Introduzione
Ai giudici che, in Milano, nel
1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver
propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che
orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria,
che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de'
supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati,
decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la
quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai
posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non
s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.
In una parte dello scritto
antecedente, l'autore aveva manifestata l'intenzione di pubblicarne
la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza vergogna,
sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non
altro, e di mole corrispondente. Ma se il ridicolo del disinganno
deve cadere addosso a lui, gli sia permesso almeno di protestare che
nell'errore non ha colpa, e che, se viene alla luce un topo, lui non
aveva detto che dovessero partorire i monti. Aveva detto soltanto
che, come episodio, una tale storia sarebbe riuscita troppo lunga, e
che, quantunque il soggetto fosse già stato trattato da uno
scrittore giustamente celebre (Osservazioni sulla tortura, di Pietro
Verri), gli pareva che potesse esser trattato di nuovo, con diverso
intento. E basterà un breve cenno su questa diversità, per far
conoscere la ragione del nuovo lavoro. Così si potesse anche dire
l'utilità; ma questa, pur troppo, dipende molto più dall'esecuzione
che dall'intento.
Pietro Verri si propose, come
indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto
un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva
potuto estorcere la confessione d'un delitto, fisicamente e
moralmente impossibile. E l'argomento era stringente, come nobile e
umano l'assunto.
Ma dalla storia, per quanto
possa esser succinta, d'un avvenimento complicato, d'un gran male
fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente
potersi ricavare osservazioni più generali, e d'un'utilità, se non
così immediata, non meno reale. Anzi, a contentarsi di quelle sole
che potevan principalmente servire a quell'intento speciale, c'è
pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma
falsa, prendendo per cagioni di esso l'ignoranza de' tempi e la
barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un
avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore
dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranza in
fisica può produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una
cattiva istituzione non s'applica da sé. Certo, non era un effetto
necessario del credere all'efficacia dell'unzioni pestifere, il
credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in
opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto
necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che
tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati
colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non
di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser
sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa
dipende il giudicar rettamente quell'atroce giudizio. Noi abbiam
cercato di metterla in luce, di far vedere che que' giudici
condannaron degl'innocenti, che essi, con la più ferma persuasione
dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione che ammetteva la
tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli
colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in
mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com'ora,
come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a
espedienti, de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia. Non
vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere
all'ignoranza e alla tortura la parte loro in quell'orribile fatto:
ne furono, la prima un'occasion deplorabile, l'altra un mezzo
crudele e attivo, quantunque non l'unico certamente, né il
principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed
efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non
da passioni perverse?
Dio solo ha potuto distinguere
qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que'
giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli
oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che
le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata,
e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva
dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e
diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di
sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un'aspettativa generale,
altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se
scoprivano degl'innocenti, di voltar contro di sé le grida della
moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors'anche di gravi
pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe
apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando
sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di
commetter l'ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se que'
magistrati, trovando i colpevoli d'un delitto che non c'era, ma che
si voleva(1) , furon più complici o ministri d'una moltitudine che,
accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore,
violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina,
di cui si vantava seguace. Ma la menzogna, l'abuso del potere, la
violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l'adoprar
doppio peso e doppia misura, son cose che si posson riconoscere
anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson
riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né,
per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne
potrebbe trovar di più naturali e di men triste, che quella rabbia e
quel timore.
Ora, tali cagioni non furon pur
troppo particolari a un'epoca; né fu soltanto per occasione d'errori
in fisica, e col mezzo della tortura, che quelle passioni, come
tutte l'altre, abbian fatto commettere ad uomini ch'eran tutt'altro
che scellerati di professione, azioni malvage, sia in rumorosi
avvenimenti pubblici, sia nelle più oscure relazioni private. "Se
una sola tortura di meno," scrive l'autor sullodato, "si darà in
grazia dell'orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il
doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi
ricompensa(2) ." Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di
nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà
senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che
non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e
principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come
falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno
potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti, e
detestarle.
E non temiamo d'aggiungere che
potrà anche esser cosa, in mezzo ai più dolorosi sentimenti,
consolante. Se, in un complesso di fatti atroci dell'uomo contro
l'uomo, crediam di vedere un effetto de' tempi e delle circostanze,
proviamo, insieme con l'orrore e con la compassion medesima, uno
scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la
natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti
dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da
cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi.
Ci pare irragionevole l'indegnazione che nasce in noi spontanea
contro gli autori di que' fatti, e che pur nello stesso tempo ci par
nobile e santa: rimane l'orrore, e scompare la colpa; e, cercando un
colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con
raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due
deliri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma quando, nel guardar
più attentamente a que' fatti, ci si scopre un'ingiustizia che
poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un
trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell'azioni opposte ai
lumi che non solo c'erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in
circostanze simili, mostraron d'avere, è un sollievo il pensare che,
se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu
per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è
una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser
forzatamente vittime, ma non autori.
Non ho però voluto dire che,
tra gli orrori di quel giudizio, l'illustre scrittore suddetto non
veda mai, in nessun caso, l'ingiustizia personale e volontaria de'
giudici. Ho voluto dir soltanto che non s'era proposto d'osservar
quale e quanta parte c'ebbe, e molto meno di dimostrare che ne fu la
principale, anzi, a parlar precisamente, la sola cagione. E aggiungo
ora, che non l'avrebbe potuto fare senza nocere al suo particolare
intento. I partigiani della tortura (ché l'istituzioni più assurde
ne hanno finché non son morte del tutto, e spesso anche dopo, per la
ragione stessa che son potute vivere) ci avrebbero trovata una
giustificazione di quella. - Vedete? - avrebbero detto, - la colpa è
dell'abuso, e non della cosa. - Veramente, sarebbe una singolar
giustificazione d'una cosa, il far vedere che, oltre all'essere
assurda in ogni caso, ha potuto in qualche caso speciale servir di
strumento alle passioni, per commettere fatti assurdissimi e
atrocissimi. Ma l'opinioni fisse l'intendon così. E dall'altra
parte, quelli che, come il Verri, volevano l'abolizion della
tortura, sarebbero stati malcontenti che s'imbrogliasse la causa con
distinzioni, e che, con dar la colpa ad altro, si diminuisse
l'orrore per quella. Così almeno avvien d'ordinario: che chi vuol
mettere in luce una verità contrastata, trovi ne' fautori, come
negli avversari, un ostacolo a esporla nella sua forma sincera. È
vero che gli resta quella gran massa d'uomini senza partito, senza
preoccupazione, senza passione, che non hanno voglia di conoscerla
in nessuna forma.
In quanto ai materiali di cui
ci siam serviti per compilar questa breve storia, dobbiam dire prima
di tutto, che le ricerche fatte da noi per iscoprire il processo
originale, benché agevolate, anzi aiutate dalla più gentile e attiva
compiacenza, non han giovato che a persuaderci sempre più che sia
assolutamente perduto. D'una buona parte però è rimasta la copia; ed
ecco come. Tra que' miseri accusati si trovò, e pur troppo per colpa
d'alcun di loro, una persona d'importanza, don Giovanni Gaetano de
Padilla, figlio del comandante del castello di Milano, cavalier di
sant'Iago, e capitano di cavalleria; il quale poté fare stampare le
sue difese, e corredarle d'un estratto del processo, che, come a reo
costituito, gli fu comunicato. E certo, que' giudici non s'accorsero
allora, che lasciavan fare da uno stampatore un monumento più
autorevole e più durevole di quello che avevan commesso a un
architetto. Di quest'estratto, c'è di più un'altra copia
manoscritta, in alcuni luoghi più scarsa, in altri più abbondante,
la quale appartenne al conte Pietro Verri, e fu dal degnissimo suo
figlio, il signor conte Gabriele, con liberale e paziente cortesia,
messa e lasciata a nostra disposizione. È quella che servì
all'illustre scrittore per lavorar l'opuscolo citato, ed è sparsa di
postille, che sono riflessioni rapide, o sfoghi repentini di
compassion dolorosa, e d'indegnazione santa. Porta per titolo:
Summarium offensivi contra Don Johannem Cajetanum de Padilla; ci si
trovan per esteso molte cose delle quali nell'estratto stampato non
c'è che un sunto; ci son notati in margine i numeri delle pagine del
processo originale, dalle quali son levati i diversi brani; ed è
pure sparsa di brevissime annotazioni latine, tutte però del
carattere stesso del testo: Detentio Morae; Descriptio Domini
Johannis; Adversatur Commissario; Inverisimile; Subgestio, e simili,
che sono evidentemente appunti presi dall'avvocato del Padilla, per
le difese. Da tutto ciò pare evidente che sia una copia letterale
dell'estratto autentico che fu comunicato al difensore; e che
questo, nel farlo stampare, abbia omesse varie cose, come meno
importanti, e altre si sia contentato d'accennarle. Ma come mai se
ne trovano nello stampato alcune che mancano nel manoscritto?
Probabilmente il difensore poté spogliar di nuovo il processo
originale, e farci una seconda scelta di ciò che gli paresse utile
alla causa del suo cliente.
Da questi due estratti abbiamo
naturalmente ricavato il più; ed essendo il primo, altre volte
rarissimo, stato ristampato da poco tempo, il lettore potrà, se gli
piace, riconoscere, col confronto di quello, i luoghi che abbiam
presi dalla copia manoscritta.
Anche le difese suddette ci
hanno somministrato diversi fatti, e materia di qualche
osservazione. E siccome non furon mai ristampate, e gli esemplari ne
sono scarsissimi, non mancherem di citarle, ogni volta che avremo
occasion di servircene.
Qualche piccola cosa finalmente
abbiam potuto pescare da qualcheduno de' pochi e scompagnati
documenti autentici che son rimasti di quell'epoca di confusione e
di disperdimento, e che si conservano nell'archivio citato più d'una
volta nello scritto antecedente.
Dopo la breve storia del
processo abbiam poi creduto che non sarebbe fuor di luogo una più
breve storia dell'opinione che regnò intorno ad esso, fino al Verri,
cioè per un secolo e mezzo circa. Dico l'opinione espressa ne'
libri, che è, per lo più, e in gran parte, la sola che i posteri
possan conoscere; e ha in ogni caso una sua importanza speciale. Nel
nostro, c'è parso che potesse essere una cosa curiosa il vedere un
seguito di scrittori andar l'uno dietro all'altro come le pecorelle
di Dante, senza pensare a informarsi d'un fatto del quale credevano
di dover parlare. Non dico: cosa divertente; ché, dopo aver visto
quel crudele combattimento, e quell'orrenda vittoria dell'errore
contro la verità, e del furore potente contro l'innocenza disarmata,
non posson far altro che dispiacere, dicevo quasi rabbia, di
chiunque siano, quelle parole in conferma e in esaltazione
dell'errore, quell'affermar così sicuro, sul fondamento d'un credere
così spensierato, quelle maledizioni alle vittime,
quell'indegnazione alla rovescia. Ma un tal dispiacere porta con sé
il suo vantaggio, accrescendo l'avversione e la diffidenza per
quell'usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere
senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest'espressione, di
mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che
gli ha già dato alla testa.
A questo fine, avevam pensato
alla prima di presentare al lettore la raccolta di tutti i giudizi
su quel fatto, che c'era riuscito di trovare in qualunque libro. Ma
temendo poi di metter troppo a cimento la sua pazienza, ci siam
ristretti a pochi scrittori, nessuno affatto oscuro, la più parte
rinomati: cioè quelli, de' quali son più istruttivi anche gli
errori, quando non posson più esser contagiosi.
Cap. 1
La mattina del 21 di giugno
1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina
Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che
allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla
parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle
colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e
il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice
costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareua che
scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece
appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il
cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro.
All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco
uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie.
Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava
lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava
in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con
le mani.
C'era alla finestra d'una casa
della strada medesima un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono;
la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo
sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo
il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin
dal momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri
toccati nel camminare. Viddi, dice, che si fermò qui in fine della
muraglia del giardino della casa delli Crivelli... et viddi che
costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano
dritta, che mi pareua che volesse scrivere; et poi viddi che, leuata
la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino,
dove era un poco di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le dita
macchiate d'inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero. Infatti,
nell'esame che gli fu fatto il giorno dopo, interrogato, se
l'attioni che fece quella mattina, ricercorno scrittura, risponde:
signor sì. E in quanto all'andar rasente al muro, se a una cosa
simile ci fosse bisogno d'un perché, era perché pioveva, come
accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione di
questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceva
questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato
quel tempo piovoso, perché più persone potessero imbrattarsi li
panni nell'andar in volta, per andar al coperto.
Dopo quella fermata, costui
tornò indietro, rifece la medesima strada, arrivò alla cantonata, ed
era per isparire; quando, per un'altra disgrazia, fu rintoppato da
uno ch'entrava nella strada, e che lo salutò. Quella Caterina, che,
per tener dietro all'untore, fin che poteva, era tornata alla
finestra di prima, domandò all'altro chi fosse quello che haueua
salutato. L'altro, che, come depose poi, lo conosceva di vista, e
non ne sapeva il nome, disse quel che sapeva, ch'era un commissario
della Sanità. Et io dissi a questo tale, segue a deporre la
Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi
piacciono niente. Subito puoi si diuulgò questo negotio, cioè fu
essa, almeno principalmente, che lo divolgò, et uscirno dalle porte,
et si vidde imbrattate le muraglie d'un certo ontume che pare grasso
et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero
che haueuano trovato tutto imbrattato li muri dell'andito della loro
porta. L'altra donna depone il medesimo. Interrogata, se sa a che
effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde:
dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del
Tradate.
E, cose che in un romanzo
sarebbero tacciate d'inverisimili, ma che pur troppo l'accecamento
della passione basta a spiegare, non venne in mente né all'una né
all'altra, che, descrivendo passo per passo, specialmente la prima,
il giro che questo tale aveva fatto nella strada, non avevan però
potuto dire che fosse entrato in quell'andito: non parve loro una
gran cosa davvero, che costui, giacché, per fare un lavoro simile,
aveva voluto aspettare che fosse levato il sole, non ci andasse
almeno guardingo, non desse almeno un'occhiata alle finestre; né che
tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se
fosse usanza de' malfattori di trattenersi più del bisogno nel luogo
del delitto; né che maneggiasse impunemente una materia che doveva
uccider quelli che se ne imbrattassero i panni; né troppe altre
ugualmente strane inverisimiglianze. Ma il più strano e il più
atroce si è che non paressero tali neppure all'interrogante, e che
non ne chiedesse spiegazione nessuna. O se ne chiese, sarebbe peggio
ancora il non averne fatto menzione nel processo.
I vicini, a cui lo spavento
fece scoprire chi sa quante sudicerie che avevan probabilmente
davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci, si misero
in fretta e in furia a abbruciacchiarle con della paglia accesa. A
Giangiacomo Mora, barbiere, che stava sulla cantonata, parve, come
agli altri, che fossero stati unti i muri della sua casa. E non
sapeva, l'infelice, qual altro pericolo gli sovrastava, e da quel
commissario medesimo, ben infelice anche lui.
Il racconto delle donne fu
subito arricchito di nuove circostanze; o fors'anche quello che
fecero subito ai vicini non fu in tutto uguale a quello che fecero
poi al capitano di giustizia. Il figlio di quel povero Mora, essendo
interrogato più tardi se sa o ha inteso dire in che modo il detto
commissario ongesse le dette muraglie et case, risponde: sentei che
una donna di quelle che stanno sopra il portico che trauersa la
detta Vedra, quale non so come habbi nome, disse che detto
commissario ongeua con una penna, hauendo un vasetto in mano.
Potrebb'esser benissimo che quella Caterina avesse parlato d'una
penna da lei vista davvero in mano dello sconosciuto; e ognuno
indovina troppo facilmente qual altra cosa poté esser da lei
battezzata per vasetto; ché, in una mente la qual non vedeva che
unzioni, una penna doveva avere una relazione più immediata e più
stretta con un vasetto, che con un calamaio.
Ma pur troppo, in quel tumulto
di chiacchiere, non andò persa una circostanza vera, che l'uomo era
un commissario della Sanità; e, con quest'indizio, si trovò anche
subito ch'era un Guglielmo Piazza, genero della comar Paola, la
quale doveva essere una levatrice molto nota in que' contorni. La
notizia si sparse via via negli altri quartieri, e ci fu anche
portata da qualcheduno che s'era abbattuto a passar di lì nel
momento del sottosopra. Uno di questi discorsi fu riferito al
senato, che ordinò al capitano di giustizia, d'andar subito a
prendere informazioni, e di procedere secondo il caso.
È stato significato al Senato
che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et porte
delle case della Vedra de' Cittadini, disse il capitano di giustizia
al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con
queste parole, già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza
correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre
il processo.
Al veder questa ferma
persuasione, questa pazza paura d'un attentato chimerico, non si può
far a meno di non rammentarsi ciò che accadde di simile in varie
parti d'Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera. Se non che,
questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche
eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più
parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe
trovato nessun tribunale che stendesse la mano sopra imputati di
quella sorte, quando non fosse stato per sottrarli al furore della
moltitudine. È, certo, un gran miglioramento; ma se fosse anche più
grande, se si potesse esser certi che, in un'occasion dello stesso
genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse attentati dello
stesso genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo
d'errori somiglianti nel modo, se non nell'oggetto. Pur troppo,
l'uomo può ingannarsi, e ingannarsi terribilmente, con molto minore
stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono
ugualmente all'occasion di mali che possono esser benissimo, e sono
in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto
e l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla
carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli
sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.
Per citarne un esempio anch'esso non lontano, anteriore di poco al
colera; quando gl'incendi eran divenuti così frequenti nella
Normandia, cosa ci voleva perché un uomo ne fosse subito subito
creduto autore da una moltitudine? L'essere il primo che trovavan
lì, o nelle vicinanze; l'essere sconosciuto, e non dar di sé un
conto soddisfacente: cosa doppiamente difficile quando chi risponde
è spaventato, e furiosi quelli che interrogano; l'essere indicato da
una donna che poteva essere una Caterina Rosa, da un ragazzo che,
preso in sospetto esso medesimo per uno strumento della malvagità
altrui, e messo alle strette di dire chi l'avesse mandato a dar
fuoco, diceva un nome a caso. Felici que' giurati davanti a cui tali
imputati comparvero (ché più d'una volta la moltitudine eseguì da sé
la sua propria sentenza); felici que' giurati, se entrarono nella
loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase
loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se
pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un
traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio e
essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi
in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi;
ma ch'eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria,
terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o
innocenti.
La persona ch'era stata
indicata al capitano di giustizia, per averne informazioni, non
poteva dir altro che d'aver visto, il giorno prima, passando per via
della Vetra, abbruciacchiar le muraglie, e sentito dire ch'erano
state unte quella mattina da un genero della comar Paola. Il
capitano di giustizia e il notaio si portarono a quella strada; e
videro infatti muri affumicati, e uno, quello del barbiere Mora,
imbiancato di fresco. E anche a loro fu detto da diversi che si sono
trouati ivi, che ciò era stato fatto per averli veduti unti; come
anco dal detto Signor Capitano, et da me notaro, scrive costui, si
sono visti ne' luoghi abbrugiati alcuni segni di materia ontuosa
tirante al giallo, sparsaui come con le deta. Quale riconoscimento
d'un corpo di delitto!
Fu esaminata una donna di
quella casa de' Tradati, la quale disse che avevan trovati i muri
dell'andito imbrattati di una certa cosa gialla, et in grande
quantità. Furono esaminate le due donne, delle quali abbiam riferita
la deposizione; qualche altra persona, che non aggiunse nulla, per
ciò che riguardava il fatto; e, tra gli altri, l'uomo che aveva
salutato il commissario. Interrogato di più, se passando lui per la
Vedra de' Cittadini, vidde le muraglie imbrattate, risponde: non li
feci fantasia, perché fin' all'hora non si era detto cosa alcuna.
Era già stato dato l'ordine
d'arrestare il Piazza, e ci volle poco. Lo stesso giorno 22,
referisce... fante della compagnia del Baricello di Campagna al
prefato Signor Capitano, il quale ancora era in carrozza, che andaua
verso casa sua, sicome passando dalla casa del Signor Senatore Monti
Presidente della Sanità, ha ritrouato auanti a quella porta, il
suddetto Guglielmo Commissario, et hauerlo, in esecuzione
dell'ordine datogli, condotto in prigione.
Per ispiegare come la sicurezza
dello sventurato non diminuisse punto la preoccupazione de' giudici,
non basta certo l'ignoranza de' tempi. Avevano per un indizio di
reità la fuga dell'imputato; che di lì non fossero condotti a
intendere che il non fuggire, e un tal non fuggire, doveva essere
indizio del contrario! Ma sarebbe ridicolo il dimostrar che uomini
potevano veder cose che l'uomo non può non vedere: può bensì non
volerci badare.
Fu subito visitata la casa del
Piazza, frugato per tutto, in omnibus arcis, capsis, scriniis,
cancellis, sublectis, per veder se c'eran vasi d'unzioni, o danari,
e non si trovò nulla: nihil penitus compertum fuit. Né anche questo
non gli giovò punto, come pur troppo si vede dal primo esame che gli
fu fatto, il giorno medesimo, dal capitano di giustizia, con
l'assistenza d'un auditore, probabilmente quello del tribunale della
Sanità.
È interrogato sulla sua
professione, sulle sue operazioni abituali, sul giro che fece il
giorno prima, sul vestito che aveva; finalmente gli si domanda: se
sa che siano stati trouati alcuni imbrattamenti nelle muraglie delle
case di questa città, particolarmente in Porta Ticinese. Risponde:
mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese. Gli si
replica che questo non è verisimile; si vuol dimostrargli che lo
doveva sapere. A quattro ripetute domande, risponde quattro volte il
medesimo, in altri termini. Si passa ad altro, ma non con altro
fine: ché vedrem poi per qual crudele malizia s'insistesse su questa
pretesa inverisimiglianza, e s'andasse a caccia di qualche altra.
Tra i fatti della giornata
antecedente, de' quali aveva parlato il Piazza, c'era d'essersi
trovato coi deputati d'una parrocchia. (Eran gentiluomini eletti in
ciascheduna di queste dal tribunale della Sanità, per invigilare,
girando per la città, sull'esecuzion de' suoi ordini.) Gli fu
domandato chi eran quelli con cui s'era trovato; rispose: che li
conosceva solamente di vista e non di nome. E anche qui gli fu
detto: non è verisimile. Terribile parola: per intender l'importanza
della quale, son necessarie alcune osservazioni generali, che pur
troppo non potranno esser brevissime, sulla pratica di que' tempi,
ne' giudizi criminali.
Cap. 2
Questa, come ognun sa, si
regolava principalmente, qui, come a un di presso in tutta Europa,
sull'autorità degli scrittori; per la ragion semplicissima che, in
una gran parte de' casi, non ce n'era altra su cui regolarsi. Erano
due conseguenze naturali del non esserci complessi di leggi composte
con un intento generale, che gl'interpreti si facessero legislatori,
e fossero a un di presso ricevuti come tali; giacché, quando le cose
necessarie non son fatte da chi toccherebbe, o non son fatte in
maniera di poter servire, nasce ugualmente, in alcuni il pensiero di
farle, negli altri la disposizione ad accettarle, da chiunque sian
fatte. L'operar senza regole è il più faticoso e difficile mestiere
di questo mondo.
Gli statuti di Milano, per
esempio, non prescrivevano altre norme, né condizioni alla facoltà
di mettere un uomo alla tortura (facoltà ammessa implicitamente, e
riguardata ormai come connaturale al diritto di giudicare), se non
che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il delitto portasse pena
di sangue, e ci fossero indizi(3) ; ma senza dir quali. La legge
romana, che aveva vigore ne' casi a cui non provvedessero gli
statuti, non lo dice di più, benché ci adopri più parole. "I giudici
non devono cominciar da' tormenti, ma servirsi prima d'argomenti
verisimili e probabili; e se, condotti da questi, quasi da indizi
sicuri, credono di dover venire ai tormenti, per iscoprir la verità,
lo facciano, quando la condizion della persona lo permette.(4) "
Anzi, in questa legge è espressamente istituito l'arbitrio del
giudice sulla qualità e sul valore degl'indizi; arbitrio che negli
statuti di Milano fu poi sottinteso.
Nelle così dette Nuove
Costituzioni promulgate per ordine di Carlo V, la tortura non è
neppur nominata; e da quelle fino all'epoca del nostro processo, e
per molto tempo dopo, si trovano bensì, e in gran quantità, atti
legislativi ne' quali è intimata come pena; nessuno, ch'io sappia,
in cui sia regolata la facoltà d'adoprarla come mezzo di prova.
E anche di questo si vede
facilmente la ragione: l'effetto era diventato causa; il
legislatore, qui come altrove, aveva trovato, principalmente per
quella parte che chiamiam procedura, un supplente, che faceva, non
solo sentir meno, ma quasi dimenticare la necessità del suo, dirò
così, intervento. Gli scrittori, principalmente dal tempo in cui
cominciarono a diminuire i semplici commentari sulle leggi romane, e
a crescer l'opere composte con un ordine più indipendente, sia su
tutta la pratica criminale, sia su questo o quel punto speciale, gli
scrittori trattavan la materia con metodi complessivi, e insieme con
un lavoro minuto delle parti; moltiplicavan le leggi con
l'interpretarle, stendendone, per analogia, l'applicazione ad altri
casi, cavando regole generali da leggi speciali; e, quando questo
non bastava, supplivan del loro, con quelle regole che gli paressero
più fondate sulla ragione, sull'equità, sul diritto naturale, dove
concordemente, anzi copiandosi e citandosi gli uni con gli altri,
dove con disparità di pareri: e i giudici, dotti, e alcuni anche
autori, in quella scienza, avevano, quasi in qualunque caso, e in
qualunque circostanza d'un caso, decisioni da seguire o da
scegliere. La legge, dico, era divenuta una scienza; anzi alla
scienza, cioè al diritto romano interpretato da essa, a quelle
antiche leggi de' diversi paesi che lo studio e l'autorità crescente
del diritto romano non aveva fatte dimenticare, e ch'erano
ugualmente interpretate dalla scienza, alle consuetudini approvate
da essa, a' suoi precetti passati in consuetudini, era quasi
unicamente appropriato il nome di legge: gli atti dell'autorità
sovrana, qualunque fosse, si chiamavano ordini, decreti, gride, o
con altrettali nomi; e avevano annessa non so quale idea
d'occasionale e di temporario. Per citarne un esempio, le gride de'
governatori di Milano, l'autorità de' quali era anche legislativa,
non valevano che per quanto durava il governo de' loro autori; e il
primo atto del successore era di confermarle provvisoriamente. Ogni
gridario, come lo chiamavano, era una specie d'Editto del Pretore,
composto un poco alla volta, e in diverse occasioni; la scienza
invece, lavorando sempre, e lavorando sul tutto; modificandosi, ma
insensibilmente; avendo sempre per maestri quelli che avevan
cominciato dall'esser suoi discepoli, era, direi quasi, una
revisione continua, e in parte una compilazione continua delle
Dodici Tavole, affidata o abbandonata a un decemvirato perpetuo.
