor
tremendo è il mio.
Tu nol conosci ancora; oh!
tutto ancora
Non tel mostrai; tu eri
mio: secura
Nel mio gaudio io tacea;
né tutta mai
Questo labbro pudico osato
avria
Dirti l'ebbrezza del mio
cor segreto.
- Scacciala, per pietà!
Vedi; io la temo,
Come una serpe: il guardo
suo m'uccide.
- Sola e debol son io: non
sei tu il mio
Unico amico? Se fui tua,
se alcuna
Di me dolcezza avesti...
oh! non forzarmi
A supplicar così dinanzi a
questa
Turba che mi deride... Oh
cielo! ei fugge!
Nelle sue braccia!... io
muoio!...
ANSBERGA
Oh! mi farai
Teco morir!
ERMENGARDA (in delirio)
Dov'è Bertrada? io voglio
Quella soave, quella pia
Bertrada!
Dimmi, il sai tu? tu, che
la prima io vidi,
Che prima amai di questa
casa, il sai?
Parla a questa infelice:
odio la voce
D'ogni mortal; ma al tuo
pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento
una vita,
Un gaudio amaro che
all'amor somiglia.
- Lascia ch'io ti rimiri,
e ch'io mi segga
Qui presso a te: son così
stanca! Io voglio
Star presso a te; voglio
occultar nel tuo
Grembo la faccia, e
piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non
partir! prometti
Di non fuggir da me, fin
ch'io mi levi
Inebbriata dal mio pianto.
Oh! molto
Da tollerarmi non ti
resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti
abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti
sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e
ad ogni aurora
Crescea la gioia del
destarsi. Oh giorni!...
No, non parlarne per
pietà! Sa il cielo
S'io mi credea che in cor
mortal giammai
Tanta gioia capisse e
tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh!
consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo
nome io sento
Una pienezza di martir,
che il core
M'inonda, e il getta
nell'obblio.
(ricade)
ANSBERGA
Tranquilla
Ella moria!
ERMENGARDA (in delirio)
Se fosse un
sogno! e l'alba
Lo risolvesse in nebbia! e
mi destassi
Molle di pianto ed
affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e,
sorridendo,
Di poca fe' mi
rampognasse!
(ricade in letargo)
ANSBERGA
O Donna
Del ciel, soccorri a
questa afflitta!
PRIMA SUORA
Oh! vedi:
Torna la pace su quel
volto; il core
Sotto la man più non
trabalza.
ANSBERGA
O suora!
Ermengarda! Ermengarda!
ERMENGARDA (riavendosi)
Oh! Chi mi chiama?
ANSBERGA
Guardami; io sono
Ansberga: a te d'intorno
Stan le donzelle tue, le
suore pie,
Che per la pace tua
pregano.
ERMENGARDA
Il cielo
Vi benedica. - Ah! sì:
questi son volti
Di pace e d'amistà. - Da
un tristo sogno
Io mi risveglio.
ANSBERGA
Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì
torba
Quiete.
ERMENGARDA
È ver: tutta
la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi,
cortesi, al fido
Mio letticciol traetemi:
l'estrema
Fatica è questa che vi
doma tutte
Son contate lassù. -
Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento
ch'Ei giunge.
CORO
Sparsa le trecce
morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco
aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.
Cessa il compianto:
unanime
S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l'estremo vel.
Sgombra, o gentil,
dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e
muori:
Fuor della vita è il
termine
Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di
chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de' santi
ascendere
Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni
tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle
vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier
tornavano
Gl'irrevocati dì;
Quando ancor cara,
improvida
D'un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia
De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il
rapido
Redir de' veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier
sovrano
Scendea del campo a
tergere
Il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui
l'empia
Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,
E il cor diverte ai
placidi
Gaudii d'un altro amor.
Ma come il sol che,
reduce,
L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.
Sgombra, o gentil,
dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e
muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono,
Che il duol consunse;
orbate
Spose dal brando, e
vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e
gloria
Il non aver pietà,
Te collocò la provida
Sventura in fra gli
oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che
improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così
Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte,
imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.
SCENA SECONDA
Notte. Interno d'un
battifredo sulle mura di Pavia. Un'armatura nel mezzo
GUNTIGI, AMRI
GUNTIGI
Amri, sovvienti di
Spoleti?
AMRI
E posso
Obbliarlo, signor?
GUNTIGI
D'allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai
nostri cinto,
Senza difesa rimanesti?
Alzata
Sul tuo capo la scure, un
furibondo
Già la calava; io lo
ritenni: ai piedi
Tu mi cadesti, e ti
gridasti mio.
Che mi giuravi?
AMRI
Ubbidienza e fede
Fino alla morte. - O mio
signor, falsato
Ho il giuro mai?
GUNTIGI
No; ma l'istante è giunto
Che tu lo illustri con la
prova.
AMRI
Imponi.
GUNTIGI
Tocca quest'armi
consacrate, e giura
Che il mio comando
eseguirai; che mai,
Né per timor né per
lusinghe, fia,
Mai, dal tuo labbro
rivelato.
AMRI (ponendo le mani
sull'armi)
Il giuro:
E se quandunque mentirò,
mendico
Andarne io possa, non
portar più scudo,
Divenir servo d'un Romano.
GUNTIGI
Ascolta.
A me commessa delle mura,
il sai,
È la custodia; io qui
comando, e a nullo
Ubbidisco che al re. Su
questo spalto
Io ti pongo a vedetta, e
quindi ogn'altro
Guerriero allontanai.
Tendi l'orecchio,
E osserva al lume della
luna; al mezzo
Quando la notte fia, cheto
vedrai
Alle mura un armato
avvicinarsi:
Svarto ei sarà... Perché
così mi guardi
Attonito? egli è Svarto,
un che tra noi
Era da men di te; che ora
tra i Franchi
In alto sta, sol perché
seppe accorto
E segreto servir. Ti basti
intanto,
Che amico viene al tuo
signor costui.