Questa così generale e così
durevole autorità di privati sulle leggi, fu poi, quando si vide
insieme la convenienza e la possibilità d'abolirla, col far nuove, e
più intere, e più precise, e più ordinate leggi, fu, dico, e, se non
m'inganno, è ancora riguardata come un fatto strano e come un fatto
funesto all'umanità, principalmente nella parte criminale, e più
principalmente nel punto della procedura. Quanto fosse naturale s'è
accennato; e del resto, non era un fatto nuovo, ma un'estensione,
dirò così, straordinaria d'un fatto antichissimo, e forse, in altre
proporzioni, perenne; giacché, per quanto le leggi possano essere
particolarizzate, non cesseranno forse mai d'aver bisogno
d'interpreti, né cesserà forse mai che i giudici deferiscano, dove
più, dove meno, ai più riputati tra quelli, come ad uomini che, di
proposito, e con un intento generale, hanno studiato la cosa prima
di loro. E non so se un più tranquillo e accurato esame non facesse
trovare che fu anche, comparativamente e relativamente, un bene;
perché succedeva a uno stato di cose molto peggiore.
È difficile infatti che uomini
i quali considerano una generalità di casi possibili, cercandone le
regole nell'interpretazion di leggi positive, o in più universali ed
alti princìpi, consiglin cose più inique, più insensate, più
violente, più capricciose di quelle che può consigliar l'arbitrio,
ne' casi diversi, in una pratica così facilmente appassionata. La
quantità stessa de' volumi e degli autori, la moltiplicità e, dirò
così, lo sminuzzamento progressivo delle regole da essi prescritte,
sarebbero un indizio dell'intenzione di restringer l'arbitrio, e di
guidarlo (per quanto era possibile) secondo la ragione e verso la
giustizia; giacché non ci vuol tanto per istruir gli uomini ad
abusar della forza, a seconda de' casi. Non si lavora a fare e a
ritagliar finimenti al cavallo che si vuol lasciar correre a suo
capriccio; gli si leva la briglia, se l'ha.
Ma così avvien per il solito
nelle riforme umane che si fanno per gradi (parlo delle vere e
giuste riforme; non di tutte le cose che ne hanno preso il nome): ai
primi che le intraprendono, par molto di modificare la cosa, di
correggerla in varie parti, di levare, d'aggiungere: quelli che
vengon dopo, e alle volte molto tempo dopo, trovandola, e con
ragione, ancora cattiva, si fermano facilmente alla cagion più
prossima, maledicono come autori della cosa quelli di cui porta il
nome, perché le hanno data la forma con la quale continua a vivere e
a dominare.
In questo errore, diremmo quasi
invidiabile, quando è compagno di grandi e benefiche imprese, ci par
che sia caduto, con altri uomini insigni del suo tempo, l'autore
dell'Osservazioni sulla tortura. Quanto è forte e fondato nel
dimostrar l'assurdità, l'ingiustizia e la crudeltà di
quell'abbominevole pratica, altrettanto ci pare che vada, osiam
dire, in fretta nell'attribuire all'autorità degli scrittori ciò
ch'essa aveva di più odioso. E non è certamente la dimenticanza
della nostra inferiorità che ci dia il coraggio di contradir
liberamente, come siamo per fare, l'opinion d'un uomo così illustre,
e sostenuta in un libro così generoso; ma la confidenza nel
vantaggio d'esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per
punto principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con
occhio più tranquillo, nel complesso de' suoi effetti, e nella
differenza de' tempi, come cosa morta, e passata nella storia, un
fatto ch'egli aveva a combattere, come ancor dominante, come un
ostacolo attuale a nuove e desiderabilissime riforme. E a ogni modo,
quel fatto è talmente legato col suo e nostro argomento, che l'uno e
l'altro eravam naturalmente condotti a dirne qualcosa in generale:
il Verri perché, dall'essere quell'autorità riconosciuta al tempo
dell'iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in gran
parte cagione; noi perché, osservando ciò ch'essa prescriveva o
insegnava ne' vari particolari, ce ne dovrem servire come d'un
criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più
vivamente l'iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo.
"È certo", dice l'ingegnoso ma
preoccupato scrittore, "che niente sta scritto nelle leggi nostre,
né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle
occasioni nelle quali possano applicarvisi, né sul modo di
tormentare, se col foco o col dislogamento e strazio delle membra,
né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero delle volte da
ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll'autorità
del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti
citati.(5) "
Ma in quelle leggi nostre stava
scritta la tortura; ma in quelle d'una gran parte d'Europa(6) , ma
nelle romane, ch'ebbero per tanto tempo nome e autorità di diritto
comune, stava scritta la tortura. La questione dev'esser dunque, se
i criminalisti interpreti (così li chiameremo, per distinguerli da
quelli ch'ebbero il merito e la fortuna di sbandirli per sempre)
sian venuti a render la tortura più o meno atroce di quel che fosse
in mano dell'arbitrio, a cui la legge l'abbandonava quasi affatto; e
il Verri medesimo aveva, in quel libro medesimo, addotta, o almeno
accennata, la prova più forte in loro favore. "Farinaccio istesso,"
dice l'illustre scrittore, "parlando de' suoi tempi, asserisce che i
giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei,
inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui
propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas
tormentorum species(7) ."
Ho detto: in loro favore;
perché l'intimazione ai giudici d'astenersi dall'inventar nuove
maniere di tormentare, e in generale le riprensioni e i lamenti che
attestano insieme la sfrenata e inventiva crudeltà dell'arbitrio, e
l'intenzion, se non altro, di reprimerla e di svergognarla, non sono
tanto del Farinacci, quanto de' criminalisti, direi quasi, in
genere. Le parole stesse trascritte qui sopra, quel dottore le
prende da uno più antico, Francesco dal Bruno, il quale le cita come
d'uno più antico ancora, Angelo d'Arezzo, con altre gravi e forti,
che diamo qui tradotte: "giudici, arrabbiati e perversi, che saranno
da Dio confusi; giudici ignoranti, perché l'uom sapiente abborrisce
tali cose, e dà forma alla scienza col lume delle virtù(8) ".
Prima di tutti questi, nel
secolo XIII, Guido da Suzara, trattando della tortura, e applicando
a quest'argomento le parole d'un rescritto di Costanzo, sulla
custodia del reo, dice esser suo intento "d'imporre qualche
moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura.(9) "
Nel secolo seguente, Baldo
applica il celebre rescritto di Costantino contro il padrone che
uccide il servo, "ai giudici che squarcian le carni del reo, perché
confessi"; e vuole che, se questo muore ne' tormenti, il giudice sia
decapitato, come omicida(10).
Più tardi, Paride dal Pozzo
inveisce contro que' giudici che, "assetati di sangue, anelano a
scannare, non per fine di riparazione né d'esempio, ma come per un
loro vanto (propter gloriam eorum); e sono per ciò da riguardarsi
come omicidi(11)".
"Badi il giudice di non adoprar
tormenti ricercati e inusitati; perché chi fa tali cose è degno
d'esser chiamato carnefice piuttosto che giudice," scrive Giulio
Claro(12) .
"Bisogna alzar la voce
(clamandum est) contro que' giudici severi e crudeli che, per
acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più
alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti,"
scrive Antonio Gomez(13) .
Diletto e gloria! quali
passioni, in qual soggetto! Voluttà nel tormentare uomini, orgoglio
nel soggiogare uomini imprigionati! Ma almeno quelli che le
svelavano, non si può credere che intendessero di favorirle.
A queste testimonianze (e altre
simili se ne dovrà allegare or ora) aggiungeremo qui, che, ne' libri
su questa materia, che abbiam potuti vedere, non ci è mai accaduto
di trovar lamenti contro de' giudici che adoprassero tormenti troppo
leggieri. E se, in quelli che non abbiam visti, ci si mostrasse una
tal cosa, ci parrebbe una curiosità davvero.
Alcuni de' nomi che abbiam
citati, e di quelli che avremo a citare, son messi dal Verri in una
lista di "scrittori, i quali se avessero esposto le crudeli loro
dottrine e la metodica descrizione de' raffinati loro spasimi in
lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non
allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli, non
potevano essere riguardati se non coll'occhio medesimo col quale si
rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia(14) ". Certo,
l'orrore per quello che rivelano, non può esser troppo; è
giustissimo questo sentimento anche per quello che ammettevano; ma
se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del loro, l'orrore
sia un giusto sentimento, e l'ignominia una giusta retribuzione, il
poco che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare.
È vero che ne' loro libri, o,
per dir meglio, in qualcheduno, sono, più che nelle leggi, descritte
le varie specie di tormenti; ma come consuetudini invalse e radicate
nella pratica, non come ritrovati degli scrittori. E Ippolito
Marsigli, scrittore e giudice del secolo decimoquinto, che ne fa
un'atroce, strana e ributtante lista, allegando anche la sua
esperienza, chiama però bestiali que' giudici che ne inventan di
nuovi.(15)
Furono quegli scrittori, è
vero, che misero in campo la questione del numero delle volte che lo
spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo occasion di vederlo)
per impor limiti e condizioni all'arbitrio, profittando
dell'indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il
diritto romano.
Furon essi, è vero, che
trattaron del tempo che potesse durar lo spasimo; ma non per altro
che per imporre, anche in questo, qualche misura all'instancabile
crudeltà, che non ne aveva dalla legge, "a certi giudici, non meno
ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o
quattr'ore," dice il Farinacci(16) ; "a certi giudici iniquissimi e
scelleratissimi, levati dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di
ragione, i quali, quand'hanno in loro potere un accusato, forse a
torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al tormento; e
se non confessa quel ch'essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla
fune, per un giorno, per una notte intera," aveva detto il
Marsigli(17) , circa un secolo prima.
In questi passi, e in qualche
altro de' citati sopra, si può anche notare come alla crudeltà
cerchino d'associar l'idea dell'ignoranza. E per la ragion
contraria, raccomandano, in nome della scienza, non meno che della
coscienza, la moderazione, la benignità, la mansuetudine. Parole che
fanno rabbia, applicate a una tal cosa; ma che insieme fanno vedere
se l'intento di quegli scrittori era d'aizzare il mostro, o
d'ammansarlo.
Riguardo poi alle persone che
potessero esser messe alla tortura, non vedo cos'importi che niente
ci fosse nelle leggi propriamente nostre, quando c'era molto,
relativamente al resto di questa trista materia, nelle leggi romane,
le quali erano in fatto leggi nostre anch'esse.
"Uomini", prosegue il Verri,
"ignoranti e feroci, i quali senza esaminare donde emani il diritto
di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la
norma onde graduare la gravezza dei delitti, qual debba esser la
proporzione tra i delitti e le pene, se un uomo possa mai
costringersi a rinunziare alla difesa propria, e simili principii,
dai quali, intimamente conosciuti, possono unicamente dedursi le
naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della
società; uomini, dico, oscuri e privati, con tristissimo
raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la
scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima
colla quale si descrive l'arte di rimediare ai mali del corpo umano:
e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un
serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie
legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con
industrioso spasimo le membra degli uomini vivi, e a raffinarlo
colla lentezza e coll'aggiunta di più tormenti, onde rendere più
desolante e acuta l'angoscia e l'esterminio."
Ma come mai ad uomini oscuri e
ignoranti poté esser concessa tanta autorità? dico oscuri al loro
tempo, e ignoranti riguardo ad esso; ché la questione è
necessariamente relativa; e si tratta di vedere, non già se quegli
scrittori avessero i lumi che si posson desiderare in un
legislatore, ma se n'avessero più o meno di coloro che prima
applicavan le leggi da sé, e in gran parte se le facevan da sé. E
come mai era più feroce l'uomo che lavorava teorie, e le discuteva
dinanzi al pubblico, dell'uomo ch'esercitava l'arbitrio in privato,
sopra chi gli resisteva?
In quanto poi alle questioni
accennate dal Verri, guai se la soluzione della prima, "donde emani
il diritto di punire i delitti", fosse necessaria per compilar con
discrezione delle leggi penali; poiché si poté bene, al tempo del
Verri, crederla sciolta; ma ora (e per fortuna, giacché è men male
l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore) è più controversa
che mai. E l'altre, dico in generale tutte le questioni
d'un'importanza più immediata, e più pratica, erano forse sciolte e
sciolte a dovere, erano almeno discusse, esaminate quando gli
scrittori comparvero? Vennero essi forse a confondere un ordine
stabilito di più giusti e umani principi, a balzar di posto dottrine
più sapienti, a turbar, dirò così, il possesso a una giurisprudenza
più ragionata e più ragionevole? A questo possiamo risponder
francamente di no, anche noi; e ciò basta all'assunto. Ma vorremmo
che qualcheduno di quelli che ne sanno, esaminasse se piuttosto non
furon essi che, costretti, appunto perché privati e non legislatori,
a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la materia a
princìpi generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi
nelle leggi romane, e cercandone altri nell'idea universale del
diritto; se non furon essi che, lavorando a costruir, con rottami e
con nuovi materiali, una pratica criminale intera ed una,
prepararono il concetto, indicarono la possibilità, e in parte
l'ordine, d'una legislazion criminale intera ed una; essi che,
ideando una forma generale, aprirono ad altri scrittori, dai quali
furono troppo sommariamente giudicati, la strada a ideare una
generale riforma.
In quanto finalmente
all'accusa, così generale e così nuda, d'aver raffinato i tormenti,
abbiamo in vece veduto che fu cosa dalla maggior parte di loro
espressamente detestata e, per quanto stava in loro, proibita. Molti
de' luoghi che abbiam riferiti possono anche servire a lavarli in
parte dalla taccia d'averne trattato con quell'impassibile
tranquillità. Ci si permetta di citarne un altro che parrebbe quasi
un'anticipata protesta. "Non posso che dar nelle furie", scrive il
Farinacci, (non possum nisi vehementer excandescere) "contro que'
giudici che tengono per lungo tempo legato il reo, prima di
sottoporlo alla tortura; e con quella preparazione la rendon più
crudele.(18) "
Da queste testimonianze, e da
quello che sappiamo essere stata la tortura negli ultimi suoi tempi,
si può francamente dedurre che i criminalisti interpreti la
lasciarono molto, ma molto, men barbara di quello che l'avevan
trovata. E certo sarebbe assurdo l'attribuire a una sola causa una
tal diminuzione di male; ma, tra le molte, mi par che sarebbe anche
cosa poco ragionevole il non contare il biasimo e le ammonizioni
ripetute e rinnovate pubblicamente, di secolo in secolo, da quelli
ai quali pure s'attribuisce un'autorità di fatto sulla pratica de'
tribunali.
Cita poi il Verri alcune loro
proposizioni; le quali non basterebbero per fondarci sopra un
generale giudizio storico, quand'anche fossero tutte esattamente
citate. Eccone, per esempio, una importantissima, che non lo è: "Il
Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizii contro un uomo, e
si può metterlo alla tortura(19)".
Se quel dottore avesse parlato
così, sarebbe piuttosto una singolarità che un argomento; tanto una
tal dottrina è opposta a quella d'una moltitudine d'altri dottori.
Non dico di tutti, per non affermar troppo più di quello che so;
benché, dicendolo, non temerei d'affermar più di quello che è. Ma in
realtà il Claro disse, anche lui, il contrario; e il Verri fu
probabilmente indotto in errore dall'incuria d'un tipografo, il
quale stampò: Nam sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc
ut torqueri possit(20) , in vece di Non sufficit, come trovo in due
edizioni anteriori(21) . E per accertarsi dell'errore, non è neppur
necessario questo confronto, giacché il testo continua così: "se
tali indizi non sono anche legittimamente provati"; frase che
farebbe ai cozzi con l'antecedente, se questa avesse un senso
affermativo. E soggiunge subito: "ho detto che non basta (dixi
quoque non sufficere) che ci siano indizi, e che siano
legittimamente provati, se non sono anche sufficienti alla tortura.
Ed è una cosa che i giudici timorati di Dio devono aver sempre
davanti agli occhi, per non sottoporre ingiustamente alcuno alla
tortura: cosa del resto che li sottopone essi medesimi a un giudizio
di revisione. E racconta l'Afflitto d'aver risposto al re Federigo,
che nemmen lui, con l'autorità regia, poteva comandare a un giudice
di mettere alla tortura un uomo, contro il quale non ci fossero
indizi sufficienti".
Così il Claro; e basterebbe
questo per esser come certi, che dovette intender tutt'altro che di
rendere assoluto l'arbitrio con quell'altra proposizione che il
Verri traduce così: "in materia di tortura e d'indizi, non potendosi
prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del
giudice(22) ". La contradizione sarebbe troppo strana; e lo sarebbe
di più, se è possibile, con quello che l'autor medesimo dice
altrove: "benché il giudice abbia l'arbitrio, deve però stare al
diritto comune... e badino bene gli ufiziali della giustizia, di non
andar avanti tanto allegramente (ne nimis animose procedant), con
questo pretesto dell'arbitrio(23)".
Cosa intese dunque, con quelle
parole: remittitur arbitrio judicis che il Verri traduce: "tutto si
rimette all'arbitrio del giudice"?
Intese... Ma che dico? e perché
cercare in questo un'opinion particolare del Claro? Quella
proposizione, egli non faceva altro che ripeterla, giacché era, per
dir così, proverbiale tra gl'interpreti; e già due secoli prima,
Bartolo la ripeteva anche lui, come sentenza comune: Doctores
communiter dicunt quod in hoc (quali siano gl'indizi sufficienti
alla tortura) non potest dari certa doctrina, sed relinquitur
arbitrio judicis(24) . E con questo non intendevan già di proporre
un principio, di stabilire una teoria, ma d'enunciar semplicemente
un fatto; cioè che la legge, non avendo determinato gl'indizi, gli
aveva per ciò stesso lasciati all'arbitrio del giudice. Guido da
Suzara, anteriore a Bartolo d'un secolo circa, dopo aver detto o
ripetuto anche lui, che gl'indizi son rimessi all'arbitrio del
giudice, soggiunge: "come, in generale, tutto ciò che non è
determinato dalla legge(25) ". E per citarne qualcheduno de' meno
antichi, Paride dal Pozzo, ripetendo quella comune sentenza, la
commenta così: "a ciò che non è determinato dalla legge, né dalla
consuetudine, deve supplire la religion del giudice; e perciò la
legge sugl'indizi mette un gran carico sulla sua coscienza(26)i ". E
il Bossi, criminalista del secolo XVI, e senator di Milano:
"Arbitrio non vuol dir altro (in hoc consistit) se non che il
giudice non ha una regola certa dalla legge, la quale dice soltanto
non doversi cominciar dai tormenti, ma da argomenti verisimili e
probabili. Tocca dunque al giudice a esaminare se un indizio sia
verisimile e probabile(27) ".
Ciò ch'essi chiamavano
arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel
vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter
discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell'applicazion
delle leggi, e buone e cattive; e che i savi legislatori cercano,
non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune
determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in
quelle più che possono.
E tale, oso dire, fu anche
l'intento primitivo, e il progressivo lavoro degl'interpreti,
segnatamente riguardo alla tortura, sulla quale il potere lasciato
dalla legge al giudice era spaventosamente largo. Già Bartolo, dopo
le parole che abbiam citate sopra, soggiunge: "ma io darò le regole
che potrò". Altri ne avevan date prima di lui; e i suoi successori
ne diedero di mano in mano molte più, chi proponendone qualcheduna
del suo, chi ripetendo e approvando le proposte da altri; senza
lasciar però di ripeter la formola ch'esprimeva il fatto della
legge, della quale non erano, alla fine, che interpreti.
Ma con l'andar del tempo, e con
l'avanzar del lavoro, vollero modificare anche il linguaggio; e
n'abbiam l'attestato dal Farinacci, posteriore ai citati qui,
anteriore però all'epoca del nostro processo, e allora
autorevolissimo. Dopo aver ripetuto, e confermato con un subisso
d'autorità, il principio, che "l'arbitrio non si deve intender
libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall'equità"; dopo averne
cavate, e confermate con altre autorità, le conseguenze, che "il
giudice deve inclinare alla parte più mite, e regolar l'arbitrio con
la disposizion generale delle leggi, e con la dottrina de' dottori
approvati, e che non può formare indizi a suo capriccio"; dopo aver
trattato, più estesamente, credo, e più ordinatamente che nessuno
avesse ancor fatto, di tali indizi, conclude: "puoi dunque vedere
che la massima comune de' dottori - gl'indizi alla tortura sono
arbitrari al giudice - è talmente, e anche concordemente ristretta
da' dottori medesimi, che non a torto molti giurisperiti dicono
doversi anzi stabilir la regola contraria, cioè che gl'indizi non
sono arbitrari al giudice(28) ". E cita questa sentenza di Francesco
Casoni: "è error comune de' giudici il credere che la tortura sia
arbitraria; come se la natura avesse creati i corpi de' rei perché
essi potessero straziarli a loro capriccio(29) ".
Si vede qui un momento notabile
della scienza, che, misurando il suo lavoro, n'esige il frutto; e
dichiarandosi, non aperta riformatrice (ché non lo pretendeva, né le
sarebbe stato ammesso), ma efficace ausiliaria della legge,
consacrando la propria autorità con quella d'una legge superiore ed
eterna, intima ai giudici di seguir le regole che ha trovate, per
risparmiar degli strazi a chi poteva essere innocente, e a loro
delle turpi iniquità. Triste correzioni d'una cosa che, per essenza,
non poteva ricevere una buona forma; ma tutt'altro che argomenti
atti a provar la tesi del Verri: "né gli orrori della tortura si
contengono unicamente nello spasimo che si fa patire... ma orrori
ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla(30)
".
Ci si permetta in ultimo
qualche osservazione sopra un altro luogo da lui citato; ché
l'esaminarli tutti sarebbe troppo in questo luogo, e non abbastanza
certamente per la questione. "Basti un solo orrore per tutti; e
questo viene riferito dal celebre Claro milanese, che è il sommo
maestro di questa pratica: - Un giudice può, avendo in carcere una
donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza
secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la
libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e che con un tal
mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi d'un
omicidio, e la condusse a perdere la testa. - Acciocché non si
sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtù e tutti i
più sacri principii dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il
Claro: Paris dicit quod judex potest, etc.(31) ".
Orrore davvero; ma per veder
che importanza possa avere in una question di questa sorte,
s'osservi che, enunciando quell'opinione, Paride dal Pozzo(32) non
proponeva già un suo ritrovato; raccontava, e pur troppo con
approvazione, un fatto d'un giudice, cioè uno de' mille fatti che
produceva l'arbitrio senza suggerimento di dottori; s'osservi che il
Baiardi, il quale riferisce quell'opinione, nelle sue aggiunte al
Claro (non il Claro medesimo), lo fa per detestarla anche lui, e per
qualificare il fatto di finzione diabolica(33) ; s'osservi che non
cita alcun altro il quale sostenesse un'opinion tale, dal tempo di
Paride dal Pozzo al suo, cioè per lo spazio d'un secolo. E andando
avanti, sarebbe più strano che ce ne fosse stato alcuno. E quel
Paride dal Pozzo medesimo, Dio ci liberi di chiamarlo, col Giannone,
eccellente giureconsulto(34) ; ma l'altre sue parole che abbiam
riferite sopra, basterebbero a far veder che queste bruttissime non
bastano a dare una giusta idea nemmen delle dottrine di questo solo.
Non abbiam certamente la strana
pretensione d'aver dimostrato che quelle degl'interpreti, prese nel
loro complesso, non servirono, né furon rivolte a peggiorare.
Questione interessantissima, giacché si tratta di giudicar l'effetto
e l'intento del lavoro intellettuale di più secoli, in una materia
così importante, anzi così necessaria all'umanità; questione del
nostro tempo, giacché, come abbiamo accennato, e del resto ognun sa,
il momento in cui si lavora a rovesciare un sistema, non è il più
adattato a farne imparzialmente la storia; ma questione da
risolversi, o piuttosto storia da farsi, con altro che con pochi e
sconnessi cenni. Questi bastan però, se non m'inganno, a dimostrar
precipitata la soluzione contraria; come erano, in certo modo, una
preparazion necessaria al nostro racconto. Ché in esso noi avremo
spesso a rammaricarci che l'autorità di quegli uomini non sia stata
efficace davvero; e siam certi che il lettore dovrà dir con noi:
fossero stati ubbiditi!
Cap. 3
E per venir finalmente
all'applicazione, era insegnamento comune, e quasi universale de'
dottori, che la bugia dell'accusato nel rispondere al giudice, fosse
uno degl'indizi legittimi, come dicevano, alla tortura. Ecco perché
l'esaminatore dell'infelice Piazza gli oppose, non essere verisimile
che lui non avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta
Ticinese, e che non sapesse il nome de' deputati coi quali aveva
avuto che fare.
Ma insegnavan forse che
bastasse una bugia qualunque?
"La bugia, per fare indizio
alla tortura, deve riguardar le qualità e le circostanze sostanziali
del delitto, cioè che appartengano ad esso, e dalle quali esso si
possa inferire; altrimenti no: alias secus."
"La bugia non fa indizio alla
tortura, se riguarda cose che non aggraverebbero il reo, quando le
avesse confessate."
E bastava, secondo loro, che il
detto dell'accusato paresse al giudice bugia, perché questo potesse
venire ai tormenti?
"La bugia per fare indizio alla
tortura dev'esser provata concludentemente, o dalla propria
confession del reo, o da due testimoni... essendo dottrina comune
che due sian necessari a provare un indizio remoto, quale è la
bugia(35) ". Cito, e citerò spesso il Farinacci, come uno de' più
autorevoli allora, e come gran raccoglitore dell'opinioni più
ricevute. Alcuni però si contentavano d'un testimonio solo, purché
fosse maggiore d'ogni eccezione. Ma che la bugia dovesse risultar da
prove legali, e non da semplice congettura del giudice, era dottrina
comune e non contradetta.