Col pomo della spada in
sullo scudo
Sommessamente ei
picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso
segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando
fia posta,
Ripeti il segno; ei
saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a
guardia ponti
Qui fuor: se un passo, se
un respiro ascolti,
Entra ed avvisa.
AMRI
Come imponi, io tutto
Farò.
GUNTIGI
Tu servi a
gran disegno, e grande
Fia il premio.
(Amri parte)
SCENA TERZA
GUNTIGI
Fedeltà? - Che il tristo amico
Di caduto signor, quei
che, ostinato
Nella speranza, o
irresoluto, stette
Con lui fino all'estremo,
e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e
con essa
Si consoli, sta ben. Ciò
che consola,
Creder si vuol senza
esitar. - Ma quando
Tutto perder si puote, e
tutto ancora
Si può salvar; quando il
felice, il sire
Per cui Dio si dichiara,
il consacrato
Carlo un messo m'invia, mi
vuole amico,
M'invita a non perir, vuol
dalla causa
Della sventura separar la
mia...
A che, sempre respinta, ad
assalirmi
Questa parola fedeltà
ritorna,
Simile all'importuno? e
sempre in mezzo
De' miei pensier si getta,
e la consulta
Ne turba? - Fedeltà! Bello
è con essa
Ogni destin, bello il
morir. - Chi 'l dice?
Quello per cui si muor. -
Ma l'universo
Seco il ripete ad una
voce, e grida
Che, anco mendico e
derelitto, il fido
Degno è d'onor, più che il
fellon tra gli agi
E gli amici. - Davver? Ma,
s'egli è degno,
Perché è mendico e
derelitto? E voi
Che l'ammirate, chi vi
tien che in folla
Non accorriate a
consolarlo, a fargli
Onor, l'ingiurie della
sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal
fianco
Di que' felici che
spregiate, e dove
Sta questo onor fate
vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a
voi consiglio
Chieder dovessi, dir
m'udrei: rigetta
L'offerte indegne; de'
tuoi re dividi,
Qual ch'ella sia, la
sorte. - E perché tanto
A cor questo vi sta?
Perché, s'io cado,
Io vi farò pietà; ma se,
tra mezzo
Alle rovine altrui, ritto
io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete
al fianco
Del vincitor che mi
sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e
più v'aggrada
Sentir pietà che invidia.
Ah! non è puro
Questo vostro consiglio. -
Oh! Carlo anch'egli
In cor ti spregerà. - Chi
ve l'ha detto?
Spregia egli Svarto, un
uom di guerra oscuro,
Che ai primi gradi alzò?
Quando sul volto
Quel potente m'onori, il
core a voi
Chi 'l rivela? E che
importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo,
a cui non puote
Giungere il vostro labbro.
A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre
d'estinta
Fortuna, o favellarne, e
nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è
questo
Di vostre mire il segno:
un più ridente
Splende alla mia; né di
toccarlo il vostro
Vano clamor mi riterrà. Se
basta
I vostri plausi ad
ottener, lo starsi
Fermo alle prese col
periglio, ebbene,
Un tremendo io ne
affronto: e un dì saprete
Che a questo posto più
mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di
battaglia in campo.
Perché, se il rege, come
suol talvolta,
Visitando le mura, or or
qui meco
Svarto trovasse a
parlamento, Svarto,
Un di color, ch'ei
traditori, e Carlo
Noma Fedeli... oh! di
guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è
destin, che pera
Un di noi due; far deggio
in modo, o Veglio,
Ch'io quel non sia.
SCENA QUARTA
GUNTIGI, SVARTO, AMRI
SVARTO
Guntigi!
GUNTIGI
Svarto!
(ad Amri)
Alcuno
Non incontrasti?
AMRI
Alcun.
GUNTIGI
Qui intorno veglia.
(Amri parte)
SCENA QUINTA
GUNTIGI, SVARTO
SVARTO
Guntigi, io vengo, e il
capo mio commetto
Alla tua fede.
GUNTIGI
E
tu n'hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.
SVARTO
E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu
fermar la sorte
D'un popolo e la tua?
GUNTIGI
Quando quel Franco
Prigion condotto entro
Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo
di Carlo
Mi si scoverse, e in nome
suo mi disse
Che l'ira di nemico a
volger pronto
In real grazia egli era, e
in me speranza
Molta ponea; che ogni mio
danno avria
Riparato da re; che tu
verresti
A trattar meco; io
condiscesi: un pegno
Chiese da me; tosto de'
Franchi al campo
Nascosamente il mio
figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio;
e certo ancora
Del mio voler non sei?
Fermo è del pari
Carlo nel suo?
SVARTO
Dubbiar ne puoi?
GUNTIGI
Ch'io sappia
Ciò ch'ei desia, ciò ch'ei
promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe'
dono altrui;
Né resta a me che un titol
vano.
SVARTO
E giova
Che dispogliato altri ti
creda, e quindi
lmplacabile a Carlo. Or
sappi; il grado
Che già tenesti, tu non
l'hai lasciato
Che per salir. Carlo a'
tuoi pari dona
E non promette: Ivrea
perdesti: il Conte,
Prendi,
(gli porge un diploma)
sei di Pavia.
GUNTIGI
Da questo istante
Io l'ufizio ne assumo; e
fiane accorto
Dall'opre il signor mio.
Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.
SVARTO
Ei
vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re;
l'impresa allora
Precipita al suo fin.
Verona a stento
Chiusa ancor tiensi:
tranne pochi, ognuno
Brama d'uscirne, e dirsi
vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando
Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di
resistenza
Chi parlerà? L'altre città
che sparse
Tengonsi, e speran
nell'indugio ancora,
Cadon tutte in un dì,
membra disciolte
D'avulso capo: i re
caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna:
al duro
Ostinato ubbidir manca il
comando:
Ei regna, e guerra più non
v'è.