Tali condizioni eran dedotte da
quel canone della legge romana, il quale proibiva (che cose s'è
ridotti a proibire, quando se ne sono ammesse cert'altre!) di
cominciar dalla tortura. "E se concedessimo ai giudici", dice
l'autor medesimo, "la facoltà di mettere alla tortura i rei senza
indizi legittimi e sufficienti, sarebbe come in lor potere il
cominciar da essa... E per poter chiamarsi tali, devon gl'indizi
esser verisimili, probabili, non leggieri, né di semplice formalità,
ma gravi, urgenti, certi, chiari, anzi più chiari del sole di
mezzogiorno, come si suol dire... Si tratta di dare a un uomo un
tormento, e un tormento che può decider della sua vita: agitur de
hominis salute; e perciò non ti maravigliare, o giudice rigoroso, se
la scienza del diritto e i dottori richiedono indizi così squisiti,
e dicon la cosa con tanta forza, e la vanno tanto ripetendo(36) ."
Non diremo certamente che tutto
questo sia ragionevole; giacché non può esserlo ciò che implica
contradizione. Erano sforzi vani, per conciliar la certezza col
dubbio, per evitare il pericolo di tormentare innocenti, e
d'estorcere false confessioni, volendo però la tortura come un mezzo
appunto di scoprire se uno fosse innocente o reo, e di fargli
confessare una data cosa. La conseguenza logica sarebbe stata di
dichiarare assurda e ingiusta la tortura; ma a questo ostava
l'ossequio cieco all'antichità e al diritto romano. Quel libriccino
Dei delitti e delle pene, che promosse, non solo l'abolizion della
tortura, ma la riforma di tutta la legislazion criminale, cominciò
con le parole: "Alcuni avanzi di leggi d'un antico popolo
conquistatore." E parve, com'era, ardire d'un grand'ingegno: un
secolo prima sarebbe parsa stravaganza. Né c'è da maravigliarsene:
non s'è egli visto un ossequio dello stesso genere mantenersi più a
lungo, anzi diventar più forte nella politica, più tardi nella
letteratura, più tardi ancora in qualche ramo delle Belle Arti?
Viene, nelle cose grandi, come nelle piccole, un momento in cui ciò
che, essendo accidentale e fattizio, vuol perpetuarsi come naturale
e necessario, è costretto a cedere all'esperienza, al ragionamento,
alla sazietà, alla moda, a qualcosa di meno, se è possibile, secondo
la qualità e l'importanza delle cose medesime; ma questo momento
dev'esser preparato. Ed è già un merito non piccolo degl'interpreti,
se, come ci pare, furon essi che lo prepararono, benché lentamente,
benché senz'avvedersene, per la giurisprudenza.
Ma le regole che pure avevano
stabilite, bastano in questo caso a convincere i giudici, anche di
positiva prevaricazione. Vollero appunto costoro cominciar dalla
tortura. Senza entrare in nulla che toccasse circostanze, né
sostanziali né accidentali, del presunto delitto, moltiplicarono
interrogazioni inconcludenti, per farne uscir de' pretesti di dire
alla vittima destinata: non è verisimile; e, dando insieme a
inverisimiglianze asserite la forza di bugie legalmente provate,
intimar la tortura. È che non cercavano una verità, ma volevano una
confessione: non sapendo quanto vantaggio avrebbero avuto nell'esame
del fatto supposto, volevano venir presto al dolore, che dava loro
un vantaggio pronto e sicuro: avevan furia. Tutto Milano sapeva (è
il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i
muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l'avevan
nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui!
Si dirà forse che, in faccia
alla giurisprudenza, se non alla coscienza, tutto era giustificato
dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne' delitti più
atroci fosse lecito oltrepassare il diritto? Lasciamo da parte che
l'opinion più comune, anzi quasi universale, de' giureconsulti, era
(e se al ciel piace, doveva essere) che una tal massima non potesse
applicarsi alla procedura, ma soltanto alla pena; "giacché," per
citarne uno, "benché si tratti d'un delitto enorme, non consta però
che l'uomo l'abbia commesso; e fin che non consti, è dovere che si
serbino le solennità del diritto(37) ". E solo per farne memoria, e
come un di que' tratti notabili con cui l'eterna ragione si
manifesta in tutti i tempi, citeremo anche la sentenza d'un uomo che
scrisse sul principio del secolo decimoquinto, e fu, per lungo tempo
dopo, chiamato il Bartolo del diritto ecclesiastico, Nicolò
Tedeschi, arcivescovo di Palermo, più celebre, fin che fu celebre,
sotto il nome d'Abate Palermitano: "Quanto il delitto è più grave,"
dice quest'uomo, "tanto più le presunzioni devono esser forti;
perché, dove il pericolo è maggiore, bisogna anche andar più
cauti(38) ". Ma questo, dico, non fa al nostro caso (sempre riguardo
alla sola giurisprudenza), poiché il Claro attesta che nel foro di
Milano prevaleva la consuetudine contraria; cioè era, in que' casi,
permesso al giudice d'oltrepassare il diritto, anche
nell'inquisizione(39) . "Regola", dice il Riminaldi, altro già
celebre giureconsulto, "da non riceversi negli altri paesi"; e il
Farinacci soggiunge: "ha ragione(40) ". Ma vediamo come il Claro
medesimo interpreti una tal regola: "si viene alla tortura,
quantunque gl'indizi non siano in tutto sufficienti (in totum
sufficientia), né provati da testimoni maggiori d'ogni eccezione, e
spesse volte anche senza aver data al reo copia del processo
informativo". E dove tratta in particolare degl'indizi legittimi
alla tortura, li dichiara espressamente necessari "non solo ne'
delitti minori, ma anche ne' maggiori e negli atrocissimi, anzi nel
delitto stesso di lesa maestà(41) ". Si contentava dunque d'indizi
meno rigorosamente provati, ma li voleva provati in qualche maniera;
di testimoni meno autorevoli, ma voleva testimoni; d'indizi più
leggieri, ma voleva indizi reali, relativi al fatto; voleva insomma
render più facile al giudice la scoperta del delitto, non dargli la
facoltà di tormentare, sotto qualunque pretesto, chiunque gli
venisse nelle mani. Son cose che una teoria astratta non riceve, non
inventa, non sogna neppure; bensì la passione le fa.
Intimò dunque l'iniquo
esaminatore al Piazza: che dica la verità per qual causa nega di
sapere che siano state onte le muraglie, et di sapere come si
chiamino li deputati, che altrimente, come cose inuerisimili, si
metterà alla corda, per hauer la verità di queste
inuerisimilitudini. - Se me la vogliono anche far attaccar al collo,
lo faccino; che di queste cose che mi hanno interrogato non ne so
niente, rispose l'infelice, con quella specie di coraggio disperato,
con cui la ragione sfida alle volte la forza, come per farle sentire
che, a qualunque segno arrivi, non arriverà mai a diventar ragione.
E si veda a che miserabile
astuzia dovettero ricorrer que' signori, per dare un po' più di
colore al pretesto. Andarono, come abbiam detto, a caccia d'una
seconda bugia, per poter parlarne con la formola del plurale;
cercarono un altro zero, per ingrossare un conto in cui non avevan
potuto fare entrar nessun numero.
È messo alla tortura; gli
s'intima che si risolua di dire la verità; risponde, tra gli urli e
i gemiti e l'invocazioni e le supplicazioni: l'ho detta, signore.
Insistono. Ah per amor di Dio! grida l'infelice: V.S. mi facci
lasciar giù, che dirò quello che so; mi facci dare un po' d'aqua. È
lasciato giù, messo a sedere, interrogato di nuovo; risponde: io non
so niente; V.S. mi facci dare un poco d'aqua.
Quanto è cieco il furore! Non
veniva loro in mente che quello che volevan cavargli di bocca per
forza, avrebbe potuto addurlo lui come un argomento fortissimo della
sua innocenza, se fosse stato la verità, come, con atroce sicurezza,
ripetevano. - Sì, signore, - avrebbe potuto rispondere: - avevo
sentito dire che s'eran trovati unti i muri di via della Vetra; e
stavo a baloccarmi sulla porta di casa vostra, signor presidente
della Sanità! - E l'argomento sarebbe stato tanto più forte, in
quanto, essendosi sparsa insieme la voce del fatto, e la voce che il
Piazza ne fosse l'autore, questo avrebbe, insieme con la notizia,
dovuto risapere il suo pericolo. Ma questa osservazion così ovvia, e
che il furore non lasciava venire in mente a coloro, non poteva
nemmeno venire in mente all'infelice, perché non gli era stato detto
di cosa fosse imputato. Volevan prima domarlo co' tormenti; questi
eran per loro gli argomenti verosimili e probabili, richiesti dalla
legge; volevan fargli sentire quale terribile, immediata conseguenza
veniva dal risponder loro di no; volevano che si confessasse
bugiardo una volta, per acquistare il diritto di non credergli,
quando avrebbe detto: sono innocente. Ma non ottennero l'iniquo
intento. Il Piazza, rimesso alla tortura, alzato da terra,
intimatogli che verrebbe alzato di più, eseguita la minaccia, e
sempre incalzato a dir la verità, rispose sempre: l'ho detta; prima
urlando, poi a voce bassa; finché i giudici, vedendo che ormai non
avrebbe più potuto rispondere in nessuna maniera, lo fecero lasciar
giù, e ricondurre in carcere.
Riferito l'esame in senato, il
giorno 23, dal presidente della Sanità, che n'era membro, e dal
capitano di giustizia, che ci sedeva quando fosse chiamato, quel
tribunale supremo decretò che: "il Piazza, dopo essere stato raso,
rivestito con gli abiti della curia, e purgato, fosse sottoposto
alla tortura grave, con la legatura del canapo", atrocissima
aggiunta, per la quale, oltre le braccia, si slogavano anche le
mani; "a riprese, e ad arbitrio de' due magistrati suddetti; e ciò
sopra alcune delle menzogne e inverisimiglianze risultanti dal
processo".
Il solo senato aveva, non dico
l'autorità, ma il potere d'andare impunemente tanto avanti per una
tale strada. La legge romana sulla ripetizion de' tormenti(42) , era
interpretata in due maniere; e la men probabile era la più umana.
Molti dottori (seguendo forse Odofredo(43) , che è il solo citato da
Cino di Pistoia(44) , e il più antico de' citati dagli altri)
intesero che la tortura non si potesse rinnovare, se non quando
fossero sopravvenuti nuovi indizi, più evidenti de' primi, e,
condizione che fu aggiunta poi, di diverso genere. Molt'altri,
seguendo Bartolo(45) , intesero che si potesse, quando i primi
indizi fossero manifesti, evidentissimi, urgentissimi; e quando,
condizione aggiunta poi anche questa, la tortura fosse stata
leggiera(46) . Ora, né l'una, né l'altra interpretazione faceva
punto al caso. Nessun nuovo indizio era emerso; e i primi erano che
due donne avevan visto il Piazza toccar qualche muro; e, ciò ch'era
indizio insieme e corpo del delitto, i magistrati avevan visto
alcuni segni di materia ontuosa su que' muri abbruciacchiati e
affumicati, e segnatamente in un andito... dove il Piazza non era
entrato. Di più, quest'indizi, quanto manifesti, evidenti e urgenti,
ognun lo vede, non erano stati messi alla prova, discussi col reo.
Ma che dico? il decreto del senato non fa neppur menzione d'indizi
relativi al delitto, non applica neppur la legge a torto; fa come se
non ci fosse. Contro ogni legge, contro ogni autorità, come contro
ogni ragione, ordina che il Piazza sia torturato di nuovo, sopra
alcune bugie e inverisimiglianze; ordina cioè a' suoi delegati di
rifare, e più spietatamente, ciò che avrebbe dovuto punirli d'aver
fatto. Perciocché era (e poteva non essere?) dottrina universale,
canone della giurisprudenza, che il giudice inferiore, il quale
avesse messo un accusato alla tortura senza indizi legittimi, fosse
punito dal superiore.
Ma il senato di Milano era
tribunal supremo; in questo mondo, s'intende. E il senato di Milano,
da cui il pubblico aspettava la sua vendetta, se non la salute, non
doveva essere men destro, men perseverante, men fortunato
scopritore, di Caterina Rosa. Ché tutto si faceva con l'autorità di
costei; quel suo: all'hora mi viene in pensiero se a caso fosse un
poco uno de quelli, com'era stato il primo movente del processo,
così n'era ancora il regolatore e il modello; se non che colei aveva
cominciato col dubbio, i giudici con la certezza. E non paia strano
di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo d'una o di due
donnicciole; giacché, quando s'è per la strada della passione, è
naturale che i più ciechi guidino. Non paia strano il veder uomini i
quali non dovevan essere, anzi non eran certamente di quelli che
vogliono il male per il male, vederli, dico, violare così
apertamente e crudelmente ogni diritto; giacché il credere
ingiustamente, è strada a ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta
persuasione possa condurre; e se la coscienza esita, s'inquieta,
avverte, le grida d'un pubblico hanno la funesta forza (in chi
dimentica d'avere un altro giudice) di soffogare i rimorsi; anche
d'impedirli.
Il motivo di quelle odiose, se
non crudeli prescrizioni, di tosare, rivestire, purgare, lo diremo
con le parole del Verri. "In quei tempi credevasi che o ne' capelli
e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini
trangugiandolo, potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde
rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato(47) ". E
questo era veramente de' tempi; la violenza era un fatto (con
diverse forme) di tutti i tempi, ma una dottrina di nessun tempo.
Quel secondo esame non fu che
una ugualmente assurda e più atroce ripetizione del primo, e con lo
stesso effetto. L'infelice Piazza, interrogato prima, e contradetto
con cavilli, che si direbbero puerili, se a nulla d'un tal fatto
potesse convenire un tal vocabolo, e sempre su circostanze
indifferenti al supposto delitto, e senza mai accennarlo nemmeno, fu
messo a quella più crudele tortura che il senato aveva prescritta.
N'ebbero parole di dolor disperato, parole di dolor supplichevole,
nessuna di quelle che desideravano, e per ottener le quali avevano
il coraggio di sentire, di far dire quell'altre. Ah Dio mio! ah che
assassinamento è questo! ah Signor fiscale!... Fatemi almeno
appiccar presto... Fatemi tagliar via la mano... Ammazzatemi;
lasciatemi almeno riposar un poco. Ah! signor Presidente! ... Per
amor di Dio, fatemi dar da bere; ma insieme: non so niente, la
verità l'ho detta. Dopo molte e molte risposte tali, a quella
freddamente e freneticamente ripetuta istanza di dir la verità, gli
mancò la voce, ammutolì; per quattro volte non rispose; finalmente
poté dire ancora una volta, con voce fioca; non so niente; la verità
l'ho già detta. Si dovette finire, e ricondurlo di nuovo, non
confesso, in carcere.
E non c'eran più nemmen
pretesti, né motivo di ricominciare: quella che avevan presa per una
scorciatoia, gli aveva condotti fuor di strada. Se la tortura avesse
prodotto il suo effetto, estorta la confession della bugia, tenevan
l'uomo; e, cosa orribile! quanto più il soggetto della bugia era per
sé indifferente, e di nessuna importanza, tanto più essa sarebbe
stata, nelle loro mani, un argomento potente della reità del Piazza,
mostrando che questo aveva bisogno di stare alla larga dal fatto, di
farsene ignaro in tutto, in somma di mentire. Ma dopo una tortura
illegale, dopo un'altra più illegale e più atroce, o grave, come
dicevano, rimettere alla tortura un uomo, perché negava d'aver
sentito parlare d'un fatto, e di sapere il nome de' deputati d'una
parrocchia, sarebbe stato eccedere i limiti dello straordinario.
Eran dunque da capo, come se non avessero fatto ancor nulla;
bisognava venire, senza nessun vantaggio, all'investigazion del
supposto delitto, manifestare il reato al Piazza, interrogarlo. E se
l'uomo negava? se, come aveva dato prova di saper fare, persisteva a
negare anche ne' tormenti? I quali avrebbero dovuto essere
assolutamente gli ultimi, se i giudici non volevano appropriarsi una
terribil sentenza d'un loro collega, morto quasi da un secolo, ma la
cui autorità era viva più che mai, il Bossi citato sopra. "Più di
tre volte," dice, "non ho mai visto ordinar la tortura, se non da
de' giudici boia: nisi a carnificibus(48) ." E parla della tortura,
ordinata legalmente!
Ma la passione è pur troppo
abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscansar quella del
diritto, quand'è lunga e incerta. Avevan cominciato con la tortura
dello spasimo, ricominciarono con una tortura d'un altro genere.
D'ordine del senato (come si ricava da una lettera autentica del
capitano di giustizia al governatore Spinola, che allora si trovava
all'assedio di Casale), l'auditor fiscale della Sanità, in presenza
d'un notaio, promise al Piazza l'impunità, con la condizione (e
questo si vede poi nel processo) che dicesse interamente la verità.
Così eran riusciti a parlargli dell'imputazione, senza doverla
discutere; a parlargliene, non per cavar dalle sue risposte i lumi
necessari all'investigazion della verità, non per sentir quello che
ne dicesse lui; ma per dargli uno stimolo potente a dir quello che
volevan loro.
La lettera che abbiamo
accennata, fu scritta il 28 di giugno, cioè quando il processo
aveva, con quell'espediente, fatto un gran passo. "Ho giudicato
conuenire," comincia, "che V.E. sapesse quello che si è scoperto nel
particolare d'alcuni scelerati che, a' giorni passati, andauano
ungendo i muri et le porte di questa città." E non sarà forse senza
curiosità, né senza istruzione, il veder come cose tali sian
raccontate da quelli che le fecero. "Hebbi", dice dunque,
"commissione dal Senato di formar processo, nel quale, per il detto
d'alcune donne, e d'un huomo degno di fede, restò aggrauato un
Guglielmo Piazza, huomo plebeio, ma ora Commissario della Sanità,
ch'esso, il venerdì alli 21 su l'aurora, hauesse unto i muri di una
contrada posta in Porta Ticinese, chiamata la Vetra de' Cittadini."
E l'uomo degno di fede, messo
lì subito per corroborar l'autorità delle donne, aveva detto d'aver
rintoppato il Piazza, il quale io salutai, et lui mi rese il saluto.
Questo era stato aggravarlo! come se il delitto imputatogli fosse
stato d'essere entrato in via della Vetra. Non parla poi il capitano
di giustizia della visita fatta da lui per riconoscere il corpo del
delitto; come non se ne parla più nel processo.
"Fu dunque", prosegue,
"incontinente preso costui." E non parla della visita fattagli in
casa, dove non si trovò nulla di sospetto.
"Et essendosi maggiormente nel
suo esame aggravato," (s'è visto!) "fu messo ad una graue tortura,
ma non confessò il delitto."
Se qualcheduno avesse detto
allo Spinola, che il Piazza non era stato interrogato punto intorno
al delitto, lo Spinola avrebbe risposto: - Sono positivamente
informato del contrario: il capitano di giustizia mi scrive, non
questa cosa appunto, ch'era inutile; ma un'altra che la sottintende,
che la suppone necessariamente; mi scrive che, messo ad una grave
tortura, non lo confessò. - Se l'altro avesse insistito, - come! -
avrebbe potuto dire l'uomo celebre e potente, - volete voi che il
capitano di giustizia si faccia beffe di me, a segno di raccontarmi,
come una notizia importante, che non è accaduto quello che non
poteva accadere? - Eppure era proprio così: cioè, non era che il
capitano di giustizia volesse farsi beffe del governatore; era che
avevan fatta una cosa da non potersi raccontare nella maniera
appunto che l'avevan fatta; era, ed è, che la falsa coscienza trova
più facilmente pretesti per operare, che formole per render conto di
quello che ha fatto.
Ma sul punto dell'impunità, c'è
in quella lettera un altro inganno che lo Spinola avrebbe potuto,
anzi dovuto conoscer da sé, almeno per una parte, se avesse pensato
ad altro che a prender Casale, che non prese. Prosegue essa così:
"finché d'ordine del Senato (anco per esecutione della grida
ultimamente fatta in questo particolare pubblicare da V.E.),
promessa dal Presidente della Sanità a costui l'impunità, confessò
finalmente, etc.".
Nel capitolo XXXI dello scritto
antecedente, s'è fatto menzione d'una grida, con la quale il
tribunale della Sanità prometteva premio e impunità a chi rivelasse
gli autori degl'imbrattamenti trovati sulle porte e sui muri delle
case, la mattina del 18 di maggio; e s'è anche accennata una lettera
del tribunale suddetto al governatore, su quel fatto. In essa, dopo
aver protestato che quella grida era stata pubblicata, con
participatione del Sig. Gran Cancelliere, il quale faceva le veci
del governatore, pregavan questo di corroborarla con altra sua, con
promessa di maggior premio. E il governatore ne fece infatti
promulgare una, in data del 13 di giugno, con la quale promette a
ciascuna persona che, nel termine di giorni trenta, metterà in
chiaro la persona o le persone che hanno commesso, fauorito, aiutato
cotal delitto, il premio, etc. et se quel tale sarà dei complici,
gli promette anco l'impunità della pena. Ed è per l'esecuzione di
questa grida, così espressamente circoscritta a un fatto del 18 di
maggio, che il capitano di giustizia dice essersi promessa
l'impunità all'uomo accusato d'un fatto del 21 di giugno, e lo dice
a quel medesimo che l'aveva, se non altro, sottoscritta! Tanto pare
che si fidassero sull'assedio di Casale! giacché sarebbe troppo
strano il supporre che travedessero essi medesimi a quel segno.
Ma che bisogno avevano d'usare
un tal raggiro con lo Spinola?
Il bisogno d'attaccarsi alla
sua autorità, di travisare un atto irregolare e abusivo, e secondo
la giurisprudenza comune, e secondo la legislazion del paese. Era,
dico, dottrina comune che il giudice non potesse, di sua autorità
propria, concedere impunità a un accusato(49) . E nelle costituzioni
di Carlo V, dove sono attribuiti al senato poteri ampissimi,
s'eccettua però quello di "concedere remissioni di delitti, grazie o
salvocondotti; essendo cosa riservata al principe(50) ". E il Bossi
già citato, il quale, come senator di Milano in quel tempo, fu uno
de' compilatori di quelle costituzioni, dice espressamente: "questa
promessa d'impunità appartiene al principe solo(51) ".
Ma perché mettersi nel caso
d'usare un tal raggiro, quando potevan ricorrere a tempo al
governatore, il quale aveva sicuramente dal principe un tal potere,
e la facoltà di trasmetterlo? E non è una possibilità immaginata da
noi: è quello che fecero essi medesimi, all'occasione d'un altro
infelice, involto più tardi in quel crudele processo. L'atto è
registrato nel processo medesimo, in questi termini: Ambrosio
Spinola, etc. In conformità del parere datoci dal Senato con lettera
dei cinque del corrente, concederete impunità, in virtù della
presente, a Stefano Baruello, condannato come dispensatore et
fabricatore delli onti pestiferi, sparsi per questa Città, ad
estintione del Popolo, se dentro del termine che li sarà statuito
dal detto Senato, manifestarà li auttori et complici di tale
misfatto.
Al Piazza l'impunità non fu
promessa con un atto formale e autentico; furon parole dettegli
dall'auditore della Sanità, fuor del processo. E questo s'intende:
un tal atto sarebbe stato una falsità troppo evidente, se
s'attaccava alla grida, un'usurpazion di potere, se non s'attaccava
a nulla. Ma perché, aggiungo, levarsi in certo modo la possibilità
di mettere in forma solenne un atto di tanta importanza?
Questi perché non possiam certo
saperli positivamente; ma vedrem più tardi cosa servisse ai giudici
l'aver fatto così.
A ogni modo, l'irregolarità
d'un tal procedere era tanto manifesta, che il difensor del Padilla
la notò liberamente. Benché, come protesta con gran ragione, non
avesse bisogno d'uscir da ciò che riguardava direttamente il suo
cliente, per iscolparlo dalla pazza accusa; benché, senza ragione, e
con poca coerenza, ammetta un delitto reale, e de' veri colpevoli,
in quel mescuglio d'immaginazioni e d'invenzioni; ciò non ostante,
ad abbondanza, come si dice, e per indebolire tutto ciò che potesse
aver relazione con quell'accusa, fa varie eccezioni alla parte del
processo che riguarda gli altri. E a proposito dell'impunità, senza
impugnar l'autorità del senato in tal materia (ché alle volte gli
uomini si tengon più offesi a metter in dubbio il loro potere, che
la loro rettitudine), oppone che il Piazza "fu introdotto nanti
detto signor Auditore solamente, quale non haueua alcuna
giurisditione... procedendo perciò nullamente, e contro li termini
di ragione". E parlando della menzione che fu fatta più tardi, e
occasionalmente, di quell'impunità, dice: "e pure, sino a quel
ponto, non appare, né si legge in processo impunità, quale pure,
nanti detta redargutione, doueua constare in processo, secondo li
termini di ragione".
In quel luogo delle difese c'è
una parola buttata là, come incidentemente, ma significantissima.
Ripassando gli atti che precedettero l'impunità, l'avvocato non fa
alcuna eccezione espressa e diretta alla tortura data al Piazza, ma
ne parla così: "sotto pretesto d'inuerisimili, torturato". Ed è, mi
pare, una circostanza degna d'osservazione che la cosa sia stata
chiamata col suo nome anche allora, anche davanti a quelli che
n'eran gli autori, e da uno che non pensava punto a difender la
causa di chi n'era stato la vittima.
Bisogna dire che quella
promessa d'impunità fosse poco conosciuta dal pubblico, giacché il
Ripamonti, raccontando i fatti principali del processo, nella sua
storia della peste, non ne fa menzione, anzi l'esclude
indirettamente. Questo scrittore, incapace d'alterare apposta la
verità, ma inescusabile di non aver letto, né le difese del Padilla,
né l'estratto del processo che le accompagna, e d'aver creduto
piuttosto alle ciarle del pubblico, o alle menzogne di qualche
interessato, racconta in vece che il Piazza, subito dopo la tortura,
e mentre lo slegavano per ricondurlo in carcere, uscì fuori con una
rivelazione spontanea, che nessuno s'aspettava(52) . La bugiarda
rivelazione fu fatta bensì, ma il giorno seguente, dopo
l'abboccamento con l'auditore, e a gente che se l'aspettava
benissimo. Sicché, se non fossero rimasti que' pochi documenti, se
il senato avesse avuto che fare soltanto col pubblico e con la
storia, avrebbe ottenuto l'intento d'abbuiar quel fatto così
essenziale al processo, e che diede le mosse a tutti gli altri che
venner dopo. Quello che passò in quell'abboccamento, nessuno lo sa,
ognuno se l'immagina a un di presso. "È assai verosimile", dice il
Verri, "che nel carcere istesso si sia persuaso a quest'infelice,
che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo
spasimo; che il delitto si credeva certo, e altro spediente non
esservi per lui fuorché l'accusarsene e nominare i complici; così
avrebbe salvata la vita, e si sarebbe sottratto alle torture pronte
a rinnovarsi ogni giorno. Il Piazza dunque chiese, ed ebbe
l'impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il
fatto.(53) "
Non pare però punto probabile
che il Piazza abbia chiesto lui l'impunità. L'infelice, come vedremo
nel seguito del processo, non andava avanti se non in quanto era
strascinato; ed è ben più credibile, che, per fargli fare quel
primo, così strano e orribile passo, per tirarlo a calunniar sé e
altri, l'auditore gliel'abbia offerta. E di più, i giudici, quando
gliene parlaron poi, non avrebbero omessa una circostanza così
importante, e che dava tanto maggior peso alla confessione; né
l'avrebbe omessa il capitano di giustizia nella lettera allo
Spinola.
Ma chi può immaginarsi i
combattimenti di quell'animo, a cui la memoria così recente de'
tormenti avrà fatto sentire a vicenda il terror di soffrirli di
nuovo, e l'orrore di farli soffrire! a cui la speranza di fuggire
una morte spaventosa, non si presentava che accompagnata con lo
spavento di cagionarla a un altro innocente! giacché non poteva
credere che fossero per abbandonare una preda, senza averne
acquistata un'altra almeno, che volessero finire senza una condanna.
Cedette, abbracciò quella speranza, per quanto fosse orribile e
incerta; assunse l'impresa, per quanto fosse mostruosa e difficile;
deliberò di mettere una vittima in suo luogo. Ma come trovarla? a
che filo attaccarsi? come scegliere tra nessuno? Lui, era stato un
fatto reale, che aveva servito d'occasione e di pretesto per
accusarlo. Era entrato in via della Vetra, era andato rasente al
muro, l'aveva toccato; una sciagurata aveva traveduto, ma qualche
cosa. Un fatto altrettanto innocente, e altrettanto indifferente fu,
si vede, quello che gli suggerì la persona e la favola.
Il barbiere Giangiacomo Mora
componeva e spacciava un unguento contro la peste; uno de' mille
specifici che avevano e dovevano aver credito, mentre faceva tanta
strage un male di cui non si conosce il rimedio, e in un secolo in
cui la medicina aveva ancor così poco imparato a non affermare, e
insegnato a non credere. Pochi giorni prima d'essere arrestato, il
Piazza aveva chiesto di quell'unguento al barbiere; questo aveva
promesso di preparargliene; e avendolo poi incontrato sul Carrobio,
la mattina stessa del giorno che seguì l'arresto, gli aveva detto
che il vasetto era pronto, e venisse a prenderlo. Volevan dal Piazza
una storia d'unguento, di concerti, di via della Vetra: quelle
circostanze così recenti gli serviron di materia per comporne una:
se si può chiamar comporre l'attaccare a molte circostanze reali
un'invenzione incompatibile con esse.
Il giorno seguente, 26 di
giugno, il Piazza è condotto davanti agli esaminatori, e l'auditore
gl'intima: che dica conforme a quello che estraiudicialmente
confessò a me, alla presenza anco del Notaro Balbiano, se sa chi è
il fabricatore degli unguenti, con quali tante volte si sono trouate
ontate le porte et mura delle case et cadenazzi di questa città.
Ma il disgraziato, che,
mentendo a suo dispetto, cercava di scostarsi il possibile meno
dalla verità, rispose soltanto: a me l'ha dato lui l'unguento, il
Barbiero. Son le parole tradotte letteralmente, ma messe così fuor
di luogo dal Ripamonti: dedit unguenta mihi tonsor.
Gli si dice che nomini il detto
Barbiero; e il suo complice, il suo ministro in un tale attentato,
risponde: credo habbi nome Gio. Jacomo, la cui parentela (il
cognome) non so. Non sapeva di certo, che dove stesse di casa, anzi
di bottega; e, a un'altra interrogazione, lo disse.
Gli domandano se da detto
Barbiero lui Constituto ne ha hauuto o poco o assai di detto
unguento. Risponde: me ne ha dato tanta quantità come potrebbe
capire questo calamaro che è qua sopra la tavola. Se avesse ricevuto
dal Mora il vasetto del preservativo che gli aveva chiesto, avrebbe
descritto quello; ma non potendo cavar nulla dalla sua memoria,
s'attacca a un oggetto presente, per attaccarsi a qualcosa di reale.
Gli domandano se detto Barbiero è amico di lui Constituto. E qui,
non accorgendosi come la verità che gli si presenta alla memoria,
faccia ai cozzi con l'invenzione, risponde: è amico, signor sì, buon
dì, buon anno, è amico, signor sì; val a dire che lo conosceva
appena di saluto.
Ma gli esaminatori, senza far
nessuna osservazione, passarono a domandargli, con qual occasione
detto Barbiero gli ha dato detto onto. Ed ecco cosa rispose: passai
di là, et lui chiamandomi mi disse: vi ho puoi da dare un non so
che; io gli dissi che cosa era? et egli disse: è non so che onto; et
io dissi: sì, sì, verrò puoi a tuorlo; et così da lì a due o tre
giorni, me lo diede puoi. Altera le circostanze materiali del fatto,
quanto è necessario per accomodarlo alla favola; ma gli lascia il
suo colore; e alcune delle parole che riferisce, eran probabilmente
quelle ch'eran corse davvero tra loro. Parole dette in conseguenza
d'un concerto già preso, a proposito d'un preservativo, le dà per
dette all'intento di proporre di punto in bianco un avvelenamento,
almen tanto pazzo quanto atroce.
Con tutto ciò, gli esaminatori
vanno avanti con le domande, sul luogo, sul giorno, sull'ora della
proposta e della consegna; e, come contenti di quelle risposte, ne
chiedon dell'altre. Che cosa gli disse quando gli consegnò il detto
vasetto d'onto?
Mi disse: pigliate questo
vasetto, et ongete le muraglie qui adietro, et poi venete da me, che
hauerete una mano de danari.
"Ma perché il barbiero, senza
arrischiare, non ungeva da sé di notte!" postilla qui, stavo per
dire esclama, il Verri. E una tale inverisimiglianza avventa, per
dir così, ancor più in una risposta successiva. Interrogato se il
detto Barbiero assignò a lui Constituto il luogo preciso da ongere,
risponde: mi disse che ongessi lì nella Vedra de' Cittadini, et che
cominciassi dal suo uschio, dove in effetto cominciai.
"Nemmeno l'uscio suo proprio
aveva unto il barbiere!" postilla qui di nuovo il Verri. E non ci
voleva, certo, la sua perspicacia per fare un'osservazion simile; ci
volle l'accecamento della passione per non farla, o la malizia della
passione per non farne conto, se, come è più naturale, si presentò
anche alla mente degli esaminatori.
L'infelice inventava così a
stento, e come per forza, e solo quando era eccitato, e come punto
dalle domande, che non si saprebbe indovinare se quella promessa di
danari sia stata immaginata da lui, per dar qualche ragione
dell'avere accettata una commission di quella sorte, o se gli fosse
stata suggerita da un'interrogazion dell'auditore, in quel tenebroso
abboccamento. Lo stesso bisogna dire d'un'altra invenzione, con la
quale, nell'esame, andò incontro indirettamente a un'altra
difficoltà, cioè come mai avesse potuto maneggiar quell'unto così
mortale, senza riceverne danno. Gli domandano se detto Barbiero
disse a lui Constituto per qual causa facesse ontare le dette porte
et muraglie. Risponde: lui non mi disse niente; m'imagino bene che
detto onto fosse velenato, et potesse nocere alli corpi humani,
poiché la mattina seguente mi diede un'aqua da bevere, dicendomi che
mi sarei preservato dal veleno di tal onto.
A tutte queste risposte, e ad
altre d'ugual valore, che sarebbe lungo e inutile il riferire, gli
esaminatori non trovaron nulla da opporre, o per parlar più
precisamente, non opposero nulla. D'una sola cosa credettero di
dover chiedere spiegazione: per qual causa non l'ha potuto dire le
altre volte.
Rispose: io non lo so, né so a
che attribuire la causa, se non a quella aqua che mi diede da bere;
perché V.S. vede bene che, per quanti tormenti ho hauuto, non ho
potuto dir niente.
Questa volta però, quegli
uomini così facili a contentarsi, non son contenti, e tornano a
domandare: per qual causa non ha detto questa verità prima di
adesso, massime sendo stato tormentato nella maniera che fu
tormentato, et sabbato et hieri.
Questa verità!
Risponde: io non l'ho detta,
perché non ho potuto, et se io fossi stato cent'anni sopra la corda,
io non haueria mai potuto dire cosa alcuna, perché non potevo
parlare, poiché quando m'era dimandata qualche cosa di questo
particolare, mi fugiva dal cuore, et non poteuo rispondere. Sentito
questo, chiuser l'esame, e rimandaron lo sventurato in carcere.
Ma basta il chiamarlo
sventurato?
A una tale interrogazione, la
coscienza si confonde, rifugge, vorrebbe dichiararsi incompetente;
par quasi un'arroganza spietata, un'ostentazion farisaica, il
giudicar chi operava in tali angosce, e tra tali insidie. Ma
costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche colpevole;
i patimenti e i terrori dell'innocente sono una gran cosa, hanno di
gran virtù; ma non quella di mutar la legge eterna, di far che la
calunnia cessi d'esser colpa. E la compassione stessa, che vorrebbe
pure scusare il tormentato, si rivolta subito anch'essa contro il
calunniatore: ha sentito nominare un altro innocente; prevede altri
patimenti, altri terrori, forse altre simili colpe.
E gli uomini che crearon
quell'angosce, che tesero quell'insidie, ci parrà d'averli scusati
con dire: si credeva all'unzioni, e c'era la tortura? Crediam pure
anche noi alla possibilità d'uccider gli uomini col veleno; e cosa
si direbbe d'un giudice che adducesse questo per argomento d'aver
giustamente condannato un uomo come avvelenatore? C'è pure ancora la
pena di morte; e cosa si risponderebbe a uno che pretendesse con
questo di giustificar tutte le sentenze di morte? No; non c'era la
tortura per il caso di Guglielmo Piazza: furono i giudici che la
vollero, che, per dir così, l'inventarono in quel caso. Se gli
avesse ingannati, sarebbe stata loro colpa, perché era opera loro;
ma abbiam visto che non gl'ingannò. Mettiam pure che siano stati
ingannati dalle parole del Piazza nell'ultimo esame, che abbian
potuto credere un fatto, esposto, spiegato, circostanziato in quella
maniera. Da che eran mosse quelle parole? come l'avevano avute? Con
un mezzo, sull'illegittimità del quale non dovevano ingannarsi, e
non s'ingannarono infatti, poiché cercarono di nasconderlo e di
travisarlo.
Se, per impossibile, tutto
quello che venne dopo fosse stato un concorso accidentale di cose le
più atte a confermar l'inganno, la colpa rimarrebbe ancora a coloro
che gli avevano aperta la strada. Ma vedremo in vece che tutto fu
condotto da quella medesima loro volontà, la quale, per mantener
l'inganno fino alla fine, dovette ancora eluder le leggi, come
resistere all'evidenza, farsi gioco della probità, come indurirsi
alla compassione.
Cap. 4
L'auditore corse, con la
sbirraglia, alla casa del Mora, e lo trovarono in bottega. Ecco un
altro reo che non pensava a fuggire, né a nascondersi, benché il suo
complice fosse in prigione da quattro giorni. C'era con lui un suo
figliuolo; e l'auditore ordinò che fossero arrestati tutt'e due.
Il Verri, spogliando i libri
parrocchiali di San Lorenzo, trovò che l'infelice barbiere poteva
avere anche tre figlie; una di quattordici anni, una di dodici, una
che aveva appena finiti i sei. Ed è bello il vedere un uomo ricco,
nobile, celebre, in carica, prendersi questa cura di scavar le
memorie d'una famiglia povera, oscura, dimenticata: che dico?
infame; e in mezzo a una posterità, erede cieca e tenace della
stolta esecrazione degli avi, cercar nuovi oggetti a una compassion
generosa e sapiente. Certo, non è cosa ragionevole l'opporre la
compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è
costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia se volesse condonar
le pene de' colpevoli al dolore degl'innocenti. Ma contro la
violenza e la frode, la compassione è una ragione anch'essa. E se
non fossero state che quelle prime angosce d'una moglie e d'una
madre, quella rivelazione d'un così nuovo spavento, e d'un così
nuovo cordoglio a bambine che vedevano metter le mani addosso al
loro padre, al fratello, legarli, trattarli come scellerati; sarebbe
un carico terribile contro coloro, i quali non avevano dalla
giustizia il dovere, e nemmeno dalla legge il permesso di venire a
ciò.
Ché, anche per procedere alla
cattura, ci volevano naturalmente degl'indizi. E qui non c'era né
fama, né fuga, né querela d'un offeso, né accusa di persona degna di
fede, né deposizion di testimoni; non c'era alcun corpo di delitto;
non c'era altro che il detto d'un supposto complice. E perché un
detto tale, che non aveva per sé valor di sorte alcuna, potesse dare
al giudice la facoltà di procedere, eran necessarie molte
condizioni. Più d'una essenziale, avremo occasion di vedere che non
fu osservata; e si potrebbe facilmente dimostrarlo di molt'altre. Ma
non ce n'è bisogno; perché, quand'anche fossero state adempite tutte
a un puntino, c'era in questo caso una circostanza che rendeva
l'accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l'essere stata fatta
in conseguenza d'una promessa d'impunità. "A chi rivela per la
speranza dell'impunità, o concessa dalla legge, o promessa dal
giudice, non si crede nulla contro i nominati", dice il Farinacci(54)
. E il Bossi: "si può opporre al testimonio che quel che ha detto,
l'abbia detto per essergli stata promessa l'impunità... mentre un
testimonio deve parlar sinceramente, e non per la speranza d'un
vantaggio... E questo vale anche ne' casi in cui, per altre ragioni,
si può fare eccezione alla regola che esclude il complice
dall'attestare... perché colui che attesta per una promessa
d'impunità, si chiama corrotto, e non gli si crede(55) ". Ed era
dottrina non contradetta.
Mentre si preparavano a
visitare ogni cosa, il Mora disse all'auditore: Oh V.S. veda! so che
è venuta per quell'unguento; V.S. lo veda là; et aponto quel
vasettino l'haueuo apparecchiato per darlo al Commissario, ma non è
venuto a pigliarlo; io, gratia a Dio, non ho fallato. V.S. veda per
tutto; io non ho fallato: può sparagnare di farmi tener legato.
Credeva l'infelice, che il suo reato fosse d'aver composto e
spacciato quello specifico, senza licenza.
Frugan per tutto; ripassan
vasi, vasetti, ampolle, alberelli, barattoli. (I barbieri, a quel
tempo, esercitavan la bassa chirurgia; e di lì a fare anche un po'
il medico, e un po' lo speziale, non c'era che un passo.) Due cose
parvero sospette; e, chiedendo scusa al lettore, siam costretti a
parlarne, perché il sospetto manifestato da coloro, nell'atto della
visita, fu quello che diede poi al povero sventurato un'indicazione,
un mezzo per potersi accusare ne' tormenti. E del resto c'è in tutta
questa storia qualcosa di più forte che lo schifo.
In tempo di peste, era naturale
che un uomo, il quale doveva trattar con molte persone, e
principalmente con ammalati, stesse, per quanto era possibile,
segregato dalla famiglia: e il difensor del Padilla fa questa
osservazione dove, come vedremo or ora, oppone al processo la
mancanza d'un corpo di delitto. La peste medesima poi aveva
diminuito in quella desolata popolazione il bisogno della pulizia,
ch'era già poco. Si trovaron perciò in una stanzina dietro la
bottega, duo vasa stercore humano plena, dice il processo. Un birro
se ne maraviglia, e (a tutti era lecito di parlar contro gli untori)
fa osservare che di sopra vi è il condotto. Il Mora rispose: io
dormo qui da basso, et non vado di sopra.
La seconda cosa fu che in un
cortiletto si vide un fornello con dentro murata una caldara di
rame, nella quale si è trovato dentro dell'acqua torbida, in fondo
della quale si è trovato una materia viscosa gialla et bianca, la
quale, gettata al muro, fattone la prova, si attaccava. Il Mora
disse: l'è smoglio (ranno): e il processo nota che lo disse con
molta insistenza: cosa che fa vedere quanto essi mostrassero di
trovarci mistero. Ma come mai s'arrischiarono di far tanto a
confidenza con quel veleno così potente e così misterioso? Bisogna
dire che il furore soffogasse la paura, che pure era una delle sue
cagioni.
Tra le carte poi si trovò una
ricetta, che l'auditore diede in mano al Mora, perché spiegasse
cos'era. Questo la stracciò, perché, in quella confusione, l'aveva
presa per la ricetta dello specifico. I pezzi furon raccolti subito;
ma vedremo come questo miserabile accidente fu poi fatto valere
contro quell'infelice.
Nell'estratto del processo non
si trova quante persone fossero arrestate insieme con lui. Il
Ripamonti dice che menaron via tutta la gente di casa e di bottega;
giovani, garzoni, moglie, figli, e anche parenti, se ce n'era lì(56)
.
Nell'uscir da quella casa,
nella quale non doveva più rimetter piede, da quella casa che doveva
esser demolita da' fondamenti, e dar luogo a un monumento d'infamia,
il Mora disse: io non ho fallato, et se ho fallato, che sij
castigato; ma da quello Elettuario in puoi, io non ho fatto altro;
però, se hauessi fallato in qualche cosa, ne dimando misericordia.
Fu esaminato il giorno
medesimo, e interrogato principalmente sul ranno che gli avevan
trovato in casa, e sulle sue relazioni col commissario. Intorno al
primo, rispose: signore, io non so niente, et l'hanno fatto far le
donne; che ne dimandano conto da loro, che lo diranno; et sapevo
tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'esser
oggi condotto prigione.
Intorno al commissario,
raccontò del vasetto d'unguento che doveva dargli, e ne specificò
gl'ingredienti; altre relazioni con lui, disse di non averne avute,
se non che, circa un anno prima, quello era venuto a casa sua, a
chiedergli un servizio del suo mestiere. Subito dopo fu esaminato il
figliuolo; e fu allora che quel povero ragazzo ripetè la sciocca
ciarla del vasetto e della penna, che abbiam riferita da principio.
Del resto, l'esame fu inconcludente; e il Verri osserva, in una
postilla, che "si doveva interrogare il figlio del barbiere su quel
ranno, e vedere da quanto tempo si trovava nella caldaia, come
fatto, a che uso; e allora si sarebbe chiarito meglio l'affare. Ma",
soggiunge, "temevano di non trovarlo reo". E questa veramente è la
chiave di tutto.
Interrogarono però su quel
particolare la povera moglie del Mora, la quale alle varie domande
rispose che aveva fatto il bucato dieci o dodici giorni avanti; che
ogni volta riponeva del ranno per certi usi di chirurgia; che per
questo gliene avevan trovato in casa; ma che quello non era stato
adoperato, non essendocene stato bisogno.
Si fece esaminare quel ranno da
due lavandaie, e da tre medici. Quelle dissero ch'era ranno, ma
alterato; questi, che non era ranno; le une e gli altri, perché il
fondo appiccicava e faceva le fila. "In una bottega d'un barbiere,"
dice il Verri, "dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle
piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un
sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d'estate?(57) "
Ma in ultimo, da quelle visite
non risultava una scoperta; risultava soltanto una contradizione. E
il difensore del Padilla ne deduce, con troppo evidente ragione, che
"dalla lettura dell'istesso processo offensiuo, non si vede constare
del corpo del delitto; requisito e preambolo necessario, acciò si
venga a Reato, atto tanto pregiudiciale, e danno irreparabile". E
osserva che, tanto più era necessario, in quanto l'effetto che si
voleva attribuire a un delitto, il morir tante persone, aveva la sua
causa naturale. "Per i quali giuditii incerti", dice, "quanto fosse
necessario venire all'esperienza, lo ricercauano le maligne
costellationi, et li pronostici de' Matthematici, quali nell'anno
1630 altro non concludevano che peste, e finalmente il veder tante
città insigni della Lombardia, et Italia rimanere desolate, et dalla
peste distrutte, in quali non si sentirno pensieri, né timori di
onto." Anche l'errore vien qui in aiuto della verità: la quale però
non n'aveva bisogno. E fa male il vedere come quest'uomo, dopo aver
fatto e questa e altre osservazioni, ugualmente atte a dimostrar
chimerico il delitto medesimo, dopo avere attribuito alla forza de'
tormenti le deposizioni che accusavano il suo cliente, dica in un
luogo queste strane parole: "conuien confessare, che per malignità
de' detti nominati, et altri complici, con animo ancor di sualigiare
le case, et far guadagni, come il detto Barbiere, al fol. 104,
disse, si mouessero a tanto delitto contro la propria Patria."
Nella lettera d'informazione al
governatore, il capitano di giustizia parla di questa circostanza
così: "Il barbiero è preso, in casa di cui si sono trovate alcune
misture, per giudicio de periti, molto sospette." Sospette! È una
parola con cui il giudice comincia, ma con cui non finisce, se non
suo malgrado, e dopo aver tentati tutti i mezzi per arrivare alla
certezza. E se ognuno non sapesse, o non indovinasse quelli ch'erano
in uso anche allora, e che si sarebbero potuti adoprare, quando si
fosse veramente pensato a chiarirsi sulla qualità velenosa di quella
porcheria, l'uomo che presiedeva al processo ce l'avrebbe fatto
sapere. In quell'altra lettera rammentata poco sopra, con la quale
il tribunale della Sanità aveva informato il governatore di quel
grande imbrattamento del 18 di maggio, si parlava pure d'un
esperimento fatto sopra de' cani, "per accertarsi se tali ontuosità
erano pestilentiali o no". Ma allora non avevan nelle mani nessun
uomo sul quale potessero fare l'esperimento della tortura, e contro
il quale le turbe gridassero: tolle!
Prima però di mettere alle
strette il Mora, vollero aver dal commissario più chiare e precise
notizie; e il lettore dirà che ce n'era bisogno. Lo fecero dunque
venire, e gli domandarono se ciò che aveva deposto era vero, e se
non si rammentava d'altro. Confermò il primo detto, ma non trovò
nulla da aggiungerci.
Allora gli dissero che ha molto
dell'inuerisimile che tra lui et detto barbiero non sia passata
altra negotiatione di quella che ha deposto, trattandosi di negotio
tanto grave, il quale non si commette a persone per eseguirlo, se
non con grande et confidente negotiatione, et non alla fugita, come
lui depone.
L'osservazione era giusta, ma
veniva tardi. Perché non farla alla prima, quando il Piazza depose
la cosa in que' termini? Perché una cosa tale chiamarla verità? Che
avessero il senso del verisimile così ottuso, così lento, da volerci
un giorno intero per accorgersi che lì non c'era? Essi? Tutt'altro.
L'avevan delicatissimo, anzi troppo delicato. Non eran que' medesimi
che avevan trovato, e immediatamente, cose inverisimili che il
Piazza non avesse sentito parlare dell'imbrattamento di via della
Vetra, e non sapesse il nome de' deputati d'una parrocchia? E perché
in un caso così sofistici, in un altro così correnti?
Il perché lo sapevan loro, e
Chi sa tutto; quello che possiamo vedere anche noi è che trovaron
l'inverisimiglianza, quando poteva essere un pretesto alla tortura
del Piazza; non la trovarono quando sarebbe stata un ostacolo troppo
manifesto alla cattura del Mora.
Abbiam visto, è vero, che la
deposizion del primo, come radicalmente nulla, non poteva dar loro
alcun diritto di venire a ciò. Ma poiché volevano a ogni modo
servirsene, bisognava almeno conservarla intatta. Se gli avessero
dette la prima volta quelle parole: ha molto dell'inverisimile; se
lui non avesse sciolta la difficoltà, mettendo il fatto in forma
meno strana, e senza contradire al già detto (cosa da sperarsi
poco); si sarebbero trovati al bivio, o di dover lasciare stare il
Mora, o di carcerarlo dopo avere essi medesimi protestato, per dir
così, anticipatamente contro un tal atto.
L'osservazione fu accompagnata
da un avvertimento terribile. Et perciò se non si risoluerà di dire
interamente la verità, come ha promesso, se gli protesta che non se
gli seruarà l'impunità promessa, ogni volta che si trovi diminuta la
suddetta sua confessione, et non intiera di tutto quello è passato
tra di lui et il suddetto Barbiero, et per il contrario, dicendo la
verità se gli servarà l'impunità promessa.
E qui si vede, come avevamo
accennato sopra, cosa poté servire ai giudici il non ricorrere al
governatore per quell'impunità. Concessa da questo, con autorità
regia e riservata, con un atto solenne, e da inserirsi nel processo,
non si poteva ritirarla con quella disinvoltura. Le parole dette da
un auditore si potevano annullare con altre parole.
Si noti che l'impunità per il
Baruello fu chiesta al governatore il 5 di settembre, cioè dopo il
supplizio del Piazza, del Mora, e di qualche altro infelice. Si
poteva allora mettersi al rischio di lasciarne scappar qualcheduno:
la fiera aveva mangiato, e i suoi ruggiti non dovevan più esser così
impazienti e imperiosi.
A quell'avvertimento, il
commissario dovette, poiché stava fermo nel suo sciagurato
proposito, aguzzar l'ingegno quanto poteva, ma non seppe far altro
che ripeter la storia di prima. Dirò a V.S.: due dì auanti che mi
dasse l'onto, era il detto Barbiero sul corso di Porta Ticinese, con
tre d'altri in compagnia; et vedendomi passare, mi disse:
Commissario, ho un onto da darvi; io gli dissi: volete darmelo
adesso? lui mi disse di no, et all'hora non mi disse l'effetto che
doueua fare il detto onto; ma quando me lo diede poi, mi disse
ch'era onto da ongere le muraglie, per far morire la gente; né io
gli dimandai se lo haueua provato. Se non che la prima volta aveva
detto: lui non mi disse niente; m'imagino bene che detto onto fosse
velenato; la seconda: mi disse ch'era per far morire la gente. Ma
senza farsi caso d'una tal contradizione, gli domandano chi erano
quelli che erano con detto Barbiero, et come erano vestiti.