GUNTIGI
Sì, certo
Pavia gli è d'uopo; ed ei
l'avrà: domani,
Non più tardi, l'avrà.
Verso la porta
Occidental con qualche
schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io
questa opposta
Terrò sguernita, e vi
porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la
mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà.
- Ch'io, preso
Il re consegni al suo
nemico, questo
Carlo da me non chieda; io
fui vassallo
Di Desiderio, in dì
felici, e il mio
Nome d'inutil macchia io
coprirei.
Cinto di qua, di là, lo
sventurato
Sfuggir non può.
SVARTO
Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te
più felice,
Che puoi tanto per lui! -
Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia?
Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo,
o insieme seco
Precipitar, son molti
ancora? o all'astro
Trionfator di Carlo i
guardi alfine
Volgonsi e i voti? e
agevol fia, siccome
L'altra già fu, questa
vittoria estrema?
GUNTIGI
Stanchi e sfidati i più,
sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a
lor consiglia
Ogni pensier di abbandonar
cui Dio
Già da gran tempo
abbandonò; ma in capo
D'ogni pensier s'affaccia
una parola
Che li spaventa:
tradimento. Un'altra
Più saggia a questi udir
farò: salvezza
Del regno; e nostri
diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro
amor, da Carlo
Ormai nulla sperando...
SVARTO
Ebben, prometti:
Tutti guadagna.
GUNTIGI
Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol
perir; senz'essi
Tutto compir si può.
SVARTO
Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de' Franchi
io qui favello
A un suo Fedel; ma
Longobardo pure
A un Longobardo. I patti
suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è
forse il meglio
Esser cinti d'amici? in
una folla
Di salvati da noi?
GUNTIGI
Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il
dì che Carlo
Senza sospetto regnerà,
che un brando
Non resterà che non gli
sia devoto...
Guardiamci da quel dì! Ma
se gli sfugge
Un nemico, e respira, e
questo novo
Regno minaccia, non temer
che sia
Posto in non cal chi
glielo diede in mano.
SVARTO
Saggio tu parli e
schietto. - Odi: per noi
Sola via di salute era pur
quella
Su cui corriamo; ma
d'inciampi è sparsa
E d'insidie: il vedrai.
Tristo a chi solo
Farla vorrà. - Poi che la
sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci
elesse
All'opera compagni ed al
periglio
Di questa notte, che
obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo
un patto, ad ambo
Patto di vita. Sulla tua
fortuna
Io di vegliar prometto; i
tuoi nemici
Saranno i miei.
GUNTIGI
La
tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.
SVARTO
In vita e in morte.
GUNTIGI
Pegno la destra.
(gli porge la destra:
Svarto la stringe)
Al
re de' Franchi, amico,
Reca l'omaggio mio.
SVARTO
Doman!
GUNTIGI
Domani.
Amri!
(entra Amri.)
È sgombro lo
spalto?
AMRI
È sgombro; e tutto
Tace d'intorno.
GUNTIGI (ad Amri,
accennando Svarto)
Il
riconduci.
SVARTO
Addio.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Palazzo reale in Verona
ADELCHI, GISELBERTO, duca
di Verona
GISELBERTO
Costretto, o re, dell'oste
intera io vengo
A nunziarti il voler:
duchi e soldati
Chiedon la resa. A tutti è
noto, e indarno
Celar si volle, che Pavia
le porte
Al Franco aprì che il
vincitor s'affretta
Sopra Verona; e che pur
troppo ei tragge
Captivo il re. Co' figli
suoi Gerberga
Già incontro a Carlo uscì,
dell'aspro sire
Più ancor fidando nel
perdon, che in una
Impotente amistà. Verona
attrita
Dal lungo assedio, di
guerrier, di scorte
Scema, non forte assai
contra il nemico
Che già la stringe, non
potrà la foga
Dei sorvegnenti sostener;
né quelli
Che l'han difesa fino ad
or, se pochi
Ne traggi, o re, vogliono
al rischio starsi
Di pugna impari, e di
spietato assalto.
Fin che del fare e del
soffrir concesso
Era un frutto sperar,
fenno e soffriro;
Quanto il dover, quanto
l'onor chiedea,
Il diero: ai mali che non
han più scopo
Chiedono il fine.
ADELCHI
Esci: la mia risposta
Tra poco avrai.
(Giselberto parte)
SCENA SECONDA
ADELCHI
Va, vivi, invecchia in pace;
Resta un de' primi di tua
gente: il merti:
Va, non temer; sarai
vassallo: il tempo
È pe' tuoi pari. - Anche
il comando udirsi
Intimar de' codardi, e di
chi trema
Prender la legge! è
troppo. Han risoluto!
Voglion, perché son vili!
e minacciosi
Li fa il terror; né
soffriran che a questo
Furor di codardia
s'opponga alcuno,
Che resti un uom tra loro!
- Oh cielo! il padre
Negli artigli di Carlo! I
giorni estremi
Uomo d'altrui vivrà,
soggetto al cenno
Di quella man, che non
avria voluto
Come amico serrar;
mangiando il pane
Di chi l'offese, e l'ebbe
a prezzo! E nulla
Via di cavarlo dalla
fossa, ov'egli
Rugge tradito e solo, e
chiama indarno
Chi salvarlo non può!
nulla! - Caduta
Brescia, e il mio Baudo,
il generoso, astretto
Anch'ei le porte a
spalancar da quelli
Che non voglion morire. Oh
più di tutti
Fortunata Ermengarda! Oh
giorni! oh casa
Di Desiderio, ove
d'invidia è degno
Chi d'affanno morì! - Di
fuor costui,
Che arrogante s'avanza, e
or or verrammi
Ad intimar che il suo
trionfo io compia;
Qui la viltà che gli
risponde, ed osa
Pressarmi; - è troppo in
una volta! Almeno
Finor, perduta anche la
speme, il loco
V'era all'opra; ogni
giorno il suo domani,
Ed ogni stretta il suo
partito avea.