Chi fossero, non lo sa;
sospetta che dovessero essere vicini del Mora; come fossero vestiti,
non se ne rammenta; solo mantiene che è vero tutto ciò che ha
deposto contro di lui. Interrogato se è pronto a sostenerglielo in
faccia, risponde di sì. È messo alla tortura, per purgar l'infamia,
e perché possa fare indizio contro quell'infelice.
I tempi della tortura sono,
grazie al cielo, abbastanza lontani, perché queste formole
richiedano spiegazione. Una legge romana prescriveva che "la
testimonianza d'un gladiatore o di persona simile, non valesse senza
i tormenti(58)". La giurisprudenza aveva poi determinate, sotto il
titolo d'infami, le persone alle quali questa regola dovesse
applicarsi; e il reo, confesso o convinto, entrava in quella
categoria. Ecco dunque in che maniera intendevano che la tortura
purgasse l'infamia. Come infame, dicevano, il complice non merita
fede; ma quando affermi una cosa contro un suo interesse forte,
vivo, presente, si può credere che la verità sia quella che lo
sforzi ad affermare. Se dunque, dopo che un reo s'è fatto accusatore
d'altri, gli s'intima, o di ritrattar l'accusa, o di sottoporsi ai
tormenti, e lui persiste nell'accusa; se, ridotta la minaccia ad
effetto, persiste anche ne' tormenti, il suo detto diventa
credibile: la tortura ha purgato l'infamia, restituendo a quel detto
l'autorità che non poteva avere dal carattere della persona.
E perché dunque non avevan
fatta confermare al Piazza ne' tormenti la prima deposizione? Fu
anche questo per non mettere a cimento quella deposizione, così
insufficiente, ma così necessaria alla cattura del Mora? Certo una
tale omissione rendeva questa ancor più illegale: giacché era bensì
ammesso che l'accusa dell'infame, non confermata ne' tormenti,
potesse dar luogo, come qualunque altro più difettoso indizio, a
prendere informazioni, ma non a procedere contro la persona(59) . E
riguardo alla consuetudine del foro milanese, ecco quel che attesta
il Claro in forma generalissima: "Affinché il detto del complice
faccia fede, è necessario che sia confermato ne' tormenti, perché,
essendo lui infame a cagion del suo proprio delitto, non può essere
ammesso come testimonio, senza tortura; e così si pratica da noi: et
ita apud nos servatur(60) ".
Era dunque legale almeno la
tortura data al commissario in quest'ultimo costituto? No,
certamente: era iniqua, anche secondo le leggi, poiché gliela davano
per convalidare un'accusa che non poteva diventar valida con nessun
mezzo, a cagion dell'impunità da cui era stata promossa. E si veda
come gli avesse avvertiti a proposito il loro Bossi. "Essendo la
tortura un male irreparabile, si badi bene di non farla soffrire in
vano a un reo in casi simili, cioè quando non ci siano altre
presunzioni o indizi del delitto.(61) "
Ma che? facevan dunque contro
la legge, a dargliela, e a non dargliela? Sicuro; e qual maraviglia
che chi s'è messo in una strada falsa, arrivi a due che non son
buone, né l'una né l'altra?
Del resto, è facile indovinare
che la tortura datagli per fargli ritrattare un'accusa, non dovette
esser così efficace come quella datagli per isforzarlo ad accusarsi.
Infatti, non ebbero questa volta a scrivere esclamazioni, a
registrare urli né gemiti: sostenne tranquillamente la sua
deposizione.
Gli domandaron due volte perché
non l'avesse fatta ne' primi costituti. Si vede che non potevan
levarsi dalla testa il dubbio, e dal cuore il rimorso, che quella
sciocca storia fosse un'ispirazion dell'impunità. Rispose: fu per
l'impedimento dell'aqua che ho detto che haueuo beuuta. Avrebbero
certamente desiderato qualcosa di più concludente; ma bisognava
contentarsi. Avevan trascurati, che dico? schivati, esclusi, tutti i
mezzi che potevan condurre alla scoperta della verità: delle due
contrarie conclusioni che potevan risultare dalla ricerca, n'avevan
voluta una, e adoprato, prima un mezzo, poi un altro, per ottenerla
a qualunque costo: potevan pretendere di trovarci quella
soddisfazione che può dar la verità sinceramente cercata? Spegnere
il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non
piace, ma non per veder quella che si desidera.
Calato dalla fune, e mentre lo
slegavano, il commissario disse: Signore, vi voglio un puoco pensar
sino a dimani, et dirò poi quello d'auantaggio, che mi ricordarò,
tanto contro di lui, quanto d'altri.
Mentre poi lo riconducevano in
carcere, si fermò, dicendo: ho non so che da dire; e nominò come
gente amica del Mora, e pochi di buono, quel Baruello, e due
foresari(62) , Girolamo e Gaspare Migliavacca, padre e figlio.
Così lo sciagurato cercava di
supplir col numero delle vittime alla mancanza delle prove. Ma
coloro che l'avevano interrogato, potevano non accorgersi che
quell'aggiungere era una prova di più che non aveva che rispondere?
Eran loro che gli avevan chiesto delle circostanze che rendessero
verisimile il fatto; e chi propone la difficoltà, non si può dir che
non la veda. Quelle nuove denunzie in aria, o que' tentativi di
denunzie volevan dire apertamente: voi altri pretendete ch'io vi
renda chiaro un fatto; come è possibile, se il fatto non è? Ma, in
ultimo, quel che vi preme è d'aver delle persone da condannare:
persone ve ne do; a voi tocca a cavarne quel che vi bisogna. Con
qualcheduno vi riuscirà: v'è pur riuscito con me.
Di que' tre nominati dal
Piazza, e d'altri che, andando avanti, furon nominati con ugual
fondamento, e condannati con ugual sicurezza, non faremo menzione,
se non in quanto potrà esser necessario alla storia di lui e del
Mora (i quali, per essere i primi caduti in quelle mani, furono
riguardati sempre come i principali autori del delitto); o in quanto
ne esca qualcosa degna di particolare osservazione. Omettiamo pure
in questo luogo, come faremo altrove, de' fatti secondari e
incidenti, per venir subito al secondo esame del Mora; che fu in
quel giorno medesimo.
In mezzo a varie domande, sul
suo specifico, sul ranno, su certe lucertole che aveva fatto prender
da de' ragazzi, per comporne un medicamento di que' tempi (domande
alle quali soddisfece come un uomo che non ha nulla da nascondere né
da inventare), gli metton lì i pezzi di quella carta che aveva
stracciata nell'atto della visita. La riconosco, disse, per quella
scrittura che io strazziai inauertentamente; et si potranno li
pezzetti congregar insieme, per veder la continenza, et mi verrà
ancora a memoria da chi mi sij stata data.
Passaron poi a fargli
un'interrogazione di questa sorte: in che modo, non hauendo più che
tanta amicitia con il detto Commissario chiamato Gulielmo Piazza,
come ha detto nel precedente suo esame, esso Commissario con tanta
libertà gli ricercò il suddetto vaso di preseruatiuo; et lui
Constituto, con tanta libertà et prestezza, si offerse di darglielo,
et l'interpellò di andarlo a pigliare, come nell'altro suo esame ha
deposto.
Ecco che torna in campo la
misura stretta della verisimiglianza. Quando il Piazza asserì per la
prima volta, che il barbiere, suo amico di bon dì e bon anno, con
quella medesima libertà e prestezza, gli aveva offerto un vasetto
per far morire la gente, non gli fecero difficoltà; la fanno a chi
asserisce che si trattava d'un rimedio. Eppure, si devono
naturalmente usar meno riguardi nel cercare un complice necessario a
una contravvenzion leggiera, e per una cosa in sé onestissima, che a
cercarlo, senza necessità, per un attentato pericoloso quanto
esecrabile: e non è questa una scoperta che si sia fatta in questi
due ultimi secoli. Non era l'uomo del secento che ragionava così
alla rovescia: era l'uomo della passione. Il Mora rispose: io lo
feci per l'interesse.
Gli domandano poi se conosce
quelli che il Piazza aveva nominati; risponde che li conosce, ma non
è loro amico, perché son certa gente da lasciarli fare il fatto suo.
Gli domandano se sa chi avesse fatto quell'imbrattamento di tutta la
città; risponde di no. Se sa da chi il commissario abbia avuto
l'unguento per unger le muraglie: risponde ancora di no.
Gli domandan finalmente: se sa
che persona alcuna, con offerta de danari, habbi ricercato il detto
Commissario ad ontar le muraglie della Vedra de' Cittadini, et che
per così fare, li habbi poi dato un vasetto di vetro con dentro tal
onto. Rispose, chinando la testa, e abbassando la voce (flectens
caput, et submissa voce): non so niente.
Forse soltanto allora
cominciava a vedere a che strano e orribil fine potesse riuscire
quel rigirìo di domande. E chi sa in che maniera sarà stata fatta
questa da coloro, che, incerti, volere o non volere, della loro
scoperta, tanto più dovevano accennar di saperne, e mostrarsi
anticipatamente forti contro le negative che prevedevano. I visi e
gli atti che facevan loro, non li notavano. Andaron dunque avanti a
domandargli direttamente: se lui Constituto ha ricercato il suddetto
Gulielmo Piazza Commissario della Sanità ad ongere le muraglie lì a
torno alla Vedra de' Cittadini, et per così fare se gli ha dato un
vasetto di vetro con dentro l'onto che doueua adoperare; con
promessa di dargli ancora una quantità de danari.
Esclamò, più che non rispose:
Signor no! maidè(63) no! no in eterno! far io queste cose? Son
parole che può dire un colpevole, quanto un innocente; ma non nella
stessa maniera.
Gli fu replicato, che cosa dirà
poi quando dal suddetto Gulielmo Piazza Commissario della Sanità,
gli sarà questa verità sostenuta in faccia.
Di nuovo questa verità! Non
conoscevan la cosa che per la deposizione d'un supposto complice; a
questo avevan detto essi medesimi, il giorno medesimo, che, come la
raccontava lui, haueua molto dell'inverisimile; lui non ci aveva
saputo aggiungere neppure un'ombra di verisimiglianza, se la
contradizione non ne dà; e al Mora dicevano francamente: questa
verità! Era, ripeto, rozzezza de' tempi? era barbarie delle leggi?
era ignoranza? era superstizione? O era una di quelle volte che
l'iniquità si smentisce da sé?
Il Mora rispose: quando mi dirà
questo in faccia, dirò che è un infame, et che non può dire questo,
perché non ha mai parlato con me di tal cosa, et guardimi Dio!
Si fa venire il Piazza, e, alla
presenza del Mora, gli si domanda, tutto di seguito, se è vero
questo e questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Risponde: Signor
sì, che è vero. Il povero Mora grida: ah Dio misericordia! non si
trouarà mai questo.
Il commissario: io sono a
questi termini, per sostentarui voi.
Il Mora: non si trouarà mai,
non prouarete mai d'esser stato a casa mia.
Il commissario: non fossi mai
stato in casa vostra, come vi son stato; che sono a questi termini
per voi.
Il Mora: non si trouarà mai che
siate stato a casa mia.
Dopo di ciò, furon rimandati,
ognuno nel suo carcere.
Il capitano di giustizia, nella
lettera al governatore, più volte citata, rende conto di quel
confronto in questi termini: "Il Piazza animosamente gli ha
sostenuto in faccia, esser vero ch'egli riceuè da lui tale unguento,
con le circostanze del luogo e del tempo." Lo Spinola dovette
credere che il Piazza avesse specificate queste circostanze,
contradittoriamente col Mora; e tutto quel sostenere animosamente si
riduceva in realtà a un Signor sì, che è vero.
La lettera finisce con queste
parole: "Si vanno facendo altre diligenze per scoprire altri
complici, o mandanti. Fratanto ho voluto che quello che passa fosse
inteso da V.E.,alla quale humilmente bacio le mani, et auguro
prospero fine delle sue imprese." Probabilmente ne furono scritte
altre, che sono perdute. In quanto all'imprese, l'augurio andò a
vòto. Lo Spinola, non ricevendo rinforzi, e disperando ormai di
prender Casale, s'ammalò, anche di passione, verso il principio di
settembre, e morì il 25, mancando sull'ultimo all'illustre
soprannome di prenditor di città, acquistato nelle Fiandre, e
dicendo (in ispagnolo): m'han levato l'onore. Gli avevan fatto
peggio, col dargli un posto a cui erano annesse tante obbligazioni,
delle quali pare che a lui ne premesse solamente una: e
probabilmente non gliel avevan dato che per questa.
Il giorno dopo il confronto, il
commissario chiese d'esser sentito; e, introdotto, disse: il
Barbiero ha detto ch'io non sono mai stato a casa sua; perciò V.S.
esamini Baldassar Litta, che sta nella casa dell'Antiano, nella
Contrada di S. Bernardino, et Stefano Buzzio, che fa il tintore, et
sta nel portone per contro S. Agostino, presso S. Ambrogio, li quali
sono informati ch'io sono stato nella casa et bottega di detto
Barbiero.
Era venuto a fare una tal
dichiarazione, di suo proprio impulso? O era un suggerimento
fattogli dare da' giudici? Il primo sarebbe strano, e l'esito lo
farà vedere; del secondo c'era un motivo fortissimo. Volevano un
pretesto per mettere il Mora alla tortura; e tra le cose che,
secondo l'opinione di molti dottori, potevan dare all'accusa del
complice quel valore che non aveva da sé, e renderla indizio
sufficiente alla tortura del nominato, una era che tra loro ci fosse
amicizia. Non però un'amicizia, una conoscenza qualunque; perché, "a
intenderla così," dice il Farinacci, "ogni accusa d'un complice
farebbe indizio, essendo troppo facile che il nominante conosca il
nominato in qualche maniera; ma bensì un praticarsi stretto e
frequente, e tale da render verisimile che tra loro si sia potuto
concertare il delitto(64) ". Per questo avevan domandato da
principio al commissario, se detto Barbiero è amico di lui
Constituto. Ma il lettore si rammenta della risposta che n'ebbero:
amico sì, buon dì buon anno. L'intimazione minacciosa fattagli poi,
non aveva prodotto niente di più; e quello che avevan cercato come
un mezzo, era diventato un ostacolo. È vero che non era, né poteva
diventar mai un mezzo legittimo né legale, e che l'amicizia più
intima e più provata non avrebbe potuto dar valore a un'accusa resa
insanabilmente nulla dalla promessa d'impunità. Ma a questa
difficoltà, come a tante altre che non risultavano materialmente dal
processo, ci passavan sopra: quella, l'avevan messa in evidenza essi
medesimi con le loro domande; e bisognava veder di levarla. Nel
processo son riferiti discorsi di carcerieri, di birri e di
carcerati per altri delitti, messi in compagnia di quegl'infelici,
per cavar loro qualcosa di bocca. È quindi più che probabile che
abbiano, con uno di questi mezzi, fatto dire al commissario, che la
sua salvezza poteva dipendere dalle prove che desse della sua
amicizia col Mora; e che lo sciagurato, per non dir che non n'aveva,
sia ricorso a quel partito, al quale non avrebbe mai pensato da sé.
Perché, quale assegnamento potesse fare sulla testimonianza de' due
che aveva citati, si vede dalle loro deposizioni. Baldassare Litta,
interrogato se ha mai visto il Piazza in casa o in bottega del Mora,
risponde: signor, no. Stefano Buzzi, interrogato se sa che tra il
detto Piazza et Barbiero vi passi alcuna amicitia, risponde: può
essere che siano amici, et che si salutassero; ma questo non lo
saprei mai dire a V.S. Interrogato di nuovo se sa che il detto
Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto Barbiero, risponde:
non lo saprei mai dire a V.S.
Vollero poi sentire un altro
testimonio, per verificare una circostanza asserita dal Piazza nella
sua deposizione; cioè che un certo Matteo Volpi s'era trovato
presente, quando il barbiere gli aveva detto: ho poi da darvi un non
so che. Questo Volpi, interrogato su di ciò, non solo risponde di
non ne saper nulla, ma, redarguito, aggiunge risolutamente: io
giurarò che non ho mai visto che si siano parlati insieme.
Il giorno seguente, 30 di
giugno, fu sottomesso il Mora a un nuovo esame; e non
s'indovinerebbe mai come lo principiassero.
Che dica per qual causa lui
Constituto, nell'altro suo esame, mentre fu confrontato con Gulielmo
Piazza Commissario della Sanità, ha negato a pena hauer cognitione
di lui, dicendo che mai fu in casa sua, cosa però che in contrario
gli fu sostenuta in faccia; et pure, nel primo suo esame mostra
d'hauere piena sua cognitione, cosa che ancor depongono altri nel
processo formato; il che ancora si conosce per vero dalla prontezza
sua in offerirli, et apparecchiarli il vaso di preseruatiuo, deposto
nel suo precedente esame.
Risponde: è ben vero che detto
Commissario passa da lì spesso dalla mia bottega; ma non ha prattica
di casa mia, né di me.
Replicano: che non solo è
contrario al suo primo esame, ma ancora alla depositione d'altri
testimonij...
Qui è superflua qualunque
osservazione.
Non osaron però di metterlo
alla tortura sulla deposizion del Piazza, ma che fecero? ricorsero
all'espediente degl'inverisimili; e, cosa da non credersi, uno fu il
negar che faceva d'avere amicizia col Piazza, e che questo
praticasse in casa sua; mentre asseriva d'avergli promesso il
preservativo! L'altro che non rendesse un conto soddisfacente del
perché aveva fatta in pezzi quella scrittura. Ché il Mora seguitava
a dire d'averlo fatto senza badarci, e non credendo che una tal cosa
potesse importare alla giustizia; o che temesse, povero infelice!
d'aggravarsi confessando che l'aveva fatto per trafugar la prova
d'una contravvenzione, o che infatti non sapesse ben render conto a
sé stesso di ciò che aveva fatto in que' primi momenti di confusione
e di spavento. Ma sia come si sia, que' pezzi gli avevano: e se
credevano che in quella scrittura ci potesse esser qualche indizio
del delitto, potevan rimetterla insieme, e leggerla come prima: il
Mora stesso gliel aveva suggerito. Anzi, chi mai crederà che non
l'avessero già fatto?
Intimaron dunque al Mora, con
minaccia della tortura, che dicesse la verità su que' due punti.
Rispose: già ho detto quello che passa intorno alla scrittura; et
puole il Commissario dir quello che vole, perché dice un'infamità,
perché io non gli ho dato niente.
Credeva (e non doveva
crederlo?) che questa fosse in ultimo la verità che volevan da lui;
ma no signore; gli dicono che non se gli ricerca questa
particolarità, perché sopra di essa non s'interroga, né si vole per
adesso altra verità da lui, che di sapere il fine perché ha scarpato
(stracciato) la detta scrittura, et perché ha negato et neghi che il
detto Commissario sia stato alla bottega sua, mostrando quasi di non
hauer cognitione di lui.
Non si troverebbe, m'immagino,
così facilmente un altro esempio d'un così sfrontatamente bugiardo
rispetto alle formalità legali. Essendo troppo manifestamente
mancante il diritto d'ordinar la tortura per l'oggetto principale,
anzi unico, dell'accusa, volevano far constare ch'era per altro. Ma
il mantello dell'iniquità è corto; e non si può tirarlo per
ricoprire una parte, senza scoprirne un'altra. Compariva così di
più, che non avevano, per venire a quella violenza, altro che due
iniquissimi pretesti: uno dichiarato tale in fatto da loro medesimi,
col non voler chiarirsi di ciò che contenesse la scrittura; l'altro,
dimostrato tale, e peggio, dalle testimonianze con cui avevan
tentato di farlo diventare indizio legale.
Ma si vuol di più? Quand'anche
i testimoni avessero pienamente confermato il secondo detto del
Piazza su quella circostanza particolare e accessoria; quand'anche
non ci fosse stata di mezzo l'impunità; la deposizion di costui non
poteva più somministrare nessun indizio legale. "Il complice che
varia e si contradice nelle sue deposizioni, essendo perciò anche
spergiuro, non può fare, contro i nominati, indizio alla tortura...
anzi nemmeno all'inquisizione... e questa si può dire dottrina
comunemente ricevuta dai dottori.(65) "
Il Mora fu messo alla tortura!
L'infelice non aveva la
robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però, il dolore
non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste
d'aver detta la verità. Oh Dio mio; non ho cognitione di colui, né
ho mai hauuto pratica con lui, et per questo non posso dire... et
per questo dice la bugia che sia praticato in casa mia, né che sia
mai stato nella mia bottega. Son morto! misericordia, mio Signore!
misericordia! Ho stracciato la scrittura, credendo fosse la ricetta
del mio elettuario... perché voleuo il guadagno io solamente.
Questa non è causa sufficiente,
gli dissero. Supplicò d'esser lasciato giù, che direbbe la verità!
Fu lasciato giù, e disse: La verità è che il Commissario non ha
pratica alcuna meco. Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle
spietate istanze degli esaminatori, l'infelice rispondeva: V.S. veda
quello che vole che dica, lo dirò: la risposta di Filota a chi lo
faceva tormentare, per ordine d'Alessandro il grande, "il quale
stava ascoltando pur anch'esso dietro ad un arazzo(66) ": dic quid
me velis dicere(67) è la risposta di chi sa quant'altri infelici.
Finalmente, potendo più lo
spasimo che il ribrezzo di calunniar sé stesso, che il pensiero del
supplizio, disse: ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco,
acciò imbrattasse le muraglie, al Commissario. V.S. mi lasci giù,
che dirò la verità.
Così eran riusciti a far
confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza
l'immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una
tortura illegale, come nel primo con un'illegale impunità. L'armi
eran prese dall'arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati
ad arbitrio, e a tradimento.
Vedendo che il dolore produceva
l'effetto che avevan tanto sospirato, non esaudiron la supplica
dell'infelice, di farlo almeno cessar subito. Gl'intimarono che
cominci a dire.
Disse: era sterco humano,
smojazzo (ranno; ed ecco l'effetto di quella visita della caldaia,
cominciata con tanto apparato, e troncata con tanta perfidia);
perché me lo domandò lui, cioè il Commissario, per imbrattare le
case, et di quella materia che esce dalla bocca dei morti, che son
sui carri. E nemmen questo era un suo ritrovato. In un esame
posteriore, interrogato dove ha imparato tal sua compositione,
rispose: diceuano così in barbarìa, che si adoperaua di quella
materia che esce dalla bocca de' morti... et io m'ingegnai ad
aggiongervi la lisciuia et il sterco. Avrebbe potuto rispondere: da'
miei assassini, ho imparato; da voi altri e dal pubblico.
Ma c'è qui qualche altra cosa
di molto strano. Come mai uscì fuori con una confessione che non gli
avevan richiesta, che avevano anzi esclusa da quell'esame,
dicendogli che non se gli ricerca questa particolarità, perché sopra
di essa non s'interroga? Poiché il dolore lo strascinava a mentire,
par naturale che la bugia dovesse stare almeno ne' limiti delle
domande. Poteva dire d'essere amico intrinseco del commissario;
poteva inventar qualche motivo colpevole, aggravante, dell'avere
stracciata la scrittura; ma perché andar più in là di quello che lo
spingevano? Forse, mentre era sopraffatto dallo spasimo, gli andavan
suggerendo altri mezzi per farlo finire? gli facevano altre
interrogazioni, che non furono scritte nel processo? Se fosse così,
potremmo esserci ingannati noi a dir che avevano ingannato il
governatore col lasciargli credere che il Piazza fosse stato
interrogato sul delitto. Ma se allora non abbiam messo in campo il
sospetto che la bugia fosse nel processo, piuttosto che nella
lettera, fu perché i fatti non ce ne davano un motivo bastante. Ora
è la difficoltà d'ammettere un fatto stranissimo, che ci sforza
quasi a fare una supposizione atroce, in aggiunta di tante atrocità
evidenti. Ci troviam, dico, tra il credere che il Mora s'accusasse,
senza esserne interrogato, d'un delitto orribile, che non aveva
commesso, che doveva procacciargli una morte spaventosa, e il
congetturar che coloro, mentre riconoscevan col fatto di non avere
un titolo sufficiente di tormentarlo per fargli confessar quel
delitto, profittassero della tortura datagli con un altro pretesto,
per cavargli di bocca una tal confessione. Veda il lettore quel che
gli pare di dovere scegliere.
L'interrogatorio che succedette
alla tortura fu, dalla parte de' giudici, com'era stato quello del
commissario dopo la promessa d'impunità, un misto o, per dir meglio,
un contrasto d'insensatezza e d'astuzia, un moltiplicar domande
senza fondamento, e un ometter l'indagini più evidentemente indicate
dalla causa, più imperiosamente prescritte dalla giurisprudenza.
Posto il principio che "nessuno
commette un delitto senza cagione"; riconosciuto il fatto che "molti
deboli d'animo avevan confessato delitti che poi, dopo la condanna,
e al momento del supplizio, avevan protestato di non aver commessi,
e s'era trovato infatti, quando non era più tempo, che non gli
avevan commessi", la giurisprudenza aveva stabilito che "la
confessione non avesse valore, se non c'era espressa la cagione del
delitto, e se questa cagione non era verisimile e grave, in
proporzion del delitto medesimo(68) ". Ora, l'infelicissimo Mora,
ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva
condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell'interrogatorio, che
la bava de' morti di peste l'aveva avuta dal commissario, che questo
gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e
dell'accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel
mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt'e due: uno,
nel suo posto di commissario; l'altro, con lo spaccio del
preservativo. Non domanderemo al lettore se, tra l'enormità e i
pericoli d'un tal delitto, e l'importanza di tali guadagni (ai
quali, del resto, gli aiuti della natura non mancavan di certo), ci
fosse proporzione. Ma se credesse che que' giudici, per esser del
secento, ce la trovassero, e che una tal cagione paresse loro
verisimile, li sentirà essi medesimi dir di no, in un altro esame.
Ma c'era di più: c'era contro
la cagione addotta dal Mora una difficoltà più positiva, più
materiale, se non più forte. Il lettore può rammentarsi che il
commissario, accusando sé stesso, aveva addotta anche lui la cagione
da cui era stato mosso al delitto; cioè che il barbiere gli aveva
detto: ungete... et poi venete da me, che hauerete una mano, o come
disse nel costituto seguente, una buona mano de danari. Ecco dunque
due cagioni d'un solo delitto: due cagioni, non solo diverse, ma
opposte e incompatibili. l'uomo stesso che, secondo una confessione,
offre largamente danari per avere un complice; secondo l'altra,
acconsente al delitto per la speranza d'un miserabile guadagno.