Ed ora... ed or, se in sen
de' vili un core
Io piantar non potei,
potranno i vili
Togliere al forte, che da
forte ei pera?
Tutti alfin non son vili:
udrammi alcuno;
Più d'un compagno troverò,
s'io grido:
Usciam costoro ad
incontrar; mostriamo
Che non è ver che a tutto
i Longobardi
Antepongon la vita; e...
se non altro,
Morrem. - Che pensi? Nella
tua rovina
Perché quei prodi
strascinar? Se nulla
Ti resta a far quaggiù,
non puoi tu solo
Morir? Nol puoi? Sento che
l'alma in questo
Pensier riposa alfine: ei
mi sorride,
Come l'amico che sul volto
reca
Una lieta novella. Uscir
di questa
Ignobil calca che mi
preme; il riso
Non veder del nemico; e
questo peso
D'ira, di dubbio e di
pietà, gittarlo!...
Tu, brando mio, che del
destino altrui
Tante volte hai deciso, e
tu, secura
Mano avvezza a
trattarlo... e in un momento
Tutto è finito. - Tutto?
Ah sciagurato!
Perché menti a te stesso?
Il mormorio
Di questi vermi ti
stordisce; il solo
Pensier di starti a un
vincitor dinanzi
Vince ogni tua virtù;
l'ansia di questa
Ora t'affrange, e fa
gridarti: è troppo!
E affrontar Dio potresti?
e dirgli: io vengo
Senza aspettar che tu mi
chiami; il posto
Che m'assegnasti, era
difficil troppo;
E l'ho deserto! - Empio!
fuggire? e intanto,
Per compagnia fino alla
tomba, al padre
Lasciar questa memoria; il
tuo supremo
Disperato sospir legargli!
Al vento,
Empio pensier. - L'animo
tuo ripiglia,
Adelchi; uom sii. Che
cerchi? In questo istante
D'ogni travaglio il fin tu
vuoi: non vedi,
Che in tuo poter non è? -
T'offre un asilo
Il greco imperador. Sì;
per sua bocca
Te l'offre Iddio: grato
l'accetta: il solo
Saggio partito, il solo
degno è questo.
Conserva al padre la sua
speme: ei possa
Reduce almeno e vincitor
sognarti,
Infrangitor de' ceppi
suoi, non tinto
Del sangue sparso
disperando. - E sogno
Forse non fia: da più
profondo abisso
Altri già sorse: non fa
patti eterni
Con alcun la fortuna: il
tempo toglie
E dà: gli amici, il
successor li crea.
- Teudi!
SCENA TERZA
ADELCHI, TEUDI
TEUDI
Mio re.
ADELCHI
Restano amici ancora
Al re che cade?
TEUDI
Sì: color che amici
Eran d'Adelchi.
ADELCHI
E
che partito han preso?
TEUDI
L'aspettano da te.
ADELCHI
Dove son essi?
TEUDI
Qui nel palazzo tuo, lungi
dai tristi
A cui sol tarda d'esser
vinti appieno.
ADELCHI
Tristo, o Teudi, il valor
disseminato
Tra la viltà! - Compagni
alla mia fuga
Io questi prodi prenderò:
null'altro
Far ne poss'io; nulla ei
per me far ponno,
Che seguirmi a Bisanzio.
Ah! se avvi alcuno
Cui venga in mente un più
gentil consiglio,
Per pietà, me lo dia. - Da
te, mio Teudi,
Un più coral servigio, un
più fidato
Attendo ancor: resta per
ora; al padre
Fa che di me questa
novella arrivi:
Ch'io son fuggito, ma per
lui; ch'io vivo,
Per liberarlo un dì; che
non disperi.
Vieni, e m'abbraccia: a dì
più lieti! - Al duca
Di Verona dirai che non
attenda
Ordini più da me. - Sulla
tua fede
Riposo, o Teudi.
TEUDI
Oh! la secondi il cielo.
(escono dalle parti
opposte)
SCENA QUARTA
Tenda nel campo di Carlo
sotto Verona
CARLO, un ARALDO, ARVINO,
CONTI
CARLO
Vanne, araldo, in Verona;
e al duca, a tutti
I suoi guerrier questa
parola esponi:
Re Carlo è qui: le porte
aprite; egli entra
Grazioso signor; se no,
più tarda
L'entrata fia, ma non men
certa; e i patti
Quali un solo li detta, e
inacerbito.
(l'Araldo parte)
ARVINO
Il vinto re chiede di
parlarti, o sire.
CARLO
Che vuol?
ARVINO
Nol disse; ma
pietosa istanza
Egli ne fea.
CARLO
Venga.
(Arvino parte)
Vediam colui,
Che destinata a un'altra
fronte avea
La corona di Carlo.
(ai Conti)
Ite: alle mura
La custodia addoppiate; ad
ogni sbocco
Si vegli in arme: e che
nessun mi sfugga.
SCENA QUINTA
CARLO, DESIDERIO
CARLO
A che vieni, infelice? E
che parola
Correr puote tra noi?
Decisa il cielo
Ha la nostra contesa; e
più non resta
Di che garrir. Tristi
querele e pianto
Sparger dinanzi al
vincitor, disdice
A chi fu re; né a me con
detti acerbi
L'odio antico appagar
lice, né questo
Gaudio superbo che in mio
cor s'eleva,
Ostentarti sul volto; onde
sdegnato
Dio non si penta, e alla
vittoria in mezzo
Non m'abbandoni ancor. Né,
certo, un vano
Da me conforto di parole
attendi.