Dimentichiamo quel che s'è visto fin qui: come sian venute fuori
quelle due cagioni, con che mezzi si siano avute quelle due
confessioni; prendiam le cose al punto dove sono arrivate. Cosa
facevano, trovandosi a un tal punto, de' giudici ai quali la
passione non avesse pervertita, offuscata, istupidita la coscienza?
Si spaventavano d'essere andati (foss'anche senza colpa) tanto
avanti; si consolavano di non essere almeno andati fino all'ultimo,
all'irreparabile affatto; si fermavano all'inciampo fortunato che
gli aveva trattenuti dal precipizio; s'attaccavano a quella
difficoltà, volevano scioglier quel nodo; qui adopravan tutta
l'arte, tutta l'insistenza, tutti i rigiri dell'interrogazioni; qui
ricorrevano ai confronti; non facevano un passo prima d'aver trovato
(ed era forse cosa difficile?) qual de' due mentisse, o se forse
mentissero tutt'e due. I nostri esaminatori, avuta quella risposta
del Mora: perché lui hauerebbe guadagnato assai, poiché si sarian
ammalate delle persone assai, et io hauerei guadagnato assai con il
mio elettuario, passarono ad altro.
Dopo ciò, basterà, se non è
anche troppo, il toccar di fuga, e in parte, il rimanente di quel
costituto.
Interrogato, se vi sono altri
complici di questo negotio, risponde: vi saranno li suoi compagni
del Piazza, i quali non so chi siano. Gli si protesta che non è
verisimile che non lo sappi. Al suono di quella parola, terribile
foriera della tortura, l'infelice afferma subito, nella forma più
positiva: sono li Foresari et il Baruello: quelli che gli erano
stati nominati e così indicati, nel costituto antecedente.
Dice che il veleno lo teneva
nel fornello, cioè dove loro s'erano immaginati che potesse essere;
dice come lo componeva, e conclude: buttavo via il resto nella
Vedra. Non possiam tenerci qui di non trascrivere una postilla del
Verri. "E non avrebbe gettato nella Vetra il resto, dopo la
prigionia del Piazza!"
Risponde a caso ad altre
domande che gli fanno su circostanze di luogo, di tempo e di cose
simili, come se si trattasse d'un fatto chiaro e provato in
sostanza, e non ci mancassero che delle particolarità; e finalmente,
è messo di nuovo alla tortura, affinché la sua deposizione potesse
valer contro i nominati, e segnatamente contro il commissario. Al
quale avevan data la tortura per convalidare una deposizione opposta
a questa in punti essenziali! Qui non potremmo allegar testi di
leggi, né opinioni di dottori; perché in verità la giurisprudenza
non aveva preveduto un caso simile.
La confessione fatta nella
tortura non valeva, se non era ratificata senza tortura, e in un
altro luogo, di dove non si potesse vedere l'orribile strumento, e
non nello stesso giorno. Eran ritrovati della scienza, per rendere,
se fosse stato possibile, spontanea una confessione forzata, e
soddisfare insieme al buon senso, il quale diceva troppo chiaro che
la parola estorta dal dolore non può meritar fede, e alla legge
romana che consacrava la tortura. Anzi la ragione di quelle
precauzioni, la ricavavano gl'interpreti dalla legge medesima, cioè
da quelle strane parole: "La tortura è cosa fragile e pericolosa e
soggetta a ingannare; giacché molti, per forza d'animo o di corpo,
curan così poco i tormenti, che non si può, con un tal mezzo, aver
da loro la verità; altri sono così intolleranti del dolore, che
dicon qualunque falsità, piuttosto che sopportare i tormenti(69) ".
Dico: strane parole, in una legge che manteneva la tortura; e per
intendere come non ne cavasse altra conseguenza, se non che "ai
tormenti non si deve creder sempre", bisogna rammentarsi che quella
legge era fatta in origine per gli schiavi, i quali, nell'abiezione
e nella perversità del gentilesimo, poterono esser considerati come
cose e non persone, e sui quali si credeva quindi lecito qualunque
esperimento, a segno che si tormentavano per iscoprire i delitti
degli altri. De' nuovi interessi di nuovi legislatori la fecero poi
applicare anche alle persone libere; e la forza dell'autorità la
fece durar tanti secoli più del gentilesimo: esempio non raro, ma
notabile, di quanto una legge, avviata che sia, possa estendersi al
di là del suo principio, e sopravvivergli.
Per adempir dunque una tale
formalità, chiamarono il Mora a un nuovo esame, il giorno seguente.
Ma siccome in tutto dovevan metter qualcosa d'insidioso,
d'avvantaggioso, di suggestivo, così, in vece di domandargli se
intendeva di ratificar la sua confessione, gli domandarono se ha
cosa alcuna d'aggiongere all'esame et confessione sua, che fece
hieri, doppo che fu ommesso di tormentare. Escludevano il dubbio: la
giurisprudenza voleva che la confessione della tortura fosse rimessa
in questione; essi la davan per ferma, e chiedevan soltanto che
fosse accresciuta.
Ma in quell'ore (direm noi di
riposo?) il sentimento dell'innocenza, l'orror del supplizio, il
pensiero della moglie, de' figli, avevan forse data al povero Mora
la speranza d'esser più forte contro nuovi tormenti; e rispose:
Signor no, che non ho cosa d'aggiongerui, et ho più presto cosa da
sminuire. Dovettero pure domandargli, che cosa ha da sminuire.
Rispose più apertamente, e come prendendo coraggio: quell'unguento
che ho detto, non ne ho fatto minga (mica), et quello che ho detto,
l'ho detto per i tormenti. Gli minacciaron subito la rinnovazion
della tortura; e ciò (lasciando da parte tutte l'altre violente
irregolarità) senza aver messe in chiaro le contradizioni tra lui e
il commissario, cioè senza poter dire essi medesimi se quella nuova
tortura gliel'avrebbero data sulla sua confessione, o sulla
deposizion dell'altro; se come a complice, o come a reo principale;
se per un delitto commesso ad istigazione altrui, o del quale era
stato l'istigatore; se per un delitto che lui aveva voluto pagar
generosamente, o dal quale aveva sperato un miserabile guadagno.
A quella minaccia, rispose
ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo
dissi per li tormenti. Poi riprese: V.S. mi lasci un puoco dire
un'Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me inspirarà; e si
mise in ginocchio davanti a un'immagine del Crocifisso, cioè di
Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici. Alzatosi dopo
qualche momento, e stimolato a confermar la sua confessione, disse:
in conscienza mia, non è vero niente. Condotto subito nella stanza
della tortura, e legato, con quella crudele aggiunta del canapo,
l'infelicissimo disse: V.S. non mi stij a dar più tormenti, che la
verità che ho deposto, la voglio mantenere. Slegato e ricondotto
nella stanza dell'esame, disse di nuovo: non è vero niente. Di nuovo
alla tortura, dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli
il dolore consumato fino all'ultimo quel poco resto di coraggio,
mantenne il suo detto, si dichiarò pronto a ratificar la sua
confessione; non voleva nemmeno che gliela leggessero. A questo non
acconsentirono: scrupolosi nell'osservare una formalità ormai
inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti e più
positive. Lettogli l'esame, disse: è la verità tutto.
Dopo di ciò, perseveranti nel
metodo di non proseguir le ricerche, di non affrontar le difficoltà,
se non dopo i tormenti (ciò che la legge medesima aveva creduto di
dover vietare espressamente, ciò che Diocleziano e Massimiano avevan
voluto impedire!(70) ), pensaron finalmente a domandargli se non
aveva avuto altro fine che di guadagnar con la vendita del suo
elettuario. Rispose: che sappia mi, quanto a me, non ho altro fine.
Che sappia mi! Chi, se non lui,
poteva sapere cosa fosse passato nel suo interno? Eppure quelle così
strane parole erano adattate alla circostanza: lo sventurato non
avrebbe potuto trovarne altre che significassero meglio a che segno
aveva, in quel momento, abdicato, per dir così, sé medesimo, e
acconsentiva a affermare, a negare, a sapere quello soltanto, e
tutto quello che fosse piaciuto a coloro che disponevan della
tortura.
Vanno avanti, e gli dicono: che
ha molto dell'inuerisimile che, solamente per hauer occasione il
Commissario di lavorare assai, et lui Constituto di vendere il suo
elettuario habbino procurato, con l'imbrattamento delle porte, la
destruttione et morte della gente; perciò dica a che fine, et per
che rispetto si sono mossi loro duoi a così fare, per un interesse
così legiero.
Ora vien fuori
quest'inverisimiglianza? Gli avevan dunque minacciata e data a più
riprese la tortura per fargli ratificare una confessione
inverisimile! L'osservazione era giusta, ma veniva tardi, diremo
anche qui; giacché il rinnovarsi delle circostanze medesime, ci
sforza quasi a usar le medesime parole. Come non s'erano accorti che
ci fosse inverisimiglianza nella deposizione del Piazza, se non
quando ebbero, su quella deposizione, carcerato il Mora; così ora
non s'accorgono che ci sia inverisimiglianza nella confession di
questo, se non dopo avergli estorta una ratificazione che, in mano
loro, diventa un mezzo sufficiente per condannarlo. Vogliam supporre
che realmente non se n'accorgessero che in questo momento? Come
spiegheremo allora, come qualificheremo il ritener valida una tal
confessione, dopo una tale osservazione? Forse il Mora diede una
risposta più soddisfacente che non fosse stata quella del Piazza? La
risposta del Mora fu questa: se il Commissario non lo sa lui, io non
lo so; et bisogna che lui lo sappia, et da lui V.S. lo saprà, per
essere stato lui l'inuentore. E si vede che questo rovesciarsi l'uno
sull'altro la colpa principale, non era tanto per diminuire ognuno
la sua, quanto per sottrarsi all'impegno di spiegar cose che non
erano spiegabili.
E dopo una risposta simile,
g'intimarono che per hauer lui Constituto fatto la suddetta
compositione et unguento, di concerto del detto Commissario, et a
lui doppo dato per ontare le muraglie delle case, nel modo et forma
da lui Constituto et dal detto Commissario, deposto, a fine di far
morire la gente, si come il detto Commissario ha confessato d'hauere
per tal fine eseguito, esso Constituto si fa reo d'hauer procurato
in tal modo la morte della gente, et che per hauer così fatto, sij
incorso nelle pene imposte dalle leggi a chi procura et tenta di
così fare.
Ricapitoliamo. I giudici dicono
al Mora: come è possibile che vi siate determinati a commettere un
tal delitto, per un tal interesse? Il Mora risponde: il commissario
lo deve sapere, per sé, e per me: domandatene a lui. Li rimette a un
altro, per la spiegazione d'un fatto dell'animo suo, perché possan
chiarirsi come un motivo sia stato sufficiente a produrre in lui una
deliberazione. E a qual altro? A uno che non ammetteva un tal
motivo, poiché attribuiva il delitto a tutt'altra cagione. E i
giudici trovano che la difficoltà è sciolta, che il delitto
confessato dal Mora è diventato verisimile; tanto che ne lo
costituiscono reo.
Non poteva esser l'ignoranza
quella che faceva loro vedere inverisimiglianza in un tal motivo;
non era la giurisprudenza quella che li portava a fare un tal conto
delle condizioni trovate e imposte dalla giurisprudenza.
Cap. 5
L'impunità e la tortura avevan
prodotto due storie; e benché questo bastasse a tali giudici per
proferir due condanne, vedremo ora come lavorassero e riuscissero,
per quanto era possibile, a rifonder le due storie in una sola.
Vedremo poi, in ultimo, come mostrassero, col fatto, d'esser
persuasi essi medesimi, anche di questa.
Il senato confermò e estese la
decisione de' suoi delegati. "Sentito ciò che risultava dalla
confessione di Giangiacomo Mora, riscontrate le cose antecedenti,
considerato ogni cosa," meno l'esserci, per un solo delitto, due
autori principali diversi, due diverse cagioni, due diversi ordini
di fatti, "ordinò che il Mora suddetto... fosse di nuovo interrogato
diligentissimamente, però senza tortura, per fargli spiegar meglio
le cose confessate, e ricavar da lui gli altri autori, mandanti,
complici del delitto; e che dopo l'esame fosse costituito reo, con
la narrativa del fatto, d'aver composto l'unguento mortifero, e
datolo a Guglielmo Piazza; e gli fosse assegnato il termine di tre
giorni per far le sue difese. E in quanto al Piazza, fosse
interrogato se aveva altro da aggiungere alla sua confessione, la
quale si trovava mancante; e, non n'avendo, fosse costituito reo
d'avere sparso l'unguento suddetto, e assegnatogli il medesimo
termine per le difese." Cioè: vedete di cavar dall'uno e dall'altro
quello che si potrà: a ogni modo, sian costituiti rei, ognuno sulla
sua confessione, benché siano due confessioni contrarie.
Cominciaron dal Piazza, e in
quel giorno medesimo. Da aggiungere, lui non aveva nulla, e non
sapeva che n'avevan loro; e forse, accusando un innocente, non aveva
preveduto che si creava un accusatore. Gli domandano perché non ha
deposto d'aver dato al barbiere della bava d'appestati, per comporre
l'unguento. Non gli ho dato niente, risponde; come se quelli che gli
avevan creduta la bugia, dovessero credergli anche la verità. Dopo
un andirivieni d'altre interrogazioni, gli protestano che, per non
hauer detta la verità intera, come hauea promesso, non può né deue
godere della impunità che se gli era promessa. Allora dice subito:
Signore, è vero che il suddetto Barbiero mi ricercò a portargli
quella materia, et io glie la portai, per fare il detto onto.
Sperava, con l'ammetter tutto, di ripescar la sua impunità. Poi, o
per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo, soggiunse che i
danari promessigli dal barbiere dovevan venire da una persona
grande, e che l'aveva saputo dal barbiere medesimo, ma senza
potergli mai cavar di bocca chi fosse. Non aveva avuto tempo
d'inventarla.
Ne domandarono al Mora, il
giorno dopo; e probabilmente il poverino l'avrebbe inventata lui,
come avrebbe potuto, se fosse stato messo alla tortura. Ma, come
abbiam visto, il senato l'aveva esclusa per quella volta, affine, si
vede, di render meno sfrontatamente estorta la nuova ratificazione
che volevano della sua confessione antecedente. Perciò, interrogato
se lui Constituto fu il primo a ricercare il detto Commissario... et
gli promise quantità de danari; rispose: Signor no; e doue vole V.S.
che pigli mi (io) questa quantità de danari? Potevano infatti
rammentarsi che, nella minutissima visita fattagli in casa quando
l'arrestarono, il tesoro che gli avevan trovato, era un baslotto
(una ciotola), con dentro cinque parpagliole (dodici soldi e mezzo).
Domandato della persona grande, rispose: V.S. non vole già se non la
verità, e la verità io l'ho detta quando sono stato tormentato, et
ho detto anche d'avantaggio.
Ne' due estratti non è fatto
menzione che abbia ratificata la confessione antecedente; se, come è
da credere, glielo fecero fare, quelle parole erano una protesta,
della quale lui forse non conosceva la forza; ma essi la dovevan
conoscere. E del rimanente, da Bartolo, anzi dalla Glossa, fino al
Farinacci, era stata, ed era sempre dottrina comune, e come assioma
della giurisprudenza, che "la confessione fatta ne' tormenti che
fossero dati senza indizi legittimi, rimaneva nulla e invalida,
quand'anche fosse poi ratificata mille volte senza tormenti: etiam
quod millies sponte sit ratificata(76) ".
Dopo di ciò, fu a lui e al
Piazza pubblicato, come allora si diceva, il processo (cioè
comunicati gli atti), e dato il termine di due giorni a far le loro
difese: e non si vede perché uno di meno di quello che aveva
decretato il senato. Fu all'uno e all'altro assegnato un difensore
d'ufizio: quello assegnato al Mora se ne scusò. Il Verri
attribuisce, per congettura, quel rifiuto a una cagione che pur
troppo non è strana in quel complesso di cose. "Il furore", dice,
"era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante
il difender questa disgraziata vittima.(77) " Ma nell'estratto
stampato, che il Verri non doveva aver visto, è registrata la cagion
vera, forse non meno strana, e, da una parte, anche più trista. Lo
stesso giorno, due di luglio, il notaio Mauri, chiamato a difendere
il detto Mora, disse: io non posso accettare questo carico, perché,
prima sono Notaro criminale, a chi non conviene accettar patrocinij,
et poi anche perché non sono né Procuratore, né Avocato; anderò bene
a parlarli, per darli gusto (per fargli piacere), ma non accettarò
il patrocinio. A un uomo condotto ormai appiè del supplizio (e di
qual supplizio! e in qual maniera!), a un uomo privo d'aderenze,
come di lumi, e che non poteva aver soccorso se non da loro, o per
mezzo loro, davano per difensore uno che mancava delle qualità
necessarie a un tal incarico, e n'aveva delle incompatibili! Con
tanta leggerezza procedevano! mettiam pure che non c'entrasse
malizia. E toccava a un subalterno a richiamarli all'osservanza
delle regole più note, e più sacrosante!
Tornato, disse: sono stato dal
Mora, il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, et che
quello che ha detto, l'ha detto per i tormenti; et perché gli ho
detto liberamente che non voleuo né poteuo sostener questo carico di
diffenderlo, mi ha detto che almeno il Sig. Presidente sij servito
(si degni) di prouederli d'un diffensore, et che non voglia
permettere che habbi da morire indiffeso. Di tali favori, e con tali
parole, l'innocenza supplicava l'ingiustizia! Gliene nominarono
infatti un altro.
Quello assegnato al Piazza,
"comparve e chiese a voce che gli fosse fatto vedere il processo del
suo cliente; e avutolo, lo lesse". Era questo il comodo che davano
alle difese? Non sempre, poiché l'avvocato del Padilla, che divenne,
come or ora vedremo, il concreto della persona grande buttata là in
astratto e in aria, ebbe a sua disposizione il processo medesimo,
tanto da farne copiar quella buona parte che è venuta per quel mezzo
a nostra notizia.
Sullo spirar del termine, i due
sventurati chiesero una proroga: "il senato concesse loro tutto il
giorno seguente, e non più: et non ultra". Le difese del Padilla
furon presentate in tre volte: una parte il 24 di luglio 1631; la
quale "fu ammessa senza pregiudizio della facoltà di presentar più
tardi il rimanente"; l'altra il 13 d'aprile 1632; e l'ultima il 10
di maggio dell'anno medesimo: era allora arrestato da circa due
anni. Lentezza dolorosa davvero, per un innocente; ma, paragonata
alla precipitazione usata col Piazza e col Mora, per i quali non fu
lungo che il supplizio, una tal lentezza è una parzialità mostruosa.
Quella nuova invenzione del
Piazza sospese però il supplizio per alcuni giorni, pieni di
bugiarde speranze, ma insieme di nuove crudeli torture, e di nuove
funeste calunnie. L'auditore della Sanità fu incaricato di ricevere,
in gran segreto, e senza presenza di notaio, una nuova deposizione
di costui; e questa volta fu lui che promosse l'abboccamento, per
mezzo del suo difensore, facendo intendere che aveva qualcosa di più
da rivelare intorno alla persona grande. Pensò probabilmente che, se
gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così
larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe
un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli. E
siccome, tra le molte e varie congetture ch'eran girate per le
bocche della gente, intorno agli autori di quel funesto
imbrattamento del 18 di maggio (ché la violenza del giudizio fu
dovuta in gran parte all'irritazione, allo spavento, alla
persuasione prodotta da quello: e quanto i veri autori di esso furon
più colpevoli di quello che conoscessero loro medesimi!), s'era
anche detto che fossero ufiziali spagnoli, così lo sciagurato
inventore trovò anche qui qualcosa da attaccarsi. L'esser poi il
Padilla figliuolo del comandante del castello, e l'aver quindi un
protettor naturale, che, per aiutarlo, avrebbe potuto disturbare il
processo, fu probabilmente ciò che mosse il Piazza a nominar lui
piuttosto che un altro: se pure non era il solo ufiziale spagnolo
che conoscesse, anche di nome. Dopo l'abboccamento, fu chiamato a
confermar giudizialmente la sua nuova deposizione. Nell'altra aveva
detto che il barbiere non gli aveva voluto nominar la persona
grande. Ora veniva a sostenere il contrario; e per diminuire, in
qualche maniera, la contradizione, disse che non gliel'aveva
nominata subito. Finalmente mi disse doppo il spatio di quattro o
cinque giorni, che questo capo grosso era un tale di Padiglia, il
cui nome non mi raccordo, benché me lo disse; so bene, et mi
raccordo precisamente che disse esser figliolo del Sig. Castellano
nel Castello di Milano. Danari, però, non solo non disse d'averne
ricevuti dal barbiere, ma protestò di non saper nemmeno se questo
n'avesse avuti dal Padilla.
Fu fatta sottoscrivere al
Piazza questa deposizione, e spedito subito l'auditore della Sanità
a comunicarla al governatore, come riferisce il processo; e
sicuramente a domandargli se consentirebbe, occorrendo, a consegnare
all'autorità civile il Padilla, ch'era capitano di cavalleria, e si
trovava allora all'esercito, nel Monferrato. Tornato l'auditore, e
fatta subito confermar di nuovo la deposizione al Piazza, s'andò di
nuovo addosso all'infelice Mora. Il quale, all'istanze per fargli
dire che lui aveva promesso danari al commissario, e confidatogli
che aveva una persona grande, e dettogli finalmente chi fosse,
rispose: non si trouarà mai in eterno: se io lo sapessi, lo direi,
in conscienza mia. Si viene a un nuovo confronto, e si domanda al
Piazza, se è vero che il Mora gli ha promesso danari, dichiarando
che tutto ciò faceua d'ordine et commissione del Padiglia, figliolo
del signor Castellano di Milano. Il difensor del Padilla osserva,
con gran ragione, che, "sotto pretesto di confronto", fecero così
conoscere al Mora "quello che si desiderava dicesse". Infatti, senza
questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a
fargli buttar fuori quel personaggio. La tortura poteva bensì
renderlo bugiardo, ma non indovino.
Il Piazza sostenne quel che
aveva deposto. E voi volete dir questo? esclamò il Mora. Sì, che lo
voglio dire, che è la verità, replicò lo sventurato impudente: et
sono a questo mal termine per voi, et sapete bene che mi diceste
questo sopra l'uschio della vostra bottega. Il Mora, che aveva forse
sperato di poter, con l'aiuto del difensore, mettere in chiaro la
sua innocenza, e ora prevedeva che nuove torture gli avrebbero
estorta una nuova confessione, non ebbe nemmeno la forza d'opporre
un'altra volta la verità alla bugia. Disse soltanto: patientia! per
amor di voi, morirò.
Infatti, rimandato subito il
Piazza, intimano a lui, che dica hormai la verità; e appena ha
risposto: Signore, la verità l'ho detta; gli minacciano la tortura:
il che si farà sempre senza pregiuditio di quello che è convitto, et
confesso, et non altrimenti. Era una formola solita; ma l'averla
adoprata in questo caso fa vedere fino a che segno la smania di
condannare gli avesse privati della facoltà di riflettere. Come mai
la confessione d'avere indotto il Piazza al delitto con la promessa
de' danari che si avrebbero dal Padilla, poteva non far pregiudizio
alla confessione d'essersi lasciato indurre al delitto dal Piazza,
per la speranza di guadagnar col preservativo?
Messo alla tortura, confermò
subito tutto quello che aveva detto il commissario; ma non bastando
questo ai giudici, disse che infatti il Padilla gli aveva proposto
di fare un ontione da ongere le Porte et Cadenazzi, promessigli
danari quanti ne volesse, datigliene quanti n'aveva voluti.
Noi altri, che non abbiamo, né
timor d'unzioni, né furore contro untori, né altri furiosi da
soddisfare, vediamo chiaramente, e senza fatica, come sia venuta, e
da che sia stata mossa una tal confessione. Ma, se ce ne fosse
bisogno, n'abbiamo anche la dichiarazione di chi l'aveva fatta. Tra
le molte testimonianze che il difensor del Padilla poté raccogliere,
c'è quella d'un capitano Sebastiano Gorini, che si trovava, in quel
tempo (non si sa per qual cagione) nelle stesse carceri, e che
parlava spesso con un servitore dell'auditor della Sanità, stato
messo per guardia a quell'infelice. Depone così: "mi disse detto
servitore, sendo se non (appena) all'hora stato detto Barbiere
rimenato dall'esame: V.S. non sa che il Barbiere m'ha detto adesso
adesso, che nell'esame che ha fatto, ha dato fuori (buttato fuori)
il Sig. Don Gioanni figliolo del Sig. Castellano? Et io, ciò
sentendo, restai stupito, et li dissi: è vero questo? Et esso
servitore mi replicò che era vero; ma che era anche vero che lui
protestava di non raccordarsi di non hauer forsi mai parlato con
alcuno spagnuolo, et che se li hauessero mostrato detto Sig. Don
Gioanni, non l'haurebbe né anche conosciuto. Et soggiongendo, esso
servitore, disse: io li dissi perché dunque lo haueua dato fuori? et
lui disse che l'haueua dato fuori per hauerlo sentito nominare là,
et che perciò rispondeua a tutto quello che sentiva, o che li veniua
così in bocca." Questo valse (e ne sia ringraziato il cielo) a favor
del Padilla; ma vogliam noi credere che i giudici, i quali avevan
messo, o lasciato mettere per guardia al Mora un servitore di
quell'auditor così attivo, così investigatore, non risapessero, se
non tanto tempo dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle
parole così verisimili, dette senza speranza, un momento dopo quelle
così strane che gli aveva estorte il dolore?
E perché, tra tante cose
dell'altro mondo, parve strana anche ai giudici quella relazione tra
il barbier milanese e il cavaliere spagnolo; e domandarono chi c'era
stato di mezzo, alla prima disse ch'era stato uno de' suoi, fatto e
vestito così e così. Ma incalzato a nominarlo, disse: Don Pietro di
Saragoza. Questo almeno era un personaggio immaginario.
Ne furon poi fatte (dopo il
supplizio del Mora, s'intende) le più minute e ostinate ricerche.
S'interrogarono soldati e ufiziali, compreso il comandante stesso
del castello, don Francesco de Vargas, succeduto allora al padre del
Padilla: nessuno l'aveva mai sentito nominare. Se non che si trovò
finalmente, nelle carceri del podestà, un Pietro Verdeno, nativo di
Saragozza, accusato di furto. Costui, esaminato, disse che in quel
tempo era a Napoli; messo alla tortura, sostenne il suo detto; e non
si parlò più di Don Pietro di Saragozza.
Sempre incalzato da nuove
domande, il Mora aggiunse che lui aveva poi fatto la proposta al
commissario, il quale aveva anche lui avuto danari per questo, da
non so chi. E certo non lo sapeva; ma vollero saperlo i giudici. Lo
sventurato, rimesso alla tortura, nominò pur troppo una persona
reale, un Giulio Sanguinetti, banchiere: "il primo venuto in mente
all'uomo che inventava per lo spasimo(73) ".
Il Piazza, che aveva sempre
detto di non aver ricevuto danari, interrogato di nuovo, disse
subito di sì. (Il lettore si rammenterà, forse meglio de' giudici,
che, quando visitaron la casa di costui, danari gliene trovaron meno
che al Mora, cioè punto.) Disse dunque d'averne avuti da un
banchiere; e non avendogli i giudici nominato il Sanguinetti, ne
nominò lui un altro: Girolamo Turcone. E questo e quello e vari loro
agenti furono arrestati, esaminati, messi alla tortura; ma, stando
fermi a negare, furon finalmente rilasciati.
Il 21 di luglio, furono al
Piazza e al Mora comunicati gli atti posteriori alla ripresa del
processo, e dato un nuovo termine di due giorni a far le loro
difese. L'uno e l'altro scelsero questa volta un difensore, col
consiglio probabilmente di quelli ch'erano stati loro assegnati
d'ufizio. Il 23 dello stesso mese, fu arrestato il Padilla; cioè,
come è attestato nelle sue difese, gli fu detto dal commissario
generale della cavalleria, che, per ordine dello Spinola, dovesse
andare a costituirsi prigioniero nel castello di Pomate; come fece.
Il padre, e si rileva dalle difese medesime, fece istanza, per mezzo
del suo luogotenente, e del suo segretario, perché si sospendesse
l'esecuzione della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che
fossero stati confrontati con don Giovanni. Gli fu fatto rispondere
"che non si poteva sospendere, perché il popolo esclamava..."
(eccolo nominato una volta quel civium ardor prava jubentium; la
sola volta che si poteva senza confessare una vergognosa e atroce
deferenza, giacché si trattava dell'esecuzion d'un giudizio, non del
giudizio medesimo. Ma cominciava allora soltanto a esclamare il
popolo? o allora soltanto cominciavano i giudici a far conto delle
sue grida?) "...ma che in ogni caso il signor Don Francesco non si
pigliasse fastidio, perché gente infame, com'erano questi duoi, non
potevano col suo detto pregiudicare alla reputatione del signor Don
Giovanni". E il detto d'ognuno di que' due infami valse contro
l'altro! E i giudici l'avevan tante volte chiamato verità! E nella
sentenza medesima decretarono che, dopo l'intimazion di essa,
fossero l'uno e l'altro tormentati di nuovo su ciò che riguardava i
complici! E le loro deposizioni promossero torture, e quindi
confessioni, e quindi supplizi; e se non basta, anche supplizi senza
confessioni!
"Et così", conclude la
deposizione del segretario suddetto, "tornassimo dal signor
Castellano, et li facessimo la relatione di quant'era passato; et
lui non disse altro, ma restò mortificato; la qual mortificatione fu
tale, che fra pochi giorni se ne morse."
Quell'infernale sentenza
portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del
supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata
loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa
con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo
sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel
fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una
colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di
rifabbricare in quel luogo. E se qualcosa potesse accrescer
l'orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe il veder que'
disgraziati, dopo l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi
allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni medesime
che gliele avevano estorte. La speranza non ancora estinta di
sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che
quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma
presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e
nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con la loro
tortura, riuscivan que' giudici, non solo a fare atrocemente morir
degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir
colpevoli.
Nelle difese del Padilla, si
trovano, ed è un sollievo, le proteste che fecero della loro e
dell'altrui innocenza, appena furono affatto certi di dover morire,
e di non dover più rispondere. Quel capitano citato poco fa, depose
che, trovandosi vicino alla cappella dov'era stato messo il Piazza,
lo sentì che "strepitava, et diceva che moriva al torto, et che era
stato assassinato sotto promessa", e rifiutava il ministero di due
cappuccini venuti per disporlo a morir cristianamente. "Et in quanto
a me," soggiunge, "m'accorgei che lui haueua speranza che si douesse
retrattare la sua causa... et andai dal detto Commissario, pensando
di far atto di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in
gratia di Dio; come in effetto posso dire che mi riuscì; poiché li
Padri non toccorono il punto che toccai io, qual fu che l'accertai
di non hauer mai visto, né sentito dire che il Senato retrattasse
cause simili, dopo seguita la condanna... Finalmente tanto dissi,
che s'acquietò... et doppo che fu acquietato, diede alcuni sospiri,
et poi disse come haueua dato fuori indebitamente molti innocenti."
Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi stendere dai religiosi che gli
assistevano una ritrattazion formale di tutte l'accuse che la
speranza o il dolore gli avevano estorte. L'uno e l'altro
sopportarono quel lungo supplizio, quella serie e varietà di
supplizi, con una forza che, in uomini vinti tante volte dal timor
della morte e dal dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di
qualche gran causa, ma d'un miserabile accidente, d'un errore
sciocco, di facili e basse frodi; in uomini che, diventando infami,
rimanevano oscuri, e all'esecrazion pubblica non avevan da opporre
altro che il sentimento d'un'innocenza volgare, non creduta,
rinnegata tante volte da loro medesimi; in uomini (fa male il
pensarci, ma si può egli non pensarci?) che avevano una famiglia,
moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere, se non si sapesse che
fu rassegnazione: quel dono che, nell'ingiustizia degli uomini, fa
veder la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la
caparra, non solo del perdono, ma del premio. L'uno e l'altro non
cessaron di dire, fino all'ultimo, fin sulla rota, che accettavan la
morte in pena de' peccati che avevan commessi davvero. Accettar
quello che non si potrebbe rifiutare! parole che possono parer prive
di senso a chi nelle cose guardi soltanto l'effetto materiale; ma
parole d'un senso chiaro e profondo per chi considera, o senza
considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser più
difficile, ed è più importante, la persuasion della mente, e il
piegarsi della volontà, è ugualmente difficile, ugualmente
importante, sia che l'effetto dipenda da esso, o no; nel consenso,
come nella scelta.
Quelle proteste potevano
atterrire la coscienza de' giudici; potevano irritarla. Essi
riusciron pur troppo a farle smentire in parte, nel modo che sarebbe
stato il più decisivo, se non fosse stato il più illusorio; cioè col
far che accusassero sé medesimi, molti che da quelle proteste erano
stati così autorevolmente scolpati. Di quest'altri processi
toccheremo soltanto, come abbiam detto, qualcosa, e soltanto
d'alcuni, per venire a quello del Padilla; cioè a quello che, come
per l'importanza del reato è il principale, così, per la forma e per
l'esito, è la pietra del paragone per tutti gli altri.
Cap. 6
I due arrotini, sciaguratamente
nominati dal Piazza, e poi dal Mora, erano stati imprigionati fino
dal 27 di giugno; ma non furon mai confrontati, né con l'uno né con
l'altro, e neppure esaminati, prima dell'esecuzione della sentenza,
che fu il primo d'agosto. L'undici fu esaminato il padre; il giorno
dopo, messo alla tortura, col solito pretesto di contradizioni e
d'inverisimiglianze, confessò, cioè inventò una storia, alterando,
come il Piazza, un fatto vero. Fecero l'uno e l'altro come que'
ragni, che attaccano i capi del loro filo a qualcosa di solido, e
poi lavoran per aria. Gli avevan trovata un'ampolla d'un sonnifero
datogli, anzi composto in casa sua, dal Baruello suo amico; disse
ch'era un onto per fare che moressero la gente; un estratto di rospi
e di serpi, con certe polvere che io non so che polvere siano. Oltre
il Baruello, nominò come complice qualche altra persona di comune
conoscenza, e per capo il Padilla. Avrebbero i giudici voluto
attaccar questa storia a quella de' due che avevano assassinati, e
far per ciò dire a costui, che aveva ricevuto da loro onto et
danari. Se avesse negato semplicemente, avevan la tortura; ma la
prevenne con questa singolare risposta: Signor no, che non è vero;
ma se mi date li tormenti perché io neghi questa particolarità, sarò
forzato a dire che è vero, benché non sij. Non potevan più, senza
farsi troppo apertamente beffe della giustizia e dell'umanità,
adoprar come esperimento un mezzo del quale eran così solennemente
avvertiti che l'effetto sarebbe certo.
Fu condannato a quel medesimo
supplizio; dopo l'intimazion della sentenza, torturato, accusò un
nuovo banchiere, e altri; in cappella, e sul patibolo, ritrattò ogni
cosa.
Se di questo disgraziato, il
Piazza e il Mora avessero detto solamente ch'era un poco di buono,
si vede da vari fatti che saltan fuori nel processo, che non
l'avrebbero calunniato. Calunniaron però anche in questo, il suo
figliuolo Gaspare; del quale è bensì riferito un fallo, ma è
riferito da lui, e in tali momenti, e con tal sentimento, che ne
risulta come una prova dell'innocenza e della rettitudine di tutta
la sua vita. Ne' tormenti, in faccia alla morte, le sue parole furon
tutte meglio che da uom forte; furon da martire. Non avendo potuto
renderlo calunniator di sé stesso, né d'altri, lo condannarono (non
si vede con quali pretesti) come convinto; e dopo l'intimazion della
sentenza, l'interrogarono, come al solito, se aveva altri delitti, e
chi erano i suoi compagni in quello per cui era stato condannato.
Alla prima domanda rispose: io non ho fatto né questo, né altri
delitti; et moro perché una volta diedi d'un pugno sopra d'un occhio
ad uno, mosso dalla collera. Alla seconda: io non ho alcuni
compagni, perché attendeuo a far li fatti miei; et se non l'ho
fatto, non ho né anche hauuto compagni. Minacciatagli la tortura,
disse: V.S. facci quello che vole, che non dirò mai quello che non
ho fatto, né mai condannarò l'anima mia; et è molto meglio che
patisca tre o quattro hore de tormenti, che andar nell'inferno a
patire eternamente. Messo alla tortura, esclamò nel primo momento:
ah, Signore! non ho fatto niente: sono assassinato. Poi soggiunse:
questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là bisogna starui
sempre. Furono accresciute le torture, di grado in grado, fino
all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la verità. Sempre
rispose: l'ho già detta; voglio saluar l'anima. Dico che non voglio
grauar la conscienza mia: non ho fatto niente.
Non si può qui far a meno di
non pensare che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la
stessa costanza, il povero Mora sarebbe rimasto tranquillo nella sua
bottega, tra la sua famiglia; e, al pari di lui, questo giovine
ancor più degno d'ammirazione, che di compassione, e tant'altri
innocenti non avrebbero nemmen potuto immaginarsi che spaventosa
sorte sfuggivano. Lui medesimo, chi sa? Certo per condannarlo, non
confesso, e su que' soli indizi, e quando, non essendoci altre
confessioni, il delitto stesso non era che una congettura, bisognava
violare più svelatamente, più arditamente, ogni principio di
giustizia, ogni prescrizion di legge. A ogni modo, non potevano
condannarlo a un più mostruoso supplizio; non potevano almeno
farglielo soffrire in compagnia d'uno, guardando il quale dovesse
dire ogni momento a sé stesso: l'ho condotto qui io. Di tanti orrori
fu cagione la debolezza... che dico? l'accanimento, la perfidia di
coloro che, riguardando come una calamità, come una sconfitta, il
non trovar colpevoli, tentarono quella debolezza con una promessa
illegale e frodolenta. Abbiamo citato sopra l'atto solenne con cui
una promessa simile fu fatta al Baruello, e abbiamo anche accennato
di voler far vedere il conto diverso che i giudici ne facevano. Per
ciò principalmente racconterem qui in succinto la storia anche di
questo meschino. Accusato in aria, come s'è visto, prima dal Piazza
d'essere un compagno del Mora, poi dal Mora d'essere un compagno del
Piazza; poi dall'uno e dall'altro d'aver ricevuto danari per
isparger l'unguento composto dal Mora con certe porcherie e peggio
(e prima avevan protestato di non saper questo); poi dal Migliavacca,
d'averne composto uno lui, con altre peggio che porcherie;
costituito reo di tutte queste cose, come se ne facessero una, negò
e sostenne bravamente i tormenti. Mentre pendeva la sua causa, un
prete (che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla),
pregato da un parente di questo Baruello, lo raccomandò a un fiscale
del senato; il quale venne poi a dirgli che il suo raccomandato era
sentenziato a morte, con tutta quell'aggiunta di carnificine; ma
insieme, che "il senato s'accontentava di proccurarli da S.E.
l'impunità". E incaricò il prete che andasse a trovarlo, e vedesse
di persuaderlo a dir la verità: "poiché il Senato vol sapere il
fondamento di questo negocio, e pensa di saperlo da lui". Dopo
averlo condannato! e dopo quelle esecuzioni!
Il Baruello, sentita la crudele
notizia, e la proposizione, disse: "faranno poi di me come hanno
fatto del Commissario?" Avendogli il prete detto che la promessa gli
pareva sincera, cominciò una storia: che un tale (il quale era
morto) l'aveva condotto dal barbiere; e questo, alzato un telo del
parato della stanza, che nascondeva un uscio, l'aveva introdotto in
una gran sala, dov'eran molte persone a sedere, tra le quali il
Padilla. Al prete, che non aveva l'impegno di trovar de' rei,
parvero cose strane; sicché l'interruppe, avvertendolo che badasse
di non perdere il corpo e l'anima insieme; e se n'andò. Il Baruello
accettò l'impunità, corresse la storia; e comparso l'undici di
settembre davanti ai giudici, raccontò loro che un maestro di
scherma (vivo pur troppo) gli aveva detto esserci una buona
occasione di diventar ricchi, facendo un servizio al Padilla; e
l'aveva poi condotto sulla piazza del castello, dov'era arrivato il
Padilla medesimo con altri, e l'aveva subito invitato ad essere uno
di quelli che ungevano sotto i suoi ordini, per vendicar gl'insulti
fatti a don Gonzalo de Cordova, nella sua partenza da Milano; e gli
aveva dato danari, e un vasetto di quell'unto micidiale. Dire che in
questa storia, della quale qui accenniam soltanto il principio, ci
fossero delle cose inverisimili, non sarebbe parlar propriamente;
era tutto un monte di stravaganze, come il lettore ha potuto vedere
da questo solo saggio. Dell'inverisimiglianze però ce ne trovarono
anche i giudici e, per di più, delle contradizioni: per ciò, dopo
varie interrogazioni, seguite da risposte che imbrogliavan la cosa
sempre più, gli dissero, che si esplichi meglio, perché si possa
cavar cosa accertata da quello che dice. Allora, o fosse un suo
ritrovato per uscir d'impiccio in qualunque maniera, o fosse un vero
accesso di frenesia, che ce n'era abbastanza cagioni, si mise a
tremare, a storcersi, a gridare: aiuto! a voltolarsi per terra, a
volersi nascondere sotto una tavola. Fu esorcizzato, acquietato,
stimolato a dire; e cominciò un'altra storia, nella quale fece
entrare incantatori e circoli e parole magiche e il diavolo, ch'egli
aveva riconosciuto per padrone. Per noi basta l'osservare ch'eran
cose nuove; e che, tra l'altre, ritrattò quello che aveva detto del
vendicar l'ingiuria fatta a don Gonzalo, e asserì in vece che il
fine del Padilla era di farsi padrone di Milano; e a lui prometteva
di farlo uno de' primi. Dopo varie interrogazioni, fu chiuso
l'esame, se pure merita un tal nome; e dopo quello, n'ebbe tre
altri; ne' quali, essendogli detto che il tal suo asserto non era
verisimile, che il tal altro non era credibile, o rispose che
infatti, la prima volta, non aveva detta la verità, o diede una
spiegazione qualunque; e venendogli almen cinque volte buttata in
faccia la deposizione del Migliavacca, in cui era accusato d'aver
dato unguento da spargere ad altrettante persone delle quali, nella
sua, non aveva parlato, rispose sempre che non era vero; e sempre i
giudici passarono ad altro. Il lettore che si rammenta come, alla
prima inverisimiglianza che credettero bene di trovar nella
deposizione del Piazza, lo minacciarono di levargli l'impunità; come
alla prima aggiunta che fece a quella deposizione, al primo fatto
allegato dal Mora contro di lui, e da lui negato, gliela levarono in
effetto, per non hauer detta la verità intera, come haueua promesso;
vedrà ancor più, se ce n'è bisogno, quanto servisse a coloro l'aver
voluto piuttosto fare una giunteria al governatore, che chiedergli
una facoltà, l'aver fatta una promessa in parole e di parole a quel
Piazza, che doveva esser le primizie del sacrifizio offerto al furor
popolare, e al loro.
Vogliam dir forse che sarebbe
stata cosa giusta il mantener quell'impunità? Dio liberi! sarebbe
come dire che colui aveva deposto un fatto vero. Vogliam dir
soltanto che fu violentemente ritirata, com'era stata illegalmente
promessa; e che questo fu il mezzo di quello. Del resto, non
possiamo se non ripetere che non potevan far nulla di giusto nella
strada che avevan presa, fuorché tornare indietro, fin ch'erano a
tempo. Quell'impunità (lasciando da parte la mancanza de' poteri)
non avevano avuto il diritto di venderla al Piazza, come il ladro
non ha il diritto di dar la vita al viandante: ha il dovere di
lasciargliela. Era un ingiusto supplimento a un'ingiusta tortura:
l'una e l'altra volute, pensate, studiate dai giudici, piuttosto che
far quello ch'era prescritto, non dico dalla ragione, dalla
giustizia, dalla carità, ma dalla legge: verificare il fatto,
facendolo spiegare alle due accusatrici, se pur la loro era accusa e
non piuttosto congettura; lasciandolo spiegare all'imputato, se pur
si poteva dire imputato; mettendo questo a confronto con quelle.
L'esito dell'impunità promessa
al Baruello non si poté vedere, perché costui morì di peste il 18 di
settembre, cioè il giorno dopo un confronto sostenuto impudentemente
contro quel maestro di scherma, Carlo Vedano. Ma quando sentì
avvicinarsi la sua fine, disse a un carcerato che l'assisteva, e che
fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla: "fatemi a piacere
di dire al Sig. Podestà, che tutti quelli che ho incolpati gli ho
incolpati al torto; et non è vero ch'io habbi chiapato danari dal
figliuolo del Sig. Castellano... io ho da morire di questa
infermità: prego quelli che ho incolpati al torto mi perdonino; et
di gratia ditelo al Sig. Podestà, se io ho d'andar saluo. Et io
subito", soggiunge il testimonio, "andai a referire al Sig. Podestà
quello che il Baruello m'haueua detto."
Questa ritrattazione poté
valere per il Padilla; ma il Vedano, il quale non era fin allora
stato nominato che dal solo Baruello, fu atrocemente tormentato,
quel giorno medesimo. Seppe resistere; e fu lasciato stare (in
prigione, s'intende) fino alla metà di gennaio dell'anno seguente.
Era, tra que' meschini, il solo che conoscesse davvero il Padilla,
per aver tirato due volte di spada con lui, in castello; e si vede
che questa circostanza fu quella che suggerì al Baruello di dargli
una parte nella sua favola. Non l'aveva però accusato d'aver
composto, né sparso, né distribuito unguenti mortiferi; ma solamente
d'essere stato di mezzo tra lui e il Padilla. Non potevan quindi i
giudici condannar come convinto un tale imputato, senza pregiudicar
la causa di quel signore; e questo fu probabilmente quello che lo
salvò. Non fu interrogato di nuovo, se non dopo il primo esame del
Padilla; e l'assoluzion di questo tirò dietro la sua.
Il Padilla, dal castello di
Pizzighettone, dov'era stato trasferito, fu condotto a Milano il 10
di gennaio del 1631, e messo nelle carceri del capitano di
giustizia. Fu esaminato quel giorno medesimo; e se ci fosse bisogno
d'una prova di fatto per esser certi che anche que' giudici potevano
interrogar senza frodi, senza menzogne, senza violenze, non trovare
inverisimiglianze dove non ce n'era, contentarsi di risposte
ragionevoli, ammettere, anche in una causa d'unzioni venefiche, che
un accusato potesse dir la verità, anche dicendo di no, si vedrebbe
da questo esame, e dagli altri due che furon fatti al Padilla.
I soli che avessero deposto
d'essersi abboccati con lui, il Mora e il Baruello, avevano anche
indicati i tempi; il primo all'incirca, il secondo più precisamente.
Domandaron dunque i giudici al Padilla, quando fosse andato al
campo: indicò il giorno; di dove fosse partito per andarci: da
Milano; se a Milano fosse mai tornato in quell'intervallo: una volta
sola, e c'era rimasto un giorno solo, che specificò ugualmente. Non
concordava con nessuna dell'epoche inventate dai due disgraziati.
Allora gli dicono, senza minacce, con buona maniera, che si metta a
memoria se non si trovò in Milano nel tal tempo, nel tal altro:
risponde ogni volta di no, rapportandosi sempre alla sua prima
risposta. Vengono alle persone, e ai luoghi. Se aveva conosciuto un
Fontana bombardiere: era il suocero del Vedano, e il Baruello
l'aveva nominato come uno di quelli che s'eran trovati al primo
abboccamento. Risponde di sì. Se conosceva il Vedano: di sì
ugualmente. Se sa dove sia la Vetra de' Cittadini e l'osteria de'
sei ladri: era lì che il Mora aveva detto esser venuto il Padilla,
condotto da don Pietro di Saragozza, a fargli la proposta
d'avvelenar Milano. Rispose che non conosceva né la strada, né
l'osteria, neppur di nome. Gli domandano di don Pietro di Saragozza:
questo non solo non lo conosceva, ma era impossibile che lo
conoscesse. Gli domandano di certi due, vestiti alla francese; d'un
cert'altro, vestito da prete: gente che il Baruello aveva detto
esser venuti col Padilla all'abboccamento sulla piazza del castello.
Non sa di chi gli si parli.
Nel secondo esame, che fu
l'ultimo di gennaio, gli domandan del Mora, del Migliavacca, del
Baruello, d'abboccamenti avuti con loro, di danari dati, di promesse
fatte; ma senza parlargli ancora della trama a cui tutto questo si
riferiva. Risponde che non ha mai avuto che far con costoro, che non
gli ha mai nemmen sentiti nominare; replica che non era a Milano in
que' diversi tempi.
Dopo più di tre mesi, consumati
in ricerche dalle quali, come doveva essere, non si cavò il minimo
costrutto, il senato decretò che il Padilla fosse costituito reo con
la narrativa del fatto, pubblicatogli il processo, e datogli un
termine alle difese. In esecuzione di quest'ordine, fu chiamato ad
un nuovo ed ultimo esame, il 22 di maggio. Dopo varie domande
espresse, su tutti i capi d'accusa, alle quali rispose sempre un no,
e per lo più asciutto, vennero alla narrativa del fatto, cioè gli
spiattellarono quella pazza novella, anzi quelle due. La prima, che
lui costituto aveva detto al barbiere Mora, vicino all'hostaria
detta delli sei ladri, che facesse un ontione... et che dovesse
prender la detta ontione, et andar a bordegare (impiastrare); e che,
in ricompensa, gli aveva dato molte doppie; e don Pietro di
Saragozza, per suo ordine, aveva poi mandato il detto barbiere a
riscotere altri danari dai tali e tali banchieri. Ma questa è
ragionevole in paragon dell'altra: che esso Sig. Constituto aveva
fatto chiamar sulla piazza del castello Stefano Baruello, gli aveva
detto: buon giorno, Sig. Baruello; è molto tempo che desideravo
parlar con voi; e, dopo qualche altro complimento, gli aveva dato
venticinque ducatoni veneziani, e un vaso d'unguento, dicendogli
ch'era di quello che si faceva in Milano, ma che non era perfetto, e
bisognava prendere delli ghezzi et zatti (de' ramarri e de' rospi)
et del vino bianco, e metter tutto in una pentola, et farla bollire
a concio a concio (adagino adagino), acciò questi animali possino
morire arrabbiati. Che un prete, qual viene nominato per Francese
dal detto Baruello, e era venuto in compagnia del costituto, aveva
fatto comparire uno in forma d'huomo, in habito di Pantalone, e
fattolo al Baruello riconoscere per suo signore; e, scomparso che
fu, il Baruello aveva domandato al costituto chi era colui, e quello
gli aveva risposto ch'era il diavolo; e che, un'altra volta, lui
costituto aveva dati al Baruello degli altri danari, e promessogli
di farlo tenente della sua compagnia, se l'avesse servito bene.
A questo punto, il Verri (tanto
un intento sistematico può far travedere anche i più nobili ingegni,
e anche dopo che hanno veduto) conclude così: "Tale è la serie del
fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale, sebbene
smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre
disgraziati Mora, Piazza e Baruello, che alla violenza della tortura
sacrificarono ogni verità), servì di base a un vergognosissimo(74)
reato." Ora, il lettore sa, e il Verri medesimo racconta che, di
questi tre, due furon mossi a mentire dalle lusinghe dell'impunità,
non dalla violenza della tortura.
Sentita quell'indegnissima
filastrocca, il Padilla disse: di tutti questi huomini che V.S. mi
ha nominato, io non conosco altro che il Fontana et il Tegnone (era
un soprannome del Vedano); et tutto quello che V.S. ha detto che si
legge in Processo per bocca di costoro, è la maggior falsità et
mentita che si trouasse mai al mondo; né è da credere che un
Cavagliero par mio hauesse, né trattato, né pensato attione tanto
infame come è questa; et prego Dio et sua Santa Madre, se queste
cose sono vere, che mi confondano adesso; et spero in Dio che farò
conoscere la falsità di questi huomini, et che sarà palese al mondo
tutto.
Gli replicarono, per formalità
e senza insistenza, che si risolvesse di dir la verità; e
gl'intimarono il decreto del senato che lo costituiva reo d'aver
composto e distribuito unguento venefico, e assoldato de' complici.