Che ti direi? ciò che
t'accora, è gioia
Per me; né lamentar posso
un destino,
Ch'io non voglio mutar.
Tal del mortale
È la sorte quaggiù: quando
alle prese
Son due di lor, forza è
che l'un piangendo
Esca dal campo. Tu vivrai;
null'altro
Dono ha Carlo per te.
DESIDERIO
Re del mio regno,
Persecutor del sangue mio,
qual dono
Ai re caduti sia la vita,
il sai?
E pensi tu, ch'io vinto,
io nella polve,
Di gioia anco una volta
inebbriarmi
Non potrei? del velen che
il cor m'affoga,
Il tuo trionfo amareggiar?
parole
Dirti di cui ti
sovverresti, e in parte
Vendicato morir? Ma in te
del cielo
Io la vendetta adoro, e
innanzi a cui
Dio m'inchinò, m'inchino:
a supplicarti
Vengo; e m'udrai; ché
degli afflitti il prego
È giudizio di sangue a chi
lo sdegna.
CARLO
Parla.
DESIDERIO
In difesa
d'Adrian, tu il brando
Contro di me traesti?
CARLO
A che domandi
Quello che sai?
DESIDERIO
Sappi tu ancor che solo
Io nemico gli fui, che
Adelchi - e m'ode
Quel Dio che è presso ai
travagliati - Adelchi
Al mio furor preghi,
consigli, ed anche,
Quanto è concesso a pio
figliuol, rampogne
Mai sempre oppose:
indarno!
CARLO
Ebben?
DESIDERIO
Compiuta
È la tua impresa: non ha
più nemici
Il tuo Romano: intera, e
tal che basti
Al cor più fiacco ed
iracondo, ei gode
La sicurezza e la
vendetta. A questo
Tu scendevi, e l'hai
detto: allor tu stesso
Segnasti il termin
dell'offesa. Ell'era
Causa di Dio, dicevi. È
vinta; e nulla
Più ti domanda Iddio.
CARLO
Tu legge imponi
Al vincitor?
DESIDERIO
Legge? Oh! ne' detti miei
Non ti fingere orgoglio,
onde sdegnarli.
O Carlo, il ciel molto ti
die': ti vedi
Il nemico ai ginocchi, e
dal suo labbro
Odi il prego sommesso e la
lusinga;
Nel suolo ov'ei ti
combattea, tu regni.
Ah! non voler di più:
pensa che abborre
Gli smisurati desideri il
cielo.
CARLO
Cessa.
DESIDERIO
Ah! m'ascolta:
un dì tu ancor potresti
Assaggiar la sventura, e
d'un amico
Pensier che ti conforti,
aver bisogno;
E allor gioconda ti
verrebbe in mente
Di questo giorno la pietà.
Rammenta
Che innanzi al trono
dell'Eterno un giorno
aspetterai tremando una
risposta,
O di mercede o di rigor,
com'io
Dal tuo labbro or
l'aspetto. Ahi! già venduto
Il mio figlio t'è forse!
Oh! se quell'alto
Spirto indomito, ardente,
consumarsi
Deve in catene!... Ah no!
pensa che reo
Di nulla egli è; difese il
padre: or questo
Gli è tolto ancor. Che
puoi temer? Per noi
Non c'è brando che fera: a
te vassalli
Son quei che il furo a
noi: da lor tradito
Tu non sarai: tutto è
leale al forte.
Italia è tua; reggila in
pace; un rege
Prigion ti basti; a
stranio suol consenti
Che il figliuol mio...
CARLO
Non più; cosa mi chiedi
Tu! che da me non otterria
Bertrada.
DESIDERIO
- Io ti pregava! io, che
per certo a prova
Conoscerti dovea! Nega;
sul tuo
Capo il tesor della
vendetta addensa.
Ti fe' l'inganno vincitor;
superbo
La vittoria ti faccia e
dispietato.
Calca i prostrati, e sali;
a Dio rincresci...
CARLO
Taci, tu che sei vinto. E
che? pur ieri
La mia morte sognavi, e
grazie or chiedi,
Qual converria, se, nella
facil ora
Di colloquio ospital,
lieto io sorgessi
Dalla tua mensa! E perché
amica e pari
Non sonò la risposta al
tuo desio,
Anco mi vieni a
imperversar d'intorno,
Come il mendico che un
rifiuto ascolta!
Ma quel che a me tu
preparavi - Adelchi
Era allor teco - non ne
parli: or io
Ne parlerò. Da me fuggia
Gerberga,
Da me cognato, e seco i
figli, i figli
Del mio fratel traea, di
strida empiendo
Il suo passaggio, come
augel che i nati
Trafuga all'ugna di
sparvier. Mentito
Era il terror: vero
soltanto il cruccio
Di non regnar; ma
obbrobriosa intanto
Me una fama pingea quasi
un immane
Vorator di fanciulli, un
parricida.
Io soffriva, e tacea. Voi
premurosi
La sconsigliata
raccettaste, ed eco
Feste a quel suo garrito.
Ospiti voi
De' nipoti di Carlo!
Difensori
Voi, del mio sangue,
contro me! Tornata
Or finalmente è, se nol
sai, Gerberga
A cui fuggir mai non
doveva; a questo
Tutor tremendo i figli
adduce, e fida
Le care vite a questa man.
Ma voi,
Altro che vita, un più
superbo dono
Destinavate a' miei
nipoti. Al santo
Pastor chiedeste, e non fu
inerme il prego,
Che sulle chiome de'
fanciulli, al peso
Non pur dell'elmo avvezze,
ei, da spergiuro,
L'olio versasse del
Signor. Sceglieste
Un pugnal, l'affilaste, e
al più diletto
Amico mio por lo voleste
in pugno,
Perch'egli in cor me lo
piantasse. E quando
Io, tra 'l Vèsero infido o
la selvaggia
Elba, i nemici a debellar
del cielo
Mi sarei travagliato, in
Francia voi
Correre, insegna contro
insegna, e crisma
Contro crisma levar,
perfidi! e pormi
In un letto di spine, il
più giocondo
De' vostri sogni era
codesto. Al cielo
Parve altrimenti. Voi
tempraste al mio
Labbro un calice amaro; ei
v'è rimasto:
Votatelo. Di Dio tu mi
favelli;
S'io nol temessi, il rio
che tanto ardia
Pensi che in Francia il
condurrei captivo?
Cogli ora il fior che hai
coltivato, e taci.
Inesausta di ciance è la
sventura;
Ma del par sofferente e
infaticato
Non è d'offeso vincitor
l'orecchio.
SCENA SESTA
CARLO, DESIDERIO, ARVINO
ARVINO
Viva re Carlo! Al cenno
tuo, dai valli
Calan le insegne;
strepitando a terra
Van le sbarre nemiche; ai
claustri aperti
Ognun s'affolla, ed
all'omaggio accorre.
DESIDERIO
Ahi dolente, che ascolto!
e che mi resta
Ad ascoltar!
CARLO
Né
si sottrasse alcuno?
ARVINO
Nessuno, o re: pochi il
tentar, ma invano.
Sorpresi nella fuga,
d'ogni parte
Cinti, pugnar fino
all'estremo; e tutti
Restar sul campo, quale
estinto, e quale
Ferito a morte.
CARLO
E
son?
ARVINO
Tale è presente,
A cui troppo dorrà, se
tutto io dico.
DESIDERIO
Nunzio di morte, tu l'hai
detto.
CARLO
Adelchi
Dunque perì?
DESIDERIO
Parla, o crudele, al padre.
ARVINO
La luce ei vede, ma per
poco, offeso
D'immedicabil colpo. Il
padre ei chiede,
E te pur anche, o sire.
DESIDERIO
E questo ancora
Mi negherai?
CARLO
No, sventurato. - Arvino,
Fa ch'ei sia tratto a
questa tenda; e digli
Che non ha più nemici.
SCENA SETTIMA
CARLO, DESIDERIO
DESIDERIO
Oh! come grave
Sei tu discesa sul mio
capo antico,
Mano di Dio! Qual mi
ritorni il figlio!
Figlio, mia sola gloria,
io qui mi struggo,
E tremo di vederti. Io del
tuo corpo
Mirerò la ferita! io che
dovea
Esser pianto da te!
Misero! io solo
Ti trassi a ciò: cieco
amator, per farti
Più bello il soglio, io ti
scavai la tomba!
Se ancor, tra il canto de'
guerrier, caduto
Fossi in un giorno di
vittoria! o chiusi,
Tra il singulto de' tuoi,
tra il riverente
Dolor de' fidi, sul real
tuo letto,
Gli occhi io t'avessi...
ah! saria stato ancora
Ineffabil cordoglio! Ed or
morrai
Non re, deserto, al tuo
nemico in mano,
Senza lamenti che del
padre, e sparsi
Innanzi ad uom che in
ascoltarli esulta?
CARLO
Veglio, t'inganna il tuo
dolor. Pensoso,
Non esultante, d'un
gagliardo il fato
Io contemplo, e d'un re.
Nemico io fui
D'Adelchi; egli era il
mio, né tal, che in questo
Novello seggio io riposar
potessi,
Lui vivo, e fuor delle mie
mani. Or egli
Stassi in quelle di Dio:
quivi non giunge
La nimistà d'un pio.
DESIDERIO
Dono funesto
La tua pietà, s'ella
giammai non scende,
Che sui caduti senza speme
in fondo;
Se allor soltanto il
braccio tuo rattieni,
Che più loco non trovi
alle ferite.
SCENA OTTAVA
CARLO, DESIDERIO, ADELCHI,
ferito e portato
DESIDERIO
Ahi, figlio!
ADELCHI
O padre, io ti
rivedo! Appressa;
Tocca la mano del tuo
figlio.
DESIDERIO
Orrendo
M'è il vederti così.
ADELCHI
Molti sul campo
Cadder così per la mia
mano.
DESIDERIO
Ahi, dunque
Insanabile, o caro, è
questa piaga?
ADELCHI
Insanabile.
DESIDERIO
Ahi lasso! ahi guerra atroce!
Io crudel che la volli; io
che t'uccido!
ADELCHI
Non tu, né questi, ma il
Signor d'entrambi.
DESIDERIO
Oh desiato da quest'occhi,
oh quanto
Lunge da te soffersi! Ed
un pensiero
Fra tante ambasce mi
reggea, la speme
Di narrartele un giorno,
in una fida
Ora di pace.
ADELCHI
Ora per me di pace,
Credilo, o padre, è
giunta; ah! pur che vinto
Te dal dolor quaggiù non
lasci.
DESIDERIO
Oh fronte
Balda e serena! oh man
gagliarda! oh ciglio
Che spiravi il terror!
ADELCHI
Cessa i lamenti,
Cessa o padre, per Dio!
Non era questo
Il tempo di morir? Ma tu,
che preso
Vivrai, vissuto nella
reggia, ascolta.
Gran segreto è la vita, e
nol comprende
Che l'ora estrema. Ti fu
tolto un regno:
Deh! nol pianger; mel
credi. Allor che a questa
Ora tu stesso appresserai,
giocondi
Si schiereranno al tuo
pensier dinanzi
Gli anni in cui re non
sarai stato, in cui
Né una lagrima pur notata
in cielo
Fia contro te, né il nome
tuo saravvi
Con l'imprecar de'
tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi
che chiusa
All'oprar t'è ogni via:
loco a gentile,
Ad innocente opra non v'è:
non resta
Che far torto, o patirlo.
Una feroce
Forza il mondo possiede, e
fa nomarsi
Dritto: la man degli avi
insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i
padri l'hanno
Coltivata col sangue; e
omai la terra
Altra messe non dà.