Io mi meraviglio molto, riprese, che il Senato sij venuto a
resoluttione così grande, vedendosi et trouandosi che questa è una
mera impostura et falsità, fatta non solo a me, ma alla Giustitia
istessa. Come! un huomo di mia qualità, che ho speso la vita in
seruitio di Sua Maestà, in diffesa di questo stato, nato da huomini
che hanno fatto l'istesso, haueuo io da fare, né da pensar cosa che
a loro, né a me portasse tanta nota et infamia? et torno a dire che
questo è falso, et è la più grande impostura che ad huomo sij mai
stata fatta.
Fa piacere il sentir
l'innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il
rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata,
confusa, disperata, bugiarda, calunniatrice; l'innocenza
imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente.
Il Padilla fu assolto, non si
sa quando per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poiché
l'ultime sue difese furono presentate nel maggio del 1632. E, certo,
l'assolverlo non fu grazia; ma i giudici, s'avvidero che, con
questo, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne?
giacché non crederei che ce ne siano state altre, dopo
quell'assoluzione. Riconoscendo che il Padilla non aveva punto dato
danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che
avevan condannati per aver ricevuto danari da lui, per questo
motivo? Si rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha
più del verisimile... che non è per hauer occasione di vendere, lui
Constituto il suo elettuario, et il Commissario d'hauer modo di più
lavorare? Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo lui
a negarla, gli avevan detto che si troua pure essere la verità? Che
avendola negata ancora, nel confronto col Piazza, gli avevan data la
tortura, perché la confessasse, e un'altra tortura, perché la
confessione estorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in
poi, tutto il processo era camminato su quella supposizione? Ch'era
stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni,
confermata in tutte le risposte, come la cagione finalmente scoperta
e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion del delitto del Piazza,
del Mora, e poi degli altri condannati? Che la grida pubblicata,
pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran
cancelliere, col parer del senato, li diceva "arrivati a stato tale
d'empietà, di tradir per danari la propria Patria"? E vedendo
finalmente svanir quella cagione (giacché nel processo non s'era mai
fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensarono
che del delitto non rimanevano altri argomenti che confessioni,
ottenute nella maniera che loro sapevano, e ritrattate tra i
sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro,
e ormai scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come
innocente, il capo, conobbero che avevan condannati, come complici,
degl'innocenti?
Tutt'altro, almeno per quel che
comparve in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero; i padri
di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i
figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente
spogliati. E in quanto a quello che sia passato nel cuor de'
giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di
resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l'evidenza?
E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che mai; giacché, se
prima il riconoscerli innocenti era per que' giudici un perder
l'occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi
terribilmente colpevoli; e le frodi, le violazioni della legge, che
sapevano d'aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla
scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero
ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni
della legge, ma sarebbero comparse come produttrici d'un orrendo
assassinio. Un inganno finalmente, mantenuto e fortificato da
un'autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso
stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che su
quella de' giudici medesimi: voglio dire l'autorità del pubblico che
li proclamava sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori
della patria.
La colonna infame fu atterrata
nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in
quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina
Rosa,
L'infernal dea che alla eletta
stava(75) ,
intonò il grido della
carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso
effetto, né la miserabile causa. Allo sbocco di via della Vetra sul
corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi
guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del
povero Mora.
Vediamo ora, se il lettore ha
la bontà di seguirci in quest'ultima ricerca, come un giudizio
temerario di colei, dopo aver tanto potuto sui tribunali, abbia, per
loro mezzo, regnato anche ne' libri.
Cap. 7
Tra i molti scrittori
contemporanei all'avvenimento, scegliamo il solo che non sia oscuro,
e che non n'abbia parlato a seconda affatto della credenza comune,
Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato. E ci par che possa
essere un esempio curioso della tirannia che un'opinion dominante
esercita spesso sulla parola di quelli di cui non ha potuto
assoggettar la mente. Non solo non nega espressamente la reità di
quegl'infelici (né, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno
scritto destinato al pubblico); ma pare più d'una volta che la
voglia espressamente affermare; giacché, parlando del primo
interrogatorio del Piazza, chiama "malizia" la sua, e "avvedutezza"
quella de' giudici; dice che, "con le molte contradizioni, palesava
il delitto nell'atto che voleva negarlo"; del Mora dice parimenti,
che, "fin che poté reggere alla tortura, negava, al solito di tutti
i rei, e che finalmente raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum
fide". E nello stesso tempo, cerca di fare intendere il contrario,
accennando, timidamente e di fuga, qualche dubbio sulle circostanze
più importanti; dirigendo, con una parola, la riflession del lettore
al punto giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più
atte a dimostrar la sua innocenza, di quelle che aveva sapute trovar
lui medesimo; mostrando finalmente quella compassione che non si
prova se non per gl'innocenti. Parlando della caldaia trovata in
casa del Mora, dice: "fece principalmente grand'impressione una cosa
forse innocente e accidentale, del resto schifosa, e che poteva
parer qualcosa di quello che si cercava". Parlando del primo
confronto, dice che il Mora "invocava la giustizia di Dio contro una
frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale
si poteva far cadere qualunque innocente". Lo chiama "sventurato
padre di famiglia, che, senza saperlo, portava su quell'infausto
capo l'infamia e la rovina sua e de' suoi". Tutte le riflessioni che
abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si posson fare, sulla
contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la condanna
degli altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: "gli untori
furon puniti ciò non ostante: unctores puniti tamen". Quanto non
dice quell'avverbio, o congiunzione che sia! E aggiunge: "la città
sarebbe rimasta inorridita di quella mostruosità di supplizi, se
tutto non fosse parso meno del delitto".
Ma il luogo dove fa intender
più chiaramente il suo sentimento, è dove protesta di non volerlo
dire. Dopo aver raccontato vari casi di persone cadute in sospetto
d'untori, senza che ne seguissero processi, "mi trovo", dice, "a un
passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli
così a torto presi per untori, io creda che ci siano stati untori
davvero... Né la difficoltà nasce dall'incertezza della cosa, ma dal
non essermi lasciata la libertà di far quello che pur si pretende da
ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri sentimenti. Ché se io
dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a
immaginar malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si
griderebbe subito che la storia è empia, che l'autore non rispetta
un giudizio solenne. Tanto l'opinion contraria è radicata nelle
menti, e la plebe credula al solito, e la nobiltà superba son pronti
a difenderla, come quello che possano aver di più caro e di più
sacro. Mettersi in guerra con tanti, sarebbe un'impresa dura e
inutile; e per ciò, senza negare, né affermare, né pender più da una
parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni
altrui(76)." Chi domandasse se non sarebbe stata cosa più
ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto, sappia che il
Ripamonti era istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini,
ai quali, in qualche caso, può essere comandato e proibito di
scriver la storia.
Un altro istoriografo, ma in un
campo più vasto, Batista Nani, veneziano, che in questo caso non
poteva esser condotto da nessun riguardo a dire il falso, fu
condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un monumento.
"Se ben veramente", dice, "l'immaginazione de' popoli, alterata
dallo spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu
scoperto e punito, stando ancora in Milano l'iscrizioni e le memorie
degli edifici abbattuti, dove que' mostri si congregavano.(77)" Chi,
non conoscendo altro di quello scrittore, prendesse questo
ragionamento per misura del suo giudizio, s'ingannerebbe di molto.
In varie ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche, aveva
avuto campo di conoscer gli uomini e le cose; e dà prova nella sua
storia d'esserci non volgarmente riuscito. Ma i giudizi criminali, e
la povera gente, quand'è poca, non si riguardano come materia
propriamente della storia; sicché, non c'è da maravigliarsi che,
occorrendo al Nani di parlare incidentemente di quel fatto, non ci
guardasse tanto per la minuta. Se alcuno gli avesse citata un'altra
colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova d'una sconfitta
ricevuta da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di
que' mostri), certo il Nani si sarebbe messo a ridere.
Fa più maraviglia e più
dispiacere il trovar lo stesso argomento e gli stessi improperi, in
uno scritto d'un uomo molto più celebre, e con gran ragione. Il
Muratori, nel "Trattato del governo della peste", dopo avere
accennato diverse storie di quel genere, "ma nessun caso", dice, "è
più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono
prese parecchie persone, che confessarono un sì enorme delitto, e
furono aspramente giustiziate. Ne esiste tuttavia (e l'ho veduta
anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov'era la
casa di quegli inumani carnefici. Il perché grande attenzion ci
vuole affinché non si rinnovassero più simili esecrande scene." E
quello che, non toglie il dispiacere, ma lo muta, è il veder che la
persuasione del Muratori non era così risoluta come queste sue
parole. Ché, venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli
preme davvero) de' mali orribili che posson nascere dal figurarsi e
dal credere tali cose senza fondamento, dice: "si giunge ad
imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di
bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai
commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici
patiboli". Non par egli che voglia alludere ai nostri disgraziati? E
quello che lo fa creder di più, è che attacca subito con quelle
parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e che, per
esser poche, trascriviam qui di nuovo: "Ho trovato gente savia in
Milano, che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto
persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si
dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste
del 1630(78) ." Non si può, dico, fare a meno di non sospettare che
il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che chiama
"esecrande scene", e (ciò che è più grave) innocenti assassinati
quelli che chiama "inumani carnefici". Sarebbe uno di que' casi
tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro che inclinati a mentire,
volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e temendo di far
peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la
bugia, per poter poi insinuare la verità.
Dopo il Muratori, troviamo uno
scrittore più rinomato di lui come storico, e (ciò che in un fatto
di questa sorte parrebbe dover rendere il suo giudizio più degno
d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come
dice di sé medesimo, "più giureconsulto che politico(79) ", Pietro
Giannone. Noi però non riferiremo questo giudizio, perché è troppo
poco che l'abbiam riferito: è quello del Nani che il lettore ha
veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per parola,
citando questa volta il suo autore appiè di pagina(80).
Dico: questa volta; perché il
copiarlo che ha fatto senza citarlo, è cosa degna d'esser notata,
se, come credo, non lo fu ancoral(81)i . Il racconto, per esempio,
della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del
Portogallo, nel 1640 è, nella storia del Giannone, trascritto da
quella del Nani, per più di sette pagine in 4°, con pochissime
omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più considerabile delle
quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo che nello
scritto originale andava tutto di seguito(82). Ma chi mai
s'immaginerebbe che l'avvocato napoletano, dovendo raccontare altre
sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma quella di
Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre,
per la singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per
Masaniello, non trovasse da far meglio, né da far più che di
prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera del
cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare
soprattutto dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra
in quel racconto? e son queste: "Gli avvenimenti infelici di queste
rivoluzioni sono stati descritti da più autori: alcuni gli vollero
far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con
troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero
nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento,
ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori più serj e prudenti,
gli ridurremo alla lor giusta e natural positura." Eppure ognuno può
vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole,
il Giannone metta mano a quelle del Nani(83) , frammischiandoci ogni
tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle sue, facendo
qua e là qualche cambiamento, alle volte per necessità, e nella
stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il
segno dell'antico padrone, e ci mette il suo. Così, dove il
veneziano dice: "in quel regno", il napoletano sostituisce: "in
questo regno"; dove il contemporaneo dice che vi "restano le fazioni
quasi che intiere", il postero, che vi "restavano ancora le reliquie
dell'antiche fazioni". È vero che, oltre queste piccole aggiunte o
variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come
pezzi messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del
Nani. Ma, cosa veramente da non credersi, son presi da un altro
quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di Domenico Parrino(84)
, scrittore (alla rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e
fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se, in Italia e
fuori, è letta quanto lodata la "Storia civile del regno di Napoli",
che porta il nome di Pietro Giannone. Ché, senza allontanarci da que'
due periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le
sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani
la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il
richiamo del duca di Medina vicerè di Napoli, che ne fu la
conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più tardi che
fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera. Dal
Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi
dall'uno e dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos,
per tutto quel tempo che precedette le sollevazioni di Palermo e di
Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la fine di queste, sotto
il governo di D. Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte. Poi dal
Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la
spedizione di quel vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il
tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del 1656.
Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola
appendice dove sono accennati gli effetti di essa nel regno di
Napoli(85).
Voltaire, parlando, nel "Secolo
di Luigi XIV", de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in
Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie
pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina, in una nota, il
Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una
critica. Ecco la traduzione di quella nota: "Giannone, così celebre
per la sua utile storia di Napoli, dice che questi tribunali erano
stabiliti a Tournay. Sbaglia frequentemente negli affari che non son
del suo paese. Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la
pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata(86) ." Ma,
lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta
al Giannone, il quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la
fatica di sbagliare. È vero che nel libro dell'uomo "così celebre",
si leggono queste parole: "Seguì poscia la pace fra la Francia, la
Svezia, l'Imperio e l'Imperadore" (nelle quali, del rimanente, non
saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e quest'altre:
"Aprirono poscia", i francesi, "due tribunali, l'uno in Tournay, e
l'altro in Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel
mondo sopra i principi lor vicini, fecero non solamente aggiudicare
alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il paese che saltò
loro in capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne
posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a
riconoscere il re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini,
ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i
principi di praticare co' sudditi." Ma son parole di quel povero
ignorato Parrino(87) , e non già stralciate da quel suo pezzo di
storia, ma portate via insieme con esso: ché spesso il Giannone, in
vece di star lì a cogliere un frutto qua e uno là, leva l'albero
addirittura, e lo trapianta nel suo giardino. Tutta, si può dire, la
relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran
parte, e con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in
Napoli del marchese de los Veles, nel tempo del quale quella pace fu
conclusa, e col quale il Parrino chiude la sua opera, e il Giannone
il penultimo libro della sua. E probabilmente (stavo per dir di
certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il
periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la
quale comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per tutto, quello
che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza
veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore(88) .
Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani,
e tutta l'orditura d'una sua digressione; come mi fu fatto osservare
da una dotta e gentile persona. E chi sa quali altri furti non
osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma
quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori,
non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi,
l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è
sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un
fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente
rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare,
anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo. E questa
circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci
faccia perdonare dal benigno lettore una digressione(89) , lunga,
per dir la verità, in una parte accessoria d'un piccolo scritto.
Chi non conosce il frammento
del Parini sulla colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di
non vederne fatta menzione in questo luogo?
Ecco dunque i pochi versi di
quel frammento ne' quali il celebre poeta fa pur troppo eco alla
moltitudine e all'iscrizione:
Quando, tra vili case e in
mezzo a poche
Rovine, i' vidi ignobil
piazza aprirsi.
Quivi romita una colonna
sorge
In fra l'erbe infeconde e i
sassi e il lezzo,
Ov'uom mai non penetra,
però ch'indi
Genio propizio all'insubre
cittade
Ognun rimove, alto
gridando: lungi,
O buoni cittadin, lungi,
che il suolo
Miserabile infame non
v'infetti.
Era questa veramente l'opinion
del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente
bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché allora era
massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di
tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre
un'impressione, o forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e
riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si
rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perché i
poeti, nessun credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare:
solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e
del motivo.
Venne finalmente Pietro Verri,
il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano
stati i veri carnefici, il primo che richiese per degl'innocenti
così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti, una
compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che? le sue
"Osservazioni", scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804,
con altre sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli
"Scrittori classici italiani d'economia politica". E l'editore rende
ragione di questo ritardo, nelle "Notizie" premesse all'opere
suddette. "Si credette", dice, "che l'estimazione del senato potesse
restar macchiata dall'antica infamia." Effetto comunissimo, a que'
tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che
concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi
anche gli spropositi che non aveva fatti. Ora un tale spirito non
troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel passato, giacché, in
quasi tutto il continente d'Europa, i corpi son di data recente,
meno pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato
istituito dagli uomini, non può essere né abolito, né surrogato.
Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai
dallo spirito d'individualità: l'io si crede troppo ricco per
accattar dal noi. E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di
dire: in tutto.
A ogni modo, Pietro Verri non
era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la
manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era
l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma
c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre
dell'illustre scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto
più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle
cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo
aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un
altro pezzo nascosta.
Note
(1) Ut mos vulgo, quamvis
falsis, reum subdere, Tacit. Ann. I, 39.
(2) Verri, Osservazioni sulla
tortura, § VI.
(3) Staututa criminalia;
Rubrica generalis de forma citiationis in criminalibus; De tormentis,
seu quaestionibus.
(4) Cod. Lib. IX; Tit. XLI, De
quaestionibus, 1. 8.
(5) Verri, Osservazioni sulla
tortura, § XIII.
(6) La pratica criminale
dell'Inghilterra, non cercando la prova del delitto o dell'innocenza
nell'interrogatorio del reo, escluse indirettamente, ma
necessariamente, quel mezzo fallace e crudele d'aver la sua
confessione. Francesco Casoni (De tormentis, cap, I, 3) e Antonio
Gomez (Variarum resolutionum etc., tom. 3, cap. 13, de tortura
reorum cap. 4) attestano che, almeno al loro tempo, la tortura non
era in uso nel regno d'Aragona. Giovanni Loccenio (Synopsis juris
Sueco-gothici), citato da Ottone Taber (Tractat. de tortura, et
indiicis delictorum, cap. 2, 18) attesta il medesimo della Svezia;
né so se alcun altro paese d'Europa sia andato immune da quel
vergognoso flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso.
(7) Verri, Oss. § VIII. - Farin.
Praxis et Theor. criminalis, Quaest. XXXVIII, 56.
(8) Fran. a Bruno, De indiciis
et tortura, part. II, quaest. II, 7.
(9) Guid. de Suza, De Tormentis,
1. - Cod. IX, tit. 4, De custodia reorum; 1.
(10) Baldi, ad lib. IX Cod. tit
XIV, De emendatione servorum, 3.
(11) Par. de Puteo, De
syndicatu; in verbo: Crudelitas officialis, 5.
(12) J. Clari, Sementiarum
receptarum, Lib V, § fin. Quaest. LXIV, 36.
(13) Gomez, Variar. resol. t.
3, c. 13, De tortura reorum, 5.
(14) Oss. § XIII.
(15) Hipp. de Marsiliis, ad
Tit. Dig. de quaestionibus; leg. In criminibus, 29.
(16) Praxis, etc.
Quaest. XXXVIII, 54.
(17) Pratica causarum
criminalium; in verbo: Expedita; 86.
(18) Quaest. XXXVIII, 38.
(19) Oss. § VIII.
(20) Sent. rec. lib.
V, quaest, LXIV, 12. Venet. 1640; ex typ. Barietana,
p. 537.
(21) Ven. apud Hier. Polum,
1580, f. 172 - Ibid. apud P. Ugolinum, 1595. f. 180.
(22) Verri, loc. cit. -
Clar, loc. cit. 13.
(23) Ibid., Quaest. XXXI, 9.
(24) Bartol. ad Dig. lib.
XLVIII, tit. XVIII, I. 22.
(25) Et generaliter omne quod
non determinatur a iure, relinquitur arbitrio iudicantis. De
tormentis, 30.
(26) Et deo lex super indiciis
gravat coscientias iudicum. De Syndicatu, in verbo: Mandavit, 18.
(27) Ægid Bossii, Tractatus
varii; tit. de indiciis ante torturam, 32.
(28) Ibid. Quaest. XXXVII,
193 ad 200.
(29) Francisci Casoni,
Tractatus de tormentis; cap. I, 10.
(30) Oss. § VIII.
(31) Ibid.
(32) Paradis de Puteo, De
syndicatu, in verbo: Et advertendum est; Judex debet esse subtilis
in investiganda maleficii veritate.
(33) Ad Clart. Sentent.
recept. Quaest. LXIV, 24, add. 80, 81.
(34) Istoria civile, etc., lib.
28, cap. ult.
(35) Praxis et Theoricae
criminalis, Quaest. LII, 11, 13, 14.
(36) Ibid. Quaest. XXXVII,
2, 3, 4.
(37) P. Follerii, Pract.
Crim., Cap. Quod suffocavit, 52.
(38) Quando crimen est
gravius, tanto praesumptiones debent esse vehementiores; quia ubi
majus periculum, ibi cautius est agendum. - Abbatis Panormitani,
Commentarium in libros decretalium, De praesumptionibus, Cap. XIV,
3.
(39) Clar. Sent. Rec. lib. V
§ 1, 9.
(40) Hipp. Riminaldi,
Consilia; LXXXVIII, 53. - Farin. Quaest. XXXVII, 79.
(41) Clar. Ib. Lib. V, §
fin. Quaest. LXIV, 9.
(42) Reus evidentioribus
argumentis oppressus, repeti in quaestionem potest. Dig. lib.
XLVIII, tit. 18, 1, 18.
(43) Numquid potest repeti
quaestio? Videtur quod sic; ut Dig. eo. 1.
Repeti. Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi indiciis.
Odofredi, ad Cod. lib. IX, tit. 41, 1. 18.
(44) Cyni Pistoriensis, super
Cod. lib. IX, tit. 41, l. de tormetis, 8.
(45) Bart. ad Dig. loc. cit.
(46) V. Farinac. Quest.
XXXVIII, 72, et seq.
(47) Oss. § III.
(48) Tractat. var.; tit.
De tortura, 44.
(49) V. Farinac. Quest. LXXXI,
277.
(50) Constitutiones dominii
mediolanensis; De Senatoribus.
(51) Op. cit. tit. De confessis
per torturam, II.
(52) De peste, etc. pag. 84.
(53) Oss. § IV.
(54) Quaest. XLIII, 192. V.
Summarium.
(55) Tractat. var., tit.
De oppositionibus contra testes; 21.
(56) Et si consanguinei erant,
pag. 87.
(57) Oss. § IV
(58) Dig. Lib. XXII, tit.
V, De testibus; I, 21, 2.
(59) V. Farinacci, Quaest.
XLIII, 134, 135.
(60) Op. cit. Quaest. XXI, 13.
(61) Op. cit. De indiciis et
considerationibus ante torturam; 152.
(62) Arrotini di forbici per
tagliar l'oro filato. L'esserci una professione a parte per
quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la
principale.
(63) Antica interiezion
milanese, corrispondente al toscano madiè, "particella usata dagli
antichi, alla provenzale", dice la Crusca. Significava in origine
mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento, entrate per
abuso nel discorso ordinario. Ma in questo caso il Nome non sarebbe
stato nominati in vano.
(64) Quaest. XLIII, 172-174.
(65) Farinacci, Quaest. XLIII;
185, 186 .
(66) Plutarco, Vita
d'Alessandro; traduzione del Pompei .
(67) Q. Curtii, VI, II .
(68) Farinacci, Quaest. L. 31;
LXXXI; 40; LII, 150, 152.
(69) Res est (quaestio)
fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat. Nam plerique,
patientia sive duritia tormentorum, ita tormenta contemnunt, ut
exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia,
ut quovis mentiri quam pati tormenta velint. Dig. , Lib. XLVIII,
tit. XVIII, 1, I, 23.
(70) Nel rescritto citato
sopra, alla pagina 766.
(71) Farinacci, Quaest. XXXVII,
110.
(72) Oss. § IV.
(73) quorum capita... fingenti
inter dolores gemitusque occurrere. Liv. XXIV, 5.
(74) Oss. § V, in fine.
(75) Caro, trad. dell'Eneide,
lib. VII.
(76) pag. 107, 108.
(77) Nani, Historia veneta;
parte I, lib. VIII, Venezia, Lovisa, 1720, pag. 473.
(78) Lib. I, cap X.
(79) Istoria civile, etc.
Introduzione.
(80) Istoria civile, lib. XXXVI,
cap 2.
(81) Il Fabroni (Vitae Italorum,
etc., Petrus Jannonius), cita come scrittori dai quali il Giannone
"ha preso i passi interi, invece di ricorrere ai documenti
originali, e senza confessarlo schiettamente, il Costanzo, il
Summonte, il Parrino, e principalmente il Bufferio". Ma par
difficile che da quest'ultimo (che non abbiam potuto trovare chi
sia) prenda più che dal Costanzo, del quale, se "al principio
risponde il fine e il mezzo", deve aver intarsiata mezza, a dir
poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo
dir qualcosa or ora.
(82) Giannone. Ist. Civ. lib.
XXXVI, cap V, e il primo capoverso del VI - Nani, Hist. Ven. parte
I, lib. XI, pag 651-661 dell'edizione citata.
(83) Giannone, lib. XXXVII,
cap. II, III e IV. - Nani, parte II, lib IV, pag. 146-157.
(84) Teatro eroico e politico
de' governi de' viceré del regno di Napoli, etc. Napoli, 1692, tom.
2°; Duca d'Arcos. Il testo del Nani corre, con pochissimi e minuti
cambiamenti, come abbiam detto, per sette capoversi del Giannone,
l'ultimo de' quali termina con le parole: "si richiedevano, e per
supplire altrove, e per difendere il regno, grandissime
provvisioni". E lì entra il Parrino con le parole: "Il viceré duca
d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del denaro", e via
via, paucis mutatis, al solito, per due capoversi, e per mezzo circa
il seguente. Dopo, ritorna il Nani e va avanti, prima solo, per un
bel pezzo, poi alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino. E
c'è fino de' periodi, messi insieme bene o male, ma con pezzi
dell'uno e dell'altro. Eccone un esempio: "Così in un momento
s'estinse quell'incendio che minacciava l'eccidio al regno; e ciò
che apporto maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi,
che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantinente
a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione
d'amici, o d'inimici (Parrino, tom. II, pag. 425): fuorché alcuni
pochi, i quali guidati dalla mala coscienza, si sottrassero colla
fuga, tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le
confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente
(Nani, parte II, lib. IV, pag 157 dell'ediz. cit.)". Giannone, lib.
XXXVII, cap IV, secondo capoverso.
(85) V. Giannone, lib. XXXVI,
cap VI, e ultimo; tutto il lib. XXXVII, che ha sette capitoli; e il
preambolo del lib. seg. - Nani, parte I, lib XII, pag. 738; parte
II, lib. III; IV; VIII - Parrino, t. II, pag. 296 e seg., t. III,
pag I e seg.
(86) Siecle de Louis XIV;
chap. XVII, Paix de Wyswick, not. c.
(87) Giannone, lib. XXXIX, cap.
ultimo, pag. 461 e 463 del t. IV, Napoli, Niccolò Naso, 1723. -
Parrino, t. III, pag. 553 e 567.
(88) Fu poi citato spesso appiè
di pagina in qualche edizione fatta dopo la morte del Giannone; ma
il lettore che non sa altro, deve immaginarsi che sia citato come
testimonio de' fatti, non come autore del testo.
(89) Sarpi, Discorso
dell'origine, etc. dell'Uffizio dell'inquisizione; Opere varie,
Helmstat (Venezia) t. I, pag 340. - Giannone, Ist. Civ. lib. XV,
cap. ultimo.