Reggere iniqui
Dolce non è; tu l'hai
provato: e fosse;
Non dee finir così? Questo
felice,
Cui la mia morte fa più
fermo il soglio,
Cui tutto arride, tutto
plaude e serve,
Questo è un uom che morrà.
DESIDERIO
Ma ch'io ti perdo,
Figlio, di ciò chi mi
consola?
ÀDELCHI
Il Dio
Che di tutto consola.
(si volge a Carlo)
E
tu superbo
Nemico mio...
CARLO
Con questo nome, Adelchi,
Più non chiamarmi; il fui:
ma con le tombe
Empia e villana è nimistà;
né tale,
Credilo, in cor cape di
Carlo.
ADELCHI
E amico
Il mio parlar sarà,
supplice, e schivo
D'ogni ricordo ad ambo
amaro, e a questo
Per cui ti prego, e la
morente mano
Ripongo nella tua. Che
tanta preda
Tu lasci in libertà...
questo io non chiedo...
Ché vano, il veggo, il mio
pregar saria,
Vano il pregar d'ogni
mortale. Immoto
È il senno tuo; né a
questo segno arriva
Il tuo perdon. Quel che
negar non puoi
Senza esser crudo, io ti
domando. Mite,
Quant'esser può, scevra
d'insulto sia
La prigionia di questo
antico, e quale
La imploreresti al padre
tuo, se il cielo
Al dolor di lasciarlo in
forza altrui
Ti destinava. Il venerabil
capo
D'ogni oltraggio difendi:
i forti contro
I caduti, son molti; e la
crudele
Vista ei non deve
sopportar d'alcuno
Che vassallo il tradì.
CARLO
Porta all'avello
Questa lieta certezza:
Adelchi, il cielo
Testimonio mi sia; la tua
preghiera
È parola di Carlo.
ADELCHI
Il
tuo nemico
Prega per te, morendo.
SCENA NONA
ARVINO, CARLO, DESIDERIO,
ADELCHI
ARVINO
Impazienti,
Invitto re, chiedon
guerrieri e duchi
D'esser ammessi.
ADELCHI
Carlo!
CARLO
Alcun non osi
Avvicinarsi a questa
tenda. Adelchi
È signor qui. Solo
d'Adelchi il padre,
E il pio ministro del
perdon divino
Han qui l'accesso.
(parte con Arvino)
SCENA DECIMA
DESIDERIO, ADELCHI
DESIDERIO
Ahi, mio diletto!
ADELCHI
O padre,
Fugge la luce da
quest'occhi.
DESIDERIO
Adelchi,
No, non lasciarmi!
ADELCHI
O
Re de' re tradito
Da un tuo Fedel, dagli
altri abbandonato!...
Vengo alla pace tua:
l'anima stanca
Accogli.
DESIDERIO
Ei
t'ode: oh ciel! tu manchi! ed io...
In servitude a piangerti
rimango.
FINE DELLA TRAGEDIA
[1] PAUL.
DIAC. De gestis Langob., Lib. 2.
[2] Una
descrizione più circostanziata delle divisioni dell'Italia
in quel tempo ci condurrebbe a questioni intricate e
inopportune. V. MURAT., Antich. Ital., dissert.
seconda.
[3] Affirmans
etiam sub juramento, quod per nullius hominis favorem sese
certamini saepius dedisset, nisi pro amore beati Petri, et
venia delictorum; asserens et hoc, quod nulla eum thesauri
copia suadere valeret, ut quod semel Beato Petro obtulit,
auferret. ANASTAS. Biblioth.;
Rer. It., t. III, p. 171.
[4] Cujus
(Brixiae) ipse Desiderius nobilis erat. RIDOLF. Notar.,
Hist. Ap. BIEMMI, Ist.
Di Brescia. (Del secolo XI). -
SICARDI Episc.; Rer. It., t. VII, p. 577, e altri.
[6] Sub
jurejurando pollicitus est restituendum B. Petro civitates
reliquas, Faventiam, Imolam, Ferrariam, cum eorum finibus,
etc. STEPH., Ep. Ad Pipin.; Cod. Car. 8.
[7] Anselperga,
sacrata Deo Abbatissa Monasterii Domini Salvatoris, quod
fundatum est in civitate Brixia, quam dominus Desiderius
excellentissimus rex, et Ansa percellentissima regina,
genitores eius, a fundamentis edificaverunt...
Dipl. an. 761; apud MURAT., Antiquit.
Italic., dissert. 66, t. V, p. 499.
[8] PAUL.
Ep. Ad Pip.; Cod. Car., 15
[9] Le
cronache di que' tempi variano perfino ne' nomi, quando però
li danno.
[10] Cod.
Carol., Epist. 45
[11] Berta
duxit filiam Desiderii regis Langobardorum in Franciam.
Annal. Nazar. Ad h. an.; Rer. Fr., t. V, p. 11
[12] Cum,
matris hortatu, filiam Desiderii regis Langobardorum
duxisset uxorem, incertum qua de causa, post annum
repudiavit, et Hildegardem, de gente Suavorum praecipuae
nobilitatis feminam, in matrimonium accepit. Karol. M.
Vita per EGINHARDUM, 18.(Scrittore contemporaneo).
[13] Ita ut
nulla invicem sit exorta discordia, praeter in divortio
filiae regis Desiderii, quam, illa suadente, acceperat.
EGINH. in Vita Kar., ibid.
[14] Rex autem
hanc eorum profectionem, quasi supervacuam, impatienter
tulit. EGINH., Annal. ad h. annum.
[16] HEGEVISCH,
Hist. De Charlem., trad. de l' Allem., p. 116.
[20] Albinus,
deliciosus ipsius regis. ANAST., p. 184. V. MUR., Ant. It.,
diss. 4.
[21] Asserens
se minime quidquam redditurum. ANAST., Ibid.
[22] Annal.
Tiliani, Loiseliani, Cronac. Moissiacense, ed altri, nel
t. V Rer. Franc. In generale, gli annalisti di que'
secoli che noi chiamiamo barbari, sanno, nelle cose di poca
importanza, copiarsi l'uno coll'altro, al pari di qualunque
letterato moderno: s'accordano poi a maraviglia nel passar
sotto silenzio ciò che più si vorrebbe sapere.
[23] Sed dum
iniqua cupiditate Langobardi inter se consurgerent, quidam
ex proceribus Langobardis talem legationem mittunt Carolo,
Francorum regi, quatenus veniret cum valido exercitu, et
regnum Italiae sub sua ditione obtineret, asserentes quia
istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus traderent
vinctum, et opes multas, etc... Quod ille praedictus rex
Carolus cognoscens, cum... ingenti multitudine Italiam
properavit. ANONIM. SALERNIT.,
Chron., c. 9; Rer. It., t. II, part.II p. 180.-
Scrisse nel secolo X.
[24] Vedi gli
annalisti citati sopra, e EGINH., Annal., ad an. 773.
[25] ANAST.,
p. 184. - Chron. Novaliciense, I. 3, c. 9; R. It.,
t. II, parte II, p. 717. - Il monaco, anonimo autore di
questa cronaca, visse, secondo le congetture del Muratori,
verso la metà del secolo XI.
[26] Firmis
qui (Desiderius) fabricis praecludens limina regni, arcebat
Francos aditu. Ex FRODOARDO, de Pontif. Rom.: R.
Fr., t. V, p. 463. - Frodoardo, canonico di Rheims,
visse nel X secolo.
[27] Erat enim
Desiderio filius nomine Algisus, a juventute sua fortis
viribus. Hic baculum ferreum equitando solitus erat ferre
tempore hostili... Cum autem his
juvenis dies et noctes observaret, et Francos quiescere
cerneret, subito super ipsos irruens, percutiebat cum suis a
dextris et a sinistris, et maxima caede eos prosternebat.
Chron. Nov.,
p. 3, c. 10.
[28] Claustrisque
repulsi, In sua praecipitem meditantur regna regressum. Una
moram reditus tantum nox forte ferebat. FRODOARD., ib.
Dum vellent Franci alio die ad propria reverti.
ANASTAS., pag. 184.
[29] Hic (Leo)
primus Francis Italiae iter ostendit, per Martinum diaconum
suum, qui post eum quartus Ecclesiae regimen tenuit, et ab
eo Karolus rex invitatus Italiam venit. AGNEL., Raven.
Pontif.; Rer. Ital., t. II, p. 177. - Scrisse
Agnello nella prima metà del secolo IX, e conobbe Martino,
di cui descrive l'alta statura e le forme atletiche.
Ibid., p. 182.
[30] Misit
autem (Karolus) per difficilem ascensum montis legionem ex
probatissimis pugnatoribus, qui, transcenso monte,
Langobardos cum Desiderio rege eorum... in fuga converterunt.
Karolus vero rex, cum exercitu suo, per apertas Clusas
intravit. Chron. Moissac.; Rer. Fr., t. V, p.
69. - Questa cronaca di incerto autore termina all' anno
818.
[32] RIDOLFI
Notarii Histor., apud BIEMMI. Istoria di Brescia,
t. II. Del secolo XI.
[34] Langobardi
obsidione pertaesi civitate cum Desiderio rege egrediuntur
ad regem. Annal. Lambech.;
R. Fr., V, 64.
[35] Desiderius
a suis quippe, ut diximus, Fidelibus callide est ei traditus.
Anon. Salern., 179.
[36] Rer.
Fr., t. V, p. 385.
[37] Ibique
venientes undique Langobardi de singulis civitatibus Italiae,
subdiderunt se dominio et regimini gloriosi regis Karoli.
Chron. Moissiac.; Rer. Fr.,
V, 70.
[38] HADRIANI,
Epist. Ad Karolum, Cod. Carol.
90 e 88.
[39] Ex
SIGIBERTI Chron.; Rer. Fr., V, 377.
[40] Cui (Hildeprando)
dum contum, uti moris est, traderent. PAUL. DIAC., 1, 6, c.
55.
[41] Si quis
Langobardus, si vivente, suas filias nuptui tradiderit, et
alias filias in capillo in casa reliquerit... LIUTPRANDI,
Leg., I, 1, 2.
[42] Vedi la
nota al passo citato, Rer. It.,t. I, parte II, p. 51.
[43] De
omnibus Judicibus, quomodo in exercitu ambulandi causa
necessitas fuerit, non mittant alios homines, nisi
tantummodo qui unum caballum habeant, idest homines quinque,
etc. LIUTPR. Leg., 1. 6,
29.
[44] Insignis
nobilitas, aut magna patrum merita principis dignationem
etiam adolescentulis assignant: coeteris robustioribus, ac
jampridem probatis aggregantur: nec rubor inter comites
aspici. TACIT., German., 13.
[45] HOMER.,
Il., libr. 23, v. 90.
[46] Tassilo
dux Bajoariorum... more francico, in manus regis, in
vassaticum, manibus suis, semetipsum commendavit. EGINH.,
Annal., Rer. Fr., t. V, p. 198.
[47] Juret
ad arma sacrata. ROTHARIS Leg., 364. Vedi MURAT.,
Ant. It., dissert. 38.
[48] Assidue
exercebatur equitando ac venando, quod illi gentilium erat.
EGINH., Vit. Kar., 22.
[49] Rer.
Fr., t. V, p. 388.
[50] Delectabatur
etiam vaporibus aquarum naturaliter calentium...Ob hoc etiam
Aquisgrani Regiam extruxit. Eginh., Vit. Kar., 22.